Spunti per i laboratori del futuro da “Percorsi locali di riforma del welfare e integrazione delle politiche sociali”1. Parole chiave: Attivazione, governance, rescaling (rimescolamento dei rapporti tra gli attori pubblici e privati), responsabilizzazione e necessità di “spacchettare i target” (rinconfigurare i profili di rischio). I Paesi europei, Italia compresa, si sono trovati in questi anni ad affrontare importanti cicli di riforme del welfare, necessarie per affrontare sia una crisi di legittimazione culturale del welfare stesso come istituzione, sia vincoli di bilancio sempre più pesanti e restrittivi, sia – più rilevante ancora – i mutamenti della domanda sociale, l’emergere di nuovi rischi e di nuovi bisogni. Nel quadro di tale disegno riformatore, accanto al sistema delle assicurazioni sociali (il cosiddetto welfare assicurativo-previdenziale) si assiste allo sviluppo di prestazioni sociali assistenziali, calibrate non solo sulla figura del lavoratore salariato (occupato stabilmente), ma più in generale sul cittadino utente che usufruisce di servizi sul territorio secondo una logica di cittadinanza piuttosto che di collocazione professionale. Peraltro, se in precedenza la questione sociale consisteva nella mancanza di reddito e nell’esclusione di una parte, ancorché minoritaria, di popolazione dal lavoro, in questi anni è stata la stessa categoria di rischio sociale a modificarsi radicalmente (Rosanvallon, 1994; Castel, 1995). I suoi profili, infatti, non sono oggi direttamente riconducibili alla posizione lavorativa o alla sola mancanza di reddito, ma si caratterizzano per la compresenza di problematiche che attengono all’instabilità lavorativa, alle difficoltà finanziarie, ai bisogni di cura, al sostegno alla famiglia, all’integrazione e all’inclusione sociale dei soggetti vulnerabili (Ranci, 2001; Gori,2001). Di qui, l’esigenza di promuovere l’integrazione tra le diverse aree di policies, in particolare tra le politiche sociali, del lavoro, occupazionali, formative e fiscali, in un connubio tra misure attive e passive. Ma, l’esigenza di integrare gli ambiti di intervento (già nella fase di programmazione) è pressante anche tra le stesse politiche sociali. La diffusione della vulnerabilità sociale e la trasformazione dei rischi e dei bisogni sociali, che si intrecciano all’individualizzazione dei corsi di vita, richiedono una destandardizzazione dei dispostivi di intervento e una capacità di azione sui diversi fronti problematici che determinano le situazioni di disagio. Il mutamento descritto si riconnette ai più generali obbiettivi che la Strategia Europea per l’Occupazione ha posto alla base della sua implementazione. Il tema dei servizi è cruciale ai fini della rimozione di quelle barriere che ostacolano l’ingresso nel mercato del lavoro dei soggetti più deboli, siano essi giovani drop-out, donne con figli a carico, disoccupati di lungo periodo, lavoratori over 45 espulsi dal mercato del lavoro, persone prive di qualifiche professionali, etc. Per tutto questo articolato insieme di soggetti, la partecipazione al lavoro viene a dipendere dalla possibilità non solo di godere di sostegni economici in grado di compensare la mancanza o la limitatezza del reddito, ma anche di fruire di efficienti servizi sociali (di cura, assistenza, conciliazione, formazione), capaci di rendere più stabili le transizioni nel mercato del lavoro. In questa prospettiva, la riforma dei sistemi di welfare è spesso letta in termini di “attivazione”, laddove l’obiettivo è quello di rovesciare la logica passivo assicurativa tipica del modello industriale di welfare, per costruire un sistema di “welfare attivo”, orientato ad agire in modo preventivo rispetto ai bisogni, e promozionale rispetto alla capacità delle persone di assumere in autonomia la responsabilità del proprio benessere. 1 CNEL Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (2010) Ne derivano “politiche sociali attive” finalizzate a cambiare le condizioni nelle quali gli individui sviluppano il loro potenziale, piuttosto che a intervenire nella situazione di bisogno in cui si trovano (Oecd, 2005). In questa accezione le riforme dovrebbero implicare una riduzione del peso delle politiche passive di sostegno del reddito e un incremento delle politiche di promozione del protagonismo del soggetto (le politiche attive). Sempre più oggi al welfare e ai reticoli di attori che sul territorio concorrono alla programmazione e gestione delle prestazioni è richiesto di essere veicoli di attivazione, ma non nel senso di scaricare sull’individuo i costi della sua protezione, bensì in quello più complesso, certamente, dell’allargamento della possibilità di partecipazione e di padroneggiamento della propria situazione. La “partecipazione” è la cifra distintiva di tale modello di welfare attivo. Essa si realizza a più livelli e in più direzioni, ovvero come: 1) partecipazione al mercato del lavoro; 2) partecipazione alla definizione del percorso di uscita dalla condizione di bisogno (per esempio nella costruzione – attraverso incentivi, voucher, budget di spesa e altri dispositivi – di una personale strategia di emancipazione; 3) partecipazione alla programmazione ed erogazione dei servizi. In questa accezione il welfare attivo implica che le persone possano prendere parte fattivamente – in modo precipuo attraverso le rappresentanze della società civile – ai processi decisionali che danno corpo alle risposte ai bisogni, operando anche nella costruzione delle politiche sociali stesse, nel rapporto (diretto e indiretto) con l’attore pubblico (Paci, 2005). Si riconosce nell’occupazione il miglior dispositivo di protezione e benessere. In linea con questo approccio, le politiche del lavoro si declinano in termini di welfare to work, con la finalità di attivare i soggetti disoccupati o inattivi e reinserirli nel mercato del lavoro, liberandoli dalle maglie della dipendenza passiva. Chi si ritrova senza lavoro deve dimostrare di essere in cerca di occupazione e immediatamente disponibile ad accettare le proposte di formazione e riqualificazione professionale o di lavoro formulate dai servizi per l’impiego, pena la perdita del beneficio o dell’indennità di cui si è titolari. Non per caso, i più importanti dispositivi di attivazione sono individuati nella formazione e nell’apprendimento permanente, finalizzati allo sviluppo di occupabilità. Implica il coinvolgimento della società civile, oltre che nell’attuazione e gestione di dispositivi e interventi, anche nella definizione delle stesse politiche, e richiama dinamiche di empowerment degli individui e delle comunità e procedure di democrazia partecipativa. L’empowerment può riguardare infatti tanto il singolo individuo quanto un gruppo di persone, una comunità, nella misura in cui stimola le capacità organizzative, favorisce il potenziamento delle autonomie e delle responsabilità locali. La precondizione dei processi di riforma del welfare sin qui indicati è dunque certamente rintracciabile nel principio di sussidiarietà, declinato sia in verticale che orizzontale. La sussidiarizzazione delle politiche si alimenta della necessità di allargare il ventaglio delle prestazioni sociali sul territorio, stanti, da un lato, i vincoli di bilancio che rendono problematica l’espansione costante dell’intervento pubblico, dall’altro, le esigenze divedere la produzione del welfare come una funzione diffusa, in chiave di welfare society. Ne deriva l’allargamento delle reti di attori, pubblici e privati che sul territorio concorrono alla programmazione e gestione delle prestazioni. In questo modo, il passaggio dal “government” alla “governance” dei servizi sociali si configura come una ulteriore direttrice di riforma. La Governance è caratterizzata da essere plurale e multilivello. Si delinea un insieme complesso di relazioni in cui si trovano a interagire le amministrazioni locali, le organizzazioni del privato di mercato e gli attori del terzo settore, le reti del volontariato, le famiglie, i sindacati. Lo Stato sociale attivo diviene uno degli attori di una welfare society, una società protesa in modo corale a promuovere il benessere di tutti in ogni sua sfera (la politica, l’economica, il terzo settore, i mondi della vita quotidiana dove operano le famiglie e le reti informali di sostegno). Avviato un processo di rescaling che rimodula i rapporti in due direzioni: a) il decentramento di poteri verso i territori; b) il rimescolamento dei rapporti tra gli attori pubblici e privati coinvolti nei servizi (Kazepov e Carbone 2007) La dimensione urbana o distrettuale si configura come il luogo principe in cui si gioca la sfida della coesione sociale, e della capacità di gestire le tensioni derivanti dalla diffusione dei fenomeni di vulnerabilità sociale attraverso forme di coordinamento e co-partecipazione tra attori, avviando un processo di negoziazione che alla fine trasforma la natura stessa del bene pubblico che viene prodotto, in quanto diviene il frutto di un’azione collettiva. E’ sul raggiungimento di comuni obiettivi, verso cui fare convergere progressivamente le società locali, che si può aprire un processo di mutamento in grado di favorire quella rigenerazione delle istituzioni del welfare da più parti auspicata. Il momento di crisi che stiamo attraversando, che spinge a riconsiderare gli assetti di welfare consolidati o verso i quali ci si stava muovendo. Lo stesso paradigma dell’attivazione, che – come sopra si diceva necessita di contesti di piena occupazione per poter esprimere pienamente le sue valenze di promozione dell’autonomia delle persone – si trova in grave difficoltà quando il lavoro – come oggi accade anche nelle regioni più forti – viene a mancare, obbligando a un suo ripensamento (Colasanto,2010) I processi di rescaling, di decentramento, di regionalizzazione e di sussidiarizzazione delle politiche portano a valorizzare la dimensione locale come il terreno su cui si misura la capacità della collettività (considerata in tutte le sue componenti, istituzionali e non solo) di creare inclusione, benessere, coesione sociale. Non tutto però può essere demandato al livello locale. Per almeno due ragioni: 1) Anzitutto, i territori non sono egualmente dotati di risorse e quelle pubbliche sono in costante diminuzione. Parallelamente l’articolazione interna al no profit, e ancor più l’eterogeneità che caratterizza le espressioni delle società civile ammessa a prendere parte alla programmazione sociale rendono a volte difficile l’emergere di una rappresentanza condivisa, ed effettivamente capace di portare al tavolo con le istituzioni le voci di tutti. In tal senso l’“infrastruttura istituzionale” che definisce le norme in cui ciò può avvenire diventa uno dei qui “vincoli benefici” che favorisce l’auto-organizzazione delle società civile, senza darla per scontata, e consente il dispiegarsi del potenziale innovativo che essa possiede. 2) In secondo luogo, molti dei fenomeni che provocano l’emergere di certi bisogni a livello locale (pensiamo alla disoccupazione) poggiano su determinanti sistemiche su cui le società locali da sole poco possono fare. Per certi versi anzi il trasferimento di competenze sul territorio, se non adeguatamente supportato dai livelli centrali (in termini non solo di finanziamenti, ma anche di capacità amministrativa), può produrre effetti opposti, ovvero il rinchiudersi in particolarismi alimentati e legittimati dall’indebolimento dei canali di solidarietà nazionali (Ciarini, 2010) Il pericolo di un malinteso concetto di decentramento come trasferimento di sole responsabilità senza risorse o come progressiva evaporazione delle politiche nazionali per il crescente attivismo dei soli programmi regionali o locali rischia di acuire le forti differenze che già adesso segnano il paese. Detto in altri termini, così come per le persone, “attivare la responsabilità” nei territori significa anche creare le condizioni affinché tale responsabilità si possa dispiegare. E questo richiede, peraltro come condizione di per sé non sufficiente, di mantenere alta la funzione di coordinamento (e in indirizzo), nel pieno rispetto del principio di sussidiarietà. La vulnerabilità sociale di cui si è riferito, ancor più acuita in questa fase di crisi, richiede risposte sempre meno settoriali e sempre meno definite su precisi target di riferimento, perché i soggetti in situazione di bisogno non sono categorie distinte, ma sempre più contigue e mobili. L’esigenza di riconfigurare i profili del rischio risalta infatti sempre più a fronte delle crescenti difficoltà occupazionali che determinano in molti casi una serie di fragilità al di là di quella economica: psicologica, familiare, abitativa. E’ necessario “Spacchettare i target”: La personalizzazione delle politiche (a cui lo stesso servizio di segretariato tramite lo sportello sociale dovrebbe concorrere) pare essere la strada maestra per fronteggiare la situazione, ma non è facile da realizzare. Si tratta di un’operazione complessa e di sistema che non è sufficiente realizzare a valle, là dove si prende in carico il soggetto in difficoltà, ma richiede un ripensamento a monte dell’intera architettura di erogazione dei servizi.