Le reazioni avverse ai farmaci: tra nomenclatura e metodiche di determinazione Si può realisticamente pensare che un medicamento di qualsivoglia natura, ideato, progettato e modellato per funzionare su un meccanismo molecolare, sia esso brutale o sofisticato, circoscriva la sua azione al puro effetto terapeutico? Ed ha ancora senso pensare ad un farmaco ideale, “pulito”, e di rapida eliminazione, che risulti attivo sul problema clinico senza inficiare altri meccanismi biologici? Quindici anni fa questa domanda avrebbe assunto le sembianze della più classica tra le coperte un po’ troppo corte; facendo oscillare ogni strumento terapeutico tra una scarsa efficacia e la troppa efficacia, con il suo inevitabile corollario di effetti collaterali. Lo stato delle conoscenze farmacologiche oggi, forse non ha del tutto mutato questa consapevolezza, che, in taluni casi, ha trovato valide conferme alla luce della comprensione di nuovi meccanismi d’azione, portando alla valutazione di alcuni effetti collaterali come epifenomeno di attività (es nausea da trattamento iniziale con SSRI, discinesia da antipsicotici, etc); ma ha almeno modificato il rapporto dei clinici con le “azioni secondarie” dei farmaci e spinto i farmacologi a predisporre nuove teorie per spiegare quello che prima era un semplice problema di “dose” (è troppo per te) o di intolleranza (fa male a te). Recentemente la letteratura scientifica 1 ha evidenziato quanto importante sia il ruolo che le reazioni avverse (Adverse Drug Reactions o ADRs) occupano nella diagnosi di ammissione ai reparti ospedalieri. Attualmente, infatti, analizzando in una metanalisi più di 100000 pazienti, la relazione è stata acclarata nel 5.3% dei casi. Sono proprio i farmaci maggiormente usati, e quindi quelli che basandosi sulle evidenze, sono anche clinicamente più efficaci, a produrre il maggior carico di effetti collaterali quando esaminati per gruppi di età. Non deve stupire pertanto che i farmaci dell’apparato cardiovascolare, con cui risulta medicalizzata una vasta porzione della popolazione adulta e la più gran parte di quella geriatrica , o gli antimicrobici se si considera la popolazione pediatrica, siano corredati da una vasta gamma di reazioni avverse. Sebbene attualmente esistano delle differenze nelle politiche sanitarie nazionali in termini di notifica delle reazioni avverse, il problema più grande è rappresentato dal fatto che lo scenario in cui ci muoviamo è poco decifrabile, e pesantemente influenzato dalla incoerenza dei dati scientifici, laddove l’unica certezza sembra essere la tendenza alla sottosegnalazione. Tra i molti fattori che influenzano questo quadro generale la difficoltà nel porre una diagnosi certa di ADR sembra occupare un ruolo preminente; come si evidenzia quando si confrontano i dati di ammissione ospedaliera per ADR (ovvero quelli in cui la diagnosi è posta sulla base di un iniziale quadro clinico laboratoristico e successivamente confermata da procedure analitiche o di esclusione) e quelli derivanti dalla segnalazione spontanea ( che appaiono numericamente assai meno importanti)2, oltre che essere influenzata dalla metodica di identificazione, essendo più certa la diagnosi quando il quadro clinico che la sottende è di competenza urgentistica3. Ciò equivale a dire che siamo più capaci di riconoscere una reazione avversa in una situazione clinica potenzialmente più grave piuttosto che identificarla e segnalarla spontaneamente. E’ plausibile che in questo contesto la disponibilità immediata di esami laboratoristici e strumentali che escludano altri quadri indirizzino fortemente verso la diagnosi di ADR. Ma la diagnosi stessa di ADR è fortemente condizionata da alcune approssimazioni che sono purtroppo insite nella nomenclatura che le definisce, oltre che nei limiti stessi della anamnesi farmacologica anche se correttamente effettuata. Nel tentativo di delineare una migliore comprensione del problema, Edwards ed Aronson4 hanno riconsiderato interamente il problema ponendo l’accento sulle criticità presenti nella definizione di adr della Organizzazione Mondiale della Sanità. Questa ultima, in uso da circa 40 anni, prevede che ogni adr sia “ una risposta nociva oltre che non voluta che occorre a dosi terapeutiche o profilattiche”. Tale definizione, sebbene sintetica e completa, non pone l’accento sul ruolo che la gravità della reazione possa avere nel determinare un disconfort per i paziente. Una successiva teorizzazione è stata tentata da Laurence5 che al contrario ha evidenziato come la gravità della reazione sia l’unico criterio per valutarne l’effettiva esistenza. In realtà però, una reale definizione non può prescindere dal tentativo di delineare se esistano o meno future possibilità di danno in seguito a future somministrazioni, né di indicare come il rapporto tra il danno ed il farmaco che lo ha indotto debba essere gestito. In questo senso Edwards ed Aronson affermano nello specifico che le misure della sospensione del farmaco, della riduzione di dose oltre che di una opportuna terapia che limiti o curi il danno ingenerato siano tra gli elementi più distintivi di una reazione avversa. E’ suggestivo iniziare a pensare che in fondo proprio dalla applicazione di questo concetto la farmacovigilanza moderna abbia mutuato i concetti di “cascata prescrittiva”, e la terapia medica quelli di “tritration” o frazionamento di dose. Nel tentativo di applicare qualcosa di vago e clinicamente eterogeneo come sono percepite essere le adr, l’aspetto nosografico e la nomenclatura assumono particolare importanza, e anche termini che sono generalmente considerati sinonimi, come effetto tossico od effetto collaterale, assumono sfumature diverse. Tossico, infatti, è da intendersi come una esagerazione dell’effetto farmacologico principale. In pratica un effetto tossico è da intendersi come un effetto farmacologico volontariamente od accidentalmente presente su una serie di organi o tessuti su cui è indesiderato da chi assume il farmaco, es cefalea da nitroderivati o calcio-antagonisti. Un effetto tossico è comunque sempre correlato alla dose, non necessariamente nella fase della sua insorgenza (in un soggetto povero metabolizzatore infatti anche una dose piccola può risultare esagerata) quanto piuttosto nel mantenimento (ovvero allo steady state). La caratteristica dipendenza dalla dose non si mantiene per gli effetti collaterali, in cui il risultato clinico della somministrazione di un farmaco può essere dipendente o no dalla quantità, ma piuttosto deriva da un complesso di funzioni accessorie, ovvero non direttamente correlate alla azione principale ma in un certo senso direttamente conseguenti da essa (es effetto anti-colinergico degli antidepressivi). Per ovviare a queste ambiguità e sfumature sarebbe preferibile utilizzare il termine di “effetto avverso” che racchiude in se tutte queste variazioni di significato. E’ stato stabilito che i termini effetto avverso e reazione avversa possano esser intercambiabili, per entrambi è chiaro e logico il nesso di causalità con l’assunzione del farmaco laddove un evento avverso è privo di questa connotazione e caratterizza il danno solo nel rapporto temporale con l’assunzione del farmaco (es: avere una trauma in corso di terapia con aspirina). La soggettività del danno, ovvero la tendenza da parte del paziente ad interpretarlo sulla base di precedenti esperienze analoghe, oltre che sulla personale capacità di sopportarlo, determinano spesso anche le azioni che conseguono il presentarsi di una reazione avversa. Proprio per questo motivo la sterile analisi della medicalizzazione, è gravata da un tasso di errore molto alto almeno nel senso delle estrapolazioni che ne possono conseguire. Alcuni soggetti potranno recarsi da uno specialista o fare ricorso alle cure di un Pronto Soccorso, altri non fare caso a quanto accaduto, altri potranno non accorgersene. La presentazione clinica diviene quindi il punto dirimente della intera questione. Nella conduzione dei trials clinici questo aspetto è gravato da una teorica facilità di applicazione, ma anche da una difficile applicabilità, ma comunque trova un meccanismo di codifica attraverso l’utilizzo a del Common Toxicity Criteria. Molto più complesso appare essere il quadro nella pratica clinica e nel real setting. Per rendere attendibile il segnale che la segnalazione di ogni reazione avversa genera è indispensabile che vi sia una categorizzazione della stessa. La nascita delle banche dati ha notevolmente semplificato il tutto, fornendo un modello di categorie in cui le reazioni avverse possono essere analizzate per frequenza, o per gravità e caratterizzate in funzione di vari parametri come per esempio la dose o la età del soggetto. Allo stato attuale questo sistema è il più accreditato, anche se sono stati proposti altri metodi tra cui quello per categorie semantiche appare il più intrigante poiché il più correlato alla presentazione clinica del quadro. Nell’ambito di questo sistema il principio attivo è posto al centro di un percorso che parte da una condizione patologica di base, o da un dato laboratoristico associato alla stessa e si correla anche ad un sintomo. La gravità della reazione, la sua modalità di presentazione ed il suo decorso divengono elementi caratterizzanti ma accessori6 Nella pratica clinica tuttavia rimangono valide le indicazioni di massima che pongono l’accento sulle caratteristiche differenziali di presentazione di cui la seguente tabella propone un efficace riassunto. TIPO DI ACRONIM CARATTERISTICH ESEMPIO TERAPIA Riduzione ADR I E Dose Augmented Prevedibile Effetti tossici Correlata alla FD Effetti collaterali dose dipendente Comune Bassa Mortalità Sospensione Poco comune Reazioni indipendent Non correlata alla Fd Immunologiche e Imprevedibile Reazioni Alta Mortalità Idiosincrasiche Poco frequente Soppressione Dose Dose Bizzarre e Chronic Riduzione di tempo Correlata alla dose corticosurrenalic dose dipendente cumulativa a sospensione Poco frequente Teratogenesi Poco Dose correlata Discinesia trattabile Tempo Delayed Dipendente o tardiva Da End of use sospensione Poco frequente Dipendente momento sospensione Ripristinare Sindrome dal d’astinenza da adeguato dosaggio della oppioidi Ischemia da sospensione B bloccanti Da inefficacia Failure Comune Interferenze Aumentare la Dose correlata metaboliche dose terapeutica Spesso dipendente da Considerare interazioni l’effetto delle farmacologiche terapie cocncomitant i Già nel 1977 alcuni autori avevano evidenziato come la diagnosi di ADR fosse gravata da un notevole grado di ambiguità7, semplicemente basandosi su un confronto tra il giudizio di tre farmacologi medici che avevano revisionato indipendentemente una serie di dati clinici in cui i farmaci avevano avuto un ruolo più o meno importante nel prolungare il tempo di ospedalizzazione, nel peggiorare la prognosi o nel contribuire alla morte dei pazienti. E’ inoltre fondamentale considerare come la natura stessa della manifestazione clinica che il paziente presenta può condizionare l’orientarsi della diagnosi verso una adr. Se la adr è rappresentata da un sintomo molto frequente come per esempio la nausea, sarà particolarmente complicato comprenderne la vera causa, anche in presenza di una terapia con farmaci che sicuramente generano quel sintomo; analogamente se la frequenza della patologia con cui la adr va in diagnosi differenziale è molto elevata la accuratezza diagnostica risentirà del quadro clinico aspecifico. Le adr, infatti, si presentano raramente con sintomi patognomonici, laddove, i sintomi clinici sono uguali a quelli delle patologie con cui vanno in diagnosi differenziale; inoltre le manifestazioni da adr risultano farmaco specifiche solo in una piccola parte dei casi (per esempio più farmaci possono dare come adr la vasodilatazione periferica). L’attuale metodica di valutazione di una ADR 8 basata sulla applicazione di una ADR probability scale consente di riassumere nei vari items elementi di portata più vasta. Per porre una diagnosi differenziale per esempio, la valutazione della frequenza della reazione avversa è ancora l’elemento primario, sarà pertanto più facile evidenziare una adr dose dipendente da amlodipina se nel quadro clinico sono presenti edemi malleolari. Analogamente è utile indirizzare il sospetto clinico se la manifestazione clinica sulla quale si indaga corrisponde alla farmacologia classica di quel composto od ad un suo conclamato pattern allergico (es piastrinopenia da eparina, oppure rush cutaneo da penicillina). Nella identificazione del quadro farmaco-indotto l’elemento temporale è logicamente dirimente, ma nel considerarlo si deve anche considerare che questo dipende strettamente dal tipo di farmaco che si considera, variando quest’ultimo da mesi od anni nel caso di una tossicità da accumulo, ad alcuni giorni nel caso di una idiosincrasia metabolica9, o ad una reazione simil allergica ad insorgenza immediata10. Tuttavia l’informazione cui attingere sui siti specializzati o sulle banche dati spesso non enfatizza il livello di evidenza del rischio. Quest’ultimo è ovviamente tanto più attendibile se viene analizzato da studi di metanalisi, da reviews sistematiche, o da Trials Clinici Randomizzati, piuttosto che case series o da semplici case reports. Inoltre l’identificazione dell’ entità del rischio risente della adeguata presenza negli studi che mirano a determinarla di gruppi di confronto tra cui valutare l’entità delle esposizioni e gli esiti delle stesse. E’ attualmente possibile applicare dei metodi di tipo quantitativo alla individuazione di un segnale di ADR, ciò in funzione del fatto che i database clinici di grandi dimensioni sono passibili di una capacità analitica maggiore rispetto a gruppi molto nutriti di revisori clinici. I metodi analitici attualmente disponibili includono: a) relative reporting b) proportional reporting rate ratio c) reporting odds ratio d) Bayesan Confidence Propagation Neural Network. Si stanno rendendo disponibili anche delle analisi denominate di disproporzioanalità che usano il rapporto tra la presenza di una adr in funzione del farmaco e la sua presenza da sola in funzione del puro caso. Partendo dall’idea che gli effetti dei farmaci siano riflessi in modo considerevole dagli esami di laboratorio11 molto recentemente alcuni autori12 hanno evidenziato un ruolo di preminenza per l’analisi effettuata su banche dati mediche utilizzando gli indici di laboratorio come surrogati della presenza del segnale. In pratica è stato proposto di interpretare valori estremi di laboratorio (in senso positivo od in senso negativo) per correlare l’assunzione di un medicamento con la effettiva presenza di una ADR, valutando un database elettronico di 10 anni e selezionando 10 farmaci in studio. Sono stati ottenuti dagli autori due gruppi di analisi, ovvero i dati di laboratorio relativi a prima del trattamento e quelli relativi a dopo il trattamento che sono stati confrontati con un T-test per ciascun farmaco in studio. Gli stessi risultati di laboratorio sono stati poi comparati attraverso il McNemar test, assegnando alla significatività statistica [p<0,05 CI 95%] del dato di laboratorio anomalo il valore di segnale positivo. In ogni caso qualsiasi metodica si utilizzi, è indispensabile la valutazione della coerenza del segnale e quindi l’esecuzione di studi di coorte o di studi di tipo caso controllo rappresentano delle metodiche fondamentali, i cui risultati consentono al clinico di valutare la reale entità del rischio associato ad un medicamento ponendo il tutto in relazione con la presentazione sintomatologica del paziente e con l’evolversi della patologia di cui egli soffre. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1. KongKaew C, Noyce PR, Ashcroft DM. Hospital Admissions associated with adverse drug reactions: a systematic review of prospective observational studies. Annals of Pharmacotherapy 2008 Jul; 42(7): 1017-2 2. Barrow P, Waller P & Wise L. Comparison of hospital episodes with ‘druginduced’ disorders and spontaneously reported adverse drug reactions. British Journal of Clinical Pharmacology 2005 61:2 233–237 3. Brvar M, Fokter N, Bunc M and Mozina M. 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