Maria Luisa Basso, Karl Jaspers o della filosofia come amore. Con brani scelti, tradotti e commentati, Liguori, Napoli 2013, pp. 250, 19,90 euro Recensione di Elena Alessiato L a prima mossa è quella giusta. Volendo confrontarsi con il tema della Liebe e nel tentativo di ricostruire le posizioni e i pensieri di Karl Jaspers su questa componente fondamentale e suggestiva dell’esperienza umana, Maria Luisa Basso sceglie un titolo essenziale ma insieme riassuntivo ed evocativo: Karl Jaspers o della filosofia come amore. Quello che lo studio si propone, e riesce a offrire, è infatti di più che l’illustrazione della “filosofia dell’amore’ di o secondo Karl Jaspers – opzione e variante di titolo che non solo avrebbe rappresentato un più facile cedimento al sentimentalismo, ma sarebbe risultata anche riduttiva rispetto al problema. In Jaspers, infatti, l’amore non si limita a essere un semplice tema di riflessione isolabile dagli altri in virtù di una determinabilità di natura psicologica, affettiva, emozionale. «L’amore non è mera pulsione organica, né un suo derivato; non è bisogno psicologico di integrazione o di fusione fra gli individui; non è tendenza all’aggregazione, che controbilancia la spinta all’aggressività, o epifenomeno dell’istinto di conservazione della specie. Neppure l’amore va inteso come una sorta di energia cosmica che, naturalisticamente, tutto pervade; la sua collocazione precipua è, per Jaspers, nella soggettività, in quanto interiorità, libertà, ragione» (p. 136). Lo statuto dell’amore è esistenziale e razionale, quindi – rispetto alla comprensione categoriale della filosofia per Jaspers – primariamente filosofico. E filosofico in una duplice accezione: oggettivo-ermeneutica, nel senso che l’amore merita senza remore di essere reso oggetto di una riflessione speculativa sistematica e argomentata, al pari di altri temi a tutta prima più rituali, ed ermeneuticosostanziale, nel senso che l’amore è un componente essenziale della filosofia jaspersiana perché con essa ha in comune la matrice e le forme in cui si articola la sua “esistenzializzazione” – brutto neologismo che ci permettiamo per intendere l’incarnarsi storico e reale sul terreno dell’esistenza umana di quelle categorie concettuali. Duplice è quindi l’intento dello studio di Basso: espositivo-ricostruttivo e insieme interpretativo. Da un lato, cioè, l’autrice si propone di dare un ordine discorsivo e uno svolgimento consequenziale alle meditazioni che Jaspers ha 335 336 Studi jaspersiani condotto sul tema dell’amore lungo pressoché tutto il suo percorso di filosofo; dall’altro, ella avanza una proposta di lettura che coinvolge le categorie portanti della riflessione filosofica jaspersiana, la cui connessione, illustrata dallo stesso Jaspers e ripetutamente esplorata dalla critica, viene qui messa in evidenza a partire dall’elemento che di quelle categorie rappresenterebbe il termine, di volta in volta, di giunzione, analogia, mediazione: l’amore, appunto. La ricostruzione procede in sei capitoli, a cui si aggiunge una breve ma densa conclusione. Completano l’affresco alcuni dei testi più significativi dedicati da Jaspers al tema dell’amore, tra cui quello tratto da Von der Wahrheit (1947), ampiamente commentato dall’autrice. Non è facile rintracciare una definizione univoca e chiara di cosa sia l’amore. Può servire iniziare a procedere per via negativa, mettendo al riparo l’amore sia da «un discorso di tipo psicologico – come sarebbe accaduto più tardi a Freud» sia da una ipostatizzazione «in una metafisica oggettivante, come nel caso di Agostino» (p. 94). Tuttavia occorre poi spingersi oltre. La difficoltà è aggirata da Basso nella misura in cui ella procede per contestualizzazioni e accostamenti analogici. Ossia mostrando, testi e citazioni alla mano – ampiamente con- divisi e disseminati in note che risultano a volte fin troppo lunghe – come l’amore svolga in Jaspers una funzione determinante proprio per innescare e realizzare quelle dinamiche nelle quali si palesa e concretizza l’aspirazione per lui propriamente filosofica. L’amore è quindi quell’atteggiamento di apertura e libertà che permette all’uomo di definirsi e viversi come “esistenza” nella misura in cui viene incontro non solo alla sua esigenza di “conoscersi”, ma ben di più al suo bisogno di “comprendersi”, di essere sospinto alle fonti originarie del suo essere. Cosa che avviene – così costituendo la realtà propria dell’uomo – solo nello scoprirsi di quest’ultimo come essere-inrelazione: relazione con sé, con l’altra esistenza e con l’assoluto altro, la Trascendenza. Su ciascuna di queste tre direttrici opera l’amore, che viene così a rappresentarsi, osserva Basso, come quella combinazione di «energia latente» e «dura disciplina» che sostiene e alimenta «quella libertà che coincide con la scelta di ciò che siamo» (p. 95). Salvo poi – ricalcando l’approccio di pensiero, e la terminologia, tipiche di Jaspers – arrivare a presentare l’amore «come un abbracciante (anzi, l’abbracciante che include tutti gli abbraccianti che noi siamo) e come l’origine, sia di ciò Recensioni che siamo, che del filosofare, in cui diventiamo ciò che siamo» (96). Ove l’accostamento rivela tanto la portata costitutiva e onnicomprensiva dell’amore per l’esistenza dell’uomo («noi siamo amore», osserva l’autrice, p. 96) quanto la sua pertinenza rispetto all’arduo cammino della filosofia. Proprio su questo cammino, intrapreso da tutti coloro che vogliono avventurarsi alla ricerca del Sé autentico, si sperimentano le ansie della solitudine, le difficoltà dell’andare incontro agli altri, le asperità della lotta, le incomprensioni e difficoltà incontrate nel tentativo di costruire con l’altro un dialogo aperto e comunicativo, l’impotenza rivelata dalla sofferenza, le sofferenze date dalla perdita e dalla morte, la disperazione del silenzio di fronte al dolore dell’uomo, al patimento del giusto. In ciascuna di queste situazioni (situazioni-limite), che contrassegnano l’esistenza dell’essere-uomo l’amore è presente e opera – o almeno sussiste per l’uomo la possibilità che così sia. «L’amore è sostanza stessa dell’esistenza, ma non essendo né anti-logico né illogico, bensì affine al lógos, e avendo con esso familiarità e dimestichezza, favorisce la chiarificazione razionale dell’esistenza, promuovendone la realizzazione» (p. 87). Perché può essere vero che l’amore non è un atto 337 di volontà, qualcosa che si vuole e s’impone a se stessi. Ma se non si ama, se ne porta su di sé soltanto la colpa (p. 105). È l’amore per il Vero, dunque, che spinge fuori di sé e a ricercare quella comunione comunicativa che è unione dei distinti: «“Esser se stesso ed essere vero non è nient’altro che essere incondizionatamente in comunicazione”» (p. 75). È l’amore che spinge a credere, a ricercare l’unità, a costituire legami e a costituirsi-in-legame, così da spezzare il circolo demoniaco che la psicologia del «rinchiuso» (p. 59) traccia colpevolmente intorno a sé e alle proprie inespresse possibilità esistenziali. È l’amore che alimenta quella tensione che rende piena l’esistenza e vivifica quella lotta instancabile e prodigiosa finalizzata non alla potenza e al controllo ma al conseguimento della trasparenza di sé a sé e all’altro. Non è l’amore che toglie la solitudine, risparmia il dolore, rimuove la colpa e la morte. Tuttavia è l’amore che ci dona a noi stessi in un percorso di disciplina e affidamento che in ogni situazione, in ogni esperienza, sospinge oltre sé e oltre l’opacità del mondo verso la ricerca di un senso onniabbracciante, di una verità latrice di valore, di una unità «“che è tutto”» (p. 83). Proprio a questa altezza si manifesta allora l’affinità, sulla quale Basso molto insiste, tra ragione e amore, tanto 338 Studi jaspersiani che, afferma, «si può parlare, per un verso, di una ragione animata, sorretta, guidata dall’amore, e per l’altro, di un amore pensante o razionale (vernünftig), che trova nel filosofare il suo compimento» (p. 83). Entrambe, infatti, tanto l’amore quanto la ragione, sono presentate da Jaspers nei termini di una «facoltà dell’incondizionato», di entrambe si sottolinea la connaturata dinamicità orientata a contrastare, e superare, la dispersione insita nella vita umana per mezzo del disvelamento di connessioni, legami, dell’unitarietà originaria del tutto. Nel percorso, a sua volta, di disvelamento della natura dell’amore, Jaspers non è certo solo. Ha avuto maestri illustri, antichi e moderni, ai quali si è espressamente richiamato. Con accuratezza Basso ricostruisce l’insieme delle eredità, delle corrispondenze e altresì delle diversità che la meditazione jaspersiana sull’amore presenta rispetto agli autori che Jaspers ha voluto adottare come ispiratori o interlocutori. Ne risulta un mosaico ricco e variegato che è agevole e pertinente schizzare con le parole riassuntive dell’autrice medesima: «Abbiamo cercato di distinguere e porre in risalto tutti i fili che compongono la complessa tessitura della jaspersiana meditazione sull’amore: l’istanza incondizionata della comu- nicazione – “fonte di affidabilità e vincolo che ci impegna” – che integra e supera l’imperativo morale kantiano; la penetrante psicologia kierkegaardiana del “rinchiuso”; la ragione come medium della comunicazione, e la sua affinità con l’amore; l’eros platonico come entusiasmo e “divina mania”, e il tema platonico e neoplatonico dell’Uno, termine ultimo dell’ascesa amorosa» (p. 135). Integrazione potrebbe essere la parola chiave scelta per esprimere il nucleo della Liebe secondo Jaspers: integrazione tra le diverse dimensioni dell’esistenza in nome di un impulso unificante e di una ispirazione unitaria cui l’amore dà forma e slancio, così da poter ricostituire «l’integralità della persona umana» (p. 118), posto che «l’amore è, in definitiva, la forza attrattiva esercitata dall’Uno sul nostro essere» (p. 106). E poi, integrazione tra le diverse forme d’amore, ciascuna corrispondente a una dimensione dell’essere dell’uomo. È quello che, nell’idea di Jaspers, si realizza (si può e si dovrebbe realizzare) nell’amore di coppia, «quasi prodigio nel prodigio» (p. 107). Infine, integrazione tra «il desiderio “finito”» e «quello “infinito”» (p. 128) – desiderio di infinito. L’amore esprime, infatti, un impulso di relazionalità e trascendimento, che raggiunge la Recensioni sua forma massima nel rivolgersi a ciò che trascendente ogni trascendibile, l’estrema Trascendenza, l’Uno, come plotinianamente Jaspers arriva a chiamarlo, o, «come Plotino lo chiama anche: Dio» (p. 140). L’ultimo capitolo e la conclusione del libro di Basso affrontano il tema dell’amore in prospettiva religiosa, fatte salve le premesse e le specificità del discorso di Jaspers sulla fede: fede filosofica, fede priva di un Dio-persona, fede rivolta a un Dio che è cifra e non amore. Lo sbocco infinito dell’amore permette all’autrice di mettere in evidenza la matrice platonica e, in misura ancora più incisiva, neo-platonica, della concezione jaspersiana della Trascendenza, nella quale, tuttavia, e pur nelle decisive differenze, rimane forte l’impronta della religione biblica (tra le tracce più significative, la figura di Giobbe, che assume nello Jaspers maturo, in dialogo critico con la storicità, una valenza fortemente simbolica). Al contempo, proprio la caratterizzazione della Trascendenza jaspersiana diventa l’occasione per misurare la combinazione di vicinanza e di distanza delle posizioni del filosofo rispetto alla teologia cristiana. A questo riguardo si avverte forse nel libro di Basso la mancanza di un confronto ancora più approfondito 339 con uno dei pensatori, e sistematizzatori, imprescindibili per la comprensione del pensiero filosofico cristiano, ossia Agostino. Stimolante è tuttavia lo sforzo di problematizzazione che l’autrice intraprende nelle ultime pagine, ove sottolinea l’eccezionalità di un Dio che è né esistenza né personalità, né amore né libertà. Su questo sfondo ella s’interroga sulla contraddittorietà o meno di una divinità che non ama né ha bisogno di essere amata, di una Trascendenza «nascosta, lontana, estranea» (p. 141), di un Dio, infine che «è, e questo basta». Forse che l’intera meditazione di Jaspers sull’amore – meditazione filosofica come amore – arrivata al suo culmine ultimo rinnega l’oggetto stesso del suo meditare, facendo uscire l’amore dall’orizzonte di ciò che, in ultima istanza, davvero importa? Le domande, alcune delle quali opportunamente esplicitate da Basso nei paragrafi finali della trattazione, rimangono aperte e, per ogni lettore, depositarie di vivide sollecitazioni. Un indizio su quale sia il posto dell’amore anche in questo scenario è tuttavia Jaspers stesso a consegnarcelo. Commentandolo, Basso ricorda quel passo della Piccola Scuola del pensiero filosofico in cui Jaspers osserva: «La speranza non può sollevarci al di sopra del tempo, mentre ci 340 Studi jaspersiani riescono la fede e l’amore; o, per meglio dire, ci riesce la fede, se fa corpo unico con il nostro amore. [E poi cita Jaspers come segue, NdA] “Una fede come professione di un determinato contenuto diviene dubbia; la speranza urta in certi limiti nel mondo, per cui naufraga; solo l’amore sostiene la nostra esistenza. Nel nostro amore sperimentiamo quell’unica certezza che ci colma e ci appaga. All’amore soltanto si offre in pienezza la verità» (p. 149). Karl Jaspers – Hannah Arendt, Verità e umanità. Discorsi per il conferimento del Premio per la pace dei Librai tedeschi 1958, a cura di A. Bragantini, Mimesis, Milano-Udine 2014 , pp. 72, 5,50 euro Recensione di Chiara Pasqualin Q uesto piccolo ma prezioso volume offre la traduzione italiana di due discorsi, tenuti rispettivamente da Hannah Arendt e Karl Jaspers in occasione del conferimento del Premio per la pace dei Librai tedeschi. Jaspers fu insignito di questa onorificenza nel 1958 soprattutto in virtù del libro pubblicato pochi mesi prima La bomba atomica e il futuro dell’uomo, in cui egli ri- flette su quale via di salvezza sia ancora percorribile per l’umanità di fronte alla duplice minaccia del totalitarismo e della guerra atomica. I due discorsi presentati nel volume sono preceduti da un’accurata introduzione del traduttore, Attilio Bragantini, il quale ricostruisce il contesto storico, filosofico e, non da ultimo, biografico-esistenziale in cui si inseriscono i testi. Secondo la consuetudine del Premio, chi riceve l’onorificenza, prima di pronunciare un discorso di accettazione, è oggetto di un pubblico encomio. Nel nostro caso il ruolo di Laudator fu attribuito alla filosofa Hannah Arendt, allieva e amica di Jaspers, che tuttavia accettò l’incarico non senza esitazione. Come ben rilevato nell’introduzione del volume curato da Bragantini, uno dei motivi della perplessità di Arendt era dovuto al timore che il suo discorso di lode a Jaspers potesse apparire una presa di posizione sfavorevole all’altro suo maestro, Martin Heidegger, nei cui confronti, nonostante un rapporto ambivalente, non era tuttavia cessata la stima intellettuale. Trattandosi infatti di lodare l’impegno pubblico di Jaspers e di far risaltare il valore positivo del concetto di pubblicità (Öffentlichkeit) nel suo pensiero, come evitare l’implicito confronto con Heidegger, che invece identifica- Recensioni va questa nozione con il livellamento del Man? Sebbene nel suo discorso Arendt non faccia alcun riferimento esplicito ad Heidegger, la pensatrice non pare riuscire a svincolarsi dall’uso indiretto di questo schema oppositivo, che tuttavia non rende completamente giustizia alla riflessione di Heidegger, dove quantomeno la coppia autenticità-inautenticità non è semplicemente sovrapponibile a quella isolamento-pluralità. Del resto, su un piano pratico, emerge come ancora pesi, agli occhi di Arendt, l’adesione heideggeriana al nazionalsocialismo, cui si contrappongono invece la resistenza interiore di Jaspers e la sua costante «presenza al proprio tempo» (ivi, p. 69). Per concludere sul punto, si ha però l’impressione che Heidegger resti, tanto nel discorso di Jaspers quanto in quello di Arendt, una presenza decisiva, anche se sofferta, un interlocutore desiderato ed insieme respinto: non bisogna infatti dimenticare come la Lettera sull’‘umanismo’ del 1946 proponga un’originaria riflessione sull’humanitas dell’uomo, che è proprio il tema discusso da Arendt e Jaspers in questa occasione. Nella laudatio Arendt invita soprattutto a soffermarsi sulla seguente questione: che cosa rende “politica” la filosofia di Jaspers? È possibile rispondere alla questione riconoscendo che essa è 341 politica in un senso fondamentale: si rivolge a tutti gli individui, educandoli a divenire umani attraverso lo sviluppo della ragione, vista come potenzialità insita in ognuno ed inverantesi nella dimensione comune. Questa essenziale politicità del pensiero jaspersiano è esemplificabile per mezzo di figure socratiche e kantiane, che costituiscono quell’eredità comune a cui si rifanno tanto il pensiero del maestro quanto quello dell’allieva. In primo luogo, ci pare infatti che le immagini socratiche del tafano e della levatrice e, sul versante kantiano, il motto dell’illuminismo sapere aude, aiutino a decifrare la metaforica del rischiaramento, che costituisce secondo Arendt il punto focale dell’intera opera di Jaspers. In secondo luogo, sia l’immagine del regno degli spiriti dialoganti, quale emerge nella conclusione dell’Apologia, sia la pratica kantiana dell’uso pubblico della ragione e del «modo di pensare ampio», ci introducono ad un secondo motivo della politicità intrinseca al pensiero jaspersiano, ovvero al fatto che esso realizza in sé ­­­­–­e stimola in altri ­– la volontà di una comunicazione illimitata. Venendo al rischiaramento, vale a dire il primo degli aspetti richiamati, la filosofia è politica perché dà consiglio, non tanto perché offre direttamente una progettualità concreta, ma 342 Studi jaspersiani perché, con il suo portato chiarificante, risveglia in sé e negli altri una consapevolezza sempre più ampia. Per tale via, ossia con questo suo promuovere chiarezza, la filosofia giunge ad incidere sul modo di pensare degli uomini – governanti e governati – preparando con ciò, indirettamente, le condizioni per le loro azioni politiche concrete. La filosofia opera nel senso dell’educazione all’uso autonomo della ragione ed in ciò adempie un compito attuale ed insieme perenne. Quanto invece al secondo aspetto, relativo alla realizzazione ed alla promozione della comunicazione, Jaspers partecipa, con il suo filosofare, alla «comunità degli esseri ragionevoli» ampliandola ed accompagnando su questa via ciascuno di noi. Tale comunità, descritta ne La bomba atomica, non è un’organizzazione concreta, ma una comunità invisibile formata da tutti coloro che praticano la comunicazione autentica in virtù della ragione. Essa rappresenta quindi un elemento sovra-politico che agisce latentemente nelle organizzazioni mondane guidandole verso la realizzazione del bene comune. La «comunità degli esseri ragionevoli» viene interpretata da Arendt come lo spazio dell’humanitas, uno spazio che Jaspers seppe mantenere in vita anche nei tem- pi bui del nazismo, attraverso la comunicazione con i grandi filosofi e la centrale relazione esistenziale con la moglie. Per riprendere un’espressione di Jaspers nello scritto Ragione e antiragione, questo spazio dell’humanitas «è come l’acqua, l’aria e la luce» (Ragione e antiragione nel nostro tempo, trad. it. di G. Saccomanno, SE, Milano 1999, p. 57), l’elemento in cui può svilupparsi ogni formazione mondana e politica. Il discorso con cui Jaspers accetta l’onorificenza riprende le argomentazioni condotte nel testo La bomba atomica e ne offre una sintesi chiara e concisa, che vale come chiave di accesso sia a quel testo particolare quanto, più in generale, alla riflessione politica di Jaspers, intesa non solo come parte o fase di un percorso filosofico, ma come naturale sviluppo ed estensione della filosofia dell’esistenza o della ragione. Al centro dello scritto sta la questione della pace, per il fatto che essa viene vista come l’unica condizione che possa definitivamente scongiurare la minaccia di una guerra atomica e la possibilità concreta dell’autodistruzione dell’umanità. Nel suo discorso Jaspers non intende però offrire un disegno di politica mondiale per instaurare la pace, non propone cioè programmi concreti, ma vuole sondare i presupposti Recensioni esistenziali e politici a partire dai quali una pace universale tra i popoli può svilupparsi. Nel richiamare l’attenzione sui presupposti segue lo stesso modo di procedere di Kant nel suo scritto Per la pace perpetua che rappresenta la fonte principale del suo discorso – così come del libro La bomba atomica. Nel proporre la sua riflessione, Jaspers opera in direzione della consueta redistribuzione dei compiti dell’intelletto e della ragione. Prendendo le distanze da un pensiero esclusivamente intellettuale-finalistico, che vorrebbe progettare i mezzi in vista della pace-scopo, il filosofo ricorre invece al lavoro della ragione al fine di preparare le condizioni a partire dalle quali la pace potrà svilupparsi quale conseguenza. Tre sono i presupposti di tale pace: la pace interiore del singolo uomo e del singolo stato, la libertà e la verità. Per quanto concerne la pace dell’individuo, tale presupposto corrisponde a ciò che nel libro La bomba atomica Jaspers aveva presentato come l’elemento sovra-politico che è condizione della pace universale: la conversione radicale richiesta al singolo, una trasformazione che coincide con la realizzazione della ragione. Realizzare la ragione significa volere una comunicazione autentica, che come tale è pacifica nel senso che abdica alla pretesa violenta di 343 prevaricazione e assoggettamento dell’altro per promuoverne invece la sua consapevole maturazione. Tale comunicazione esistenziale, portata avanti dal singolo, deve estendersi fino a coinvolgere tutti gli appartenenti alla comunità statale, i quali dovrebbero partecipare ad una pacifica discussione pubblica, capace di evitare posizioni esclusivistiche e formare un volere comune. Nella sua spinta alla comunicazione, la ragione è pertanto l’elemento che deve penetrare tutte le organizzazioni dello stato, garantendo l’unità di istanze differenti e confermando con ciò quella natura di collegamento che soprattutto in Della verità Jaspers aveva accordato alla ragione. Il secondo presupposto per la pace universale è rappresentato dalla libertà, che si presenta come la realizzazione di tre momenti: la libertà esistenziale, la libertà politica e la libertà di ciascuno stato nei confronti dell’altro. Secondo le riflessioni di Filosofia e Della verità, i cui esiti si dimostrano impliciti al breve discorso, la libertà esistenziale, essenzialmente inconoscibile, si presenta come la capacità di realizzare le proprie possibilità in base a se stessi e nella coscienza di essere donati a questo compito dalla trascendenza. Tale libertà esistenziale non coincide con il mero arbitrio di fare ciò che si vuole e perciò 344 Studi jaspersiani non può in alcun modo dirsi realizzata per il fatto che l’epoca del consumismo, cui Jaspers allude nel suo discorso, può consentire un nuovo livello di benessere per l’esserci, per il mero Dasein. A differenza della libertà esistenziale, la libertà politica è un fenomeno conoscibile ed è la condizione in cui, diversamente dallo stato dittatoriale, i governati, detentori di pari diritti, partecipano responsabilmente alla vita politica attraverso elezioni libere, uguali e segrete. Parlando della libertà politica Jaspers si riferisce all’idea di democrazia ed alla «forma di governo repubblicana» nel senso kantiano, che infatti costituiva il primo «articolo» per la pace perpetua. Infine, Jaspers menziona tra le condizioni per la pace universale la «libertà esterna» dello stato (K. Jaspers-H. Arendt, Verità e umanità, cit., p. 38), riferendosi con ciò all’idea kantiana di una confederazione mondiale di stati liberi. La condizione di questi ultimi non sarebbe quella di stati satelliti sottomessi ad una forza totalitaria esterna, ma quella di stati che accettano una limitazione del loro potere sovrano e rinunciano ai nazionalismi a vantaggio del bene dell’umanità. Infine quale terzo presupposto, Jaspers si richiama alla verità. Senza poter restituire la ricchezza e la polisemia di questo concetto, del resto indagato diffusamen- te in Von der Wahrheit, Jaspers punta l’attenzione, prima che sul contenuto stesso della verità, sul sincero contegno che deve improntare il pensare e l’agire degli uomini: non che il contenuto della verità sia indifferente al fine della pace, ma esso appare secondario rispetto alla verità intesa come pratica di esistenza, come approccio aperto e comunicativo ad altri, nel quale soltanto viene ad emergere il contenuto veritiero, l’istanza che sempre promuove la dignità umana. È sulla scorta di questo elemento che Jaspers si avvia a concludere il suo discorso affermando che «la falsità è l’autentico male che distrugge la pace» (ivi, p. 55). Karl Jaspers, La cura della mente. Filosofia della psicopatologia, a cura di G. Stanghellini, Castelvecchi, Roma 2014, pp. 60, 7,50 euro. Recensione di Marco Deodati L a nuova edizione italiana di Die phänomenologische Forschungsrichtung in der Psychopathologie (1912), a cura di Giovanni Stanghellini, assume un valore particolare nel panorama scientifico del nostro paese, tanto in riferimento alle ricerche in am- Recensioni bito psichiatrico, quanto in relazione a questioni filosofiche e, più in particolare, fenomenologiche. Di questo testo esisteva già una traduzione italiana, inserita con il titolo L’indirizzo fenomenologico in psicopatologia all’interno di un volume, edito a cura di Stefania Achella e Anna Donise, che raccoglieva vari testi di Jaspers dedicati a questioni di psicopatologia (cfr. K. Jaspers, Scritti psicopatologici, Guida, Napoli 2004). Tale volume è una ricca antologia di testi scelti, attraverso cui ricostruire, anche grazie ai due ben documentati saggi delle curatrici, alcune fondamentali linee di ricerca del giovane Jaspers in campo psicopatologico – uno strumento di grande utilità per gli studiosi del filosofo di Oldenburg, siano essi psichiatri, psicologi o filosofi. La nuova edizione dell’articolo di Jaspers – con la nuova traduzione dal tedesco di Nicola Zippel – sembra avere invece un orizzonte e una finalità differenti. Il testo viene pubblicato infatti come saggio autonomo, che proprio in virtù delle sue caratteristiche – grande densità concettuale a fronte di una mole contenuta – può presentarsi come una sorta di “manifesto”, o per lo meno come un prezioso punto di partenza per ripensare alcune questioni al centro del dibattito contemporaneo, che investono lo statuto e il metodo della psichiatria, il rapporto 345 tra l’approccio cosiddetto “in terza persona” (tipico delle scienze sperimentali, tra cui la neurologia) e quello cosiddetto “in prima persona” (proprio degli indirizzi di ispirazione fenomenologica), la dignità della persona anche in caso di soggettività abnormi (o, come direbbe Husserl, anomale), il ruolo della filosofia nella ricerca empirica. Anche il titolo scelto per la nuova edizione italiana – La cura della mente – contribuisce a liberare tutto il potenziale teorico presente nel testo, al di là della ricerca jaspersiana in senso stretto e al di là di qualsiasi specialismo settoriale. Si tratta insomma di un saggio che può parlare a tutti – per lo meno a tutti coloro che ancora si interrogano su come impostare in modo fecondo il rapporto tra scienze della natura e scienze dello spirito, o addirittura su come delineare nuovi tipi di sapere caratterizzati dalla complessità e dalla pluralità metodologica. Nella sua Prefazione, il curatore mette a fuoco proprio questo aspetto, sottolineando come un testo del genere rappresenti in effetti l’occasione per impostare un nuovo approccio. Il momento storico-concettuale che stiamo vivendo, suggerisce Stanghellini, è per vari aspetti molto simile a quello in cui si muoveva Jaspers: «La storia si ripete» (p. 6). In gioco è sempre la possibilità di pensare il mentale, lo psichico 346 Studi jaspersiani nella specificità e nella complessità delle sue dimensioni, sottraendosi quindi alle pretese riduzionistiche proprie di molti settori della ricerca scientifica (ad esempio delle neuroscienze), in cui è ancora forte una certa eredità positivistica: «Giunti allo stremo gli sforzi per fondare la Psichiatria su una Nosografia sprezzantemente ateoretica, in realtà arida e acefala, molti si aspettano che la staffetta torni nuovamente nelle mani della Psicopatologia e ne liberi la corsa» (ibidem). La psichiatria ha bisogno di una psicopatologia, intesa come indagine sui vissuti che propriamente caratterizzano la mente abnorme: questi sono contraddistinti da peculiari strutture semantiche che debbono essere il più possibile chiarite. Jaspers sottolinea fin da subito che nella ricerca psichiatrica non ci si può limitare a considerare solo i sintomi oggettivi, cioè tutti quei processi che in vario modo sono accessibili a partire da una prospettiva “in terza persona”, per mezzo dei sensi, di specifici metodi di misurazione, del pensiero logico in generale. Oltre a una psicologia oggettiva si dà infatti una psicologia soggettiva, basata cioè sulla necessità di fare i conti anche con tutta quella dimensione appunto “soggettiva”, “interiore”, che costituisce una parte fondamentale dell’esperienza del malato: si tratta di un ambito ac- cessibile attraverso l’immedesimazione o la condivisione dei vissuti (Miterleben), vale a dire attraverso l’esperienza dell’empatia (Einfühlung). In questo approccio emerge in nuce quello che sarà uno dei maggiori convincimenti di Jaspers, vale a dire l’idea che tra medico e paziente debba istituirsi una relazione peculiare basata sulla “comunicazione esistenziale”. Ma non solo. L’introduzione dell’empatia permette a Jaspers di riallacciarsi a tutta una tradizione importante della psicologia tedesca e, soprattutto, alla fenomenologia, che proprio in quegli anni va affermandosi come una delle correnti più influenti e innovative del panorama filosofico europeo. Se lo psichiatra è chiamato a comprendere i disturbi psichici attraverso la condivisione dei vissuti del paziente, la ricerca psicopatologica, per raggiungere risultati solidi e sistematici, sottratti all’arbitrio delle suggestioni personali, dovrà basarsi su un’indagine fenomenologica previa che tematizzi in modo diretto i differenti fenomeni della coscienza. Da questo punto di vista, il confronto con la fenomenologia rappresenta sicuramente il nodo teoretico principale del saggio. Da un lato Jaspers assume una prospettiva dichiaratamente fenomenologica, richiamandosi esplicitamente a Husserl, mentre dall’altro rielabora inevitabilmen- Recensioni te alcune fondamentali istanze del metodo husserliano, abbozzando già alcuni motivi che definiranno in seguito la sua riflessione matura. Il filosofo di Oldenburg intende la fenomenologia – in modo del tutto analogo a Husserl – come un sapere che prescinde da qualsiasi costruzione teorica, per affidarsi esclusivamente alla descrizione di ciò che si dà nel vissuto psichico o mentale: «Bisogna rendersi presente (sich vergegenwärtigen) solo ciò che esiste realmente nella coscienza. Tutto ciò che non è realmente dato nella coscienza non esiste. Tutte le teorie tramandate, le costruzioni psicologiche o le mitologie materialiste riguardanti i processi cerebrali vanno tenute in disparte» (p. 25). Qui è da sottolineare – come ci invita a fare il traduttore in un’apposita nota – che Jaspers riprende Husserl anche nella terminologia tecnica, laddove parla del vedere fenomenologico come di un atto di presentificazione (Vergegenwärtigung). Al contempo si può anche apprezzare come già in queste parole, apparentemente così simili a quelle usate da Husserl nelle sue opere, si manifestino già delle differenze radicali rispetto all’impostazione fenomenologica “classica”. Identificando la datità fenomenologica con ciò che realmente esiste (wirkliches Dasein) nella nostra vita psichica, Jaspers si allontana decisamente 347 dall’approccio trascendentale di Husserl, lasciando così intendere che la sua indagine si basa sul presupposto di una mente/psiche vista come dimensione d’essere “interna”, come tale distinta e in certo modo complementare rispetto a quella “esterna” della materia. Per un verso sembra quindi che la sua proposta rientri ancora nell’ambito di una psicologia di derivazione brentaniana, basata sulla fondamentale distinzione tra fenomeni psichici e fenomeni fisici. Per altro verso, tuttavia, il modo in cui Jaspers intende questa dimensione psichica (das Seelische) assume tratti peculiari, che di fatto sanciscono una sorta di irriducibilità della sua prospettiva agli altri indirizzi della ricerca psicologica del tempo. Un esempio in tal senso è il concetto di “soggettivo”: indicando quella dimensione dei moti dell’animo e dei processi interiori che anima ogni singola psiche umana e che per questo si sottrae originariamente alla dimensione dell’oggettività, tale nozione sembra già manifestare dei richiami al “soggettivo” kierkegaardiano. Questa peculiare declinazione del “soggettivo” non implica però in nessun modo il riferimento a un’esperienza interiore immediata, inesprimibile o addirittura ineffabile, che rimane sul piano del semplice vissuto. Anche per Jaspers, così come per Husserl, le datità fenomenologi- 348 Studi jaspersiani che sono dotate di un’evidenza e di una chiarezza non limitate al singolo individuo, ma verificabili e accertabili in modo intersoggettivo: la psicopatologia fenomenologica «non si arresta al vissuto capace di comprensione, ma vuole arrivare a un sapere comunicabile, dimostrabile, discutibile» (p. 25). L’obiettivo della fenomenologia, come sapere descrittivo, deve essere quello di fare luce sulle molteplici forme della vita psichica, ovvero sulle sue «irriducibili qualità mentali» (p. 42), senza avere la tentazione di ricondurre tale pluralità originaria a uno o più elementi ultimi secondo una legalità causale. Il fenomenologo, come sostiene Jaspers con un’efficace analogia, lavora sui vissuti in modo analogo a come l’istologo opera sui tessuti. Si tratta di un’analogia che richiama la celebre immagine di Fink secondo cui la ricerca di Husserl è una “gigantesca vivisezione della coscienza”. L’esigenza di un sapere rigoroso e dimostrabile non può in ogni caso ignorare i limiti intrinseci alla comprensione dell’altro, soprattutto in presenza di soggetti abnormi. L’esperienza del Miterleben garantisce una certa comprensione dei soggetti con disturbi psichici, attraverso l’analisi dei vissuti e delle loro variazioni, dei moti espressivi, delle risposte fornite a domande ben congegnate, addirittura delle autodescrizoni dei pazienti. Ma si danno anche fenomeni che appaiono come totalmente estranei e inassimilabili alle modalità di comprensione appena elencate. Bisogna accettare, secondo Jaspers, che ci sono vissuti totalmente inaccessibili. In questo caso ci si può servire solo di immagini e analogie, che non possono avere lo stesso grado di rigore dell’analisi ordinaria. È proprio l’esperienza di questo limite a rimandare da un lato al compito infinito della comunicazione esistenziale tra medico e paziente, dall’altro alla necessità del pluralismo metodologico. In un certo senso, per concludere, il testo di Jaspers trova un innegabile motivo di attualità nell’esigenza – propria di una parte significativa della ricerca contemporanea – di ripensare in modo ancora più articolato e integrato questo pluralismo, affinché non rimanga una semplice giustapposizione di saperi eterogenei. Esso ripropone ancora una volta la sfida di dare conto dei fenomeni nella loro complessità e ricchezza, senza cadere in teorie semplicistiche e costruzioni astratte, ovvero senza indulgere – giusto per rimanere a un certo naturalismo piuttosto rozzo, ancora molto in voga in ampi settori della ricerca empirica – a deleterie «mitologie del cervello» (p. 45). Recensioni Karl Jaspers, La fede filosofica a confronto con la rivelazione cristiana, Introduzione e cura di R. Garaventa, Orthotes, Napoli-Salerno 2014, p. 146, 15 euro Recensione di Nunzio Bombaci L a fede filosofica a confronto con la rivelazione cristiana (Der philosophische Glaube angesichts der christlichen Offenbarung, Verlag Helbing & Lichtenhahn, Basel-Stuttgart 1960) costituisce l’edizione italiana di un saggio jaspersiano compreso nel volume collettaneo Philosophie und christliche Existenz, pubblicato nel 1960 in onore di Heinrich Barth, fratello del più celebre Karl e anch’egli fautore della teologia dialettica. Come osserva Roberto Garaventa nell’Introduzione, il confronto tra le due fedi «trova […] fondamento in quella sorta di “filosofia prima” – da Jaspers sviluppata nella sua “logica filosofica” e riproposta qui (come denkende Vergewisserung = «accertamento pensante») nei suoi tratti essenziali – che mira a far luce sui molteplici “modi” (aspetti, dimensioni) in cui si dà (si presenta, si manifesta) quella Realtà (Wirklichkeit) che tutto abbraccia e circoscrive» (p. 8), ovvero l’Onniabbraccian- 349 te. Proprio in quanto il confronto stesso si situa esplicitamente all’interno di tale Vergewisserung, il lettore può avvertire la sua rilevanza sul piano teoretico. Le due fedi sono radicalmente e irremissibilmente differenti, eppure la fede filosofica non desiste dall’interpellare la cristiana affinché «renda ragione» dei propri fondamenti e contenuti, non sottraendosi a quella comunicazione che per l’autore promuove una convivenza tra esseri umani improntata al rispetto reciproco. Per Jaspers, la comunicazione tra esistenze informate da fedi diverse è quanto mai importante al tempo in cui scrive, poichéi problemi di ciascuno «sono diventati i problemi dell’umanità» (p. 8). Per la sopravvivenza di quest’ultima, «è indispensabile trovare il terreno su cui tutti gli uomini si possano incontrare a prescindere dalla figura storica della loro tradizione di fede» (p. 8). Il cristianesimo sconcerta la fede filosofica nell’affermare, con peculiare vigore, di fondarsi su una rivelazione del divino, al contempo definitiva e universale. Questa rivelazione storica – tale da configurare una «storia sacra» inalveata nella storia tout court – culminerebbe nell’evento Gesù, il Cristo, ovvero l’incarnazione di Dio stesso, come se la Trascendenza potesse tradire il proprio essere 350 Studi jaspersiani Deus absconditus comunicandosi direttamente all’uomo nell’immanente. Gesù Cristo, anzi, è per il cristianesimo l’incarnazione esclusiva della Trascendenza. Secondo Jaspers,nel rivolgere la sua attenzione alla «realtà concreta» di Gesù, il cristianosi preclude il rapporto autentico con la Trascendenza.Per la fede filosofica, quindi, tale “realtà” – se intesa, alla luce della rivelazione cristiana quale «segno-più che segno» della Trascendenza – costituisce un mero idolo. Per converso, la fede filosofica preserva l’inaccessibilità della Trascendenza per l’uomo, al quale essa “parla” soltanto in modo indiretto, nel linguaggio plurivoco delle molteplici cifre, le quali sono ricomprese integralmente nell’immanenza, e peraltro in conflitto tra loro. Essa ammette di non potere comprendere adeguatamente, «dall’esterno», la fede cristiana e riconduce a cifre della Trascendenza l’evento Cristo come i dogmi ai quali il cristiano crede. «L’oscillare» (das Schweben) stesso delle cifre dinanzi alla ragione umana rende legittima la pluralità delle loro interpretazioni. Al carattere eteronomo della fede cristiana, che si fonda sull’obbedienza al principio di autorità (la quale è una chiesa ritenuta detentrice del depositum fidei), Jaspers contrappone l’autonomia di quella filosofica, mediante la quale l’esistenza conferisce una peculiare impronta a se stessa. Der philosophische Glaube non avanza alcuna pretesa di esclusività, definitività oppure universalità.Tuttavia, tale fede vale incondizionatamente per l’esistenza che la professa e pone in rilievo il carattere prospettico, precario di ogni verità attinta da ciascunaesistenza, una verità che è radicalmente altra rispetto a quella – universale e oggettiva – conseguita dalla scienza in virtù del suo procedere metodico nonché alla verità “unica” a cui la teologia ritiene di prestare i propri servigi. Si è accennato al rispetto che per Jaspers informa l’autentica convivenza umana. La stessa “lotta” che egli ingaggia in questo scritto con la fede cristiana è improntata a un profondo rispetto. Nelle dense pagine del volume l’autore enuclea le diverse ragioni di tale rispetto, che tuttavia è legato all’osservanza, da parte del cristiano, di alcune condizioni. Nel filosofo quest’attitudine si coniuga con un vivo interesse per il cristianesimo, rivolto non tanto alle asserzioni dogmatiche della fides quae quanto agli effetti che la fides qua esplica nella vita dei fedeli autentici e, in prospettiva più ampia, nel mondo. Questi uomini riescono a comunicare le ragioni del loro credere in un Recensioni pensiero e in un’opera il cui valore «dà a pensare» anche a colui che aderisce alla fede filosofica. Il cristiano “tocca” il filosofo soprattutto in virtù di quel pensiero e di quell’opera. Il filosofo è “toccato”, ad esempio, dal pensiero di Dante e dall’opera di Francesco d’Assisi. L’uno e l’altra costituiscono per lui cifre di particolare rilievo. Ancora, i testi sacri del cristianesimo, come quelli di altre fedi rivelate, suscitano il massimo interesse in chi professa la fede filosofica. Invero, la Bibbia costituisce per questa una straordinaria summa di cifre. Non va sottaciuto che nel saggio di Jaspers la differenza tra fede filosofica e fede cristiana è radicalizzata da un confronto che assume quale espressione paradigmatica della seconda la teologia riformata, e segnatamente la teologica dialettica di Karl Barth. Quest’ultima non riconosce alcun valore salvifico al rapporto con il divino instaurato dall’uomo a cui la rivelazione cristiana rimanga inaccessibile. Tra tutte le declinazioni della teologia del Novecento, quindi, essa è probabilmente la più refrattaria al confronto con qualsivoglia fede filosofica. Per la teologia dialettica, l’uomo si salva esclusivamente in quanto presta fede alla Parola del Dio che si rivela in Gesù Cristo. Per il Karl Barth di “Zwischenden Zeiten”, 351 che Jaspers cita di frequente, non vi è alcun «punto di inserzione» (Ankünpftungspunkt) della grazia nella natura umana. Tra l’altro, per il filosofo, la teologia di Barth – e, in una prospettiva più generale, la teologia cristiana – si avvale in modo improprio delle risorse della dialettica nel tentativo di conferire una certa plausibilità alle affermazioni dogmatiche della fede. Per Jaspers, questo connubio tra dialettica e dogmatismo non può che essere avversato dalla fede filosofica. Lo scritto jaspersiano, letto a partire dal contesto culturale odierno, in cui la frammentazione tra “fedi” diverse è quanto mai evidente, può sollevare quesiti inediti con riguardo al tenore del rapporto tra la fede filosofica e la cristiana, anche perché non di rado l’autocomprensione di quest’ultima non viene più formulata nei termini in cui viene espressa dal filosofo. Ai nostri giorni, talora in chi professa la fede cristiana «l’obbedienza a una chiesa» – che per Jaspers è il principium individuationis di essa – può regredire sullo sfondo delle “ragioni” del credere. Rispetto ai tempi in cui Jaspers scrive il saggio in parola, la fede cristiana ha sperimentato un ulteriore declino. Ai nostri giorni, in Europa molte persone, pur educate al cristianesimo, affermano di riconoscere in Gesù un uomo 352 Studi jaspersiani di eccezione, ma solo un uomo, il cui messaggio assume comunque un valore etico incomparabile. Per tali persone, in fondo, Gesù è solo «il maestro del Vangelo», nel senso inteso da Kant nel saggio La religione nei limiti della semplice ragione. Pertanto, essi professano una forma di fede filosofica. Quest’ultima sembra guadagnare sempre più terreno rispetto alla fede cristiana. In modi diversi, la fede filosofica può coinvolgere l’esistenza di non pochi nostri contemporanei e, se si autocomprende in modo adeguato, può e deve comunicare con la fede cristiana, prestando così attenzione all’auspicio formulato cinquant’anni or sono da Karl Jaspers. Edoardo Massimilla, Presupposti e percorsi del comprendere esplicativo. Max Weber e i suoi interlocutori, Liguori, Napoli 2015, pp. 130, 11,99 euro Recensione di Giovanni Morrone L ’ultimo libro di Edoardo Massimilla (Presupposti e percorsi del comprendere esplicativo. Max Weber e i suoi interlocutori, Liguori, Napoli, 2015) conclude un percorso di ricerca sulla meto- dologia weberiana che è alla base anche del suo precedente lavoro (Tre studi su Weber. Tra Rickert e von Kries, Liguori, Napoli, 2010; trad. tedesca, Max Weber zwischen Heinrich Rickert und Johannes von Kries. Drei Studien, “Collegium Hermeneuticum”, Band 13, Böhlau, Köln-Weimar-Wien, 2012). I Tre studi muovevano dall’esigenza di determinare tre questioni caratterizzanti la “prima fase” (1903-1909) della riflessione “metodologica” weberiana: la costituzione dell’oggetto storico, il ruolo dell’astrazione nelle scienze storiche, e infine la considerazione causale storica (cfr. Tre studi, p. 3). E lo facevano, in primo luogo, «non muovendo direttamente dagli scritti di Weber, ma considerandoli piuttosto come il termine ad quem di un percorso che prende le mosse dalla ravvicinata disamina di alcuni testi di Heinrich Rickert e Johannes von Kries» (ibid., p. 4). L’approccio di Massimilla era dunque rivolto alla decostruzione filologica del complesso dettato weberiano al fine di determinare la valenza specifica che le sue fonti vi giocano, e per chiarire inoltre la natura determinata della “rifunzionalizzazione” a cui le acquisizioni weberiane vanno inevitabilmente incontro nell’adattarsi agli autonomi scopi teorici di Weber. Recensioni In secondo luogo Massimilla era molto attento a rifiutare ogni tentativo di scorporare la riflessione metodologica dal suo ambito occasionale d’insorgenza ‒ ovvero quello dell’avvertimento di concreti problemi posti dalla prassi della ricerca scientifica specialistica ‒ volto adelineare a partire da essa i tratti di una Wissenschaftslehre unitaria. Massimilla ribadiva allora la necessità di considerare la riflessione metodologica weberiana ‒ secondo le stesse indicazioni di Weber ‒ come «“una specie di resoconto clinico redatto non dal medico [il logico e il teorico della conoscenza di mestiere] ma dal paziente stesso [lo storico e lo specialista di discipline contigue]”, ossia, fuor di metafora, come “un’autoriflessione sui mezzi che hanno trovato conferma nella prassi”» (ibid., p. 3). Quelle appena richiamate sono due coordinate interpretative che l’autore conserva anche nel suo nuovo lavoro, e che vengono in esso ribadite con rinnovata energia fin dalla prefazione. Il rifiuto di una «“riduzione metodologica”» (Presupposti, p. 2) e l’esigenza di una «lettura “filosofica” e non solo “metodologica” dei cosiddetti “scritti metodologici” di Weber» (ibid., p. 3) ‒ da interpretare sempre nell’«intricato reticolo dei [suoi] reali interlocutori […] le cui singole analisi vengono spesso scorporate, con 353 geniale brutalità,dal loro terreno di insorgenza e riadattate in vista di scopi teorici ultimi affatto diversi e profondamente innovativi rispetto a quelli originariamente perseguiti» (ibid.) ‒ rappresentano d’altro canto il precipitato metodologico di un’opzione teorica di fondo all’interno della quale si iscrive la proposta interpretativa di Massimilla. Un’opzione fondata sulla convinzione che la riflessione weberiana configura «l’esito consapevole e più radicale di un percorso di pensiero che va da Kant a Humboldt, da Ranke a Dilthey e che segna la fine della filosofia della storia intesa (in ogni sua forma) come versione rinnovata della vecchia metafisica» (ibid., p. 2). Se le coordinate fondamentali dell’analisi restano le medesime del libro del 2010, si sposta evidentemente il campo dell’indagine, ora convergente sul problema del “comprendere esplicativo”. Il volume è composto da quattro capitoli che provano a delimitare e circoscrivere la weberiana «“terra di mezzo” tra lo spiegare e il comprendere» (Presupposti, p. 2), indagando le intersezioni dei complessi temi metodologici weberiani con le proposte teoriche di Croce, Rickert e Jaspers, per limitarsi solo ai principali «interlocutori» presi in considerazione nel volume. Nel primo capitolo Massimilla ripercorre alcuni momenti 354 Studi jaspersiani del confronto critico fra Croce, Weber e Rickert in merito allo statuto logico delle scienze storiche. L’autore analizza le critiche weberiane alla dottrina crociana dell’intuizione esposte nella terza sezione del Roscher und Knies, nell’ambito delle quali emerge una netta presa di distanza dal tentativo di «“riduzione della storia sotto il concetto generale dell’arte” che Croce aveva teorizzato nella memoria giovanile del 1893» (ibid., p. 5). Il confronto Weber-Croce è letto sullo sfondo del lorocomune riferimento al Rickert della grande opera metodologica, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, alla quale entrambi si riferiscono nei punti decisivi della discussione. Al richiamo weberiano e rickertiano all’insufficienza di una caratterizzazione meramente intuitiva della conoscenza storica, che,in quanto tale, rinunci alla determinatezza dei concetti e alla validità dei giudizi, Croce oppone la rivendicazione del contenuto di verità dell’intuizione estetica ‒ «l’art est chose sérieuse: il est la première forme du vrai» (ibid., p. 9). Ma per Weber e Rickert ‒ che in ultima istanza condividono un fondamentale presupposto kantiano ‒ «sono “veri solo i giudizi o i concetti in quanto costituiscono le componenti di un giudizio” e “l’artista (...) non tende mai a giudizi veri”» (ibid., p. 10). Un altro tema che emerge nell’ambito del confronto critico di Weber con Croce è quello del wirklich “verstehen”, del “comprendere” realmente, che denota la preoccupazione weberiana di concepire interpretazione di valore e analisi del regresso causale come due momenti inseparabili dell’interpretazione storica. In altri termini, contro ogni tentativo di isolare il senso o il valore emergente nelle concrete formazioni storiche e di farne oggetto di una trattazione autonoma, Weber fa valere la necessità di considerare la comprensione del senso come attuantesi unicamente in virtù del riferimento alle sue condizioni materiali; la comprensione del senso è cioè comprensione di un senso costitutivamente situazionale e legato ai suoi contesti materiali di insorgenza e distensione. Nel secondo capitolo Massimilla analizza la recezione weberiana di uno degli elementi cruciali della “logica della storia” rickertiana, il concetto di “centro storico”, introdotto da Rickert già nella prima edizione delle Grenzen (1902) allo scopo di procedere, dopo aver chiarito la struttura formale dell’oggetto storico, ad una sua determinazione materiale. Il centro storico rickertiano designa un oggetto storico che prende autonoma- Recensioni mente posizione rispetto ai valori che orientano la rappresentazione storica (cfr. ibid., p. 47). Lo storico deve sempre potersi immedesimare nei valori degli esseri spirituali rappresentati per poterli comprendere (cfr. ibid., p. 54). Proprio questo passaggio ‒ da più punti di vista eccedente rispetto alla struttura complessiva delle Grenzen ‒ attira l’attenzione di Weber, il quale risulta invece critico degli sviluppi ulteriori della filosofia della cultura rickertiana. E, infatti, Weber fa riferimento al concetto rickertiano di centro storico proprio per supportare la sua convinzione che la storia consideri sempre «gli “individui valutanti” come i “portatori” reali di quei punti di vista di valore che le consentono di costruire i propri oggetti» (ibid., p. 51). Nel terzo capitolo Massimilla indaga alcune acquisizione weberiane tratte dalla Allgemeine Psychopathologie di Karl Jaspers in merito al concetto del Verstehen, che l’autore analizza soprattutto nei Soziologische Grundbegriffe. È proprio nell’ambito di queste complesse pagine di Weber e del meditato confronto con le posizioni di Jaspers che va prendendo forma il concetto weberiano di erklärendes Verstehen, di comprendere esplicativo. Nella matura formulazione weberiana il comprendere esplicativo si distingue dal comprendere “attua- 355 le” (quello per cui, ad esempio,«se qualcuno pronuncia la proposizione “2x2=4”, noi ne comprendiamo il senso») in quanto tende sempre alle «“connessioni di senso comprensibili”», nelle quali il senso attuale compreso deve sempre essere inserito (per esempio, «colui che ha pronunciato o scritto la proposizione “2x2=4”», lo ha fatto essendo «occupato in un calcolo commerciale, in una dimostrazione scientifica, in una misurazione tecnica, o in un’altra azione nella cui connessione si “inserisce” questa preposizione secondo il suo senso a noi comprensibile», ibid., p. 82). Il quarto e ultimo capitolo del testo è dedicato al complesso problema delle strategie di controllo del comprendere esplicativo, ovvero al «problema della validazione empirica» delle «ipotesi di spiegazione motivazionale» proprie della sociologia comprendente e della storiografia (ibid., p. 97). Mediante siffatte strategie Weber ritiene di poter contemperare il carattere inevitabilmente ipotetico del comprendere esplicativo, rendendo così possibile l’elaborazione di vere e proprie imputazioni causali. È pur vero però che per Weber siffatte strategie di controllo ‒ dall’esperimento mentale ancora del tutto intriso del carattere dell’ipoteticità, all’elaborazione statistica dei dati, fino all’esperimento psicologico ‒ svolgono una funzione essenziale 356 Studi jaspersiani «non tanto per confermare direttamente e in via definitiva, quanto piuttosto per smentire alcune ipotesi di spiegazione interpretativa dell’agire umano supportandone indirettamente alcune altre» (ibid., p. 122). Di particolare interesse è la disamina del confronto di Weber con le ricerche sperimentali di psicofisiologia del lavoro di Emil Kraepelin e la dettagliata analisi dello scritto weberiano Zur Psychophysik der industriellen Arbeit. Il libro di Massimilla scandaglia efficacemente il fitto reticolo di relazioni e prestiti di cui si nutre l’originalissimo pensiero weberiano. E lo fa con piena cognizione della più recente letteratura critica sul tema e confermando l’opzione teorica di fondo che da sempre orientala sua lettura di Weber e che lo spinge a riconoscere in questo grande pensatore del Novecento il «momento apicale del “nuovo storicismo”» (Tre studi, p. 93). Nota di Anton Hügli Edizione commentata dell’opera completa di Karl Jaspers Stato estate 2015 Nel mese di giugno 2014 ha avuto luogo la prima valutazione ufficiale del progetto dell’edizione tedesca dell’opera jaspersiana. I valutatori sono stati: Prof. Dr. Emil Angehrn (Basel), Prof. Dr. Reinhard Brandt (Marburg), Prof. Dr. Jean Grondin (Montreal). Il lavoro svolto è stato valutato positivamente. Nonostante le inevitabili difficoltà iniziali, legate a un progetto di così ampia dimensione, la presentazione dei diversi volumi in procinto di pubblicazione è il segno del lavoro professionale e mirato svolto durante i primi due anni. La Conferenza ministeriale per le scienze del Bund e dei Länder, federale e regionale, ha quindi, nell’ottobre 2014, autorizzato la prosecuzione del progetto. Nel 2014 l’organigramma si è ulteriormente consolidato. La responsabilità del progetto è stata assunta, oltre che dall’Akademie der Wissenschaften di Heidelberg, anche da quella di Göttingen. La sede del posto assegnato da Göttingen è stata individuata presso l’Università di Oldenburg, sotto la guida del Prof. Dr. Reinhard Schulz, con il Dr. Oliver Immel come editor. Anche a Heidelberg il team si è ulteriormente consolidato. Dopo l’uscita dal progetto del PD Dr. Rebecca Paimann, il Dr. Dominic Kaegi ad aver assunto la funzione di coordinatore, affiancato da Bernd Weidmann, come ulteriore editor. Dal gennaio 2014 come quarto editor (a tempo determinato fino al 30 giugno 2015) sta lavorando al progetto il Dr. Dirk Fonfara. Tra i suoi compiti rientra – oltre al lavoro al volume dei Grandi filosofi (il collazionamento del testo), l’accesso al lascito jaspersiano nel Deutsches Literaturarchiv (DLA). Questo ulteriore contratto da editor si è reso indispensabile, in quanto nella domanda di progetto originaria non erano stati previsti tempi per una accurata selezione e successiva sistematizzazione del lascito. 357 358 Studi jaspersiani Per poter condurre con successo l’impegnativo lavoro sul lascito, la Karl-Jaspers-Stiftung si è detta disponibile a finanziare, con propri mezzi e per un arco di tempo di tre anni, un ulteriore posto di lavoro. Questo compito verrà svolto da Georg Hartmann, che dopo la laurea in filosofia ha lavorato in una casa editrice e attualmente trascrive le epistole alla famiglia di Karl Jaspers, che si rivelano sempre più una fonte significativa per la comprensione dello sfondo dell’opera jaspersiana. Secondo il piano editoriale per la fine del 2015 dovranno uscire per i tipi della Schwabe Verlag i seguenti volumi: Karl Jaspers; Kurt Salamun (a cura di) KJG I/10 Vom Ursprung und Ziel der Geschichte Karl Jaspers; Dominic Kaegi (a cura di) KJG I/8 Schriften zur Existenzphilosophie Karl Jaspers; Bernd Weidmann (a cura di) KJG I/13 Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung Karl Jaspers; Oliver Immel (a cura di) KJG I/21 Schriften zur Universitätsidee Oliver Immel ha già iniziato i lavori sulla Psychologie der Weltanschauungen; Bernd Weidmann e Dominic Kaegi porteranno a termine il lavoro sul Nietzsche iniziato da Rebecca Paimann. Anton Hügli Basel, Juli 2015