Maria Luisa Basso, Karl Jaspers o della filosofia come amore. Con

Maria Luisa Basso, Karl Jaspers
o della filosofia come amore. Con
brani scelti, tradotti e commentati,
Liguori, Napoli 2013, pp. 250,
19,90 euro
Recensione di
Elena Alessiato
L
a prima mossa è quella
giusta. Volendo confrontarsi con il tema della Liebe e nel
tentativo di ricostruire le posizioni
e i pensieri di Karl Jaspers su questa componente fondamentale e
suggestiva dell’esperienza umana,
Maria Luisa Basso sceglie un titolo
essenziale ma insieme riassuntivo
ed evocativo: Karl Jaspers o della
filosofia come amore. Quello che
lo studio si propone, e riesce a offrire, è infatti di più che l’illustrazione della “filosofia dell’amore’ di
o secondo Karl Jaspers – opzione
e variante di titolo che non solo
avrebbe rappresentato un più facile cedimento al sentimentalismo,
ma sarebbe risultata anche riduttiva rispetto al problema. In Jaspers,
infatti, l’amore non si limita a
essere un semplice tema di riflessione isolabile dagli altri in virtù
di una determinabilità di natura
psicologica, affettiva, emozionale.
«L’amore non è mera pulsione organica, né un suo derivato; non è
bisogno psicologico di integrazione o di fusione fra gli individui;
non è tendenza all’aggregazione, che controbilancia la spinta
all’aggressività, o epifenomeno
dell’istinto di conservazione della
specie. Neppure l’amore va inteso
come una sorta di energia cosmica
che, naturalisticamente, tutto pervade; la sua collocazione precipua
è, per Jaspers, nella soggettività, in
quanto interiorità, libertà, ragione» (p. 136). Lo statuto dell’amore è esistenziale e razionale, quindi
– rispetto alla comprensione categoriale della filosofia per Jaspers
– primariamente filosofico. E filosofico in una duplice accezione:
oggettivo-ermeneutica, nel senso
che l’amore merita senza remore di
essere reso oggetto di una riflessione speculativa sistematica e argomentata, al pari di altri temi a tutta
prima più rituali, ed ermeneuticosostanziale, nel senso che l’amore è
un componente essenziale della filosofia jaspersiana perché con essa
ha in comune la matrice e le forme
in cui si articola la sua “esistenzializzazione” – brutto neologismo
che ci permettiamo per intendere
l’incarnarsi storico e reale sul terreno dell’esistenza umana di quelle
categorie concettuali.
Duplice è quindi l’intento dello studio di Basso: espositivo-ricostruttivo e insieme interpretativo.
Da un lato, cioè, l’autrice si propone di dare un ordine discorsivo
e uno svolgimento consequenziale alle meditazioni che Jaspers ha
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Studi jaspersiani
condotto sul tema dell’amore lungo pressoché tutto il suo percorso
di filosofo; dall’altro, ella avanza
una proposta di lettura che coinvolge le categorie portanti della
riflessione filosofica jaspersiana,
la cui connessione, illustrata dallo stesso Jaspers e ripetutamente
esplorata dalla critica, viene qui
messa in evidenza a partire dall’elemento che di quelle categorie rappresenterebbe il termine, di volta
in volta, di giunzione, analogia,
mediazione: l’amore, appunto. La
ricostruzione procede in sei capitoli, a cui si aggiunge una breve ma
densa conclusione. Completano
l’affresco alcuni dei testi più significativi dedicati da Jaspers al tema
dell’amore, tra cui quello tratto da
Von der Wahrheit (1947), ampiamente commentato dall’autrice.
Non è facile rintracciare una
definizione univoca e chiara di
cosa sia l’amore. Può servire iniziare a procedere per via negativa,
mettendo al riparo l’amore sia da
«un discorso di tipo psicologico – come sarebbe accaduto più
tardi a Freud» sia da una ipostatizzazione «in una metafisica oggettivante, come nel caso di Agostino» (p. 94). Tuttavia occorre
poi spingersi oltre. La difficoltà è
aggirata da Basso nella misura in
cui ella procede per contestualizzazioni e accostamenti analogici.
Ossia mostrando, testi e citazioni
alla mano – ampiamente con-
divisi e disseminati in note che
risultano a volte fin troppo lunghe – come l’amore svolga in Jaspers una funzione determinante
proprio per innescare e realizzare
quelle dinamiche nelle quali si
palesa e concretizza l’aspirazione
per lui propriamente filosofica.
L’amore è quindi quell’atteggiamento di apertura e libertà che
permette all’uomo di definirsi
e viversi come “esistenza” nella
misura in cui viene incontro non
solo alla sua esigenza di “conoscersi”, ma ben di più al suo bisogno di “comprendersi”, di essere
sospinto alle fonti originarie del
suo essere. Cosa che avviene –
così costituendo la realtà propria
dell’uomo – solo nello scoprirsi
di quest’ultimo come essere-inrelazione: relazione con sé, con
l’altra esistenza e con l’assoluto
altro, la Trascendenza. Su ciascuna di queste tre direttrici opera
l’amore, che viene così a rappresentarsi, osserva Basso, come
quella combinazione di «energia
latente» e «dura disciplina» che
sostiene e alimenta «quella libertà
che coincide con la scelta di ciò
che siamo» (p. 95). Salvo poi –
ricalcando l’approccio di pensiero, e la terminologia, tipiche
di Jaspers – arrivare a presentare
l’amore «come un abbracciante
(anzi, l’abbracciante che include
tutti gli abbraccianti che noi siamo) e come l’origine, sia di ciò
Recensioni
che siamo, che del filosofare, in
cui diventiamo ciò che siamo»
(96). Ove l’accostamento rivela tanto la portata costitutiva e
onnicomprensiva dell’amore per
l’esistenza dell’uomo («noi siamo amore», osserva l’autrice, p.
96) quanto la sua pertinenza rispetto all’arduo cammino della
filosofia. Proprio su questo cammino, intrapreso da tutti coloro
che vogliono avventurarsi alla
ricerca del Sé autentico, si sperimentano le ansie della solitudine,
le difficoltà dell’andare incontro
agli altri, le asperità della lotta,
le incomprensioni e difficoltà incontrate nel tentativo di costruire
con l’altro un dialogo aperto e
comunicativo, l’impotenza rivelata dalla sofferenza, le sofferenze
date dalla perdita e dalla morte, la
disperazione del silenzio di fronte
al dolore dell’uomo, al patimento
del giusto. In ciascuna di queste
situazioni (situazioni-limite), che
contrassegnano l’esistenza dell’essere-uomo l’amore è presente
e opera – o almeno sussiste per
l’uomo la possibilità che così sia.
«L’amore è sostanza stessa
dell’esistenza, ma non essendo né
anti-logico né illogico, bensì affine
al lógos, e avendo con esso familiarità e dimestichezza, favorisce la
chiarificazione razionale dell’esistenza, promuovendone la realizzazione» (p. 87). Perché può essere vero che l’amore non è un atto
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di volontà, qualcosa che si vuole e
s’impone a se stessi. Ma se non si
ama, se ne porta su di sé soltanto
la colpa (p. 105). È l’amore per il
Vero, dunque, che spinge fuori di
sé e a ricercare quella comunione
comunicativa che è unione dei
distinti: «“Esser se stesso ed essere
vero non è nient’altro che essere
incondizionatamente in comunicazione”» (p. 75). È l’amore che
spinge a credere, a ricercare l’unità, a costituire legami e a costituirsi-in-legame, così da spezzare il
circolo demoniaco che la psicologia del «rinchiuso» (p. 59) traccia
colpevolmente intorno a sé e alle
proprie inespresse possibilità esistenziali. È l’amore che alimenta
quella tensione che rende piena
l’esistenza e vivifica quella lotta
instancabile e prodigiosa finalizzata non alla potenza e al controllo
ma al conseguimento della trasparenza di sé a sé e all’altro. Non è
l’amore che toglie la solitudine, risparmia il dolore, rimuove la colpa
e la morte. Tuttavia è l’amore che
ci dona a noi stessi in un percorso
di disciplina e affidamento che in
ogni situazione, in ogni esperienza, sospinge oltre sé e oltre l’opacità del mondo verso la ricerca di
un senso onniabbracciante, di una
verità latrice di valore, di una unità «“che è tutto”» (p. 83). Proprio
a questa altezza si manifesta allora
l’affinità, sulla quale Basso molto
insiste, tra ragione e amore, tanto
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Studi jaspersiani
che, afferma, «si può parlare, per
un verso, di una ragione animata, sorretta, guidata dall’amore, e
per l’altro, di un amore pensante
o razionale (vernünftig), che trova
nel filosofare il suo compimento»
(p. 83). Entrambe, infatti, tanto
l’amore quanto la ragione, sono
presentate da Jaspers nei termini
di una «facoltà dell’incondizionato», di entrambe si sottolinea la
connaturata dinamicità orientata
a contrastare, e superare, la dispersione insita nella vita umana per
mezzo del disvelamento di connessioni, legami, dell’unitarietà
originaria del tutto.
Nel percorso, a sua volta, di
disvelamento della natura dell’amore, Jaspers non è certo solo.
Ha avuto maestri illustri, antichi
e moderni, ai quali si è espressamente richiamato. Con accuratezza Basso ricostruisce l’insieme
delle eredità, delle corrispondenze
e altresì delle diversità che la meditazione jaspersiana sull’amore
presenta rispetto agli autori che
Jaspers ha voluto adottare come
ispiratori o interlocutori. Ne risulta un mosaico ricco e variegato che è agevole e pertinente
schizzare con le parole riassuntive
dell’autrice medesima: «Abbiamo
cercato di distinguere e porre in
risalto tutti i fili che compongono
la complessa tessitura della jaspersiana meditazione sull’amore: l’istanza incondizionata della comu-
nicazione – “fonte di affidabilità e
vincolo che ci impegna” – che integra e supera l’imperativo morale
kantiano; la penetrante psicologia
kierkegaardiana del “rinchiuso”; la
ragione come medium della comunicazione, e la sua affinità con
l’amore; l’eros platonico come
entusiasmo e “divina mania”, e
il tema platonico e neoplatonico
dell’Uno, termine ultimo dell’ascesa amorosa» (p. 135).
Integrazione potrebbe essere
la parola chiave scelta per esprimere il nucleo della Liebe secondo Jaspers: integrazione tra le diverse dimensioni dell’esistenza in
nome di un impulso unificante
e di una ispirazione unitaria cui
l’amore dà forma e slancio, così
da poter ricostituire «l’integralità
della persona umana» (p. 118),
posto che «l’amore è, in definitiva, la forza attrattiva esercitata
dall’Uno sul nostro essere» (p.
106). E poi, integrazione tra le
diverse forme d’amore, ciascuna
corrispondente a una dimensione dell’essere dell’uomo. È
quello che, nell’idea di Jaspers,
si realizza (si può e si dovrebbe
realizzare) nell’amore di coppia,
«quasi prodigio nel prodigio» (p.
107). Infine, integrazione tra «il
desiderio “finito”» e «quello “infinito”» (p. 128) – desiderio di
infinito. L’amore esprime, infatti, un impulso di relazionalità e
trascendimento, che raggiunge la
Recensioni
sua forma massima nel rivolgersi
a ciò che trascendente ogni trascendibile, l’estrema Trascendenza, l’Uno, come plotinianamente Jaspers arriva a chiamarlo, o,
«come Plotino lo chiama anche:
Dio» (p. 140).
L’ultimo capitolo e la conclusione del libro di Basso affrontano il tema dell’amore in prospettiva religiosa, fatte salve le premesse e le specificità del discorso
di Jaspers sulla fede: fede filosofica, fede priva di un Dio-persona,
fede rivolta a un Dio che è cifra
e non amore. Lo sbocco infinito
dell’amore permette all’autrice
di mettere in evidenza la matrice platonica e, in misura ancora
più incisiva, neo-platonica, della
concezione jaspersiana della Trascendenza, nella quale, tuttavia,
e pur nelle decisive differenze,
rimane forte l’impronta della religione biblica (tra le tracce più
significative, la figura di Giobbe,
che assume nello Jaspers maturo,
in dialogo critico con la storicità,
una valenza fortemente simbolica). Al contempo, proprio la caratterizzazione della Trascendenza jaspersiana diventa l’occasione
per misurare la combinazione di
vicinanza e di distanza delle posizioni del filosofo rispetto alla
teologia cristiana. A questo riguardo si avverte forse nel libro
di Basso la mancanza di un confronto ancora più approfondito
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con uno dei pensatori, e sistematizzatori, imprescindibili per la
comprensione del pensiero filosofico cristiano, ossia Agostino.
Stimolante è tuttavia lo sforzo di
problematizzazione che l’autrice
intraprende nelle ultime pagine, ove sottolinea l’eccezionalità
di un Dio che è né esistenza né
personalità, né amore né libertà.
Su questo sfondo ella s’interroga
sulla contraddittorietà o meno di
una divinità che non ama né ha
bisogno di essere amata, di una
Trascendenza «nascosta, lontana,
estranea» (p. 141), di un Dio,
infine che «è, e questo basta».
Forse che l’intera meditazione di
Jaspers sull’amore – meditazione
filosofica come amore – arrivata
al suo culmine ultimo rinnega
l’oggetto stesso del suo meditare,
facendo uscire l’amore dall’orizzonte di ciò che, in ultima istanza, davvero importa? Le domande, alcune delle quali opportunamente esplicitate da Basso nei
paragrafi finali della trattazione,
rimangono aperte e, per ogni lettore, depositarie di vivide sollecitazioni. Un indizio su quale sia il
posto dell’amore anche in questo
scenario è tuttavia Jaspers stesso
a consegnarcelo. Commentandolo, Basso ricorda quel passo
della Piccola Scuola del pensiero
filosofico in cui Jaspers osserva:
«La speranza non può sollevarci
al di sopra del tempo, mentre ci
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Studi jaspersiani
riescono la fede e l’amore; o, per
meglio dire, ci riesce la fede, se fa
corpo unico con il nostro amore.
[E poi cita Jaspers come segue,
NdA] “Una fede come professione di un determinato contenuto
diviene dubbia; la speranza urta
in certi limiti nel mondo, per cui
naufraga; solo l’amore sostiene la
nostra esistenza. Nel nostro amore sperimentiamo quell’unica
certezza che ci colma e ci appaga.
All’amore soltanto si offre in pienezza la verità» (p. 149).
Karl Jaspers – Hannah Arendt, Verità e umanità. Discorsi per il conferimento del Premio per la pace dei
Librai tedeschi 1958, a cura di A.
Bragantini, Mimesis, Milano-Udine 2014 , pp. 72, 5,50 euro
Recensione di
Chiara Pasqualin
Q
uesto piccolo ma prezioso volume offre la traduzione italiana di due discorsi, tenuti rispettivamente da Hannah
Arendt e Karl Jaspers in occasione del conferimento del Premio
per la pace dei Librai tedeschi. Jaspers fu insignito di questa onorificenza nel 1958 soprattutto in
virtù del libro pubblicato pochi
mesi prima La bomba atomica e
il futuro dell’uomo, in cui egli ri-
flette su quale via di salvezza sia
ancora percorribile per l’umanità
di fronte alla duplice minaccia
del totalitarismo e della guerra
atomica. I due discorsi presentati nel volume sono preceduti
da un’accurata introduzione del
traduttore, Attilio Bragantini, il
quale ricostruisce il contesto storico, filosofico e, non da ultimo,
biografico-esistenziale in cui si
inseriscono i testi.
Secondo la consuetudine del
Premio, chi riceve l’onorificenza,
prima di pronunciare un discorso di accettazione, è oggetto di
un pubblico encomio. Nel nostro caso il ruolo di Laudator fu
attribuito alla filosofa Hannah
Arendt, allieva e amica di Jaspers,
che tuttavia accettò l’incarico
non senza esitazione. Come ben
rilevato nell’introduzione del
volume curato da Bragantini,
uno dei motivi della perplessità
di Arendt era dovuto al timore
che il suo discorso di lode a Jaspers potesse apparire una presa
di posizione sfavorevole all’altro
suo maestro, Martin Heidegger,
nei cui confronti, nonostante un
rapporto ambivalente, non era
tuttavia cessata la stima intellettuale. Trattandosi infatti di lodare l’impegno pubblico di Jaspers
e di far risaltare il valore positivo
del concetto di pubblicità (Öffentlichkeit) nel suo pensiero, come
evitare l’implicito confronto con
Heidegger, che invece identifica-
Recensioni
va questa nozione con il livellamento del Man? Sebbene nel suo
discorso Arendt non faccia alcun
riferimento esplicito ad Heidegger, la pensatrice non pare riuscire a svincolarsi dall’uso indiretto
di questo schema oppositivo, che
tuttavia non rende completamente giustizia alla riflessione di
Heidegger, dove quantomeno la
coppia autenticità-inautenticità
non è semplicemente sovrapponibile a quella isolamento-pluralità. Del resto, su un piano pratico, emerge come ancora pesi, agli
occhi di Arendt, l’adesione heideggeriana al nazionalsocialismo,
cui si contrappongono invece la
resistenza interiore di Jaspers e la
sua costante «presenza al proprio
tempo» (ivi, p. 69). Per concludere sul punto, si ha però l’impressione che Heidegger resti, tanto
nel discorso di Jaspers quanto in
quello di Arendt, una presenza
decisiva, anche se sofferta, un
interlocutore desiderato ed insieme respinto: non bisogna infatti
dimenticare come la Lettera sull’‘umanismo’ del 1946 proponga
un’originaria riflessione sull’humanitas dell’uomo, che è proprio
il tema discusso da Arendt e Jaspers in questa occasione.
Nella laudatio Arendt invita
soprattutto a soffermarsi sulla seguente questione: che cosa rende
“politica” la filosofia di Jaspers?
È possibile rispondere alla questione riconoscendo che essa è
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politica in un senso fondamentale: si rivolge a tutti gli individui,
educandoli a divenire umani attraverso lo sviluppo della ragione, vista come potenzialità insita
in ognuno ed inverantesi nella
dimensione comune. Questa essenziale politicità del pensiero
jaspersiano è esemplificabile per
mezzo di figure socratiche e kantiane, che costituiscono quell’eredità comune a cui si rifanno tanto il pensiero del maestro quanto
quello dell’allieva. In primo luogo, ci pare infatti che le immagini socratiche del tafano e della
levatrice e, sul versante kantiano,
il motto dell’illuminismo sapere
aude, aiutino a decifrare la metaforica del rischiaramento, che costituisce secondo Arendt il punto
focale dell’intera opera di Jaspers.
In secondo luogo, sia l’immagine
del regno degli spiriti dialoganti, quale emerge nella conclusione dell’Apologia, sia la pratica
kantiana dell’uso pubblico della
ragione e del «modo di pensare
ampio», ci introducono ad un
secondo motivo della politicità
intrinseca al pensiero jaspersiano,
ovvero al fatto che esso realizza in
sé ­­­­–­e stimola in altri ­– la volontà
di una comunicazione illimitata.
Venendo al rischiaramento,
vale a dire il primo degli aspetti richiamati, la filosofia è politica perché dà consiglio, non
tanto perché offre direttamente
una progettualità concreta, ma
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Studi jaspersiani
perché, con il suo portato chiarificante, risveglia in sé e negli
altri una consapevolezza sempre
più ampia. Per tale via, ossia con
questo suo promuovere chiarezza, la filosofia giunge ad incidere
sul modo di pensare degli uomini
– governanti e governati – preparando con ciò, indirettamente, le
condizioni per le loro azioni politiche concrete. La filosofia opera
nel senso dell’educazione all’uso
autonomo della ragione ed in ciò
adempie un compito attuale ed
insieme perenne.
Quanto invece al secondo
aspetto, relativo alla realizzazione
ed alla promozione della comunicazione, Jaspers partecipa, con
il suo filosofare, alla «comunità degli esseri ragionevoli» ampliandola ed accompagnando su
questa via ciascuno di noi. Tale
comunità, descritta ne La bomba
atomica, non è un’organizzazione concreta, ma una comunità
invisibile formata da tutti coloro
che praticano la comunicazione
autentica in virtù della ragione.
Essa rappresenta quindi un elemento sovra-politico che agisce
latentemente nelle organizzazioni
mondane guidandole verso la realizzazione del bene comune. La
«comunità degli esseri ragionevoli» viene interpretata da Arendt
come lo spazio dell’humanitas,
uno spazio che Jaspers seppe
mantenere in vita anche nei tem-
pi bui del nazismo, attraverso la
comunicazione con i grandi filosofi e la centrale relazione esistenziale con la moglie. Per riprendere un’espressione di Jaspers nello
scritto Ragione e antiragione, questo spazio dell’humanitas «è come
l’acqua, l’aria e la luce» (Ragione e
antiragione nel nostro tempo, trad.
it. di G. Saccomanno, SE, Milano 1999, p. 57), l’elemento in
cui può svilupparsi ogni formazione mondana e politica.
Il discorso con cui Jaspers accetta l’onorificenza riprende le
argomentazioni condotte nel testo La bomba atomica e ne offre
una sintesi chiara e concisa, che
vale come chiave di accesso sia a
quel testo particolare quanto, più
in generale, alla riflessione politica di Jaspers, intesa non solo
come parte o fase di un percorso
filosofico, ma come naturale sviluppo ed estensione della filosofia
dell’esistenza o della ragione.
Al centro dello scritto sta la
questione della pace, per il fatto
che essa viene vista come l’unica
condizione che possa definitivamente scongiurare la minaccia di
una guerra atomica e la possibilità concreta dell’autodistruzione
dell’umanità. Nel suo discorso
Jaspers non intende però offrire
un disegno di politica mondiale
per instaurare la pace, non propone cioè programmi concreti,
ma vuole sondare i presupposti
Recensioni
esistenziali e politici a partire dai
quali una pace universale tra i popoli può svilupparsi. Nel richiamare l’attenzione sui presupposti
segue lo stesso modo di procedere di Kant nel suo scritto Per la
pace perpetua che rappresenta la
fonte principale del suo discorso
– così come del libro La bomba
atomica. Nel proporre la sua riflessione, Jaspers opera in direzione della consueta redistribuzione
dei compiti dell’intelletto e della
ragione. Prendendo le distanze
da un pensiero esclusivamente
intellettuale-finalistico, che vorrebbe progettare i mezzi in vista
della pace-scopo, il filosofo ricorre invece al lavoro della ragione
al fine di preparare le condizioni
a partire dalle quali la pace potrà
svilupparsi quale conseguenza.
Tre sono i presupposti di tale
pace: la pace interiore del singolo
uomo e del singolo stato, la libertà
e la verità. Per quanto concerne la
pace dell’individuo, tale presupposto corrisponde a ciò che nel
libro La bomba atomica Jaspers
aveva presentato come l’elemento
sovra-politico che è condizione
della pace universale: la conversione radicale richiesta al singolo,
una trasformazione che coincide
con la realizzazione della ragione.
Realizzare la ragione significa volere una comunicazione autentica,
che come tale è pacifica nel senso
che abdica alla pretesa violenta di
343
prevaricazione e assoggettamento
dell’altro per promuoverne invece
la sua consapevole maturazione.
Tale comunicazione esistenziale,
portata avanti dal singolo, deve
estendersi fino a coinvolgere tutti
gli appartenenti alla comunità statale, i quali dovrebbero partecipare
ad una pacifica discussione pubblica, capace di evitare posizioni
esclusivistiche e formare un volere
comune. Nella sua spinta alla comunicazione, la ragione è pertanto l’elemento che deve penetrare
tutte le organizzazioni dello stato, garantendo l’unità di istanze
differenti e confermando con ciò
quella natura di collegamento che
soprattutto in Della verità Jaspers
aveva accordato alla ragione.
Il secondo presupposto per la
pace universale è rappresentato
dalla libertà, che si presenta come
la realizzazione di tre momenti: la
libertà esistenziale, la libertà politica e la libertà di ciascuno stato
nei confronti dell’altro. Secondo
le riflessioni di Filosofia e Della
verità, i cui esiti si dimostrano
impliciti al breve discorso, la libertà esistenziale, essenzialmente
inconoscibile, si presenta come
la capacità di realizzare le proprie possibilità in base a se stessi
e nella coscienza di essere donati
a questo compito dalla trascendenza. Tale libertà esistenziale
non coincide con il mero arbitrio
di fare ciò che si vuole e perciò
344
Studi jaspersiani
non può in alcun modo dirsi realizzata per il fatto che l’epoca del
consumismo, cui Jaspers allude
nel suo discorso, può consentire
un nuovo livello di benessere per
l’esserci, per il mero Dasein. A
differenza della libertà esistenziale, la libertà politica è un fenomeno conoscibile ed è la condizione
in cui, diversamente dallo stato
dittatoriale, i governati, detentori di pari diritti, partecipano responsabilmente alla vita politica
attraverso elezioni libere, uguali
e segrete. Parlando della libertà
politica Jaspers si riferisce all’idea
di democrazia ed alla «forma di
governo repubblicana» nel senso
kantiano, che infatti costituiva il
primo «articolo» per la pace perpetua. Infine, Jaspers menziona
tra le condizioni per la pace universale la «libertà esterna» dello
stato (K. Jaspers-H. Arendt, Verità e umanità, cit., p. 38), riferendosi con ciò all’idea kantiana
di una confederazione mondiale
di stati liberi. La condizione di
questi ultimi non sarebbe quella di stati satelliti sottomessi ad
una forza totalitaria esterna, ma
quella di stati che accettano una
limitazione del loro potere sovrano e rinunciano ai nazionalismi a
vantaggio del bene dell’umanità.
Infine quale terzo presupposto, Jaspers si richiama alla verità.
Senza poter restituire la ricchezza
e la polisemia di questo concetto,
del resto indagato diffusamen-
te in Von der Wahrheit, Jaspers
punta l’attenzione, prima che sul
contenuto stesso della verità, sul
sincero contegno che deve improntare il pensare e l’agire degli
uomini: non che il contenuto
della verità sia indifferente al fine
della pace, ma esso appare secondario rispetto alla verità intesa
come pratica di esistenza, come
approccio aperto e comunicativo
ad altri, nel quale soltanto viene
ad emergere il contenuto veritiero, l’istanza che sempre promuove la dignità umana. È sulla scorta di questo elemento che Jaspers
si avvia a concludere il suo discorso affermando che «la falsità
è l’autentico male che distrugge
la pace» (ivi, p. 55).
Karl Jaspers, La cura della mente.
Filosofia della psicopatologia, a cura
di G. Stanghellini, Castelvecchi,
Roma 2014, pp. 60, 7,50 euro.
Recensione di
Marco Deodati
L
a nuova edizione italiana
di Die phänomenologische
Forschungsrichtung in der Psychopathologie (1912), a cura di Giovanni Stanghellini, assume un
valore particolare nel panorama
scientifico del nostro paese, tanto
in riferimento alle ricerche in am-
Recensioni
bito psichiatrico, quanto in relazione a questioni filosofiche e, più
in particolare, fenomenologiche.
Di questo testo esisteva già una
traduzione italiana, inserita con il
titolo L’indirizzo fenomenologico
in psicopatologia all’interno di un
volume, edito a cura di Stefania
Achella e Anna Donise, che raccoglieva vari testi di Jaspers dedicati a questioni di psicopatologia
(cfr. K. Jaspers, Scritti psicopatologici, Guida, Napoli 2004). Tale
volume è una ricca antologia di
testi scelti, attraverso cui ricostruire, anche grazie ai due ben documentati saggi delle curatrici, alcune fondamentali linee di ricerca
del giovane Jaspers in campo psicopatologico – uno strumento di
grande utilità per gli studiosi del
filosofo di Oldenburg, siano essi
psichiatri, psicologi o filosofi. La
nuova edizione dell’articolo di Jaspers – con la nuova traduzione
dal tedesco di Nicola Zippel –
sembra avere invece un orizzonte
e una finalità differenti. Il testo
viene pubblicato infatti come saggio autonomo, che proprio in virtù delle sue caratteristiche – grande densità concettuale a fronte di
una mole contenuta – può presentarsi come una sorta di “manifesto”, o per lo meno come un
prezioso punto di partenza per
ripensare alcune questioni al centro del dibattito contemporaneo,
che investono lo statuto e il metodo della psichiatria, il rapporto
345
tra l’approccio cosiddetto “in terza persona” (tipico delle scienze
sperimentali, tra cui la neurologia) e quello cosiddetto “in prima
persona” (proprio degli indirizzi
di ispirazione fenomenologica), la
dignità della persona anche in
caso di soggettività abnormi (o,
come direbbe Husserl, anomale),
il ruolo della filosofia nella ricerca
empirica. Anche il titolo scelto
per la nuova edizione italiana –
La cura della mente – contribuisce
a liberare tutto il potenziale teorico presente nel testo, al di là della
ricerca jaspersiana in senso stretto
e al di là di qualsiasi specialismo
settoriale. Si tratta insomma di un
saggio che può parlare a tutti –
per lo meno a tutti coloro che ancora si interrogano su come impostare in modo fecondo il
rapporto tra scienze della natura e
scienze dello spirito, o addirittura
su come delineare nuovi tipi di
sapere caratterizzati dalla complessità e dalla pluralità metodologica. Nella sua Prefazione, il curatore mette a fuoco proprio
questo aspetto, sottolineando
come un testo del genere rappresenti in effetti l’occasione per impostare un nuovo approccio. Il
momento storico-concettuale che
stiamo vivendo, suggerisce Stanghellini, è per vari aspetti molto
simile a quello in cui si muoveva
Jaspers: «La storia si ripete» (p. 6).
In gioco è sempre la possibilità di
pensare il mentale, lo psichico
346
Studi jaspersiani
nella specificità e nella complessità delle sue dimensioni, sottraendosi quindi alle pretese riduzionistiche proprie di molti settori
della ricerca scientifica (ad esempio delle neuroscienze), in cui è
ancora forte una certa eredità positivistica: «Giunti allo stremo gli
sforzi per fondare la Psichiatria su
una Nosografia sprezzantemente
ateoretica, in realtà arida e acefala,
molti si aspettano che la staffetta
torni nuovamente nelle mani della Psicopatologia e ne liberi la corsa» (ibidem). La psichiatria ha bisogno di una psicopatologia,
intesa come indagine sui vissuti
che propriamente caratterizzano
la mente abnorme: questi sono
contraddistinti da peculiari strutture semantiche che debbono essere il più possibile chiarite. Jaspers sottolinea fin da subito che
nella ricerca psichiatrica non ci si
può limitare a considerare solo i
sintomi oggettivi, cioè tutti quei
processi che in vario modo sono
accessibili a partire da una prospettiva “in terza persona”, per
mezzo dei sensi, di specifici metodi di misurazione, del pensiero
logico in generale. Oltre a una
psicologia oggettiva si dà infatti
una psicologia soggettiva, basata
cioè sulla necessità di fare i conti
anche con tutta quella dimensione appunto “soggettiva”, “interiore”, che costituisce una parte fondamentale dell’esperienza del
malato: si tratta di un ambito ac-
cessibile attraverso l’immedesimazione o la condivisione dei vissuti (Miterleben), vale a dire
attraverso l’esperienza dell’empatia (Einfühlung). In questo approccio emerge in nuce quello che
sarà uno dei maggiori convincimenti di Jaspers, vale a dire l’idea
che tra medico e paziente debba
istituirsi una relazione peculiare
basata sulla “comunicazione esistenziale”. Ma non solo. L’introduzione dell’empatia permette a
Jaspers di riallacciarsi a tutta una
tradizione importante della psicologia tedesca e, soprattutto, alla
fenomenologia, che proprio in
quegli anni va affermandosi come
una delle correnti più influenti e
innovative del panorama filosofico europeo. Se lo psichiatra è
chiamato a comprendere i disturbi psichici attraverso la condivisione dei vissuti del paziente, la
ricerca psicopatologica, per raggiungere risultati solidi e sistematici, sottratti all’arbitrio delle suggestioni personali, dovrà basarsi
su un’indagine fenomenologica
previa che tematizzi in modo diretto i differenti fenomeni della
coscienza. Da questo punto di vista, il confronto con la fenomenologia rappresenta sicuramente
il nodo teoretico principale del
saggio. Da un lato Jaspers assume
una prospettiva dichiaratamente
fenomenologica, richiamandosi
esplicitamente a Husserl, mentre
dall’altro rielabora inevitabilmen-
Recensioni
te alcune fondamentali istanze del
metodo husserliano, abbozzando
già alcuni motivi che definiranno
in seguito la sua riflessione matura. Il filosofo di Oldenburg intende la fenomenologia – in modo
del tutto analogo a Husserl –
come un sapere che prescinde da
qualsiasi costruzione teorica, per
affidarsi esclusivamente alla descrizione di ciò che si dà nel vissuto psichico o mentale: «Bisogna
rendersi presente (sich vergegenwärtigen) solo ciò che esiste
realmente nella coscienza. Tutto
ciò che non è realmente dato nella coscienza non esiste. Tutte le
teorie tramandate, le costruzioni
psicologiche o le mitologie materialiste riguardanti i processi cerebrali vanno tenute in disparte» (p.
25). Qui è da sottolineare – come
ci invita a fare il traduttore in
un’apposita nota – che Jaspers riprende Husserl anche nella terminologia tecnica, laddove parla del
vedere fenomenologico come di
un atto di presentificazione (Vergegenwärtigung). Al contempo si
può anche apprezzare come già in
queste parole, apparentemente
così simili a quelle usate da Husserl nelle sue opere, si manifestino
già delle differenze radicali rispetto all’impostazione fenomenologica “classica”. Identificando la
datità fenomenologica con ciò
che realmente esiste (wirkliches
Dasein) nella nostra vita psichica,
Jaspers si allontana decisamente
347
dall’approccio trascendentale di
Husserl, lasciando così intendere
che la sua indagine si basa sul presupposto di una mente/psiche vista come dimensione d’essere “interna”, come tale distinta e in
certo modo complementare rispetto a quella “esterna” della materia. Per un verso sembra quindi
che la sua proposta rientri ancora
nell’ambito di una psicologia di
derivazione brentaniana, basata
sulla fondamentale distinzione tra
fenomeni psichici e fenomeni fisici. Per altro verso, tuttavia, il
modo in cui Jaspers intende questa dimensione psichica (das Seelische) assume tratti peculiari, che
di fatto sanciscono una sorta di
irriducibilità della sua prospettiva
agli altri indirizzi della ricerca psicologica del tempo. Un esempio
in tal senso è il concetto di “soggettivo”: indicando quella dimensione dei moti dell’animo e dei
processi interiori che anima ogni
singola psiche umana e che per
questo si sottrae originariamente
alla dimensione dell’oggettività,
tale nozione sembra già manifestare dei richiami al “soggettivo”
kierkegaardiano. Questa peculiare declinazione del “soggettivo”
non implica però in nessun modo
il riferimento a un’esperienza interiore immediata, inesprimibile
o addirittura ineffabile, che rimane sul piano del semplice vissuto.
Anche per Jaspers, così come per
Husserl, le datità fenomenologi-
348
Studi jaspersiani
che sono dotate di un’evidenza e
di una chiarezza non limitate al
singolo individuo, ma verificabili
e accertabili in modo intersoggettivo: la psicopatologia fenomenologica «non si arresta al vissuto
capace di comprensione, ma vuole arrivare a un sapere comunicabile, dimostrabile, discutibile» (p.
25). L’obiettivo della fenomenologia, come sapere descrittivo,
deve essere quello di fare luce sulle molteplici forme della vita psichica, ovvero sulle sue «irriducibili qualità mentali» (p. 42), senza
avere la tentazione di ricondurre
tale pluralità originaria a uno o
più elementi ultimi secondo una
legalità causale. Il fenomenologo,
come sostiene Jaspers con un’efficace analogia, lavora sui vissuti in
modo analogo a come l’istologo
opera sui tessuti. Si tratta di un’analogia che richiama la celebre
immagine di Fink secondo cui la
ricerca di Husserl è una “gigantesca vivisezione della coscienza”.
L’esigenza di un sapere rigoroso e
dimostrabile non può in ogni
caso ignorare i limiti intrinseci
alla comprensione dell’altro, soprattutto in presenza di soggetti
abnormi. L’esperienza del Miterleben garantisce una certa comprensione dei soggetti con disturbi psichici, attraverso l’analisi dei
vissuti e delle loro variazioni, dei
moti espressivi, delle risposte fornite a domande ben congegnate,
addirittura delle autodescrizoni
dei pazienti. Ma si danno anche
fenomeni che appaiono come totalmente estranei e inassimilabili
alle modalità di comprensione
appena elencate. Bisogna accettare, secondo Jaspers, che ci sono
vissuti totalmente inaccessibili. In
questo caso ci si può servire solo
di immagini e analogie, che non
possono avere lo stesso grado di
rigore dell’analisi ordinaria. È
proprio l’esperienza di questo limite a rimandare da un lato al
compito infinito della comunicazione esistenziale tra medico e paziente, dall’altro alla necessità del
pluralismo metodologico. In un
certo senso, per concludere, il testo di Jaspers trova un innegabile
motivo di attualità nell’esigenza
– propria di una parte significativa della ricerca contemporanea –
di ripensare in modo ancora più
articolato e integrato questo pluralismo, affinché non rimanga
una semplice giustapposizione di
saperi eterogenei. Esso ripropone
ancora una volta la sfida di dare
conto dei fenomeni nella loro
complessità e ricchezza, senza cadere in teorie semplicistiche e costruzioni astratte, ovvero senza
indulgere – giusto per rimanere a
un certo naturalismo piuttosto
rozzo, ancora molto in voga in
ampi settori della ricerca empirica
– a deleterie «mitologie del cervello» (p. 45).
Recensioni
Karl Jaspers, La fede filosofica a
confronto con la rivelazione cristiana, Introduzione e cura di R.
Garaventa, Orthotes, Napoli-Salerno 2014, p. 146, 15 euro
Recensione di
Nunzio Bombaci
L
a fede filosofica a confronto
con la rivelazione cristiana
(Der philosophische Glaube angesichts der christlichen Offenbarung,
Verlag Helbing & Lichtenhahn,
Basel-Stuttgart 1960) costituisce
l’edizione italiana di un saggio
jaspersiano compreso nel volume
collettaneo Philosophie und christliche Existenz, pubblicato nel
1960 in onore di Heinrich Barth,
fratello del più celebre Karl e
anch’egli fautore della teologia
dialettica.
Come osserva Roberto Garaventa nell’Introduzione, il confronto tra le due fedi «trova […]
fondamento in quella sorta di “filosofia prima” – da Jaspers sviluppata nella sua “logica filosofica”
e riproposta qui (come denkende
Vergewisserung = «accertamento
pensante») nei suoi tratti essenziali – che mira a far luce sui molteplici “modi” (aspetti, dimensioni)
in cui si dà (si presenta, si manifesta) quella Realtà (Wirklichkeit)
che tutto abbraccia e circoscrive»
(p. 8), ovvero l’Onniabbraccian-
349
te. Proprio in quanto il confronto stesso si situa esplicitamente
all’interno di tale Vergewisserung,
il lettore può avvertire la sua rilevanza sul piano teoretico.
Le due fedi sono radicalmente e irremissibilmente differenti,
eppure la fede filosofica non desiste dall’interpellare la cristiana
affinché «renda ragione» dei propri fondamenti e contenuti, non
sottraendosi a quella comunicazione che per l’autore promuove
una convivenza tra esseri umani
improntata al rispetto reciproco.
Per Jaspers, la comunicazione
tra esistenze informate da fedi diverse è quanto mai importante al
tempo in cui scrive, poichéi problemi di ciascuno «sono diventati
i problemi dell’umanità» (p. 8).
Per la sopravvivenza di quest’ultima, «è indispensabile trovare il
terreno su cui tutti gli uomini si
possano incontrare a prescindere
dalla figura storica della loro tradizione di fede» (p. 8). Il cristianesimo sconcerta la fede filosofica nell’affermare, con peculiare
vigore, di fondarsi su una rivelazione del divino, al contempo
definitiva e universale. Questa
rivelazione storica – tale da configurare una «storia sacra» inalveata
nella storia tout court – culminerebbe nell’evento Gesù, il Cristo, ovvero l’incarnazione di Dio
stesso, come se la Trascendenza
potesse tradire il proprio essere
350
Studi jaspersiani
Deus absconditus comunicandosi
direttamente all’uomo nell’immanente. Gesù Cristo, anzi, è per
il cristianesimo l’incarnazione
esclusiva della Trascendenza. Secondo Jaspers,nel rivolgere la sua
attenzione alla «realtà concreta»
di Gesù, il cristianosi preclude
il rapporto autentico con la Trascendenza.Per la fede filosofica,
quindi, tale “realtà” – se intesa,
alla luce della rivelazione cristiana quale «segno-più che segno»
della Trascendenza – costituisce
un mero idolo.
Per converso, la fede filosofica preserva l’inaccessibilità della
Trascendenza per l’uomo, al quale
essa “parla” soltanto in modo indiretto, nel linguaggio plurivoco
delle molteplici cifre, le quali sono
ricomprese integralmente nell’immanenza, e peraltro in conflitto
tra loro. Essa ammette di non potere comprendere adeguatamente,
«dall’esterno», la fede cristiana e
riconduce a cifre della Trascendenza l’evento Cristo come i
dogmi ai quali il cristiano crede.
«L’oscillare» (das Schweben) stesso delle cifre dinanzi alla ragione
umana rende legittima la pluralità
delle loro interpretazioni.
Al carattere eteronomo della fede cristiana, che si fonda
sull’obbedienza al principio di
autorità (la quale è una chiesa
ritenuta detentrice del depositum fidei), Jaspers contrappone
l’autonomia di quella filosofica,
mediante la quale l’esistenza conferisce una peculiare impronta a
se stessa. Der philosophische Glaube non avanza alcuna pretesa di
esclusività, definitività oppure
universalità.Tuttavia, tale fede
vale incondizionatamente per
l’esistenza che la professa e pone
in rilievo il carattere prospettico,
precario di ogni verità attinta da
ciascunaesistenza, una verità che è
radicalmente altra rispetto a quella – universale e oggettiva – conseguita dalla scienza in virtù del
suo procedere metodico nonché
alla verità “unica” a cui la teologia
ritiene di prestare i propri servigi.
Si è accennato al rispetto che
per Jaspers informa l’autentica convivenza umana. La stessa
“lotta” che egli ingaggia in questo
scritto con la fede cristiana è improntata a un profondo rispetto.
Nelle dense pagine del volume
l’autore enuclea le diverse ragioni di tale rispetto, che tuttavia è
legato all’osservanza, da parte del
cristiano, di alcune condizioni.
Nel filosofo quest’attitudine si
coniuga con un vivo interesse per
il cristianesimo, rivolto non tanto
alle asserzioni dogmatiche della
fides quae quanto agli effetti che
la fides qua esplica nella vita dei
fedeli autentici e, in prospettiva
più ampia, nel mondo. Questi
uomini riescono a comunicare
le ragioni del loro credere in un
Recensioni
pensiero e in un’opera il cui valore «dà a pensare» anche a colui
che aderisce alla fede filosofica. Il
cristiano “tocca” il filosofo soprattutto in virtù di quel pensiero e di
quell’opera. Il filosofo è “toccato”,
ad esempio, dal pensiero di Dante
e dall’opera di Francesco d’Assisi.
L’uno e l’altra costituiscono per
lui cifre di particolare rilievo.
Ancora, i testi sacri del cristianesimo, come quelli di altre
fedi rivelate, suscitano il massimo
interesse in chi professa la fede
filosofica. Invero, la Bibbia costituisce per questa una straordinaria summa di cifre.
Non va sottaciuto che nel
saggio di Jaspers la differenza tra
fede filosofica e fede cristiana è
radicalizzata da un confronto che
assume quale espressione paradigmatica della seconda la teologia riformata, e segnatamente la
teologica dialettica di Karl Barth.
Quest’ultima non riconosce alcun
valore salvifico al rapporto con il
divino instaurato dall’uomo a cui
la rivelazione cristiana rimanga
inaccessibile. Tra tutte le declinazioni della teologia del Novecento, quindi, essa è probabilmente
la più refrattaria al confronto con
qualsivoglia fede filosofica. Per la
teologia dialettica, l’uomo si salva esclusivamente in quanto presta fede alla Parola del Dio che si
rivela in Gesù Cristo. Per il Karl
Barth di “Zwischenden Zeiten”,
351
che Jaspers cita di frequente, non
vi è alcun «punto di inserzione»
(Ankünpftungspunkt) della grazia
nella natura umana. Tra l’altro,
per il filosofo, la teologia di Barth
– e, in una prospettiva più generale, la teologia cristiana – si avvale in modo improprio delle risorse della dialettica nel tentativo
di conferire una certa plausibilità
alle affermazioni dogmatiche della fede. Per Jaspers, questo connubio tra dialettica e dogmatismo non può che essere avversato
dalla fede filosofica.
Lo scritto jaspersiano, letto
a partire dal contesto culturale
odierno, in cui la frammentazione tra “fedi” diverse è quanto mai
evidente, può sollevare quesiti inediti con riguardo al tenore del rapporto tra la fede filosofica e la cristiana, anche perché non di rado
l’autocomprensione di quest’ultima non viene più formulata nei
termini in cui viene espressa dal
filosofo. Ai nostri giorni, talora in
chi professa la fede cristiana «l’obbedienza a una chiesa» – che per
Jaspers è il principium individuationis di essa – può regredire sullo
sfondo delle “ragioni” del credere.
Rispetto ai tempi in cui Jaspers
scrive il saggio in parola, la fede
cristiana ha sperimentato un ulteriore declino. Ai nostri giorni, in
Europa molte persone, pur educate al cristianesimo, affermano
di riconoscere in Gesù un uomo
352
Studi jaspersiani
di eccezione, ma solo un uomo, il
cui messaggio assume comunque
un valore etico incomparabile.
Per tali persone, in fondo, Gesù è
solo «il maestro del Vangelo», nel
senso inteso da Kant nel saggio La
religione nei limiti della semplice
ragione. Pertanto, essi professano una forma di fede filosofica.
Quest’ultima sembra guadagnare
sempre più terreno rispetto alla
fede cristiana. In modi diversi, la
fede filosofica può coinvolgere l’esistenza di non pochi nostri contemporanei e, se si autocomprende in modo adeguato, può e deve
comunicare con la fede cristiana,
prestando così attenzione all’auspicio formulato cinquant’anni or
sono da Karl Jaspers.
Edoardo Massimilla, Presupposti e
percorsi del comprendere esplicativo. Max Weber e i suoi interlocutori, Liguori, Napoli 2015, pp.
130, 11,99 euro
Recensione di
Giovanni Morrone
L
’ultimo libro di Edoardo
Massimilla (Presupposti e
percorsi del comprendere esplicativo.
Max Weber e i suoi interlocutori,
Liguori, Napoli, 2015) conclude
un percorso di ricerca sulla meto-
dologia weberiana che è alla base
anche del suo precedente lavoro
(Tre studi su Weber. Tra Rickert e
von Kries, Liguori, Napoli, 2010;
trad. tedesca, Max Weber zwischen
Heinrich Rickert und Johannes
von Kries. Drei Studien, “Collegium Hermeneuticum”, Band
13, Böhlau, Köln-Weimar-Wien,
2012). I Tre studi muovevano
dall’esigenza di determinare tre
questioni caratterizzanti la “prima
fase” (1903-1909) della riflessione “metodologica” weberiana: la
costituzione dell’oggetto storico,
il ruolo dell’astrazione nelle scienze storiche, e infine la considerazione causale storica (cfr. Tre studi, p. 3). E lo facevano, in primo
luogo, «non muovendo direttamente dagli scritti di Weber, ma
considerandoli piuttosto come il
termine ad quem di un percorso
che prende le mosse dalla ravvicinata disamina di alcuni testi di
Heinrich Rickert e Johannes von
Kries» (ibid., p. 4). L’approccio di
Massimilla era dunque rivolto alla
decostruzione filologica del complesso dettato weberiano al fine di
determinare la valenza specifica
che le sue fonti vi giocano, e per
chiarire inoltre la natura determinata della “rifunzionalizzazione”
a cui le acquisizioni weberiane
vanno inevitabilmente incontro
nell’adattarsi agli autonomi scopi
teorici di Weber.
Recensioni
In secondo luogo Massimilla
era molto attento a rifiutare ogni
tentativo di scorporare la riflessione metodologica dal suo ambito
occasionale d’insorgenza ‒ ovvero
quello dell’avvertimento di concreti problemi posti dalla prassi
della ricerca scientifica specialistica ‒ volto adelineare a partire da
essa i tratti di una Wissenschaftslehre unitaria. Massimilla ribadiva
allora la necessità di considerare la
riflessione metodologica weberiana ‒ secondo le stesse indicazioni di Weber ‒ come «“una specie
di resoconto clinico redatto non
dal medico [il logico e il teorico
della conoscenza di mestiere] ma
dal paziente stesso [lo storico e
lo specialista di discipline contigue]”, ossia, fuor di metafora,
come “un’autoriflessione sui mezzi che hanno trovato conferma
nella prassi”» (ibid., p. 3).
Quelle appena richiamate
sono due coordinate interpretative che l’autore conserva anche nel
suo nuovo lavoro, e che vengono
in esso ribadite con rinnovata
energia fin dalla prefazione. Il rifiuto di una «“riduzione metodologica”» (Presupposti, p. 2) e l’esigenza di una «lettura “filosofica”
e non solo “metodologica” dei
cosiddetti “scritti metodologici”
di Weber» (ibid., p. 3) ‒ da interpretare sempre nell’«intricato
reticolo dei [suoi] reali interlocutori […] le cui singole analisi
vengono spesso scorporate, con
353
geniale brutalità,dal loro terreno
di insorgenza e riadattate in vista
di scopi teorici ultimi affatto diversi e profondamente innovativi
rispetto a quelli originariamente
perseguiti» (ibid.) ‒ rappresentano d’altro canto il precipitato
metodologico di un’opzione teorica di fondo all’interno della
quale si iscrive la proposta interpretativa di Massimilla. Un’opzione fondata sulla convinzione
che la riflessione weberiana configura «l’esito consapevole e più
radicale di un percorso di pensiero che va da Kant a Humboldt,
da Ranke a Dilthey e che segna
la fine della filosofia della storia
intesa (in ogni sua forma) come
versione rinnovata della vecchia
metafisica» (ibid., p. 2).
Se le coordinate fondamentali
dell’analisi restano le medesime
del libro del 2010, si sposta evidentemente il campo dell’indagine, ora convergente sul problema
del “comprendere esplicativo”. Il
volume è composto da quattro
capitoli che provano a delimitare
e circoscrivere la weberiana «“terra
di mezzo” tra lo spiegare e il comprendere» (Presupposti, p. 2), indagando le intersezioni dei complessi temi metodologici weberiani
con le proposte teoriche di Croce,
Rickert e Jaspers, per limitarsi solo
ai principali «interlocutori» presi
in considerazione nel volume.
Nel primo capitolo Massimilla ripercorre alcuni momenti
354
Studi jaspersiani
del confronto critico fra Croce,
Weber e Rickert in merito allo
statuto logico delle scienze storiche. L’autore analizza le critiche
weberiane alla dottrina crociana
dell’intuizione esposte nella terza sezione del Roscher und Knies,
nell’ambito delle quali emerge
una netta presa di distanza dal
tentativo di «“riduzione della
storia sotto il concetto generale
dell’arte” che Croce aveva teorizzato nella memoria giovanile del
1893» (ibid., p. 5). Il confronto
Weber-Croce è letto sullo sfondo
del lorocomune riferimento al
Rickert della grande opera metodologica, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung,
alla quale entrambi si riferiscono
nei punti decisivi della discussione. Al richiamo weberiano e
rickertiano all’insufficienza di
una caratterizzazione meramente
intuitiva della conoscenza storica,
che,in quanto tale, rinunci alla
determinatezza dei concetti e alla
validità dei giudizi, Croce oppone
la rivendicazione del contenuto
di verità dell’intuizione estetica ‒ «l’art est chose sérieuse: il est
la première forme du vrai» (ibid.,
p. 9). Ma per Weber e Rickert
‒ che in ultima istanza condividono un fondamentale presupposto kantiano ‒ «sono “veri solo
i giudizi o i concetti in quanto
costituiscono le componenti di
un giudizio” e “l’artista (...) non
tende mai a giudizi veri”» (ibid.,
p. 10). Un altro tema che emerge
nell’ambito del confronto critico di Weber con Croce è quello
del wirklich “verstehen”, del “comprendere” realmente, che denota
la preoccupazione weberiana di
concepire interpretazione di valore e analisi del regresso causale
come due momenti inseparabili
dell’interpretazione storica. In altri termini, contro ogni tentativo
di isolare il senso o il valore emergente nelle concrete formazioni
storiche e di farne oggetto di una
trattazione autonoma, Weber fa
valere la necessità di considerare
la comprensione del senso come
attuantesi unicamente in virtù
del riferimento alle sue condizioni materiali; la comprensione del
senso è cioè comprensione di un
senso costitutivamente situazionale e legato ai suoi contesti materiali di insorgenza e distensione.
Nel secondo capitolo Massimilla analizza la recezione weberiana di uno degli elementi
cruciali della “logica della storia” rickertiana, il concetto di
“centro storico”, introdotto da
Rickert già nella prima edizione
delle Grenzen (1902) allo scopo
di procedere, dopo aver chiarito
la struttura formale dell’oggetto
storico, ad una sua determinazione materiale. Il centro storico
rickertiano designa un oggetto
storico che prende autonoma-
Recensioni
mente posizione rispetto ai valori
che orientano la rappresentazione storica (cfr. ibid., p. 47). Lo
storico deve sempre potersi immedesimare nei valori degli esseri
spirituali rappresentati per poterli comprendere (cfr. ibid., p. 54).
Proprio questo passaggio ‒ da più
punti di vista eccedente rispetto
alla struttura complessiva delle
Grenzen ‒ attira l’attenzione di
Weber, il quale risulta invece critico degli sviluppi ulteriori della
filosofia della cultura rickertiana.
E, infatti, Weber fa riferimento
al concetto rickertiano di centro
storico proprio per supportare
la sua convinzione che la storia
consideri sempre «gli “individui
valutanti” come i “portatori” reali di quei punti di vista di valore
che le consentono di costruire i
propri oggetti» (ibid., p. 51).
Nel terzo capitolo Massimilla
indaga alcune acquisizione weberiane tratte dalla Allgemeine Psychopathologie di Karl Jaspers in
merito al concetto del Verstehen,
che l’autore analizza soprattutto
nei Soziologische Grundbegriffe.
È proprio nell’ambito di queste complesse pagine di Weber
e del meditato confronto con le
posizioni di Jaspers che va prendendo forma il concetto weberiano di erklärendes Verstehen, di
comprendere esplicativo. Nella
matura formulazione weberiana
il comprendere esplicativo si distingue dal comprendere “attua-
355
le” (quello per cui, ad esempio,«se
qualcuno pronuncia la proposizione “2x2=4”, noi ne comprendiamo il senso») in quanto
tende sempre alle «“connessioni di
senso comprensibili”», nelle quali il senso attuale compreso deve
sempre essere inserito (per esempio, «colui che ha pronunciato o
scritto la proposizione “2x2=4”»,
lo ha fatto essendo «occupato in
un calcolo commerciale, in una
dimostrazione scientifica, in una
misurazione tecnica, o in un’altra azione nella cui connessione
si “inserisce” questa preposizione
secondo il suo senso a noi comprensibile», ibid., p. 82).
Il quarto e ultimo capitolo del
testo è dedicato al complesso problema delle strategie di controllo
del comprendere esplicativo, ovvero al «problema della validazione
empirica» delle «ipotesi di spiegazione motivazionale» proprie della
sociologia comprendente e della
storiografia (ibid., p. 97). Mediante siffatte strategie Weber ritiene
di poter contemperare il carattere
inevitabilmente ipotetico del comprendere esplicativo, rendendo
così possibile l’elaborazione di vere
e proprie imputazioni causali. È
pur vero però che per Weber siffatte strategie di controllo ‒ dall’esperimento mentale ancora del tutto
intriso del carattere dell’ipoteticità,
all’elaborazione statistica dei dati,
fino all’esperimento psicologico ‒
svolgono una funzione essenziale
356
Studi jaspersiani
«non tanto per confermare direttamente e in via definitiva, quanto
piuttosto per smentire alcune ipotesi di spiegazione interpretativa
dell’agire umano supportandone
indirettamente alcune altre» (ibid.,
p. 122). Di particolare interesse è
la disamina del confronto di Weber con le ricerche sperimentali di
psicofisiologia del lavoro di Emil
Kraepelin e la dettagliata analisi
dello scritto weberiano Zur Psychophysik der industriellen Arbeit.
Il libro di Massimilla scandaglia efficacemente il fitto reticolo
di relazioni e prestiti di cui si nutre l’originalissimo pensiero weberiano. E lo fa con piena cognizione della più recente letteratura
critica sul tema e confermando
l’opzione teorica di fondo che da
sempre orientala sua lettura di
Weber e che lo spinge a riconoscere in questo grande pensatore
del Novecento il «momento apicale del “nuovo storicismo”» (Tre
studi, p. 93).
Nota di Anton Hügli
Edizione commentata dell’opera completa di Karl Jaspers
Stato estate 2015
Nel mese di giugno 2014 ha avuto luogo la prima valutazione ufficiale del progetto dell’edizione tedesca dell’opera jaspersiana. I valutatori sono stati: Prof. Dr. Emil Angehrn (Basel), Prof. Dr. Reinhard
Brandt (Marburg), Prof. Dr. Jean Grondin (Montreal). Il lavoro svolto
è stato valutato positivamente. Nonostante le inevitabili difficoltà iniziali, legate a un progetto di così ampia dimensione, la presentazione
dei diversi volumi in procinto di pubblicazione è il segno del lavoro
professionale e mirato svolto durante i primi due anni. La Conferenza
ministeriale per le scienze del Bund e dei Länder, federale e regionale,
ha quindi, nell’ottobre 2014, autorizzato la prosecuzione del progetto.
Nel 2014 l’organigramma si è ulteriormente consolidato. La responsabilità del progetto è stata assunta, oltre che dall’Akademie der
Wissenschaften di Heidelberg, anche da quella di Göttingen. La sede
del posto assegnato da Göttingen è stata individuata presso l’Università di Oldenburg, sotto la guida del Prof. Dr. Reinhard Schulz, con
il Dr. Oliver Immel come editor. Anche a Heidelberg il team si è ulteriormente consolidato. Dopo l’uscita dal progetto del PD Dr. Rebecca Paimann, il Dr. Dominic Kaegi ad aver assunto la funzione di
coordinatore, affiancato da Bernd Weidmann, come ulteriore editor.
Dal gennaio 2014 come quarto editor (a tempo determinato fino al 30
giugno 2015) sta lavorando al progetto il Dr. Dirk Fonfara. Tra i suoi
compiti rientra – oltre al lavoro al volume dei Grandi filosofi (il collazionamento del testo), l’accesso al lascito jaspersiano nel Deutsches
Literaturarchiv (DLA). Questo ulteriore contratto da editor si è reso
indispensabile, in quanto nella domanda di progetto originaria non
erano stati previsti tempi per una accurata selezione e successiva sistematizzazione del lascito.
357
358
Studi jaspersiani
Per poter condurre con successo l’impegnativo lavoro sul lascito, la
Karl-Jaspers-Stiftung si è detta disponibile a finanziare, con propri mezzi
e per un arco di tempo di tre anni, un ulteriore posto di lavoro. Questo
compito verrà svolto da Georg Hartmann, che dopo la laurea in filosofia ha lavorato in una casa editrice e attualmente trascrive le epistole alla
famiglia di Karl Jaspers, che si rivelano sempre più una fonte significativa per la comprensione dello sfondo dell’opera jaspersiana.
Secondo il piano editoriale per la fine del 2015 dovranno uscire
per i tipi della Schwabe Verlag i seguenti volumi:
Karl Jaspers; Kurt Salamun (a cura di)
KJG I/10 Vom Ursprung und Ziel der Geschichte
Karl Jaspers; Dominic Kaegi (a cura di)
KJG I/8 Schriften zur Existenzphilosophie
Karl Jaspers; Bernd Weidmann (a cura di)
KJG I/13 Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung
Karl Jaspers; Oliver Immel (a cura di)
KJG I/21 Schriften zur Universitätsidee
Oliver Immel ha già iniziato i lavori sulla Psychologie der Weltanschauungen; Bernd Weidmann e Dominic Kaegi porteranno a termine
il lavoro sul Nietzsche iniziato da Rebecca Paimann.
Anton Hügli
Basel, Juli 2015