Scarica il PDF - Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri

Un gruppo di scicnziali di Scalile ha pubblicalo su «Celi» unaricercasu Dna e Rna. Risultalo?
Quell'incrocio con Sapiens, avvenuto migliaia di anni fa, pesa mollo più di quello che pensiamo
Il signor Neanderthal
che condiziona le nostre vite
Sono spariti dalla Terra, ma i loro geni sono determinanti
Ci difendono dai virus, forse ci predispongono all'infarto
di GIUSEPPE REMUZZI
Neanderthal in Europa erano davvero i nostri antenati? 0 erano una specie del tutto diversa che poi si è estinta per essere sostituita dall'Homo Sapiens? Se ne è discusso per anni. Ma
con gli strumenti dell'archeologia classica
rispondere a questa domanda era piuttosto difficile. Da quando gli scienziati sanno estrarre il Dna da resti fossili di uomini
vissuti migliaia di anni fa però molte cose
sono cambiate. Abbiamo imparato («la
Lettura» #214, 3 gennaio 2016) che europei e asiatici hanno un po' di Dna di Neanderthal, poco a dire il vero — dall'i al 3
percento — ma c'è. Come si spiega? L'Homo Sapiens si è incrociato con Neanderthal almeno in tre circostanze, dev'essere
successo tra 40 mila e 80 mila anni fa.
Provvidenziale perché da Neanderthal abbiamo preso geni capaci di difenderci da
batteri e virus che l'Homo Sapiens non
aveva mai incontrato prima, e poi certi altri geni, quelli che proteggono la cute dal
perdere acqua per esempio, altri che consentivano ai nostri antenati di avere più
peli per proteggersi dal freddo e persino il
gene che consente oggi a chi ha la pelle
bianca di sintetizzare comunque abbastanza vitamina D.
I
Ma c'è il rovescio della medaglia. Da Neanderthal abbiamo ereditato anche la predisposizione al diabete, si tratta per lo più
di geni che prevengono la degradazione
dei grassi: a Neanderthal servivano per difendersi dal freddo e come fonte di energia, a noi oggi proprio non servono. Ma se
Neanderthal è sparito quasi 40 mila anni
fa, possibile che quei geni abbiano ancora
a che vedere col nostro modo di vivere? hi
un certo senso sì.
Un lavoro appena pubblicato su «Celi»
dimostra che sequenze di Dna di Neanderthal continuano a influenzare il modo in
cui ciascuno di noi accende e spegne i
propri geni. Per studiare questo fenomeno non basta aver accesso al Dna, serve anche l'Rna che però si degrada rapidamente
ed estrarlo dai fossili è proprio impossibi-
le. Ali'Rna (una molecola polimerica implicata nei meccanismi di decodifica e regolazione dei geni) si può arrivare dal Dna
dal momento che le sequenze di ciascun
gene vengono copiate pari pari nell'Rna.
Dato che nell'uomo moderno c'è un po' di
Dna di Neanderthal questo consentirebbe
di risalire all'Rna e perfino di quantificarlo. Partendo da questi presupposti, agli
scienziati di Seattle — quelli del lavoro di
«Celi» — è venuta una bellissima idea:
perché non confrontare i geni di Neanderthal, quando ci sono, con i nostri e da lì risalire alle corrispondenti sequenze dell'Rna? Detto fatto, per più di duemila geni
diversi hanno comparato e quantificato i
corrispondenti Rna in chi era portatore sia
della versione Neanderthal che di quella
moderna di un determinato gene. Per farlo hanno preso in esame diversi tessuti, 52
a essere precisi, un lavoro enorme e hanno
studiato coppie di alleli, con l'obiettivo di
confrontare i geni di Neanderthal con
quelli umani (alleli sono le due versioni di
ciascun gene, che vengono uno dalla madre e uno dal padre, occupano la stessa
posizione su cromosomi omologhi e controllano la manifestazione dello stesso carattere). Con grandissima sorpresa e anche una certa emozione hanno visto che
l'espressione dei geni di Neanderthal in
molti altri tessuti non è poi così diversa
dall'uomo, è invece bassa nel cervello e nei
testicoli. Dipende probabilmente dal fatto
che in questi due tessuti nel corso dell'evoluzione i sistemi di regolazione dell'espressione dei geni tendevano ad escludere le varianti Neanderthal favorendo invece quelle dell'uomo moderno e questo
cominciava a succedere da quando i nostri
antenati si sono separati formalmente da
Neanderthal (deve essere successo circa
700 mila anni fa).
Un altro contributo interessante di questo studio però è che certe varianti di Neanderthal, per quanto nel cervello dell'uomo moderno siano poco rappresentate,
restano e hanno un certo ruolo perché
producono un Rna anomalo che formerà
una proteina difettosa. Fra questi geni c'è
GIUSEPPE REMUZZI
NTRK2 che regola la sopravvivenza e la
maturazione dei neuroni e persino la formazione di sinapsi. È un gene cruciale per
la funzione del sistema nervoso al punto
che mutazioni 0 polimorfismi di questo
gene sono stati associati a una grande varietà di disordini neuropsichiatrici e neurologici, la depressione per esempio, le
difficoltà nel parlare e nello sviluppare un
linguaggio sofisticato, l'autismo, certe
malattie ossessivo-compulsive, l'Alzheimer, l'anoressia nervosa e persino certi tumori del cervello. Dallo studio di «Celi»
viene fuori che attraverso NTRK2, quel
tanto — 0 meglio quel poco — di Neanderthal che c'è in noi condizioni il nostro
stato di salute (perlomeno mentale) 0 il rischio di ammalarci e perfino certi nostri
comportamenti. Per aggiungere complessità a complessità va anche detto che molte delle funzioni di NTRK2 dipendono a
loro volta da altri geni, ma di questi ultimi
in Neanderthal non c'è traccia. Come se
quelle regioni del Dna si fossero sviluppate dopo la separazione dell'uomo da Neanderthal.
Un altro caso di grande interesse viene
dall'analisi del gene ADAMTSL3. Qui siamo di fronte a un fenomeno che è al tempo stesso sorprendente ed emblematico.
La variante Neanderthal di questo gene —
che fra l'altro influenza anche l'altezza di
un individuo — riduce il rischio di schizofrenia e si capisce: Neanderthal e ominidi
quasi certamente non conoscevano questa malattia. Viene da pensare (ed è quasi
certamente così) che i geni che conferiscono suscettibilità alla schizofrenia siano
geni dell'uomo moderno. È probabilmente lo scotto che nel corso dell'evoluzione
abbiamo pagato per aver acquisito le varianti genetiche che ci hanno consentito
di imparare a parlare e di vincere sfide cognitive molto più complesse di quelle a
cui erano sottoposti i Neanderthal.
Ma quante sono in tutto le varianti di
Neanderthal capaci di condizionare in un
certo senso il nostro aspetto, il nostro modo di essere, le nostre emozioni e poi la
nostra salute e il rischio di malattie? Dav-
vero tante, quasi 800, che si esprimono
però — questo è stato il contributo più
originale del lavoro di «Celi» — in modo
molto diverso nei diversi tessuti; insomma
il livello di ibridizzazione fra le sequenze
genetiche di Neanderthal e le nostre non è
uguale dappertutto. Ci sono due geni, per
esempio, gli scienziati li hanno chiamati
rispettivamente TLRi e SLC15A4, che contribuiscono attraverso la sintesi delle corrispondenti proteine alla cosiddetta immunità innata, quella che ci conferisce la
capacità di resistere all'attacco di batteri e
virus. Ebbene, la variante Neanderthal di
questi geni produce molto più Rna della
variante dell'uomo moderno. Così i Neanderthal hanno aiutato gli uomini che venivano dall'Africa a sopravvivere nell'Europa
preistorica dove bisognava sapersi difendere non solo dal freddo ma anche dall'attacco di patogeni mai incontrati prima.
Quello che è rimasto del Dna di Neanderthal ci aiuta ancora oggi, peccato che
quelle stesse sequenze di Dna che ci proteggono dalle malattie infettive ci hanno
reso più suscettibili a quelle autoimmuni.
Il «Lupus eritematoso sistemico» e tante
altre malattie del sistema immune non ci
La ricerca
Il 23 febbraio è stato
pubblicato su «Celi» un
articolo dal titolo Impacts of
Neanderthal-lntrogressed
Sequences on the Landscape
of Human Gene Expression, a
cura degli scienziati Rajiv C.
McCoy, Jon Wakefield e
Joshua M. Akey. Lo studio
dimostra come sequenze di
Dna e Rna proprie dell'uomo
di Neanderthal continuino a
influenzare i nostri geni.
Secondo gli scienziati, infatti,
alcune di queste sequenze
sopravvivono nell'uomo
moderno grazie a un
incrocio con l'Homo sapiens,
avvenuto in almeno tre
occasioni, tra 40 mila e 80
mila anni fa. Per esempio
una recente scoperta mostra
come gli alleli del
Neanderthal siano associati
con una serie di tratti clinici,
tra cui la depressione e
l'ipercoagulazione
Bibliografia
Uno studio di notevole
rilievo su questo argomento
è quello firmato da Svante
Pààbo L'uomo di Neanderthal.
Alla ricerca dei genomi perduti
(traduzione di Daniele A.
Gewurz, Einaudi, 2014).
Saggi di diversi autori sono
raccolti nel volume La lunga
storia di Neanderthal, a cura
di Fiorenzo Facchini e Maria
Giovanna Belcastro (Jaca
Book, 2009). Da segnalare
anche il libro di Giorgio
Manzi /( grande racconto
dell'evoluzione umana
(il Mulino, 2013)
GIUSEPPE REMUZZI
sarebbero se i nostri antenati non avessero mescolato i loro geni con Neanderthal.
Insomma, i Neanderthal sono spariti ma
quello che resta del loro Dna influenza ancora oggi nel bene e nel male il nostro modo di vivere. Senza i geni di Neanderthal
forse oggi non ci sarebbero infarto del
cuore e ictus del cervello — allora una coagulazione vivace serviva a chiudere in fretta le ferite così da non morire dissanguati
— a noi oggi quei geni sono solo d'impiccio. Ma se siamo come siamo e ancora di
più se siamo arrivati fin qui è un po' grazie
anche ai geni di Neanderthal.
ILLUSTRAZIONE
DI FRANCESCA CAPELLINI
GIUSEPPE REMUZZI