lezione-20-9-084b - corso B liceo Urbani

Su che cosa si fondano, e che rapporto hanno le idee con gli oggetti della conoscenza
sensibile?
La risposta a questa domanda costituisce la cosiddetta ontologia platonica. Il testo fondativo di questo
aspetto del pensiero platonico è senza dubbio il celebre "mito della caverna" del libro VII de La
Repubblica. In esso, il mondo sensibile è dato come immagine evanescente e imperfetta del mondo
delle idee, inteso invece come "mondo vero" e fondamento di tutto ciò che è. Platone stesso fornisce
l'interpretazione dell'allegoria: lo schiavo che viene liberato dalla caverna rappresenta l'anima, che si
libera dai vincoli corporei mediante la conoscenza. Le cose del mondo esterno rappresentano le idee,
mentre gli oggetti nella caverna (e le immagini di essi proiettate sulla parete) non sono che le loro
copie imperfette. Il sole, che permette di riconoscere l'aspetto vero della realtà, è simbolo dell'idea
del bene, l'idea suprema in vista di cui l'intero mondo delle idee è costituito e al quale essa conferisce
la sua unità.
Una conferma di tale impostazione ontologica del reale è data nel mito narrato nel dialogo Fedro,
attraverso l'immagine della faticosa salita dell'anima al mondo iperuranio delle idee, così descritte:
«essenze incolori, informi e intangibili, contemplabili solo dall'intelletto (...) essenze che sono
scaturigine della vera scienza».
L'ontologia platonica si presenta dunque come "dualistica", comprensiva cioè di due piani
concettuali, quello delle cose (gli enti) e quello delle idee, tra i quali tuttavia esiste una differenza
ontologica, cioè incolmabile e costitutiva della loro stessa natura. L'unico rapporto possibile tra il
piano delle cose e quello delle idee è quello "mimetico": ogni realtà sensibile (ente) ha il suo modello
(eidos) nel mondo intelligibile. L'unico "salto" possibile tra i due livelli è quello che può compiere
l'anima, elevandosi attraverso la conoscenza dall'esistenza materiale a quella intellettuale.Platone si
rifà alla concezione orfica pitagoriga dell'anima ove infatti la stessa e scissa in due parti, la prima
mortale che muore insieme al corpo e la seconda immortale che, secondo Pitagora si reincarna in altri
corpi, ma secondo Platone contempla le idee nella loro perfezione prima di ridiscendere
"intrappolata" in un altro corpo
Ontologia e dialettica
Come conciliare la differenza tra mondo sensibile e intelligibile e tuttavia la loro corrispondenza?
Come partecipano tra loro i due piani della realtà? A queste domande è chiamata a rispondere la
dialettica.
Il problema è legato storicamente alla presenza nell'Accademia di Aristotele, durante gli anni della
tarda maturità platonica. È infatti presumibile che da un certo momento la critica aristotelica
all'"ontologia della differenza" abbia costretto il vecchio maestro a rivedere criticamente le sue
originali concezioni in funzione di un maggior "realismo" logico della teoria delle idee. In sostanza,
la domanda è: se il mondo delle idee e quello empirico si contrappongono - essere e non-essere - che
senso ha porre l'idea come causa della realtà apparente? Non sarebbe più coerente concludere che
esiste solo il mondo delle idee, riducendo il mondo delle cose a pura illusione?
La prima soluzione che Platone aveva cercato a questa aporia era stata la teoria della partecipazione
(mèthexis): le cose particolari parteciperebbero dell'idea corrispondente. In una seconda fase, il
filosofo aveva proposto la teoria dell'imitazione (mimesis), secondo la quale le cose sono imitazioni
della loro idea. Ma entrambe le risposte mantenevano aperte molte e complesse contraddizioni di
carattere logico.
In una terza fase, Platone mette in discussione una delle basi parmenidee della sua ontologia, quella
della immobilità dell'essere: il mondo delle idee assume l'aspetto di un sistema complesso, in cui
trovano posto i concetti di diversità e molteplicità. Più che di una contrapposizione tra idea e realtà,
entra in gioco il principio della divisione (diairesis) del mondo intelligibile, che consente di
collegare dialetticamente ogni realtà empirica al suo principio sommo. Ciascuna idea si articola con
quelle ad essa subordinate (più particolari) e sovraordinate (più generali), secondo regole dialettiche
di somiglianza e comunanza (generi, specie). In questa ipotesi teorica entra in gioco la possibilità
dell'errore: esso consiste nella determinazione di connessioni arbitrarie tra generi e specie. Inoltre,
viene profondamente modificato il concetto stesso di "non-essere": esso non è più il "nulla", ma viene
a costituirsi come il "diverso", un'altra modalità dell'essere. La diairesis non elimina, naturalmente, il
carattere trascendente delle idee, ma avvicina maggiormente il metodo dialettico alle possibilità
conoscitive del metodo scientifico.
Nel Sofista Platone colloca 5 generi sommi (essere, identico, diverso, stasi e movimento) a cui tutte le
idee possono essere subordinate, e il conciliare unità, molteplicità, staticità e movimento è detto
rapporto di comunanza (koinonìa)
Un problema piuttosto grande che s’incontra studiando gli ultimi dialoghi di Platone (Parmenide,
Sofista, Teeteto) è la definizione di dialettica che Platone non da mai. Nella Repubblica Platone ne
parla come il metodo più efficace per raggiungere la verità. Nel Fedro si trova che la dialettica è un
“processo di unificazione e moltiplicazione”: partendo cioè da un’analisi di certi fenomeni, si tratta
di unificarli sotto un unico genere. All’opposto la dialettica si occupa anche di dividere un genere in
tutte le specie che comprende sotto di sé. Possiamo forse dire che l’Idea è di fatto una unità del
molteplice, che racchiude ed assume in sé la caratteristica principale propria di alcuni esseri (basta
pensare all’idea del bello che unifica tutte le varie cose belle).
Nel Parmenide Platone dà una dimostrazione di come lavora la dialettica all’interno del discorso: si
tratta di trovare tutte le risposte possibili ad una domanda; poi, con un procedimento falsificatorio, si
procederà nel confutare ad una ad una le risposte date, sulla base di certi principi; la risposta che non
è falsificata dal procedimento è meno confutabile delle altre e dunque è più vera della altre (mai vera
in senso assoluto). Si potrebbe obiettare a questo punto che tale applicazione della dialettica non
corrisponde alla pseudo-definizione datane da Platone nel Fedro. Tale obiezione si rafforza tenendo
conto che nel Filebo, Platone mescola ancora una volta le carte in tavola. Nel dialogo infatti Socrate è
impegnato a definire che cosa sia il piacere. Anzitutto i piaceri sono tanti oppure è solo uno? Filebo
non sa rispondere, ed allora Socrate pronuncia la famosa frase secondo cui i molti sono uno e l’uno è
molti.
Che cosa significa quest’asserzione? Semplicemente ribadisce un principio proprio delle Idee, ossia
quella di essere uniche e perfette, eppure, nel contempo, di riflettersi nella molteplicità del sensibile.
La metodologia più coerente dell’applicazione della dialettica è quella esposta nel Sofista: si tratta del
metodo dicotomico. All’interno di una domanda si tratta di isolare il concetto che si vuole definire;
nell’attribuire questo concetto ad una classe più ampia nella quale siamo certi sia compreso il
concetto medesimo; quindi nel suddividere tale classe in due parti, più piccole, per vedere in quale
delle due sottoclassi è ancora compreso il concetto da trovare, e così via, suddividendo finché non
troviamo più nulla da dividere e, dunque, la definizione trovata è proprio quella del concetto che
volevamo spiegare. Pur presentandosi come scienza (epistème), la dialettica, è bene ribadirlo, è solo
un procedimento rigoroso, che però non riesce mai ad arrivare alla verità (sempre per il fatto che si
serve dei lògoi). Si può dire allora che la scienza presentata da Platone non è certo quella di
Aristotele, per mezzo della quale, secondo lo Stagirita, è possibile raggiungere con l’intelletto la
realtà dei principi primi.
Platone <> Aristotele…
Quella che in termini storici possiamo chiamare "filosofia platonica" - ovvero il corpus di idee e di
testi che definiscono la tradizione storica del pensiero platonico - è sorta dalla riflessione sulla
politica. Come scrive Alexandre Koiré: "tutta la vita filosofica di Platone è stata determinata da un
avvenimento eminentemente politico, la condanna a morte di Socrate".
Occorre tuttavia distinguere la "riflessione sulla politica" dall'"attività politica". Non è certo in
quest'ultima accezione che dobbiamo intendere la centralità della politica nel pensiero di Platone.
Come egli scrisse, in tarda età, nella Lettera VII del suo epistolario, proprio la rinuncia alla politica
attiva segna la scelta per la filosofia, intesa però come impegno "civile". La riflessione sulla politica
diventa, in altre parole, riflessione sul concetto di giustizia, e dalla riflessione su questo concetto
sorge un'idea di filosofia intesa come processo di crescita dell'Uomo come membro della polis.
Fin dalle prime fasi di questa riflessione, appare chiaro che per il filosofo ateniese risolvere il
problema della giustizia significa affrontare il problema della conoscenza. Da qui la necessità di
intendere la genesi del "mondo delle idee" come frutto di un impegno "politico" più complessivo e
profondo, in epoca di crisi democratica destinata ad accentuarsi e a spegnere la fiaccola della filosofia
come impegno civile, infatti: “Gli anni che separano Platone da Aristotele sono relativamente pochi.
Eppure il tempo in cui Aristotele si trova a vivere è già profondamente diverso da quello del maestro.
La crisi della polis, al di là delle utopie platoniche, appare ormai irreversibile e tutti i tentativi di
arginarla finiscono per naufragare di fronte alla pressione della potenza macedone, che nella metà del
IV secolo dà inizio al progressivo asservimento della Grecia e alla corrosione della libertà della polis.
In questa mutata situazione il cittadino greco, non più direttamente coinvolto nelle faccende del
governo ed inglobato in un più vasto organismo statale del quale altri reggono le fila, perde quella
passione per la politica che aveva costituito anche la molla del platonismo. Da ciò l’emergere di altri
interessi, soprattutto conoscitivi ed etici che costituiranno, come vedremo, una delle caratteristiche
dell’età ellenistica. Questa diversa atmosfera storica, politica e culturale risulta chiaramente
percepibile dall’insieme delle circostanze e degli interessi che caratterizzano la vita di Aristotele.”
(Abbagnano)
Queste mutate condizioni politiche, ci aiutano a introdurre alcune differenze di fondo tra Platone e
Aristotele. Aristotele ha sempre rifiutato di credere che la filosofia possa essere nata da cause
oggettive, materiali, dalle contraddizioni della vita sociale. Per lui la metafisica era nata dall'esigenza
di conoscere, a prescindere dalla realtà concreta. Paradossalmente, in questo Aristotele è più
conservatore di Platone, il quale, pur avendo affermato un essere assai lontano dalla realtà (in quanto
doveva essere la realtà a modellarsi sulle idee e non queste a riflettere la realtà), aveva però
intenzione, sul piano etico-politico, di costituire un progetto significativo. Viceversa, Aristotele, che
pur senza volerlo ha saputo mostrare un senso della realtà più spiccato (anche se non in senso storico,
politico e sociale), sembra piuttosto assomigliare a un positivista come Comte, o a un filosofo della
scienza estraneo alla politica (come il Kant della prima Critica).
Nella metafisica di Aristotele la definizione dell'essere diventa una questione di "linguaggio". Il
linguaggio (la logica anzitutto) permette di osservare l'essere da diversi punti di vista, i quali però
sono tutti riconducibili a uno solo: quello di sostanza. Essere e sostanza coincidono, ma è la sostanza,
in ultima analisi, che decifra l'essere. Ogni aspetto del reale partecipa dell'entità dell'essere solo nella
misura in cui il filosofo è in grado di individuarne la sostanza. Se Platone era in un certo senso
totalitario sul piano politico1, Aristotele lo diventa su quello ontologico (il che, in un certo senso, è
1
Ma cfr intervista a Vegetti su EMSF-RAI: Platone, soprattutto dalla tradizione di carattere liberale, è stato considerato colui che ha
inventato una società chiusa, una società autoritaria e tirannica. Pensiamo a Popper, che lo ha definito come colui che avrebbe dato
luogo a tutte le forme di tirannia e di dispotismo. Lei è d'accordo con questa interpretazione ? In Platone c'è sicuramente un aspetto
fondamentale che si situa all'esatto opposto della tradizione liberale e democratica occidentale moderna. Per lui il punto di vista della
comunità veniva sempre prima rispetto al punto di vista dell'individuo. Se infatti solo una comunità giusta poteva produrre individui giusti,
l'individuo era considerato come strumentale rispetto alla comunità, che aveva il ruolo decisivo. Da questo punto di vista il pensiero di
Platone si pone certamente agli antipodi rispetto a quel pensiero liberale che lo ha accusato di arcaismo, di spirito tribale, di immaginare la
città molto più come un clan o una tribù che non come un aggregato di individui autonomi e liberi. Sembra dunque lecito ritenere che il
pensiero platonico fosse totalitario. Per Platone solo un gruppo ristretto di uomini, i filosofi, conoscitori del bene, avevano il diritto e il
dovere di trasformare la città e di governarla, mentre agli altri spettava solo il dovere di seguire le indicazioni dei filosofi. D'altra parte è vero
anche che Platone, proprio in virtù del fatto che pose l'orizzonte dei valori, ovvero il bene, sempre al di là di ogni esistente dato, creò una
possibilità di critica, liberatrice e libertaria, rispetto all'esistente. Infatti, se il bene non coincide mai con una data situazione, neppure con
quella che i filosofi potrebbero realizzare, perché il bene non si attua mai compiutamente nella realtà, allora ogni situazione è provvisoria, è
precaria, è criticabile, è trasformabile. Da questo punto di vista, dunque, non credo che Platone possa considerarsi un pensatore totalitario, in
quanto aprì una radicale possibilità di critica dell'esistente in ogni suo aspetto o momento, in base alla quale anche il governo dei filosofi
peggio). Nel dare un maggiore risalto alla realtà fisica (rispetto a quanto aveva fatto Platone),
Aristotele nega che una realtà la cui sostanza non sia individuabile dal filosofo, possa partecipare
all'essere. L'essere diventa ora un'entità conoscibile solo in maniera logico-speculativa.
Con Aristotele, non è più l'essere che, in forza della propria oggettività, ha qualcosa da "rivelare"
all'uomo. Anzi, neppure l'uomo è più disposto ad ascoltare, ad osservare la realtà contemplandone il
mistero. Sembrerebbe che dopo i Sofisti non sia più possibile veramene una pratica della filosofia
come attività disinteressata, se è vero che in Platone essa diventa impegno civile per il cambiamento
politico e invece in Aristotele diventa conoscenza per la conoscenza: qualcuno potrebbe obiettare che
smette comunque di essere un’attività disinteressata se la si interpreta come attività capace di
rispondere all’esigenza di padroneggiare, in un certo senso, la realtà con la logica formale. Resta il
fatto che. Almeno nelle intenzioni, Aristotele pensa che il compito della filosofia non debba essere
quello che le aveva assegnato Platone. Questi pensava che la filosofia dovesse servire alla
ricostruzione della città, assolvendo una funzione non solo conoscitiva ma anche etico-politica;
Aristotele, invece, afferma letteralmente che la filosofia è "inutile", nel senso che è l'attività più alta
dell'uomo ed è pura conoscenza.
La conoscenza viene perseguita solo in virtù di se stessa: conosciamo per conoscere.
Platone e Aristotele!
Non solo due sistemi ma anche due tipi diversi di natura umana, che da tempo immemorabile,
in tutte le civiltà, si elevano più o meno ostili l'uno contro l'altro.
Soprattutto durante il medioevo e fino ai giorni nostri si é discusso in questi termini e questa
disputa costituisce il contenuto essenziale della storia della Chiesa cristiana.
Infatti, anche se sotto altri nomi, si tratta sempre di Platone e di Aristotele. Nature
entusiastiche, mistiche,platoniche, sprigionano dal fondo della loro sensibilità le idee cristiane
ed i simboli corrispondenti. Nature pratiche costruiscono con queste idee e questi simboli, un
solido sistema, una dogmatica, un culto.
La Chiesa alla fine ingloba in sé le due nature, delle quali una si ritrova soprattutto nel clero,
l'altra nel monachesimo, senza che per questo cessino di battersi.
- Heinrich Heine –
Sulle due spinte all’interno della Chiesa e sull’ansia di rinnovamento che precede Lutero,
torneremo riprendendo ora alcuni argomenti di Storia:
Origini della crisi religiosa del Cinquecento
La crisi religiosa del Cinquecento ha profonde radici umanistiche. Accanto alla decadenza delle
strutture, del pensiero e della vita religiosa, il Quattrocento rivela nuovi impulsi ed esperienze
significative, che assai spesso si risolvono in un insistito e potente richiamarsi alla Bibbia e alla
Chiesa apostolica. Tale atteggiamento è evidente specialmente in Jan Huss, il riformatore boemo arso
vivo a Costanza il 6 luglio 1415. La sua dottrina, in parte influenzata dalle posizioni teologiche di
John Wycliffe. Wycliffe evidenzia una critica virulenta contro il Papa e la gerarchia ecclesiastica, le
impunità dei preti, l’odioso mercimonio delle indulgenze, come si può leggere nella Spiegazione
della fede dei dieci comandamenti, del Padre Nostro, redatta nel 1412.
Ma è soprattutto nella Lettera ai Cechi fedeli, stesa poco prima della morte, che Huss esplode in un
accorato appello contro la Chiesa dogmatica e verticistica, a favore di una riscoperta umanistica della
Bibbia e della fede in Dio.
Il tragico rogo di Huss ebbe a Costanza uno spettatore d’eccezione quale Poggio Bracciolini,
l’inesauribile scopritore di codici che si sforzava di vivere lucrezianamente, armonizzando gli
poteva essere criticato. A tal proposito vale la pena ricordare che Platone non è stato soltanto criticato dal pensiero liberale, ma è stato anche
visto con simpatia da forme di pensiero rivoluzionario.
insegnamenti degli antichi in autentiche forme di vita. Poggio restò ancor più impressionato dal
supplizio di Girolamo da Praga, recatosi al Concilio per difendere le posizioni sue e di Jan Huss, di
cui era allievo; tuttavia Girolamo fu subito arrestato e dopo qualche giorno trucidato con la stessa
brutale condanna dei maestro. Nel resoconto del raffinato umanista, Girolamo è presentato come un
martire della libertà religiosa: un novello Socrate ingiustamente condannato (lettera a Leonardo
Bruni, Costanza 29 maggio [1416]). Nel contesto di una generalizzata aspirazione alla riscoperta
delle fonti della fede, assume peculiare importanza l’esperienza dei “Fratelli della vita comune”, cui
si lega il movimento di risonanza europea della Devotio moderna. I Fratelli, sorti nelle Fiandre nei
secolo XIV dall’esempio di Gert Groote, si organizzarono in gruppi di laici non vincolati da voti che
praticavano la vita comune, proponendosi la ricerca di una spiritualità discreta, aliena da un’ascesi
eccessivamente aspra, secondo la semplicità di mezzi e costumi della Chiesa primitiva. Dalle
Consuetudines redatte dai Fratelli della vita comune, databili al 1430 ca., si ricava che essi si
mantenevano con i proventi della copiatura di libri, coltivando con rigore la <<quiete spirituale>>. Ai
Fratelli si deve anche la fondazione di scuole ispirate ai canoni della pedagogia umanistica e
frequentate da personalità insigni come Niccolò Cusano, Erasmo e lo stesso Lutero.
Fu anche dall’esperienza peculiarissima dei Fratelli della vita comune che trasse stimoli il movimento
della Devotio moderna, la cui mistica consiste in particolare nell’ Imitatio Christi. Risulta
metodologicamente proficuo studiarne la diffusione attraverso la risonanza di libri ispirati alla mistica
della Devotio. Tra questi, il più celebre è senza dubbio l’Imitatio Christi, un libretto di meditazione
composto con ogni probabilità dal canonico agostiniano Tommaso da Kempis nei primi decenni de]
XV secolo. La sua influenza fù impressionante, se si considera che incise anche sulla formazione
giovanile di Lutero. Da questa spiritualità i comuni credenti si sentivano incoraggiati ad una
autoriforma personale,intesa specialmente come imitazione dei Cristo crocifisso.
Alla Devotio possono essere collegati molteplici esperienze e movimenti. Non è da sottovalutare
come siano numerosi gli ordini religiosi o le confraternite che per tutto il corso del Quattrocento si
diedero a riformare i loro statuti. Fra i primi occorre ricordare i Benedettini considerati un ordine
ozioso, che si adeguano al nuovo clima religioso attraverso la riforma del 1408, intrapresa nella
congregazione di Santa Giustina da Ludovico Barbo. Verso la fine del secolo sorgono i primi Oratori
del Divino Amore, su iniziativa di gruppi di laici, per lo più di estrazione aristocratica, che
sperimentano la pratica comunitaria della preghiera, dei sacramenti e della lettura della Bibbia.
Un centro assai attivo nella riforma della vita religiosa è Venezia, grazie soprattutto ad alcuni giovani
della nobiltà locale come Vincenzo Querini, Paolo Giustiniani e Gasparo Contarini, in seguito prelato
insigne e attivo sul fronte della disputa tra Roma e Lutero. ll Contarirìi prese le distanze dalla svolta
operata da Vincenzo Querini e Paolo Giustiniani, i quali abbandonarono il mondo per farsi eremiti
camaldolesi. Il giovane veneziano, il sabato santo del 1511, risolse i suoi dubbi interiori e le
preoccupazioni spirituali in forza dell’intuizione che alla salvezza dell’uomo non è necessario
rifùgiarsi nella vita monastica; è invece sufficiente la grazia redentrice di Cristo, (lettera a Paolo
Giustiniani, Venezia 24 aprile 1511). L’ interesse di tutta la vicenda risiede specialmente nella
profonda analogia con la Tamerlebnis, ossia l’esperienza della torre, vissuta anni dopo da Lutero.
Caratteristica comune delle esperienze e dei movimenti riconducibili alla Devotio moderna sembra
essere la ricerca della salvezza personale attraverso riforma di se stessi piuttosto che delle istituzioni
ecclesiastiche. Di orientamento diverso, perché di più ampio respiro, risulta invece il Libellus ad
Leonem X redatto dai camaldolesi Querini e Giustiniani e offerto nel 1515 al neoeletto pontefice. Il
memoriale si proponeva di riformare non solo i credenti, ma in particolare le istituzioni
ecclesiastiche. Lo stesso Erasmo da Rotterdam era stato allievo a Deventer dei Fratelli della vita
comune, mutuando da essi una spiritualità accentrata sulla figura di Cristo. Ad Oxford, in compagnia
d Thomas More, aveva conosciuto John Colet, responsabile della diffusione in Inghilterra del
neoplatonismo fiorentino e dell’interesse per le lettere di san Paolo. Il Colet, nel suo commento
all’epistola paolina ai Romani, datato 1498, insiste sui temi della grazia di Dio quale garanzia di
salvezza: secondo Paolo l’uomo può esser giustificato di fronte a Dio non attraverso le opere, ma
attraverso la fede (Rom. 3, 21-23, 26-2 8). I1 teologo inglese si sforzerà di diffondere una religione
fondata su quest’intuizione, che sarà poi anche del Contarini, di Erasmo, di Jacopo Sadoleto e, coi
accenti diversi. di Lutero, dando avvio a quello che gli studiosi hanno denominato umanesimo
cristiano. Sotto il peso del loro influsso e dell’educazione ricevuta dai Fratelli di Deventer, Erasmo
perseguì ostinatamente la ricerca della philosophia Christ,. ossia dì una fede liberata dallo inutili
sovrastrutture dogmatiche e limitata a pochi ma necessari fondamentalia fidei mostrandosi sensibile
alle tematiche della pace religiosa, della concordia umana e della tolleranza, al pari del suo amico
Thomas More.
Nella lettera a Giovanni Botzheim dei 30 gennaio 1523, Erasmo, ripercorrendo i punti salienti della
sua opera, si lascia andare ad un’amara confessione: “Ho scritto Lamento della pace sette anni fa
subito dopo essere stato chiamato a corte. Ci si andava adoperando con grande zelo per riunire a
Cambrai una conferenza dei più [ potenti sovrani dei mondo... per far si che la pace li stringesse
insieme con vincoli, come si suol dire adamantini… Così, per incarico del gran Cancelliere Jean Le
Sauvage, scrissi il Lamento della pace. Oggi le cose sono arrivate a tal punto, che per la Pace occorre
scriverc l’epitaffio, visto che non c’è ombra di speranza che possa risuscitare”. Preparata, dunque, nel
1516 in vista dell’accordo dì Cambrai ma pubblicata solo nel 1517, la Querela pacis esalta quei
valori quali la concordia umana e l’unanimità che per Erasmo costituiscono il nucleo vitale della sua
philosophia Christi. Tuttavia il trattato di Cambrai, risultato di fatto senza effetti, sanciva con
l’aggiunta di articoli segreti la spartizione del’Italia e dava inizio, contro le speranze erasmiane di
pace, alla serie di confilitti fra Carlo V e Francesco I. ll fallimento sul piano poiitico del utopiaa
erasmiana e l’esplodere della crisi rciigiosa, sembrano testimoniare una battaglia perduta; di Erasmo,
restò tuttavia il suo sogno di pace, confermato anche dallo straordinario successo della Querela pacis
in termini di stampe e traduzioni.
L’ideale erasmiano di pace religiosa e di ritorno alle fonti della fede era condiviso da Thomas More,
grande amico dell’umanista fiammingo, il cui interesse per la cultura italiana, in particolare
neoplatonica, é testimoniato dalla Vita di Giovanni Pico della Mirandola, redatta in inglese. Al pari
di Erasmo, il More era contrario alle dispute religiose e fautore dell’autonomia della ragione che non
si lascia assorbire dall’autorità della fede, di una morale cristiana coincidente con quella naturale, di
una società fondata su principi egualitari, sul pacifismo e su una sostanziale tolleranza.
Tale impostazione di vedute assunse forme definite nella sua Utopia, pubblicata nel dicembre 1516 a
Lovanio, in cui l’umanista inglese delineava un modello ideale di Stato perfetto collocato su un’isola
posta nel futuro storico. La società degli utopiani vive libera e secondo natura, all’insegna del
pacifismo, rispettando ogni forma di culto religioso.
Riforma Protestante
Nella riflessione degli umanisti dei liberi pensatori la fiducia nella feconda dialettica delle idee
conduce naturaliter alla pratica della tolleranza, la quale nell’età moderna, sarà una conquista dell’
Europa riformata e soltanto in seguito sì diffonderà altrove. Dcl resto, i cattolici tolleranti finiranno
con l’essere sottoposti essi stessi alla censura ecclesiastica o saranno costrctti a rifugiarsi, come il
More, nell’utopia o nelle narrazioni romanzesche. A giudizio dello storico Delio Cantimori, i
momenti di più profonda religiosità si sono avuti con i mistici e gli anticlericali cattolici come John
Fisher e Thomas More - fatti trucidare da Enrico VIII -, Erasmo e Michelangelo. Con la spaccatura
del cristianesìmo occidentale, provocata dalla rivoluzione luterana, I’ indice dei libri proibiti e la
vocazione censoria della Curia pontificia diffusero clima di oscurantismo clericale e di generale
intolleranza nei confronti del libero pensiero, le cui conseguenze immediate furono la fine ufficiale
dell’anticlericalismo cattolico ed un progressivo impoverimento culturale.