Su che cosa si fondano, e che rapporto hanno le idee con gli oggetti della conoscenza sensibile? La risposta a questa domanda costituisce la cosiddetta ontologia platonica. Il testo fondativo di questo aspetto del pensiero platonico è senza dubbio il celebre "mito della caverna" del libro VII de La Repubblica. In esso, il mondo sensibile è dato come immagine evanescente e imperfetta del mondo delle idee, inteso invece come "mondo vero" e fondamento di tutto ciò che è. Platone stesso fornisce l'interpretazione dell'allegoria: lo schiavo che viene liberato dalla caverna rappresenta l'anima, che si libera dai vincoli corporei mediante la conoscenza. Le cose del mondo esterno rappresentano le idee, mentre gli oggetti nella caverna (e le immagini di essi proiettate sulla parete) non sono che le loro copie imperfette. Il sole, che permette di riconoscere l'aspetto vero della realtà, è simbolo dell'idea del bene, l'idea suprema in vista di cui l'intero mondo delle idee è costituito e al quale essa conferisce la sua unità. Una conferma di tale impostazione ontologica del reale è data nel mito narrato nel dialogo Fedro, attraverso l'immagine della faticosa salita dell'anima al mondo iperuranio delle idee, così descritte: «essenze incolori, informi e intangibili, contemplabili solo dall'intelletto (...) essenze che sono scaturigine della vera scienza». L'ontologia platonica si presenta dunque come "dualistica", comprensiva cioè di due piani concettuali, quello delle cose (gli enti) e quello delle idee, tra i quali tuttavia esiste una differenza ontologica, cioè incolmabile e costitutiva della loro stessa natura. L'unico rapporto possibile tra il piano delle cose e quello delle idee è quello "mimetico": ogni realtà sensibile (ente) ha il suo modello (eidos) nel mondo intelligibile. L'unico "salto" possibile tra i due livelli è quello che può compiere l'anima, elevandosi attraverso la conoscenza dall'esistenza materiale a quella intellettuale.Platone si rifà alla concezione orfica pitagoriga dell'anima ove infatti la stessa e scissa in due parti, la prima mortale che muore insieme al corpo e la seconda immortale che, secondo Pitagora si reincarna in altri corpi, ma secondo Platone contempla le idee nella loro perfezione prima di ridiscendere "intrappolata" in un altro corpo Ontologia e dialettica Come conciliare la differenza tra mondo sensibile e intelligibile e tuttavia la loro corrispondenza? Come partecipano tra loro i due piani della realtà? A queste domande è chiamata a rispondere la dialettica. Il problema è legato storicamente alla presenza nell'Accademia di Aristotele, durante gli anni della tarda maturità platonica. È infatti presumibile che da un certo momento la critica aristotelica all'"ontologia della differenza" abbia costretto il vecchio maestro a rivedere criticamente le sue originali concezioni in funzione di un maggior "realismo" logico della teoria delle idee. In sostanza, la domanda è: se il mondo delle idee e quello empirico si contrappongono - essere e non-essere - che senso ha porre l'idea come causa della realtà apparente? Non sarebbe più coerente concludere che esiste solo il mondo delle idee, riducendo il mondo delle cose a pura illusione? La prima soluzione che Platone aveva cercato a questa aporia era stata la teoria della partecipazione (mèthexis): le cose particolari parteciperebbero dell'idea corrispondente. In una seconda fase, il filosofo aveva proposto la teoria dell'imitazione (mimesis), secondo la quale le cose sono imitazioni della loro idea. Ma entrambe le risposte mantenevano aperte molte e complesse contraddizioni di carattere logico. In una terza fase, Platone mette in discussione una delle basi parmenidee della sua ontologia, quella della immobilità dell'essere: il mondo delle idee assume l'aspetto di un sistema complesso, in cui trovano posto i concetti di diversità e molteplicità. Più che di una contrapposizione tra idea e realtà, entra in gioco il principio della divisione (diairesis) del mondo intelligibile, che consente di collegare dialetticamente ogni realtà empirica al suo principio sommo. Ciascuna idea si articola con quelle ad essa subordinate (più particolari) e sovraordinate (più generali), secondo regole dialettiche di somiglianza e comunanza (generi, specie). In questa ipotesi teorica entra in gioco la possibilità dell'errore: esso consiste nella determinazione di connessioni arbitrarie tra generi e specie. Inoltre, viene profondamente modificato il concetto stesso di "non-essere": esso non è più il "nulla", ma viene a costituirsi come il "diverso", un'altra modalità dell'essere. La diairesis non elimina, naturalmente, il carattere trascendente delle idee, ma avvicina maggiormente il metodo dialettico alle possibilità conoscitive del metodo scientifico. Nel Sofista Platone colloca 5 generi sommi (essere, identico, diverso, stasi e movimento) a cui tutte le idee possono essere subordinate, e il conciliare unità, molteplicità, staticità e movimento è detto rapporto di comunanza (koinonìa) Un problema piuttosto grande che s’incontra studiando gli ultimi dialoghi di Platone (Parmenide, Sofista, Teeteto) è la definizione di dialettica che Platone non da mai. Nella Repubblica Platone ne parla come il metodo più efficace per raggiungere la verità. Nel Fedro si trova che la dialettica è un “processo di unificazione e moltiplicazione”: partendo cioè da un’analisi di certi fenomeni, si tratta di unificarli sotto un unico genere. All’opposto la dialettica si occupa anche di dividere un genere in tutte le specie che comprende sotto di sé. Possiamo forse dire che l’Idea è di fatto una unità del molteplice, che racchiude ed assume in sé la caratteristica principale propria di alcuni esseri (basta pensare all’idea del bello che unifica tutte le varie cose belle). Nel Parmenide Platone dà una dimostrazione di come lavora la dialettica all’interno del discorso: si tratta di trovare tutte le risposte possibili ad una domanda; poi, con un procedimento falsificatorio, si procederà nel confutare ad una ad una le risposte date, sulla base di certi principi; la risposta che non è falsificata dal procedimento è meno confutabile delle altre e dunque è più vera della altre (mai vera in senso assoluto). Si potrebbe obiettare a questo punto che tale applicazione della dialettica non corrisponde alla pseudo-definizione datane da Platone nel Fedro. Tale obiezione si rafforza tenendo conto che nel Filebo, Platone mescola ancora una volta le carte in tavola. Nel dialogo infatti Socrate è impegnato a definire che cosa sia il piacere. Anzitutto i piaceri sono tanti oppure è solo uno? Filebo non sa rispondere, ed allora Socrate pronuncia la famosa frase secondo cui i molti sono uno e l’uno è molti. Che cosa significa quest’asserzione? Semplicemente ribadisce un principio proprio delle Idee, ossia quella di essere uniche e perfette, eppure, nel contempo, di riflettersi nella molteplicità del sensibile. La metodologia più coerente dell’applicazione della dialettica è quella esposta nel Sofista: si tratta del metodo dicotomico. All’interno di una domanda si tratta di isolare il concetto che si vuole definire; nell’attribuire questo concetto ad una classe più ampia nella quale siamo certi sia compreso il concetto medesimo; quindi nel suddividere tale classe in due parti, più piccole, per vedere in quale delle due sottoclassi è ancora compreso il concetto da trovare, e così via, suddividendo finché non troviamo più nulla da dividere e, dunque, la definizione trovata è proprio quella del concetto che volevamo spiegare. Pur presentandosi come scienza (epistème), la dialettica, è bene ribadirlo, è solo un procedimento rigoroso, che però non riesce mai ad arrivare alla verità (sempre per il fatto che si serve dei lògoi). Si può dire allora che la scienza presentata da Platone non è certo quella di Aristotele, per mezzo della quale, secondo lo Stagirita, è possibile raggiungere con l’intelletto la realtà dei principi primi. Platone <> Aristotele… Quella che in termini storici possiamo chiamare "filosofia platonica" - ovvero il corpus di idee e di testi che definiscono la tradizione storica del pensiero platonico - è sorta dalla riflessione sulla politica. Come scrive Alexandre Koiré: "tutta la vita filosofica di Platone è stata determinata da un avvenimento eminentemente politico, la condanna a morte di Socrate". Occorre tuttavia distinguere la "riflessione sulla politica" dall'"attività politica". Non è certo in quest'ultima accezione che dobbiamo intendere la centralità della politica nel pensiero di Platone. Come egli scrisse, in tarda età, nella Lettera VII del suo epistolario, proprio la rinuncia alla politica attiva segna la scelta per la filosofia, intesa però come impegno "civile". La riflessione sulla politica diventa, in altre parole, riflessione sul concetto di giustizia, e dalla riflessione su questo concetto sorge un'idea di filosofia intesa come processo di crescita dell'Uomo come membro della polis. Fin dalle prime fasi di questa riflessione, appare chiaro che per il filosofo ateniese risolvere il problema della giustizia significa affrontare il problema della conoscenza. Da qui la necessità di intendere la genesi del "mondo delle idee" come frutto di un impegno "politico" più complessivo e profondo, in epoca di crisi democratica destinata ad accentuarsi e a spegnere la fiaccola della filosofia come impegno civile, infatti: “Gli anni che separano Platone da Aristotele sono relativamente pochi. Eppure il tempo in cui Aristotele si trova a vivere è già profondamente diverso da quello del maestro. La crisi della polis, al di là delle utopie platoniche, appare ormai irreversibile e tutti i tentativi di arginarla finiscono per naufragare di fronte alla pressione della potenza macedone, che nella metà del IV secolo dà inizio al progressivo asservimento della Grecia e alla corrosione della libertà della polis. In questa mutata situazione il cittadino greco, non più direttamente coinvolto nelle faccende del governo ed inglobato in un più vasto organismo statale del quale altri reggono le fila, perde quella passione per la politica che aveva costituito anche la molla del platonismo. Da ciò l’emergere di altri interessi, soprattutto conoscitivi ed etici che costituiranno, come vedremo, una delle caratteristiche dell’età ellenistica. Questa diversa atmosfera storica, politica e culturale risulta chiaramente percepibile dall’insieme delle circostanze e degli interessi che caratterizzano la vita di Aristotele.” (Abbagnano) Queste mutate condizioni politiche, ci aiutano a introdurre alcune differenze di fondo tra Platone e Aristotele. Aristotele ha sempre rifiutato di credere che la filosofia possa essere nata da cause oggettive, materiali, dalle contraddizioni della vita sociale. Per lui la metafisica era nata dall'esigenza di conoscere, a prescindere dalla realtà concreta. Paradossalmente, in questo Aristotele è più conservatore di Platone, il quale, pur avendo affermato un essere assai lontano dalla realtà (in quanto doveva essere la realtà a modellarsi sulle idee e non queste a riflettere la realtà), aveva però intenzione, sul piano etico-politico, di costituire un progetto significativo. Viceversa, Aristotele, che pur senza volerlo ha saputo mostrare un senso della realtà più spiccato (anche se non in senso storico, politico e sociale), sembra piuttosto assomigliare a un positivista come Comte, o a un filosofo della scienza estraneo alla politica (come il Kant della prima Critica). Nella metafisica di Aristotele la definizione dell'essere diventa una questione di "linguaggio". Il linguaggio (la logica anzitutto) permette di osservare l'essere da diversi punti di vista, i quali però sono tutti riconducibili a uno solo: quello di sostanza. Essere e sostanza coincidono, ma è la sostanza, in ultima analisi, che decifra l'essere. Ogni aspetto del reale partecipa dell'entità dell'essere solo nella misura in cui il filosofo è in grado di individuarne la sostanza. Se Platone era in un certo senso totalitario sul piano politico1, Aristotele lo diventa su quello ontologico (il che, in un certo senso, è 1 Ma cfr intervista a Vegetti su EMSF-RAI: Platone, soprattutto dalla tradizione di carattere liberale, è stato considerato colui che ha inventato una società chiusa, una società autoritaria e tirannica. Pensiamo a Popper, che lo ha definito come colui che avrebbe dato luogo a tutte le forme di tirannia e di dispotismo. Lei è d'accordo con questa interpretazione ? In Platone c'è sicuramente un aspetto fondamentale che si situa all'esatto opposto della tradizione liberale e democratica occidentale moderna. Per lui il punto di vista della comunità veniva sempre prima rispetto al punto di vista dell'individuo. Se infatti solo una comunità giusta poteva produrre individui giusti, l'individuo era considerato come strumentale rispetto alla comunità, che aveva il ruolo decisivo. Da questo punto di vista il pensiero di Platone si pone certamente agli antipodi rispetto a quel pensiero liberale che lo ha accusato di arcaismo, di spirito tribale, di immaginare la città molto più come un clan o una tribù che non come un aggregato di individui autonomi e liberi. Sembra dunque lecito ritenere che il pensiero platonico fosse totalitario. Per Platone solo un gruppo ristretto di uomini, i filosofi, conoscitori del bene, avevano il diritto e il dovere di trasformare la città e di governarla, mentre agli altri spettava solo il dovere di seguire le indicazioni dei filosofi. D'altra parte è vero anche che Platone, proprio in virtù del fatto che pose l'orizzonte dei valori, ovvero il bene, sempre al di là di ogni esistente dato, creò una possibilità di critica, liberatrice e libertaria, rispetto all'esistente. Infatti, se il bene non coincide mai con una data situazione, neppure con quella che i filosofi potrebbero realizzare, perché il bene non si attua mai compiutamente nella realtà, allora ogni situazione è provvisoria, è precaria, è criticabile, è trasformabile. Da questo punto di vista, dunque, non credo che Platone possa considerarsi un pensatore totalitario, in quanto aprì una radicale possibilità di critica dell'esistente in ogni suo aspetto o momento, in base alla quale anche il governo dei filosofi peggio). Nel dare un maggiore risalto alla realtà fisica (rispetto a quanto aveva fatto Platone), Aristotele nega che una realtà la cui sostanza non sia individuabile dal filosofo, possa partecipare all'essere. L'essere diventa ora un'entità conoscibile solo in maniera logico-speculativa. Con Aristotele, non è più l'essere che, in forza della propria oggettività, ha qualcosa da "rivelare" all'uomo. Anzi, neppure l'uomo è più disposto ad ascoltare, ad osservare la realtà contemplandone il mistero. Sembrerebbe che dopo i Sofisti non sia più possibile veramene una pratica della filosofia come attività disinteressata, se è vero che in Platone essa diventa impegno civile per il cambiamento politico e invece in Aristotele diventa conoscenza per la conoscenza: qualcuno potrebbe obiettare che smette comunque di essere un’attività disinteressata se la si interpreta come attività capace di rispondere all’esigenza di padroneggiare, in un certo senso, la realtà con la logica formale. Resta il fatto che. Almeno nelle intenzioni, Aristotele pensa che il compito della filosofia non debba essere quello che le aveva assegnato Platone. Questi pensava che la filosofia dovesse servire alla ricostruzione della città, assolvendo una funzione non solo conoscitiva ma anche etico-politica; Aristotele, invece, afferma letteralmente che la filosofia è "inutile", nel senso che è l'attività più alta dell'uomo ed è pura conoscenza. La conoscenza viene perseguita solo in virtù di se stessa: conosciamo per conoscere. Platone e Aristotele! Non solo due sistemi ma anche due tipi diversi di natura umana, che da tempo immemorabile, in tutte le civiltà, si elevano più o meno ostili l'uno contro l'altro. Soprattutto durante il medioevo e fino ai giorni nostri si é discusso in questi termini e questa disputa costituisce il contenuto essenziale della storia della Chiesa cristiana. Infatti, anche se sotto altri nomi, si tratta sempre di Platone e di Aristotele. Nature entusiastiche, mistiche,platoniche, sprigionano dal fondo della loro sensibilità le idee cristiane ed i simboli corrispondenti. Nature pratiche costruiscono con queste idee e questi simboli, un solido sistema, una dogmatica, un culto. La Chiesa alla fine ingloba in sé le due nature, delle quali una si ritrova soprattutto nel clero, l'altra nel monachesimo, senza che per questo cessino di battersi. - Heinrich Heine – Sulle due spinte all’interno della Chiesa e sull’ansia di rinnovamento che precede Lutero, torneremo riprendendo ora alcuni argomenti di Storia: Origini della crisi religiosa del Cinquecento La crisi religiosa del Cinquecento ha profonde radici umanistiche. Accanto alla decadenza delle strutture, del pensiero e della vita religiosa, il Quattrocento rivela nuovi impulsi ed esperienze significative, che assai spesso si risolvono in un insistito e potente richiamarsi alla Bibbia e alla Chiesa apostolica. Tale atteggiamento è evidente specialmente in Jan Huss, il riformatore boemo arso vivo a Costanza il 6 luglio 1415. La sua dottrina, in parte influenzata dalle posizioni teologiche di John Wycliffe. Wycliffe evidenzia una critica virulenta contro il Papa e la gerarchia ecclesiastica, le impunità dei preti, l’odioso mercimonio delle indulgenze, come si può leggere nella Spiegazione della fede dei dieci comandamenti, del Padre Nostro, redatta nel 1412. Ma è soprattutto nella Lettera ai Cechi fedeli, stesa poco prima della morte, che Huss esplode in un accorato appello contro la Chiesa dogmatica e verticistica, a favore di una riscoperta umanistica della Bibbia e della fede in Dio. Il tragico rogo di Huss ebbe a Costanza uno spettatore d’eccezione quale Poggio Bracciolini, l’inesauribile scopritore di codici che si sforzava di vivere lucrezianamente, armonizzando gli poteva essere criticato. A tal proposito vale la pena ricordare che Platone non è stato soltanto criticato dal pensiero liberale, ma è stato anche visto con simpatia da forme di pensiero rivoluzionario. insegnamenti degli antichi in autentiche forme di vita. Poggio restò ancor più impressionato dal supplizio di Girolamo da Praga, recatosi al Concilio per difendere le posizioni sue e di Jan Huss, di cui era allievo; tuttavia Girolamo fu subito arrestato e dopo qualche giorno trucidato con la stessa brutale condanna dei maestro. Nel resoconto del raffinato umanista, Girolamo è presentato come un martire della libertà religiosa: un novello Socrate ingiustamente condannato (lettera a Leonardo Bruni, Costanza 29 maggio [1416]). Nel contesto di una generalizzata aspirazione alla riscoperta delle fonti della fede, assume peculiare importanza l’esperienza dei “Fratelli della vita comune”, cui si lega il movimento di risonanza europea della Devotio moderna. I Fratelli, sorti nelle Fiandre nei secolo XIV dall’esempio di Gert Groote, si organizzarono in gruppi di laici non vincolati da voti che praticavano la vita comune, proponendosi la ricerca di una spiritualità discreta, aliena da un’ascesi eccessivamente aspra, secondo la semplicità di mezzi e costumi della Chiesa primitiva. Dalle Consuetudines redatte dai Fratelli della vita comune, databili al 1430 ca., si ricava che essi si mantenevano con i proventi della copiatura di libri, coltivando con rigore la <<quiete spirituale>>. Ai Fratelli si deve anche la fondazione di scuole ispirate ai canoni della pedagogia umanistica e frequentate da personalità insigni come Niccolò Cusano, Erasmo e lo stesso Lutero. Fu anche dall’esperienza peculiarissima dei Fratelli della vita comune che trasse stimoli il movimento della Devotio moderna, la cui mistica consiste in particolare nell’ Imitatio Christi. Risulta metodologicamente proficuo studiarne la diffusione attraverso la risonanza di libri ispirati alla mistica della Devotio. Tra questi, il più celebre è senza dubbio l’Imitatio Christi, un libretto di meditazione composto con ogni probabilità dal canonico agostiniano Tommaso da Kempis nei primi decenni de] XV secolo. La sua influenza fù impressionante, se si considera che incise anche sulla formazione giovanile di Lutero. Da questa spiritualità i comuni credenti si sentivano incoraggiati ad una autoriforma personale,intesa specialmente come imitazione dei Cristo crocifisso. Alla Devotio possono essere collegati molteplici esperienze e movimenti. Non è da sottovalutare come siano numerosi gli ordini religiosi o le confraternite che per tutto il corso del Quattrocento si diedero a riformare i loro statuti. Fra i primi occorre ricordare i Benedettini considerati un ordine ozioso, che si adeguano al nuovo clima religioso attraverso la riforma del 1408, intrapresa nella congregazione di Santa Giustina da Ludovico Barbo. Verso la fine del secolo sorgono i primi Oratori del Divino Amore, su iniziativa di gruppi di laici, per lo più di estrazione aristocratica, che sperimentano la pratica comunitaria della preghiera, dei sacramenti e della lettura della Bibbia. Un centro assai attivo nella riforma della vita religiosa è Venezia, grazie soprattutto ad alcuni giovani della nobiltà locale come Vincenzo Querini, Paolo Giustiniani e Gasparo Contarini, in seguito prelato insigne e attivo sul fronte della disputa tra Roma e Lutero. ll Contarirìi prese le distanze dalla svolta operata da Vincenzo Querini e Paolo Giustiniani, i quali abbandonarono il mondo per farsi eremiti camaldolesi. Il giovane veneziano, il sabato santo del 1511, risolse i suoi dubbi interiori e le preoccupazioni spirituali in forza dell’intuizione che alla salvezza dell’uomo non è necessario rifùgiarsi nella vita monastica; è invece sufficiente la grazia redentrice di Cristo, (lettera a Paolo Giustiniani, Venezia 24 aprile 1511). L’ interesse di tutta la vicenda risiede specialmente nella profonda analogia con la Tamerlebnis, ossia l’esperienza della torre, vissuta anni dopo da Lutero. Caratteristica comune delle esperienze e dei movimenti riconducibili alla Devotio moderna sembra essere la ricerca della salvezza personale attraverso riforma di se stessi piuttosto che delle istituzioni ecclesiastiche. Di orientamento diverso, perché di più ampio respiro, risulta invece il Libellus ad Leonem X redatto dai camaldolesi Querini e Giustiniani e offerto nel 1515 al neoeletto pontefice. Il memoriale si proponeva di riformare non solo i credenti, ma in particolare le istituzioni ecclesiastiche. Lo stesso Erasmo da Rotterdam era stato allievo a Deventer dei Fratelli della vita comune, mutuando da essi una spiritualità accentrata sulla figura di Cristo. Ad Oxford, in compagnia d Thomas More, aveva conosciuto John Colet, responsabile della diffusione in Inghilterra del neoplatonismo fiorentino e dell’interesse per le lettere di san Paolo. Il Colet, nel suo commento all’epistola paolina ai Romani, datato 1498, insiste sui temi della grazia di Dio quale garanzia di salvezza: secondo Paolo l’uomo può esser giustificato di fronte a Dio non attraverso le opere, ma attraverso la fede (Rom. 3, 21-23, 26-2 8). I1 teologo inglese si sforzerà di diffondere una religione fondata su quest’intuizione, che sarà poi anche del Contarini, di Erasmo, di Jacopo Sadoleto e, coi accenti diversi. di Lutero, dando avvio a quello che gli studiosi hanno denominato umanesimo cristiano. Sotto il peso del loro influsso e dell’educazione ricevuta dai Fratelli di Deventer, Erasmo perseguì ostinatamente la ricerca della philosophia Christ,. ossia dì una fede liberata dallo inutili sovrastrutture dogmatiche e limitata a pochi ma necessari fondamentalia fidei mostrandosi sensibile alle tematiche della pace religiosa, della concordia umana e della tolleranza, al pari del suo amico Thomas More. Nella lettera a Giovanni Botzheim dei 30 gennaio 1523, Erasmo, ripercorrendo i punti salienti della sua opera, si lascia andare ad un’amara confessione: “Ho scritto Lamento della pace sette anni fa subito dopo essere stato chiamato a corte. Ci si andava adoperando con grande zelo per riunire a Cambrai una conferenza dei più [ potenti sovrani dei mondo... per far si che la pace li stringesse insieme con vincoli, come si suol dire adamantini… Così, per incarico del gran Cancelliere Jean Le Sauvage, scrissi il Lamento della pace. Oggi le cose sono arrivate a tal punto, che per la Pace occorre scriverc l’epitaffio, visto che non c’è ombra di speranza che possa risuscitare”. Preparata, dunque, nel 1516 in vista dell’accordo dì Cambrai ma pubblicata solo nel 1517, la Querela pacis esalta quei valori quali la concordia umana e l’unanimità che per Erasmo costituiscono il nucleo vitale della sua philosophia Christi. Tuttavia il trattato di Cambrai, risultato di fatto senza effetti, sanciva con l’aggiunta di articoli segreti la spartizione del’Italia e dava inizio, contro le speranze erasmiane di pace, alla serie di confilitti fra Carlo V e Francesco I. ll fallimento sul piano poiitico del utopiaa erasmiana e l’esplodere della crisi rciigiosa, sembrano testimoniare una battaglia perduta; di Erasmo, restò tuttavia il suo sogno di pace, confermato anche dallo straordinario successo della Querela pacis in termini di stampe e traduzioni. L’ideale erasmiano di pace religiosa e di ritorno alle fonti della fede era condiviso da Thomas More, grande amico dell’umanista fiammingo, il cui interesse per la cultura italiana, in particolare neoplatonica, é testimoniato dalla Vita di Giovanni Pico della Mirandola, redatta in inglese. Al pari di Erasmo, il More era contrario alle dispute religiose e fautore dell’autonomia della ragione che non si lascia assorbire dall’autorità della fede, di una morale cristiana coincidente con quella naturale, di una società fondata su principi egualitari, sul pacifismo e su una sostanziale tolleranza. Tale impostazione di vedute assunse forme definite nella sua Utopia, pubblicata nel dicembre 1516 a Lovanio, in cui l’umanista inglese delineava un modello ideale di Stato perfetto collocato su un’isola posta nel futuro storico. La società degli utopiani vive libera e secondo natura, all’insegna del pacifismo, rispettando ogni forma di culto religioso. Riforma Protestante Nella riflessione degli umanisti dei liberi pensatori la fiducia nella feconda dialettica delle idee conduce naturaliter alla pratica della tolleranza, la quale nell’età moderna, sarà una conquista dell’ Europa riformata e soltanto in seguito sì diffonderà altrove. Dcl resto, i cattolici tolleranti finiranno con l’essere sottoposti essi stessi alla censura ecclesiastica o saranno costrctti a rifugiarsi, come il More, nell’utopia o nelle narrazioni romanzesche. A giudizio dello storico Delio Cantimori, i momenti di più profonda religiosità si sono avuti con i mistici e gli anticlericali cattolici come John Fisher e Thomas More - fatti trucidare da Enrico VIII -, Erasmo e Michelangelo. Con la spaccatura del cristianesìmo occidentale, provocata dalla rivoluzione luterana, I’ indice dei libri proibiti e la vocazione censoria della Curia pontificia diffusero clima di oscurantismo clericale e di generale intolleranza nei confronti del libero pensiero, le cui conseguenze immediate furono la fine ufficiale dell’anticlericalismo cattolico ed un progressivo impoverimento culturale.