La mitologia greca Aristide Tronconi La mitologia greca, si rivela un prezioso aiuto per ragionare intorno a temi importanti della vita umana. La tragedia di Sofocle "Edipo Re" descrive il rapporto tra genitori e figli permeato da sentimenti quali l’odio, la paura, il desiderio, la rivalità. Mentre tutti conoscono, più o meno, la storia narrata da Sofocle, ossia quella di un figlio che uccise il padre e sposò la madre, non così si può dire degli altri aspetti della tragedia o dei numerosi miti ad essa correlati. Fin dalle sue origini la psicoanalisi ha avuto uno stretto rapporto con la mitologia. Freud, Jung e altri dopo di loro si sono serviti del mito per descrivere gli aspetti inconsci della mente umana. Il mito di Edipo e quello di Narciso sono sicuramente i più noti tanto da essere entrati, senza troppa fatica, sia nella cultura che nel lessico odierno. Prendiamo in considerazione il mito di Edipo. Sulla falsariga di quanto scritto da Sofocle in Edipo Re, Freud pensava che l’uomo portasse in sé, in forma inconscia, una tragedia: l’aver desiderato nella sua infanzia di unirsi al genitore di sesso opposto e, nel contempo, di rivaleggiare, sino all’odio, col genitore dello stesso sesso. Freud era giunto a tale scoperta attraverso lo studio del materiale che i pazienti gli portavano in seduta e attraverso la propria autoanalisi. Concluse perciò che il complesso edipico non si trovasse solo nei soggetti nevrotici, ma riguardasse la storia emotiva degli esseri umani in genere. Mentre tutti conoscono più o meno la storia di Edipo, ossia che uccise il padre Laio e sposò la madre Giocasta, non così si può dire degli altri aspetti della tragedia o degli altri miti ad essa correlati. Freud era troppo impegnato a descrivere come le formazioni pulsionali e aggressive originano nel bambino per prendere in considerazione il mito anche da un altro punto di vista. Eric Brenman, uno psicoanalista inglese, pensa all’Edipo Re come al racconto di un trauma infantile, trauma generato dal fatto che un padre vuole che il figlio muoia. In tal caso l’uccisione di Laio da parte di Edipo non sarebbe altro che l’espressione di un vendetta. In Edipo Re, infatti, si narra che Laio non voleva avere figli perché un oracolo gli aveva predetto che se ne avesse avuto uno, questi lo avrebbe ucciso. Ma un bambino era nato lo stesso a seguito di un inganno da parte di Giocasta. Alla sua nascita Laio strappò il figlio alle cure materne e dopo avergli legato e forato i piedi (donde il nome di Edipo che in greco significa "piedi gonfi") ordinò a un pastore, suo servo, di portarlo sul monte Citerone e, lì, di abbandonarlo. Ma questi, una volta giunto sul Citerone, lo affidò a un pastore di Corinto perché lo allevasse come figlio suo. Il pastore decise invece di consegnarlo ai regnanti della città, Polibo e Merope perché, pur desiderando un figlio, non erano riusciti ad averne. In questo modo Edipo si salvò. «Partendo da Laio – scrive Gilda De Simone – troviamo il figlicidio. Non è questo certo un evento specifico solo del mito. Credo che sia a conoscenza di tutti che esso è un comportamento riscontrabile nei gruppi umani nelle varie civiltà. Si va dalle forme più concrete quali i sacrifici dei bambini e dei figli agli dei, dai riti propiziatori e iniziatici, dal maltrattamento e sfruttamento anche sessuale, fino alle forme più sofisticate e subdole del narcisismo del genitore che si appropria del bambino» (pagg. 95-96). Arnaldo Rascovsky pensa che Freud ragionò adeguandosi al modello gerontocratico per cui la colpa è sempre dei figli. Edipo doveva essere il prototipo del figlio colpevole di parricidio. In questo modo Freud disconosceva quell’altra verità, quella di Laio figlicida. E Giocasta? Il suo comportamento non è certo meno biasimabile di quello di Laio. Il concepimento del figlio avvenne con un inganno: ubriacò il marito al calar della notte perché giacesse con lei. Successivamente fu lei a consegnare Edipo al pastore e infine, quando Edipo le confida il suo tormento perché la profezia gli prospettò non solo il parricidio ma anche l’incesto, Giocasta lo consola dicendo che molti sognano di unirsi alla propria madre. «Certamente – scrive la De Simone – Giocasta intuisce la verità molto prima di Edipo e cerca di distoglierlo dalla ricerca delle sue origini. Si suicida quando è chiaro che anche Edipo sa, altrimenti sarebbe stata disposta a conservare il legame incestuoso e a mantenere il figlio in uno stato di diniego e occultamento della verità» (pag. 105). Atrocità ed egoismi Anche le altre vicende mitologiche che corrono accanto a quelle di Laio, Giocasta ed Edipo non sono meno cariche di atrocità, egoismi e inganni. Pelope, ad esempio, che ospitò Laio quando ancora piccolo fu esiliato da Tebe, riebbe la vita grazie all’intervento di Zeus. Suo padre Tantalo, infatti, a corto di provviste, lo aveva servito in pasto agli dei. Pelope sposò Ippodamia ed ebbe 23 figli, in parte nati fuori dal matrimonio. Laio, diventato grande, si invaghì di Crisippo, l’ultimogenito, che rapì facendone il suo amante. Taluni raccontano che Crisippo si uccise dalla vergogna, altri che fu Ippodamia a farlo. Uno sguardo veloce su altri figli di Pelope ci porta ad Atreo e Tieste. Atreo, chiamato il fratello a Micene, ne uccise i figli e glieli servì in pasto. A sua volta Egisto, nato da un rapporto incestuoso di Tieste con la figlia Pelopia, uccise Atreo e successivamente il cugino Agamennone. La saga dei Pelopidi così continua, intrecciandosi con quella dei Labdacidi (Labdaco era il padre di Laio) senza tuttavia segnare una differenza sostanziale per quanto riguarda le violenze, i soprusi, le ambizioni smodate. Comportamenti distruttivi Diversi autori guardano ad esse come a narrazioni che testimoniano la trasmissione tra generazioni di vissuti emotivi, fantasmi, modi di comportarsi. Alcuni parlano di violenza transgenerazionale come parte della violenza familiare latente, altri di gruppalità transfamiliare che nel suo versante positivo può aiutare i componenti a costruirsi un’identità mentre nel suo versante negativo può portare all’odio figlicida o all’erotizzazione incestuosa. Questi due fenomeni vanno intesi come forme estreme di comportamenti distruttivi che si sviluppano lungo un arco di azione che va dal maltrattamento psicologico, passa attraverso il maltrattamento fisico e giunge, infine, alla soppressione dell’altro, nella sua identità fisica (omicidio) o nella sua integrità morale (incesto). Sono cronache purtroppo ancora attuali i delitti, le aggressioni, gli abusi sessuali che avvengono all’interno della famiglia. In questi casi i componenti non sono intesi come persone dotate di una loro individualità, di un loro desiderio o di un loro progetto, ma sono immaginati come mediatori di una realizzazione personale, per cui il loro ruolo dovrebbe essere quello di concorrere, sostenere e soddisfare le esigenze di singoli. «La psicoterapia di un adolescente violento – scrive Giovanna Giaconia – ha messo in luce il problema del riconoscimento legato alle esplosioni di rabbia violenta che lo coglievano quando qualcuno, anche a ragion veduta e affettuosamente, si opponeva alla realizzazione di un suo desiderio. Non riconosceva l’altro come un proprio simile col quale dialogare o litigare, ma come un ostacolo da abbattere, piombava in una situazione narcisistica» (pag. 115). La definizione di narcisismo distruttivo è forse quella meglio indicata, secondo alcuni autori, per descrivere questo modo di relazionarsi; è qualificato come narcisistico perché è un movimento di pretesa verso l’altro che non lascia spazio alcuno alla libertà e alla differenziazione. Se l’altro dà segni di rifiuto nell’essere usato come un oggetto, crea inevitabilmente uno spazio di frustrazione. La sofferenza che ne segue dà l’avvio a comportamenti pieni di aggressività, i cui obiettivi sono: il calo della tensione interna, la punizione dell’altro resistente, l’affermazione del proprio potere, la ricerca di un piacere sostitutivo. Il padre narcisistico Secondo Haydée Faimberg, una psicoanalista francese, Laio è l’esempio del padre narcisistico perché non riconosce altri spazi e altri bisogni al di fuori dei propri. Solo lui ha il diritto di governare Tebe e solo lui è il depositario dell’amore di Giocasta. In uno spazio familiare sano, al contrario, nessuno ha tutto e nessuno è tutto per gli altri. Il riconoscimento e il rispetto del legame tra genitori e figli unitamente all’acquisizione da parte di tutti di un senso del limite, favorisce la creazione di una barriera protettiva nei confronti di comportamenti violenti e abusanti. Il modo di Laio di intendere la generazione che lo segue, nel senso che un figlio non può che essere parricida, la concretizzazione mortifera di questo significato e il rifiuto dell’alterità di Edipo sono, secondo la Faimberg, «due condizioni chiave perché Edipo traduca nella realtà materiale il suo complesso di Edipo» (pag. 185). D’altra parte, come osserva sempre la De Simone, «Laio era rimasto orfano del padre Labdaco in tenerissima età. Pertanto non aveva conosciuto il padre. Possiamo autorizzarci a pensare a lui come a un uomo che, non avendo fruito del padre e non avendo potuto misurarsi con lui, non può nemmeno misurarsi con le sue fantasie di rivalità e competitività col figlio, ancorché neonato. Laio ci appare chiuso in se stesso, non contenuto entro limiti protettivi» (pag. 98). Aggiungerei, per riprendere il tema della trasmissione transgenerazionale, che Laio si sentiva di appartenere alla discendenza dei Labdacidi attraverso la violenza, l’illegalità, l’inganno. Non molto diverso era, come abbiamo visto, il comportamento presso i Pelopidi. Identificazioni generazionali La sfiducia, la diffidenza, l’odio si insinuavano e pervertivano il legame tra genitori e figli allo stesso modo di quello tra fratelli. Atreo e Tieste, figli di Pelope, volevano la morte l’uno dell’altro, così come Eteocle e Polinice, figli di Edipo, si uccisero a vicenda per impedire l’uno all’altro di regnare a Tebe. Sia Edipo che Labdaco avevano un difetto fisico che finì per caratterizzare il loro nome: il modo di camminare sgraziato e zoppicante di Labdaco, le cicatrici ai piedi di Edipo. Ma vi era anche qualcosa d’altro, un sapere mai discusso, un’abitudine mai analizzata che impediva alla discendenza dei Labdacidi di interrogare il loro modo di procedere da una generazione all’altra e di interrogare i valori che inconsciamente trasmettevano ai propri figli. Occorre ricordare che valeva la regola: così si è sempre fatto, così si continuerà a fare. Un’identificazione alienante con altri da sé, un custodire saperi mai resi coscienti e trasformabili portano alla ripetizione invece che al cambiamento. Haydée Faimberg pensa che le identificazioni intergenerazionali avvengono tramite fenomeni inconsci di intrusione e di appropriazione (modalità narcisistiche) del Sé del soggetto da parte di altri. Un Sé sequestrato è indotto a personificare modi e saperi non suoi, ereditati in forma non dichiarata da generazioni e generazioni. La Faimberg ama definire queste costruzioni psichiche, costitutive della mente del soggetto, come genitori interni i quali si muovono sul registro narcisistico poiché considerano il figlio come parte di sé stessi, lo amano quando si comporta come loro si aspettano e lo odiano quando se ne differenzia. «Ma c’è una complicazione: ciò che odiano nel figlio è anche ciò che odiano in sé stessi. Ne consegue che questa differenza, questa separazione, tende a scomparire» (pag. 99). Poiché le esigenze provenienti dai suddetti genitori interni non sono immediatamente rappresentabili, udibili, occorre un lavoro di ricerca, di analisi, di riflessione, di modo che il figlio possa sottrarsi a un futuro precostruito, riconoscendo gli investimenti narcisistici generazionali e scegliendo ciò che del passato va tenuto e ciò che va lasciato. In definitiva solo attraverso un processo di separazione, differenziazione e individuazione, è possibile introdurre i cambiamenti necessari a riportare la propria condotta all’interno di un’area costruttiva dove l’altro non è un doppio di sé stessi, dove la verità può essere perseguita e conosciuta, dove la sofferenza e la frustrazione possono essere tollerate, dove l’affetto e la stima possono avere il dovuto spazio. Alla fine del quarto episodio Edipo esclama: Ahimè, ahimè! Ora è tutto chiaro. / O luce, ch’io veda per l’ultima volta, / io che sono nato da chi non dovevo nascere, / io che mi sono unito con chi non dovevo unirmi, / io che ho ucciso chi non dovevo uccidere. Aristide Tronconi