Riti di passaggio e ordalie

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Riti d’iniziazione e di passaggio;
ordalie antiche e moderne
Olmo Cerri
Supsi DSAS TP1
Laboratorio di Pratica Professionale 1
Prof. Eleonora Gambardella
Maggio 2005
Olmo Cerri, Supsi DSAS, Laboratorio di pratica professionale 1
maggio 2005
Riti d’iniziazione e di passaggio;
ordalie antiche e moderne
Indice:
1) Introduzione
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- Che senso ha questo lavoro?
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3
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3) Moderni riti di passaggio
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- Rituali negati
- La società del rischio: in conquistatori dell’inutile
- L’ordalia
- Ordalia oggi: suicidio come appuntamento settimanale dei giovani ticinesi
- Una società ordalica? Una roulette russa collettiva e coatta
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7
4) Bibliografia
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- Libri e altri supporti cartacei
- Pagine web ed altri supporti elettronici
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11
2) Riti di passaggio e di iniziazione
4
- La classificazione dei riti
- Riti di passaggio e di iniziazione
- Cut off: la separazione
- Morte e rinascita
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2
Olmo Cerri, Supsi DSAS, Laboratorio di pratica professionale 1
maggio 2005
1) Introduzione
Che senso ha questo lavoro?
Durante lo svolgimento di questo lavoro mi sono chiesto più volte che senso avrebbe potuto avere. Il
principale testo di riferimento (Van Gennep) tratta l’argomento con un occhio “antropologico” ed
“etnologico”. I riti di passaggio paiono una questione distante dalla nostra realtà, senza evidenti
rimandi al quotidiano. Quasi riguardassero esclusivamente tribù primitive in territori lontani da noi.
Eppure nessuno di noi può ritenersi “escluso” da questo argomento. Anche cercando di evitarlo non ci
è possibile farne a meno: la parte più ancestrale di noi ha ancora bisogno di riti e di magia. I
cambiamenti ci spaventano e mandano in crisi la nostra razionalità. Non riusciamo a spiegare tutto
quello che ci accade attorno e, men che meno, quello che accade dentro di noi. La nostra “società
scientifica” non può più spiegare con la magia o con la religione tutto quello che ancora non capisce,
ma non ha però ancora trovato una valida e applicabile teoria che le supplisca efficacemente.
Marc Augé1, ci propone una nuova chiave di interpretazione dell’antropologia, una chiave che ci
permette di applicarla facilmente anche alla nostra realtà quotidiana. Siamo abituati a pensare
l'antropologo come uno studioso del Lontano, colui che si occupa di tribù di indigeni nell'Africa (una
volta coloniale, oggi sottosviluppata), oppure di popolazione tribali di un isola della nuova Guinea,
eppure l'antropologo si occupa sono ed esclusivamente del qui ed ora. Un antropologo mentre sta
operando si trova sempre qui (nel suo personale qui momentaneo) e ci racconta quello che vede, sente
e percepisce in quel momento (ora). Si tratta della testimonianza diretta di un istante più o meno
lungo. Inevitabile quindi che gli antropologi iniziassero ad osservare con l'occhio professionale anche
la realtà sociologica più vicina, la nostra, quella nella cui siamo abituati a vivere e a muoverci. E
questo non certo perché il campo di studio “esotico” sia stato completamente eviscerato, ma perché
l'osservazione antropologica “vicina” non è meno interessante di qualsiasi altra. Il metodo
antropologico è quindi applicabile alla nostra società, il problema sta nella vasta complessità
dell'oggetto di studio, dalla mole immensa di materiali che la contemporaneità offre.
Ragionare sui riti di passaggio con occhio antropologico, permette quindi di capire un po’ meglio
aspetti della quotidianità che altrimenti sarebbero ancora più oscuri. I giornali e la televisione,
continuano a parlare di violenza giovanile, di giovani deviati, di criminalità. Ne parlano molto, ma in
fondo senza dire niente. Sarebbe interessante conoscere il parere di un antropologo su questi
avvenimenti.
Cercherò in questo lavoro di privilegiare i rimandi teorici con concetti più facilmente applicabili alla
nostra realtà, decidendo di tralasciare (anche e soprattutto per circoscrivere il campo di ricerca) quegli
aspetti più immediatamente ricollegabili e trasferibili nella realtà pratica e professionale.
Durante il mio stage mi troverò spesso confrontato con la quotidianità di giovani e adolescenti, capire
alcuni meccanismi più interni e intimi mi permetterà forse di rapportarmi in maniera più utile ed
efficace con loro.
Non da ultimo mi auguro che questo lavoro mi possa aiutare ad interpretare alcuni miei sentimenti e
modi di fare, comprendere alcuni stati d’animo e modi di essere. Questa parte non sarà esplicitamente
parte integrante del lavoro ma si tratterà di un lavoro a margine, del tutto personale e introspettivo, ma
di indubbia utilità per la mia crescita.
1
Marc Augé, africanista, nel suo “Nonluoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità”, Eleuthera, 1997,
tratta in maniera brillante ed accattivante, la questione dell’”antropologia vicina”
3
Olmo Cerri, Supsi DSAS, Laboratorio di pratica professionale 1
maggio 2005
2) Riti di passaggio e di iniziazione
La classificazione dei riti2
Nella nostra società occidentale contemporanea vi è una netta separazione fra “mondo sacro” e
“mondo profano”, in altri gruppi societari più primitivi (così come anche alle nostre latitudini in tempi
addietro), la separazione era meno netta e definita. Nulla era svicolato dal sacro: la nascita, il parto, la
caccia, le malattie, i cicli della natura, le intemperie, la morte, eccetera.
Secondo Van Gennep (professore di Etologia all'Università di Neuchatel, 1873-1957) la vita degli
individui componenti di ogni società, consiste nel passaggio successivo da un'età all'altra e da
un'occupazione alla seguente. Se questi passaggi avvengono fra gruppi tenuti separati occorre che la
transizione sia accompagnata da degli “atti particolari”. In una società legata alla sacralità occorre,
tramite questi atti, regolamentare e controllare le azioni e le reazioni fra sacro e profano che ne
potrebbero conseguire, in modo da salvaguardare la società stessa da danni e disagi. La vita di un
individuo, è quindi composta un'inarrestabile serie di tappe: la nascita, la pubertà sociale, il
matrimonio, la paternità, la progressione di classe, la specializzazione di occupazione, e la morte. Ad
ognuno di questi insiemi viene fatto corrispondere delle cerimonie, che hanno tutte il medesimo fine:
far transitare la persona da una situazione determinata ad un'altra situazione anch'essa determinata. Il
fine è quindi identico, i mezzi per ottenerlo non saranno medesimi ma avranno delle analogie, in
quanto la tappa superiore conterrà dentro di se tutte quelle che la hanno preceduta.
Ne l'individuo ne la società umana sono indipendenti dalla natura e dall'universo, i ritmi della natura
hanno evidenti ripercussioni sulla vita degli esseri umani. È proprio per questo che è necessario
accompagnare anche i mutamenti cosmici (equinozi e solstizi, plenilunio, capodanno, ecc) con dei riti,
proprio come si fa con i cambiamenti umani.
Diversi ricercatori hanno affrontato la tematica, e sono stati proposti diversi tentativi di codifica di
questa moltitudine di rituali tramite diversi schemi. Tutti sono comunque concordi nell'affermare che
si è ancora lontani da una perfetta sistematizzazione di questi fenomeni. Un primo tentativo è stato
quello di suddividere i “riti simpatici” ovvero quelli che agiscono con il simile sul simile, oppure del
contrario sul contrario o ancora della parte sul tutto dai “riti contagiosi” ovvero quelli che agiscono
sulla materialità e sulla trasmissibilità di qualità naturali acquisite. È stata pure avanzata l'idea di
suddividere i riti fra “diretti” quelli che hanno un potere efficace immediato (come l'imprecazione o
un sortilegio) e quelli “indiretti” che mettono in modo un processo secondario (come l'invocazione di
un'entità superiore). Solamente raramente questi schemi (a cui si aggiungono molte altre teorie)
risultano un aiuto accettabile per una schematizzazione valida dei fenomeni osservati.
L'autore preferisce quindi concentrarsi invece che sulla suddivisione, sulla comprensione e lo studio di
un'intera sequenza cerimoniale, ovvero il percorso completo necessario per transitare da una
situazione all'altra che è stato definito come “rito di passaggio” e che raggruppa al suo interno “riti di
separazione” (perliminari), “di margine” (liminari) e “di aggregazione” (postliminari).
I riti di passaggio oltre al loro scopo di transizione hanno anche un ulteriore fine che molto spesso è
quello dichiarato. Per esempio, la cerimonia del matrimonio (rito di passaggio fra l'età puberale e l'età
riproduttiva) comporta anche un rito di fecondazione, la nascita comporta riti di protezione,
l'iniziazione comporta riti propiziatori e così via. Insomma un intricato intreccio di riti che diventa
spesso difficile (e forse inutile) riconoscere e scomporre nelle sue unità costitutive.
2
Cfr. Van Gennep Arnold, I riti di passaggio, Universale Bollati Boringhieri, Torino, 1981, capitolo 1
4
Olmo Cerri, Supsi DSAS, Laboratorio di pratica professionale 1
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I riti di passaggio e di iniziazione3
Anche se in genere vi è una grande confusione e a volte i riti di passaggio e di iniziazione sono
congruenti, per comprendere l'essenza di questi ultimi, occorre distinguere le tappe fisico-biologica
dalle tappe sociali.
Per comprendere questo concetto, prendiamo ad esempio la pubertà: in alcune zone dell'Europa il
menarca avviene mediamente attorno ai quattordici anni, mentre la possibilità giuridica di sposarsi
sopraggiunge già ai dodici anni. In questo caso la pubertà sociale non coincide con la pubertà
biologica.4
Nei maschi la pubertà biologica è ancora meno definita e difficile da individuare chiaramente, i loro
riti di iniziazione saranno quindi più facilmente legati alla professione che il giovane intenderà
intraprendere. La pubertà sociale potrà quindi prolungarsi fino a quando tutti i requisiti necessari per
l'accettazione nel nuovo gruppo non potranno essere soddisfatti.
Da questo si può dedurre che i riti di iniziazione siano si un modo per diventare uomini o donne, ma
restino comunque anche un rito di transizione dall'insieme del mondo asessuato, all'insieme del mondo
sessuato. Dal mondo dei bambini al mondo degli uomini e le donne, da fanciullo a lavoratore e così
via.
Cut off: la separazione
I riti di iniziazione devono quindi essere un brusco ed irreversibile mutamento nella vita
dell’individuo, occorre che siano una divisione netta con il passato.
Nell’esempio riportato da Howit5, a proposto della tribù australiana dei Kurnai appare evidente
l’irreversibilità del rito di iniziazione:
“L’obbiettivo di tutti i momenti di questa cerimonia è di introdurre un mutamento brusco nella vita del
novizio; il passato deve essere separato da lui (cut off) con un intervallo che non potrà mai più
riattraversare. La parentela con la madre, nel ruolo di bambino, viene bruscamente spezzata e, a
partire da questo momento, egli resta legato agli uomini. Deve abbandonare tutti i giochi e gli svaghi
dell’infanzia nello stesso momento in cui si spezzano i vecchi legami domestici con la madre o le
sorelle. Egli diventa così un uomo preparato, consapevole dei doveri che gli competono in qualità di
membro della comunità Murring.”
Elemento comune a molte culture, provenienti anche da parti diverse e molto distanti del globo, è
quella riferita a tutte quelle pratiche di modificazione corporea permanente, attraverso mutilazioni,
ablazioni e resezioni in qualunque parte del corpo, al fine di modificare in maniera evidente a tutti i
membri della comunità, la personalità di un individuo.
La circoncisione, l’estrazione di un incisivo (Australia), la recisione di una falange della mano (Sud
Africa), i tatuaggi e le scarnificazioni, la perforazione del setto nasale, il taglio del lobo dell’orecchio o
la sua perforazione, sono tutti riti di separazione (separazione esplicitata dal ferimento della
corporeità) che permettono all’individuo di aggregarsi ad un gruppo determinato. Il rito lascia segni
indelebili, l’aggregazione risulta quindi definitiva e permanente.
Nei riti di iniziazione spesso vengono utilizzati anche differenziazioni meno definitive come costumi
particolari, maschere, pitture, la differenziazione che imprimono è soltanto temporanea.
3
Cfr. Van Gennep, (op. cit.), capitolo 6
Questo esempio, citato a p. 58, riguarda la città di Roma ma non riporta le fonti di tali dati e neppure l'epoca in cui questi
dati erano attuali. A prescindere da queste mancanze rimane comunque un esempio esplicativo del divario fra pubertà
sociale e biologica.
5
A.E. Howitt, The native Tribes of South and Aouth-East Australia, Londra 1904, p. 532, citato dal Van Gennep
4
5
Olmo Cerri, Supsi DSAS, Laboratorio di pratica professionale 1
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Morte e rinascita
“La morte iniziatica rende possibile la tabula rasa su cui si inscriveranno le rivelazioni successive,
destinate a formare un uomo nuovo6”.
Un altro punto in comune in riti di iniziazione di civiltà anche molto distanti è quella del passaggio da
una pantomima di morte-rinascita nel corso del rito.
Per un periodo più o meno lungo il novizio viene considerato come morto o morente. Tramite pratiche
diverse si ottiene un progressivo indebolimento oppure una momentaneo stato di confusione, delle
caratteristiche fisiche e psichiche.
Al momento in cui il soggetto è morto (simbolicamente), gli è finalmente permesso rinascere, il
gruppo degli adulti gli insegna a vivere in modo del tutto diverso rispetto all’infanzia, viene
reintegrato a tutti gli effetti grazie al suo nuovo ruolo. Può accedere alla sfera della sessualità, deve
assumersi in maniera indipendente scelte e responsabilità (è finito il tempo dell’ignoranza infantile),
entra a far parte del mondo sacro. Prende conoscenza della storia sacra della sua cultura, che dovrà
essere custodita e ritrasmessa intatta alle future generazioni perché essa contiene le fondamenta della
società, la storia della creazione del mondo e della nascita dell’uomo.
Il rituale di rinascita plasma l’uomo nuovo su un modello arcaico, divino e mitico. L’individuo entra a
far parte di una storia collettiva (ontologica) condivisa con tutti i membri adulti della sua comunità.
In questo modo si ottengono due importanti risultati, a livello personale si ha la possibilità di
incanalare energie e pulsioni verso degli obbiettivi ritenuti socialmente positivi: a livello collettivo
ottiene risultati normativi (il rispetto della legge), rigenerativi (forze nuove all’interno della società) e
coesiva (il sentimento di far parte tutti dello stesso gruppo).
A volte con il nuovo ruolo, il soggetto assume anche un nuovo nome che ne esplicita il cambiamento e
la nuova identità.
Esistono poi, come contropartita ai riti di iniziazione, i riti di espulsione, di messa al bando e di
scomunica. Essi sono meno studiati e meno frequenti (tutti passano da un rito di iniziazione ma solo
un numero nettamente più esiguo deve affrontare un rito di scomunica). Si tratta di riti di
desacralizazione che hanno la funzione di distanziare un individuo deviante dalla comunità. È un
tentativo di ridurre al minimo le possibilità di destabilizzazione di una società da parte dei suoi
componenti.
6
Eliade M., La nascita mistica. Riti e simboli d’iniziazione, Brescia, Morcelliana, 1980, p. 10
6
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3) Moderni riti di passaggio
Rituali negati
“I bambini che crescono in città, […] dove possono trovare i loro miti? Se li fabbricano da soli. Ecco perché le città si
riempiono di graffiti. Questi ragazzi hanno le loro bande, con tanto di iniziazioni e codice morale, e fanno quello che
possono.”7
L’esigenza di rituali d’iniziazione non è estranea alla nostra cultura occidentale ma, negata dalla
cultura ufficiale, si ripropone in termini occulti e inconsapevoli. Le istituzioni moderne, lasciando al
singolo individuo il problema del suo sviluppo interiore, ed è del tutto assente una presa a carico
collettiva dei mutamenti personali. La scuola, i gruppi giovanili e le famiglie si occupano solo in
maniera limitata e improvvisata di questo tema. La chiesa ha perso molta credibilità in questo campo
(la cresima per esempio ha perso gran parte del significato che un tempo gli era attribuito).
Gli individui al termine della loro fase profana infantile sentono il bisogno di accedere al mondo sacro
adulto, ma non ricevono il supporto sociale necessario.
Ogni individuo necessità di una morte simbolica per permettere una nuova nascita, i tentativi messi in
atto dai giovani adulti spesso hanno esiti distruttivi (invece che costruttivi) proprio per la mancanza di
una modalità chiara e socialmente condivisa e definita.
La ritualità è un modo di canalizzare le emozioni, un modo di controllarle e di contenerle entro dei
limiti in modo che non siano eccessivamente distruttive e prorompenti.
Quando essa viene a mancare crea degli squilibri che devono venir compensati in altro modo.
Interessante l’esempio, citato8 dallo scrittore E. Bourguignon, di un confronto particolareggiato
(svoltosi nel 1959) tra le reazioni degli Indiani dell'America del nord, che assumono il peyote9
nell'ambito di rituali religiosi, e i soggetti bianchi, che lo assumono nell'ambito di un esperimento
clinico. Sono state riscontrate differenze sorprendenti sia dal punto di vista comportamentale che da
quello delle esperienze soggettive. Gli Indiani sperimentavano sentimenti di riverenza e spesso anche
di sollievo da qualche malattia fisica. I Bianchi invece si trovavano senza alcuna preparazione
culturale che impartisse un particolare significato alla cosa. Le modificazioni della percezione del sé e
degli altri terrorizzavano i Bianchi, mentre per gli Indiani coincidevano con le loro aspettative rituali e
religiose. Allo stesso modo i Bianchi avevano allucinazioni che variavano da un individuo all’altro
(erano prive di un modello culturale comune) mentre quelle degli indiani corrispondevano alle loro
credenze e al loro schema culturale.
Le conclusioni tratte dai risultati del test furono che la droga non ha di per se un suo "contenuto", si
limita a modificare per un certo tempo la coscienza e la percezione umana. I differenti risultati ottenuti
sono da mettere in relazione con le differenze culturali dei due gruppi: il contesto del gruppo, il
significato simbolico dell'evento e la formazione mentale con cui hanno affrontato l'esperienza.
7
J. Campbell., Il potere del mito, Milano, Editori Associati, 1994, pp. 29-30
Sull’iniziazione e la fine delle iniziazioni:
http://www.maschiselvatici.it/iniziazione/iniziazione1.htm
9
Il peyote (Lophophora Williamsii) è un piccolo cactus di 10 - 12 cm. di diametro, di colore blu-verde scuro, bianco o
rosato e di forma globulare, che cresce nelle regioni semi-desertiche del nord e del centro del Messico, e nel sud degli
Stati Uniti (es. deserto del Chihuahuàn). Il peyote rappresenta una delle droghe allucinogene più popolari e considerate
fra le popolazioni indigene del Messico, al punto che per gli indios messicani era a tutti gli effetti un Dio. Il suo uso fra
queste popolazioni risale a prima della storia scritta, e le caratteristiche religioso-rituali del consumo si traducevano in
complesse cerimonie, con peregrinazioni di intere tribù nel deserto.
Con l'arrivo dei Conquistadores spagnoli, e con l'introduzione forzata del cattolicesimo, l'uso del peyote fu considerato
peccaminoso e diabolico. Ma i tentativi protratti, ed estremamente violenti, di estirparne il consumo fallirono, al punto
che il suo uso finì per estendersi dal sud del Messico, attraverso il nord America, alle pianure centro-occidentali del
continente fino al Canada.
Adattamento da: www.ildiogene.it, pagine enciclopediche
8
7
Olmo Cerri, Supsi DSAS, Laboratorio di pratica professionale 1
maggio 2005
La società del rischio: i conquistatori dell'inutile10
“Spingersi oltre, dare fondo alle proprie forze, incontrare finalmente un muro d’arresto dopo aver speso generosamente
la propria energia, a quel punto, in maniera provvisoria o durevole, trovare la propria collocazione, sentirsi esistere,
sentire d’essere contenuti. Il paradosso dell’estremo è di porsi come contenitore, e di raccogliere infine un’identità
frammentaria.”11
Nel periodo in cui viviamo il fattore “rischio” ha assunto un ruolo sempre più preponderante. Sono
sempre di più le persone (non solo adolescenti) autori di “prodezze rischiose”. Gli esempi si possono
trovare negli ambiti più diversi: da quello sportivo a quello economico. Scoprire i propri limiti ed
eventualmente riuscire superarli, è proprio quello che la folla di “conquistatori dell'inutile” stanno
cercando. Un bisogno di “limite” che da la sicurezza di esistere, trovare un limite fisico per supplire
alla mancanza di un limite simbolico.
Affrontare un rischio permette di dominare la morte, permette di renderne visibile ed accessibile la
minaccia e prendere le dovute precauzioni per poterla evitare. Da questa sfida se ne esce rafforzati,
con un significato nuovo (ma spesso poco durevole) per affrontare l'esistenza.
L'ordalia12
“L’ordalia è dunque un rituale di conciliazione sociale che favorisce la risoluzione di una tensione durevole tra il
soggetto e il gruppo, attraverso il procedimento – sommario ma efficace – del “tutto o niente”.
L’ordalia è un rito giudiziario, il giudizio di un dio (può trattarsi di una personalissima concezione di
dio, divinità o quant'altro abbia potere di governare gli eventi) nei confronti dell’uomo. È un rito che
ha un suo senso di esistere in quelle società in cui tutto è collegato, in cui non esiste il caso e in cui la
storia confonde le relazioni fra uomini e dei.
Chiamare una divinità a pronunciarsi, in maniera inequivocabile sulla colpevolezza o meno di un
individuo, è una soluzione incontestabile ad una crisi che è sorta fra un individuo e il suo gruppo
sociale. Il responso divino, in caso sia negativo, è dato dalla morte.
Così come il rito di iniziazione anche l’ordalia è un sistema che provoca un effetto distensivo sul
gruppo sociale, sono ambedue dei metodi per evitare crisi interne, per risolvere in maniera
relativamente “indolore” periodi drammatici. Grazie all’ordalia una comunità riesce a superare periodi
di stasi causata dall’indecisione, è un procedimento che pacifica determinate tensioni interne in un
gruppo. Con la razionalità che contraddistingue13 la nostra società, diventa difficile accettare questo
metodo di risoluzione dei problemi. Nessuno tribunale sarebbe più disposto ad accettare per esempio
la “prova del fuoco”, ovvero l’inserimento della mano in acqua bollente e la seguente valutazione
dell’ustione o rituali ordalici di questo tipo.
Eppure l’ordalia, pur modificata radicalmente nella sua sostanza continua ad esistere.
L’individualismo che contraddistingue la società postmoderna si è trasferito anche nell’ordalia, non
più un rito collettivo ma un intimo, solitario, imprevedibile e personale bisogno di conferma.
Anche l’ordalia individuale rompe il sentimento di indecisione e di stasi, è una reale via d’uscita ad
una situazione apparentemente bloccata. Maggiore è il rischio da cui si è usciti indenni, maggiori sono
le possibilità di salvezza, un meccanismo che si collega direttamente con il rituale di morte-rinascita
tipico dei riti di passaggio.
La propria personalissima visione del sacro riempie almeno in parte il vuoto lasciato dall’assenza di
10
Cfr. Le Breton Davis, Passione del Rischio, Edizioni gruppo Abele, Torino 1995, capitolo 1
Cfr. Le Breton (op. cit.), capitolo 3, p. 69
12
Cfr. Le Breton (op. cit.), capitolo 2, da cui è tratta anche la citazione sottostante
13
o forse meglio “dovrebbe contraddistinguere”
11
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una comunità a cui far riferimento per le questioni di primaria importanza.
La visibile brutalità dell’atto ordalico permette di creare reazioni anche all’esterno, la brutalità di
questo atto provoca il gruppo sociale e aiuta a rinsaldare i legami di attenzione e cura attorno al
soggetto14.
Ordalia oggi: suicidio come appuntamento settimanale dei giovani ticinesi
“Io, se fossi Dio. E potrei anche esserlo. Se no non vedo chi.” 15
Sono molti, difficili da riconoscere ed impossibili da quantificare i comportamenti ordalici dei
giovani. Abuso di sostanze stupefacenti, guida spericolata, sesso non protetto, abuso di cibo, astinenza
dal cibo, comportamenti rischiosi, violenza, delinquenza, giochi pericolosi, suicidi e tentati suicidi.
Dove si situa esattamente il limite fra “comportamento rischioso o normalmente patologico” e vera e
propria ordalia?
In Ticino, come nel resto del mondo non esistono delle statistiche precise su questo argomento, se ne
parla molto poco, il tema è ancora un tabù. Si teme che parlando di suicidio “per imitazione” esso
venga messo in pratica da altre persone16. Eppure a volte, è proprio la solitudine, l’impossibilità di
verbalizzare il proprio malessere che spinge a questo gesto estremo.
In Svizzera il suicidio è la prima causa di morte fra i giovani fino a 24 anni, muoiono più persone per
questo motivo che per incidente stradale17. In Ticino mediamente si suicida una persona alla settimana,
nel mondo una ogni quaranta secondi18. Queste statistiche non provengono mai da istituzioni che si
preoccupano di sanità o socialità ma direttamente dagli archivi di polizia. Ulteriore segnale del fatto
che la tematica è marginalizzata e nascosta, sicuramente non affrontata con la dovizia che invece
meriterebbe.
È difficile diventare adulti nella società del libero mercato globalizzato19. Forse più difficile di un
tempo in cui non c’era altra scelta se non diventare adulti molto in fretta, per poter collaborare alle
necessità di sussistenza della famiglia. Oggi per diventare adulti è necessario apparire adeguati
rincorrendo quindi tutti quegli oggetti status senza di cui pare impossibile relazionare e riuscendo a
indossare i “panni” che la società impone.
La formazione mercificata poi, indispensabile per entrare “nel mercato del lavoro” senza la quale si
rischi di essere un “peso per la società”. Formazione che inizia già a discriminare con i livelli alle
14
È possibile notare questo in alcuni casi di tentato suicidio, grazie al superamento del rito ordalico è possibile riallacciare
rapporti con parenti amici che, forse per la prima volta, si rendono conto dell’esistenza della loro individualità.
15
Gaber Giorgio, Io se fossi Dio, LP 1980. Canzone che per il suo contenuto politico non ha trovato un editore, è stata
quindi stampata e diffusa in proprio da Gaber in semiclandestinità.
È possibile scaricare il file mp3 (altrimenti difficile da reprerire) dal sito:
http://web.tiscali.it/scudit/mdgabersefossi.htm
16
È proprio questo il tema su cui verte l’interessante documentario «Senza di me» di Danilo Catti (RTSI 2004), Presentato
in anteprima a Castellinaria (Festival del Cinema Giovane). Il regista propone una soluzione in controtendenza: parlare
apertamente di suicidio per poterlo prevenire.
17
In Svizzera, come in generale negli altri paesi europei, vi sono più morti per suicidio che per incidenti della circolazione
stradale. I suicidi in Svizzera sono mediamente circa 1400 all’anno, per un tasso di 20.3 ogni 100'000 abitanti. Nel 1999, i
morti per incidenti della circolazione stradale sono stati 583. In Ticino, rispetto alle 40-45 morti per incidenti stradali, si
constatano mediamente all’anno 50-55 suicidi, ossia un tasso del 18.3.
Dal foglio statistico della polizia cantonale (2002):
http://www.ti.ch/di/pol/approfondimenti/statistica/approfondimenti_pdf/suicidio2002.pdf
18
Dati forniti dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e ripresi dal dossier di indymedia.ch sul tema del suicidio
http://switzerland.indymedia.org/it/2004/09/25920.shtml
19
Cfr: Gioventù e liberomercato globalizzate, di Graziano Pestoni, da “I diritti del Lavoro” organo della VPOD (Gennaio
2005)
9
Olmo Cerri, Supsi DSAS, Laboratorio di pratica professionale 1
maggio 2005
scuole medie, ricca di competività e alla ricerca dei massimi profitti formativi. Diventa difficile vedere
un futuro in queste condizioni, soprattutto quando si è lasciati ad affrontare questo importante
cambiamento in maniera solitaria. Senza le strutture sociali e relazionali necessarie per affrontare
questo cambiamento. Ognuno deve cavarsela da se, armato di carta di credito e telefonino, farsi strada
nella giungla neoliberista. Era forse più facile quando la giungla non era metaforica ma reale, quando
nei riti di iniziazione si era sostenuti dalla collettività e quando la privazione del cibo faceva parte di
un rituale codificato e non si trattava di un’anoressica e solitaria necessita di sopravvivenza.
In questo panorama precario ed incerto l’ordalia torna ad avere una sua attualità, un modo per
sbloccare una crisi statica, per andare oltre. Un mezzo di autodifesa e di sopravvivenza. La conferma
dell’esistenza stessa in una società in cui significati e valori collettivi sono sconnessi e confusi. Non
una ribellione contro la comunità di appartenenza ma un sentimento di abbandono e di impotenza.
Non più la morte metaforica e simbolica mediata dei riti di iniziazione, ma la morte affrontata in
maniera diretta e concreta in una solitaria ed improvvisata ricerca identitaria che confermi in modo
brutale la propria esistenza.
Una società ordalica?20 : una roulette russa collettiva e coatta
“Siamo tutti degli ostaggi, serviamo ormai tutti da argomento di dissuasione. Ostaggi obbiettivi: rispondiamo
collettivamente di qualcosa, ma che cosa? Una sorta di predestinazione truccata, di cui non siamo nemmeno più in grado
di individuare chi l’ha manomessa, ma noi sappiamo che la bilancia della morte non è più nelle nostre mani, e che siamo
ormai in uno stato di suspense e di emergenza permanente, del quale il nucleare è il simbolo. Ostaggi oggettivi di una
divinità terrificante, non sappiamo nemmeno da quale evento, da quale accidente, dipenderà la manipolazione
definitiva”21
È possibile trovare un corrispettivo dell’ordalia individuale a livello collettivo e societaria. Il
progresso scientifico e tecnologico, la strenua lotta contro il caso che stiamo portando avanti viene
ribaltata nel suo contrario. Il progresso porta con se, forse per la prima volta, la reale possibilità per
l’umanità intera di autodistruggersi. La scienza e la tecnica procedono in maniera completamente
ordalica e aleatoria proprio in quei campi più potenzialmente rischiosi e distruttivi. Gli incidenti
nucleari di immensa gravità (come quello di Cernobyl), la distruzione dello strato d’ozono, lo
stoccaggio irresponsabile di scorie ad elevato potenziale distruttivo in zone non sicure paiono proprio
una richiesta specifica ad una qualche divinità di decidere per noi.
Un terremoto sottomarino che provoca una fuoriuscita di materiale tossico (evento assolutamente
aleatorio e imprevedibile) potrebbe contaminare e distruggere l’intero ecosistema marino e di
conseguenza minare l’intera catena alimentare e quindi sterminarci. Questa possibilità e reale e
concreta e potrebbe capitare da un momento all’altro è completamente affidata a fattori che non
possiamo assolutamente controllare. Proprio come l’adolescente ordalico che si sdraia sulla linea
bianca che separa le corsie di una autostrada, e lascia a qualcun’altro la responsabilità di decidere in
merito della sua sopravvivenza.
Non conosciamo con sicurezza gli effetti dannosi di tecnologie quali l’ingegneria genetica e le
radiazioni dei telefonini, eppure non ci scomponiamo. Affrontiamo il rischio, e accettiamo di mettere
in gioco tutto quanto abbiamo per avere la conferma della nostra esistenza.
I comportamenti rischiosi e ordalici individuali sono quindi specchio di quelli che caratterizzano la
società contemporanea collettiva. L’individuo e la collettività ancora una volta legati da un filo
indissolubile come nelle tribù dette primitive, ma questa volta il legame è perverso ed autodistruttivo.
Ufficialmente si vanta il possesso di sicurezza, razionalità e controllo ma basta scavare un po’ per far
emergere proprio il contrario, la sopravvivenza dell’intera specie umana è vincolata ad una serie
fortuita di coincidenze.
20
21
Cfr. Le Breton (op. cit.), capitolo 2, da p. 66
Baudrillard J., Le strategie fatali, Feltrinelli, Milano, 1984, p. 32
10
Olmo Cerri, Supsi DSAS, Laboratorio di pratica professionale 1
maggio 2005
4) Bibliografia:
Libri e altri supporti cartace
Augé M., Nonluoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano, 1997
Baudrillard J., Le strategie fatali, Feltrinelli, Milano, 1984
Campbell J., Il potere del mito, Editori Associati, Milano, 1994
Eliade M., La nascita mistica. Riti e simboli d’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1980
Le Breton D., Passione del Rischio, Edizioni gruppo Abele, Torino, 1995
Pestoni G., Gioventù e liberomercato globalizzate, da “I diritti del Lavoro” organo della VPOD (Numero 1, gennaio 2005)
(presente anche online qui: http://www.vpod-ticino.ch/archivio/_archivio/05_01_gioventueliberomercato.htm)
Van Gennep A., I riti di passaggio, Universale Bollati Boringhieri, Torino, 1981
Pagine Web e altri supporti elettronici
Senza di me, di Danilo Catti (RTSI 2004), VHS o DVD:
Associazione Treno dei Sogni, [email protected]
Una nuova specie di uomo si aggira nella società: tra antropologia e psicologia...
di Giancarlo Bergonzini ed Emanuele Passanante
http://www.psicologiasalute.it/html/articolo_25022001.html (2 maggio 05)
La scomparsa dell’iniziazione (Scarano):
http://www-utenti.dsc.unibo.it/~scarano/ig/consumistico.html (3 maggio 05)
Trascrizione della trasmissione televisiva Il Grillo, del 28 aprile 1998 (Rai Educational)
Di Alessandro Dal Lago: Sacralità e ritualità
http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=228 (5 maggio 05)
Sull’iniziazione e la fine delle iniziazioni:
http://www.maschiselvatici.it/iniziazione/iniziazione1.htm (5 maggio 05)
Suicidi: la strage nascosta, dossier a cura di indymedia.ch:
http://switzerland.indymedia.org/it/2005/02/30613.shtml (10 maggio 05)
Foglio statistico “Suicidi” della Polizia Cantonale (2002):
http://www.ti.ch/di/pol/approfondimenti/statistica/approfondimenti_pdf/suicidio2002.pdf (13 maggio 05)
Gaber Giorgio, Io se fossi Dio, LP 1980 (testo e Mp3):
http://web.tiscali.it/scudit/mdgabersefossi.htm (12 maggio 05)
Il Diogene, pagine enciclopedia sul Peiote:
http://www.ildiogene.it/EncyPages/Ency=peyote.html (8 maggio 05)
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