Marco Aime, Gustavo Pietropolli Charmet La fatica di diventare grandi, Einaudi 2014 In questo saggio di recente pubblicazione l’ antropologo Marco Aime e lo psicologo Gustavo Pietropolli Charmet affrontano da punti di vista diversi il tema della scomparsa dei riti di passaggio nella società contemporanea. Presenti in moltissime società descritte dagli etnologi, i riti di passaggio sono cerimonie collettive che celebrano pubblicamente l’ingresso in una determinata tappa della vita, assegnando ai protagonisti un nuovo status sociale, ad esempio di adulto o guerriero. Sono quindi momenti di rottura della continuità temporale e documentano l’esistenza, presso tutti i popoli, anche i più lontani dal cosiddetto modello “occidentale”, di dispositivi per una misurazione sociale del tempo. Che forse non avrà un’esistenza fuori di noi, come pensava sant’Agostino, ma che in ogni caso misuriamo, con sofisticati orologi o semplicemente riferendoci alla luna, al sole o all’alternarsi delle stagioni. Agli inizi del secolo scorso, più precisamente nel 1909, lo studioso francese Arnold van Gennep pubblicò I riti di passaggio, tuttora un classico dell’antropologia culturale, in cui spiegò che in ogni tipo di società lo svolgimento dei riti di passaggio segue lo stesso schema tripartito, con una prima fase di “uscita” (dal gruppo di appartenenza e da una condizione sociale), una seconda di ”limen” (transizione al nuovo status sociale attraverso prove più o meno dure), e con la finale “reintegrazione” (rientro nel gruppo con uno status diverso). Oltre allo schema tripartito, un’altra caratteristica comune ai riti di passaggio è il fatto che essi, pur avendo come protagonisti i giovani, pronti a conquistare con il superamento di ardue prove un nuovo e più prestigioso status sociale, sono gestiti dagli adulti. E proprio qui casca l’asino, secondo Aime, che si chiede chi oggi potrebbe gestire, nello spazio sociale della postmodernità, o “surmodernité”, come dicono i francesi, l’ingresso socialmente legittimato nell’età adulta. Che i riti di passaggio dalle nostre parti siano scomparsi è un fatto: non c’è più il servizio militare obbligatorio, e l’esame di maturità da cui si esce tutti promossi non ha certo le caratteristiche di un cruento rito di iniziazione all’età adulta. In compenso, si è dilatato il tempo della permanenza nella famiglia di origine, non si trova lavoro prima dei trent’anni e ci si sposa sempre più tardi. I confini tra le età della vita non sono più così netti, e a farne le spese è proprio l’età adulta, sempre più indefinita e sempre meno riconoscibile. Ormai viviamo in un mondo di quarantacinquantenni eterni adolescenti in blue-jeans, che scorrazzano in scooter, twittano e chattano, cercano amici su Facebook e condividono gusti e interessi con i loro figli, a cui sono legati da un rapporto confidenziale di affettuosa complicità. Tra giovani e adulti, insomma, non esistono più fratture; all’apprendimento “verticale” (dai grandi ai più giovani) si è sostituito quello “orizzontale” (dalla rete o dai media), o addirittura l’inculturazione rovesciata per cui sono i ragazzi a spiegare ai loro genitori come si usano le nuove tecnologie multimediali. Ma se insieme ai tradizionali riti di passaggio sono scomparsi anche gli adulti che li gestivano, non si vede chi potrebbe oggi organizzare una loro ripresa; certo, si può obiettare che i riti di passaggio non servono più, che se la temporalità oggi è declinata solo sul presente significa che il nostro mondo è questo e a nulla serve rimpiangere il passato; accettiamo il fatto che i tempi cambiano, come cantava Dylan negli anni Sessanta, e viviamo il nostro oggi senza porci troppe domande. Ma l’antropologo Aime e lo psicologo dell’adolescenza Pietropolli non ci stanno, e segnalano il rischio che sia la società dei consumi, con le sue logiche mercantili, ad appropriarsi dei riti di passaggio: il mercato infatti offre ai ragazzi numerosi oggetti (ricercati anche per il loro valore simbolico) che rappresentano il raggiungimento di una tappa nella definizione di sé e nel rapporto con il gruppo, dai jeans strappati ad arte allo smartphone di ultima generazione, dallo scooter al piercing e ai tatuaggi. Se temiamo che la fragilità narcisistica degli adolescenti sia esposta alle non del tutto disinteressate lusinghe del mercato, forse è il caso di chiederci se la marginalizzazione dei riti di passaggio sia un bene per la società e se non sia invece opportuno, come d’altronde mostrano le ricerche sul campo degli etnologi, mantenere in vita una certa quantità di “conflitto controllato” tra le generazioni.