Roberto Weitnauer
11 gennaio 2006
(8437 battute)
Scritto d’origine pubblicato e diritti ceduti a terzi
L’opportunistica evoluzione dell’occhio
L’occhio è un organo che desta in noi una certa meraviglia. Può essere difficile
accettare il fatto che il suo sofisticato ruolo si debba a mere accidentalità
susseguitesi nell’ambiente terrestre selettivo, come impone di pensare la teoria di
Darwin. In effetti, l’occhio è stato spesso al centro delle polemiche lanciate fuori
dalla scienza da taluni anti-darwiniani che preferiscono intendere quest’organo
come il risultato di un programma insito nella materia vivente. Nondimeno, le
ricerche paleontologiche mostrano che il percorso evolutivo dell’occhio, al pari di
ogni altra funzione adattiva, è il frutto di una selezione opportunistica.
La teoria darwiniana spiega l’evoluzione mediante la selezione naturale. La
comparsa delle specie, delle loro forme e dei loro organi dipende da come le diversità
occasionali che i vari individui trasmettono alla loro discendenza si confrontano con i
mutevoli e imprevedibili vincoli dell’ambiente. Eppure, alcune funzioni biologiche
risultano talmente articolate che molte persone non riescono a conciliarle con l’idea
di una concatenazione di eventi fortuiti.
Un caso tipico e spesso oggetto polemiche è l’apparato oculare, un sistema
composto da parti diverse e sofisticate, quali cristallino, muscoli regolatori, cellule
sensoriali e innervazioni. Una retina senza cristallino o, ancor più, un cristallino senza
retina non sono funzionali. Eppure, retina e cristallino hanno qualità tessutali
differenti, segno di origini diverse sia nello sviluppo embriogenetico, sia
nell’evoluzione. Questo significa che l’occhio è il risultato di una convergenza
evolutiva di parti diverse in un’unica funzione integrata.
Gli anti-darwiniani sostengono che non è ammissibile che un dispositivo così
specialistico derivi da sviluppi casuali, poi integratisi altrettanto a caso nella
mansione visiva. Secondo le loro argomentazioni un primordiale proto-occhio privo
di cristallino o di retina, e dunque gravemente incompleto, è evolutivamente
giustificabile solo se inteso come un passaggio obbligato verso una funzione futura,
ossia come una fase nell’ambito di un’orchestrazione generale della materia
biologica.
La convinzione che l’evoluzione sulla Terra debba corrispondere a una propulsione
verso un miglioramento continuo traduce la fede nelle cause finali, quelle che
operano in vista di qualcosa, come se il futuro potesse condizionare il presente.
Opinioni di questo genere, è meglio precisarlo subito, non possono classificarsi come
scientifiche, giacché nella scienza le uniche cause che contano sono quelle efficienti,
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quelle a seguito delle quali accade qualcosa, laddove il presente è il risultato del
passato.
Dobbiamo quindi interpretare l’occhio, al pari di ogni altro organo, come il
risultato di una serie pressioni selettive mutevoli esercitatesi volta per volta sulle
occasionali variabilità ereditarie evidenziate dalle creature viventi. Finora non esiste
una teoria migliore di quella darwiniana per rendere conto in modo coerente e
universale della grande biodiversità delle specie viventi, derivate tutte da una cellula
capostipite.
D’altronde, l’occhio evoluto presenta indubbie incongruenze. I vasi che nutrono la
retina umana ostacolano i raggi luminosi. Lo stesso dicasi per le fibre nervose che
passano davanti ai recettori. Inoltre, questi ultimi non si orientano efficacemente
verso la sorgente di luce (come negli invertebrati), ma nel verso opposto. Se il nostro
occhio fosse progettato a tavolino, ebbene dovremmo concludere che il suo artefice
non sia il miglior ingegnere sulla piazza.
Tutto ciò non ci rende creature difettose; indica invece che il criterio per
comprendere le origini della visione non deve rimandare a un programma o a una
spinta orientata, bensì a un accumulo di variazioni genetiche vagliate dall’ambiente.
La biosfera ha condotto prove per centinaia di milioni di anni e su un numero
strabiliante di esemplari. Il costo dei fallimenti è stato elevato, ma il risultato è la
complessità biologica che oggi conosciamo, con ogni tortuosità da essa implicata.
Darwin stesso si meravigliò al cospetto della ricercatezza dell’occhio, ma ciò non
lo spinse a sottrarla al suo universale principio della selezione naturale.
Scandagliando tra fossili, specie viventi, tipi di proteine e geni, i biologi sono giunti a
un quadro evolutivo abbastanza chiaro, perfettamente conforme ai criteri darwiniani.
Nel regno animale odierno si riscontra un’intera gamma di sviluppi oculari.
Allineando alcune transizioni in vermi, molluschi, insetti e vertebrati, possiamo
condensare il cammino della selezione naturale in una cronologia coerente. Vediamo
le tappe principali.
Con i primi organismi unicellulari fotosintetici di 2,7 miliardi di anni fa la materia
viva inizia a trarre energia dalla luce, ma non si può ancora parlare di informazione
visiva. Solo mezzo miliardo di anni fa compare su un verme marino un proto-occhio
formato da alcune cellule fotosensibili, appena utili per rilevare il ciclo giorno-notte e
l’ombra dei predatori. Poi i recettori sprofondano, avvantaggiandosi della protezione
all’interno della superficie corporea. Con la contrazione dell’apertura esterna la
visione diviene più selettiva, come sanno i miopi che guardano attraverso una fessura.
Nel frattempo cresce uno strato trasparente proteico che difende la cavità oculare
dall’acqua salina. Accidentali differenze nel suo spessore hanno una ricaduta sulla
rifrazione della luce. Ecco che si formano i primi cristallini: permettono allo spiraglio
esterno di rimanere abbastanza ampio per garantire la luminosità dell’immagine, pur
senza perdere in nitidezza. Quando, dopo l’avvento degli anfibi, gli animali escono
dall’acqua si trovano a fronteggiare la minore rifrazione dell’aria. Il cristallino si
appiattisce e la cornea sporge, fungendo da elemento ottico addizionale.
Gli anfibi devono accomodare la vista nel passaggio dall’ambiente liquido a quello
secco. Anche la messa a fuoco di oggetti vicini e distanti impone nell’aria una
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calibrazione dell’ottica, più critica che in acqua. Oggi rane, rospi e serpenti regolano
la distanza tra cristallino e retina, mentre molti rettili, gli uccelli e i mammiferi
agiscono sulla forma del cristallino. Si tratta di altrettanti adattamenti evolutivi
prodottisi su una stessa base.
Gli occhi degli insetti sembrano un caso a parte. Essi sono multipli e proiettano
un’immagine a mosaico di un ampissimo campo visivo (le libellule contano in un
unico enorme occhio bombato sino a 25000 elementi ottici). I recettori sono formati
da cellule rabdomeriche, diverse da quelle ciliari dei vertebrati. Ma la scoperta di
unità rabdomeriche negli occhi e ciliari nel cervello di un verme marino arcaico
indica che l’origine della visione dei vertebrati e degli insetti è la stessa.
Ancor più rilevante è il riconoscimento del gene Pax-6 come regolatore universale
dello sviluppo oculare. Si sa che mutazioni a suo carico causano forme di cecità
nell’uomo e nel topo. L’impiego di un Pax-6 normale di topo in un moscerino
consente la formazione di un occhio completo d’insetto. Si riesce perfino a far
crescere occhi sulle antenne, sulle ali o sulle zampe. È anche possibile ottenere occhi
supplementari in una rana, aggiungendo nel suo embrione il Pax-6 di un moscerino.
Siccome il gene è presente in organismi rudimentali marini, si deduce ch’esso
segna la discendenza da un comune proto-occhio. Va però osservato che nei topi esso
è implicato anche nella formazione delle cavità nasali, dei bulbi olfattivi e in alcune
porzioni cerebrali. Questo fa pensare che l’occhio non sia proprio un elemento a sé
stante sotto la supervisione di Pax-6, specie se ci rapportiamo ai primordi. In effetti,
qualunque funzione biologica può indurre in errore se la si considera in modo avulso
dal contesto.
Trascurare il contesto è l’atteggiamento classico di chi giudica lo sviluppo di un
organo in termini finalistici, cioè come traguardo da battere. Prendiamo le mascelle.
Il fatto che i primi pesci non le possedessero può far credere che l’articolato
meccanismo sia comparso in virtù di un programma apposito. In realtà, le ossa
esistevano già in quei pesci, ma servivano a sostenere l’arco branchiale, non a
masticare. Il sistema respiratorio non era predestinato, al più era, come si dice,
“preadattato”, cosa che possiamo sostenere però col senno di poi. È l’occasione che,
dato l’assetto morfologico in un certo contesto, permette a una struttura di passare da
una funzione all’altra.
Poiché ciascun organo intermedio od originario, che sia un proto-occhio o una
proto-mascella, è soggetto alla selezione contingente, non ha senso giustificarlo alla
luce di ciò in cui si trasformerà in seguito. Abbiamo visto ad esempio che l’acuità
visiva è iniziata per caso con l’infossamento difensivo dei recettori di luce.
Analogamente, il cristallino ha conferito un vantaggio adattivo in qualità di strato
protettivo; solo in un secondo tempo, occasionalmente, è subentrata la questione della
rifrazione. L’evoluzione è opportunistica, come ben aveva compreso Darwin. Ciò
nulla toglie alla bellezza della biosfera.
Roberto Weitnauer
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Occhi di libellula
(tratto da http://www.eyedesignbook.com/ch3/eyech3-c.html)
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Occhio di squalo
(tratto da http://www.eyedesignbook.com/ch3/eyech3-d.html#1.%20Shark)
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