digital magazine dicembre 2009 N.62 neverending summer Candeggina pop Washed Out, Neon Indian, Memory Tapes, Delorean, Föntan Lightning Bolt The folly and the fury Alessandro Grazian // Shit & Shine Mr. Henry // Appaloosa // Cheater Slicks Six Finger Satellite 3-D parte seconda Hans-Joachim Roedelius 62 Sentireascoltare n. La casa editrice Odoya e SentireAscoltare presentano: Turn On p. 4 Alessandro Grazian 5 Shit & Shine PJ HARVEY 6 Appaloosa 8 Mr. Henry Musica.Maschere.Vita 10 Cheater Slicks Un libro di Stefano Solventi La sua musica è una sferzata misteriosa e misteriosamente liberatoria. Un’ossessione blues sbocciata nella culla del Dorset, cresciuta tra inquietudini adolescenziali e una incontenibile brama di mondo. Quando infine è esplosa, lo ha fatto col piglio travolgente dei predestinati. Dei suoi primi quaranta anni, Polly Jean Harvey ne ha dedicati venti a tracciare una parabola fatta di musica, maschere e vita. 240 pagine Volume illustrato euro 15,00 Rubriche Tune In 12 Six Finger Satellite 100 Giant Steps 101 Classic Album 102 La sera della prima Drop Out 16 Lightning Bolt 22 Candeggina Pop, Neverending Summer CONCEPT ALBUM Recensioni Un libro di Daniele Follero Introduzione Franco Fabbri Nata sull’onda della rivoluzione musicale di fine anni Sessanta, la pratica del concept album ha accompagnato la maturità del rock, scrivendo un capitolo importantissimo nella storia della popular music. I dischi “a tema” continuano ancora oggi a rappresentare un affascinante mezzo espressivo, anche negli ambienti del pop da classifica. I recenti concept album dei Green Day sono la testimonianza più lampante di un filo rosso che, partendo da Frank Sinatra, tiene insieme Sgt. Pepper’s dei Beatles, Tommy degli Who, The Dark Side of the Moon e The Wall dei Pink Floyd, le storie d’amore di Claudio Baglioni arrivando fino ai Dream Theater e al brit-pop. 226 pagine Volume illustrato 32 Annie, Kuupuu, King Midas Sound, Hollowblue, Zelienople... Rearview Mirror 88 Roedelius, Nirvana, Julian Cope, Metalheadz... Direttore: Edoardo Bridda Direttore Responsabile: Antonello Comunale Ufficio Stampa: Teresa Greco euro 15,00 Coordinamento: Gaspare Caliri Layout e Grafica: Nicolas Campagnari Redazione: Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Antonello Comunale, Teresa Greco, Stefano Pifferi, Stefano Solventi. Hanno www.odoya.it www.sentireascoltare.com Leonardo Amico, Gianni Avella, Luca Barachetti, Salvatore Borrelli, Marco Braggion, Luca Colnaghi, Gabriele Marino, Francesca Marongiu, Andrea Napoli, Massimo Padalino, Giulio Pasquali, Aldo Romanelli, Costanza Salvi, Giancarlo Turra, Fabrizio Zampighi. Guida In In tutte le librerie collaborato: spirituale: copertina: Adriano Trauber (1966-2004) washed out SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2009 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare Shit & Shine Alessandro Grazian Cronaca di una maturità annunciata Diamanti e Letame Acidi e steroidi per l'ottimo 229 2299 Girls Against Shit, riconferma della forza propulsiva dei conigli tribali Per una volta L'abito fa il monaco: torna Alessandro Grazian con un Ep che riassume quattro anni di musica scritta e suonata D i artisti raffinati come Alessandro Grazian non ne nascono tutti i giorni. Come dimostrato da una musica fuori dal comune in bilico tra orchestrazioni e canzone d'autore, aspirazioni da soundtrack e folk aristocratico. Materiale che ha bisogno di tempo. Per decantare, sorprendere, comunicare. Anche perché può accadere che la strada da percorrere si faccia paradossalmente insidiosa, quando la scrittura è in potenza complicata e le conoscenze tecniche non si limitano a due accordi di chitarra e un 4/4 di batteria. Pur avendo le capacità per comprimere in tre minuti di canzone il classicismo di Bach e il Fabrizio De Andrè più profondo, una voce à la Jeff Buckley e un fingerpicking virtuoso, certa ipertrofia dei testi e una serietà compita, può succedere di perdere la bussola. Deve passare del tempo prima che ci si accorga che il messaggio ha bisogno di strutture lineari - per quanto elaborate - e non di conglomerati pulsanti di strumenti e sillabe; ci si deve mettere in discussione, per capire come far respirare musica e parole. Magari portandole in giro in tour o confrontandole con forme d'arte complementari (il Grazian musicista di scena nelle ottanta repliche dello spettacolo Nati sotto contraria stella). Si arriva allora a una sintesi perfetta tra un disco pretenzioso e intrigante come 4 Turn On Caduto (Macaco/Trovarobato, 2005) e un successivo Indossai (Trovarobato, 2008) più a fuoco e depositario di episodi commoventi come la title track o la suite San Pietroburgo. In un EP L'abito (n.61 del pdf) summa di un percorso di crescita costante e ammirevole, nella sua fedeltà a un'estetica riconoscibile. C'è anche dell'altro. Parlando di Alessandro Grazian ci si rivolge giustamente a un musicista solista ma in realtà si ha a che fare con un collettivo. Un parco strumentisti che può vantare Nicola Manzan (violino), Gianbattista Tornielli (violoncello), Riccardo Marogna (clarinetto), Nereo Fiori (fisarmonica), Alessandro Arcuri (contrabbasso), Tommaso Cappellato (batteria) e quell'Enrico Gabrielli in forza ad Afterhours e Mariposa. Quest'ultimo a condividere con lo stesso Grazian orchestrazioni e arrangiamenti. Un gruppo di lavoro che non solo sostanzia la scrittura elegante del musicista padovano, ma ne valorizza i passaggi, ne indirizza il carattere, ne allarga le prospettive, ne aumenta il fascino, fino a diventare una componente fondamentale delle geometrie dei brani. In tempi di social network fittizi, un network reale che funziona benissimo e senza aver bisogno di un server. Fabrizio Zampighi A ssistere a un concerto di Shit & Shine è un esperienza quasi mistica. Tour-de-force tribali, da 5 a 10 batteristi a colpire all'unisono il medesimo immutabile ritmo, torturato da feedback maligni, ultrabassi tellurici ed elettronica potente sparati al massimo da amplificatori Orange. Se poi si aggiunge una teatralità fatta di galline epilettiche a contorcersi dentro costumi da coniglio, improbabili caricature da fine del mondo e in generale grotteschi scenari dell'assurdo, si ha un quadro completo dell'universo Shit & Shine. Si capisce così anche perché quel tempio della musica stramba e rumorosa che è la Load abbia prodotto il loro scorso album, Küss Mich, Meine Liebe. Un disco che poco aggiunse al precedente acclamato Cherry, ma che consacrò la band nei circoli alti del noise "out" d’inizio millennio. A spartire il posto con le altrettante batterie di Burmese o con le creature di Brian Chippendale: Lightning Bolt e soprattutto quei Mindflayer dallo stesso vizio per l'elettronica arrugginita. La band nasce da un’idea del texano Craig Clouse (oltre che nei Todd, è stato uno dei tentativi degli Hammerhead di sostituire il chitarrista Sanders ) che trasferitosi a Londra, voleva una valvola di sfogo per le sue perversioni: rumore e ritmo. Assoldati Larry Mannigan e Frank Mckayhan - per batterie e tagliaerbe, recitano i loro booklet - ecco Shit & Shine. E se dei loro concerti pazzeschi, che hanno reso famosa la band in giro per i festival di mezzo mondo (Sonar, ATP) si è già data un idea, la stessa carica massimalista si ritrova nei loro dischi, seppure in maniera diversa. Fatta eccezione per Ladybird (su disco quello che sono i live della band: 40 minutes, one riff=evil fun) lungo le tracklist della discografia si passa con disinvoltura attraverso house balorda da 200 lire al chilo, tragedie grind-core, dub clippatissimi e lunghe cavalcate motorik lorde da far schifo. Pezzi lunghissimi, senza capo né coda: come delle finestre spalancate immobili e poi richiuse di colpo su abissi primitivi, sabba di streghe chissà-quandoiniziati e chissà-se-finiranno-mai, tutto sostenuto da un numero imprecisato di batterie, così superflue eppure così stilisticamente essenziali. Ed è questo il materiale di cui è composto anche l'ultimo lavoro della band 229 2299 Girls Against Shit. Nessuna rivoluzione stilistica, essenzialmente, ma l'ennesima prova di forza, una conferma, se possibile ancora più gonfia di acidi e steroidi. Canzoni (?!) tra le più ispirate della band e un suono meno indulgente che mai, ultra-compresso, sempre sul rosso e sempre sul limite del bang. Una buona occasione, quindi, per ribadire le capacità di una band che continua imperterrita a confezionare merdosi splendori. Leonardo Amico Turn On 5 Appaloosa Cavalli di razza Gli Appaloosa ritornano dopo quattro anni con un sound più lucido e definito. Senza risparmiarci sorprese L ivorno è città contradditoria e sfaccettata. Acuta e sonnacchiosa, frenetica e immobile, sarcastica e generosa. Oltre il mare, il ponce, il cacciucco e il Vernacoliere c'è di più. Molto di più. Riguardo al rock, per dirne una, c'è parecchio fermento. Una febbre sproporzionata rispetto ai non troppi locali disponibili dove sfogare la voglia di suonare e ascoltare. Tuttavia, non è certo un caso se la fondazione Arezzo Wave ha deciso di organizzare proprio a Livorno la sua celebre manifestazione estiva (Italia Wave) dopo l'infelice esperienza fiorentina. Qualcosa, anche a livello di band, inizia ad emergere. Gli Appaloosa, ad esempio. Fondati nel 1998 da Enrico Pistoia (basso e tastiere) e Niccolò Mazzantini (basso, chitarra e tastiere) e subito raggiunti dal batterista Marco Zaninello, iniziarono a coltivare un torrido math-funk con attitudini psichedeliche, beccheggiando sull'onda lunga del post che li convinse a rinunciare al canto. Pezzi spigolosi ma geometrici, un invasamento lucido che trovava nel ricorso ai due bassi la giusta temperatura di fusione. L'omonimo album d'esordio del 2003, uscito per l'etichetta Ondanomala, portò a compimento una ragguar- 6 Turn On devole razzia di consensi. Ma il bello doveva venire. L'ingresso in squadra nel 2004 di Simone Di Maggio - che portò in dote la sua abilità con, samples, drum machine e sintetizzatori - fu l'ingrediente decisivo. Le successive esibizioni misero in mostra un sound sempre più esuberante e versicolore, che si concretizzò nell'ottimo sophomore Non posso stare senza di te (Urtovox, 2005), registrato col producer Giulio Favero. Una prova convincente seguita da un intenso biennio di concerti. L'attesa per la terza prova è stata lunga, ma ne è valsa la pena. Un buon motivo per scambiare due mail con gli Appaloosa. Innanzitutto una curiosità riguardo al vostro nome (una razza equina nordamericana molto apprezzata dai nativi pellerossa e dai cavallerizzi contemporanei, ndi). C'è qualche appassionato di equitazione nella band? No ma quei cavalli ci affascinavano molto nel lontano 1998. Cosa avete fatto, pensato, annusato in questi lunghi quattro anni di assenza discografica? Nei primi due anni eravamo sempre impegnati con le date, dopo c'è stato un periodo di pausa riflessiva e ognuno è andato un po' per la sua via. Poi abbiamo iniziato la produzione dei nuovi pezzi, all'inizio non è che venissero cose che ci esaltavano ma piano piano ci siamo sbloccati, le canzoni del disco sono uscite quasi tutte nei 10 mesi prima della registrazione. In realtà in questi anni il pensiero, l'obbiettivo è stato sempre fare il nuovo disco. Vi ritrovo più lucidi, definiti e concisi, come se aveste deciso di dare una bella sistemata al vostro naturale derapage sonoro. Cosa cova sotto questo restyling? Abbiamo scartato molte idee che erano anche belle ma in un certo senso scontate, ovvero le nostre canzoni classiche a due bassi molto violente, lavorando su linee più particolari e magari per noi meno convenzionali. Ci siamo soffermati molto sulle rifiniture e gli arrangiamenti elettronici, sicuramente questo disco suonerà meno grezzo dell'altro. Direi che è ufficiale: Giulio Ragno Favero è il vostro George Martin. Giusto? Dopo l'esperienza e i risultati di 4 anni fa era naturale tornare da Giulio. Al Blocco A (lo studio padovano di Favero, ndi) sai di essere in ottime mani e di lavorare con una persona che è in linea con i tuoi gusti musicali, ottenendo quello che cerchi molo facilmente. Sei rilassato durante la registrazione e sei più portato a prendere consigli magari non accet- tandoli tutti ma riuscendo ad avere uno scambio. Siamo cresciuti molto dopo queste due esperienze. E' stato come andare a scuola! La penultima cosa che mi sarei aspettato in un vostro disco è un funky-soul dalle brume spacey in scia Zero 7. L'ultima è il ricorso ad un chitarrista e cantante pisano (Andrea Appino degli Zen Circus). Che vi ha preso? La canzone funky soul è venuta fuori prima per gioco poi ci siamo presi sul serio e l'abbiamo finita e tenuta. Di solito non decidiamo o discutiamo niente a priori, si prende in considerazione la canzone dopo aver buttato giù l'idea o aver improvvisato qualcosa, il risultato è che salta fuori di tutto. L'idea di fare una collaborazione con Andrea Appino c'era da molto tempo, dato la stima che abbiamo per gli Zen e le vicinanze geografiche e il fatto che siamo molto amici anche se sono pisani!! La canzone (Glù) era già stata scritta mesi prima, l'abbiamo ripresa e finita con Andrea e Michele Ceccherini che è l'altro bassista che ha fatto con noi molti concerti. Nel disco precedente mi azzardai a paragonarvi agli Oneida, non so se vi abbia fatto piacere. Per Savana invece ho le idee meno chiare. C'è una situazione cui avete fatto particolare riferimento? No, penso che sia una fusione di tutto quello che abbiamo suonato ascoltato in questi anni, un riferimento ben preciso davvero non c'è. Nessun problema per il paragone con gli Oneida, in realtà non li avevamo mai ascoltati e conoscendoli siamo rimasti lusingati. Non vi ho mai visti dal vivo, dove pare che ve la caviate parecchio bene. In genere riarrangiate i pezzi o siete fedeli alle versioni in studio? Siamo abbastanza fedeli alla versione in studio, al massimo può capitare che dopo un po' che suoniamo una canzone live iniziamo a cambiarla magari in qualche stacco o scambio e mischiamo canzoni tra di loro. Sicuramente il concerto è la dimensione che ci permette di esprimerci al meglio, non vediamo l'ora di proporre la nuova scaletta con pezzi nuovi e vecchi. Avete già programmato il tour? Il tour è in programmazione in questi giorni curato da Locusta e Urtovox. Partirà da Dicembre. Stefano Solventi Turn On 7 L Mr. Henry Se la terra è desolata Rabbia e disperazione in blues elettronici che raccontano il dopo apocalisse. Mr. Henry rinuncia al declino con ottica DIY e spirito da artigiano 8 Turn On a vicenda di Mr. Henry, alias Enrico Mangiorne da Varese, potrebbe essere l'esempio perfetto di come la solitudine in un tempo di crisi-rivoluzione discografica diventi un valore, inteso come prerogativa necessaria per chi nell'agire da musicista pensa prima di tutto alla musica - anzi, alla musica e basta, quale esigenza e sfogo. Tre dischi dal 2003 ad oggi di canzoni-bozzetti fermate su supporto nell'urgenza del momento, per un crescendo qualitativo che ha allargato sguardo e influenze. Le prime due uscite su Ghost Records e Suiteside (Lazy Go Through..., 2003 & the Hot Rats, 2006), poi la scelta di fare tutto da sé in direzione DIY: “Dalla musica ho sempre ricevuto pochissimi soldi e la maggior parte dello sbattimento (cioè guidare, montare, smontare, fare i suoni, registrare, rinunciare a giorni di lavoro) me lo sono fatto quasi sempre da solo. Non ho avuto problemi con le etichette che mi hanno prodotto, ma dopo un tour negli States dove ho incontrato ed ho suonato con gente che praticano il DIY alla lettera ogni giorno come Robert Inhuman dei Realicide o Captain Ahab mi sono chiesto se veramente valesse la pena continuare a suonare in un certo modo. Ovviamente visto che la musica per me è irrinunciabile, ho rinunciato volentieri a tutto il resto e ho continuato da solo”. Dunque un indirizzo che fa dell'indipendenza non un marchio da sbandierare ma un rifiuto rabbioso in forma di (disperante) denuncia e reazione vitale ad uno stato delle cose desolato. “La musica sta diventando quasi esclusivamente una questione di moda: gli ascoltatori non ascoltano, i critici non criticano, le etichette non promuovono i meritevoli ma solo gli amici e gli amici degli amici”. E proprio Terra Desolata è il nome dell'etichetta - con omaggio a Eliot - che marchia il nuovo corso: “Se vai sul MySpace di Terra Desolata c'è una 'Lettera aperta al pubblico e alla critica italiani' in cui spiego le ragioni della fondazione di TD. Quella lettera l'ho inviata a tutti i direttori delle riviste di musica italiana, voleva essere oltre che una denuncia ed una dichiarazione di intenti, anche una provocazione dalla quale un qualsiasi critico poteva partire per un articolo sulla situazione musicale italiana. Invece non ho ricevuto nessuna risposta”. Ma Henry è uno che non demorde, se non altro perché la sua musica ha bisogno di continuare ad esprimersi. E l'ultimo lavoro Ornery (uscito nel maggio dello scorso anno che colpevolmente recuperiamo solo oggi), titolo sintomatico traducibile all'ingrosso come “Testa dura”, divarica lo spazio tra lui e il nume generativo Tom Waits - già rimastica- to alla meglio nei due precedenti titoli con contagi di Mark Lanegan, Leonard Cohen e Violent Femmes - spostando l'attenzione verso un utilizzo dell'elettronica che era già nei sette minuti inquieti della No-Sense # 0 in chiusura di & the Hot Rats. Beat siderali alla Nine Inch Nails primo tipo, bordate da fabbrica che furono Throbbing Gristle, brusii primigeni e martellate di scuola Pan Sonic, ognuno insieme all'elettrica e più raramente al piano, accentuano qui un sentore da post-apocalisse che spurga la rabbia e la disperazione di cui sopra. “E' probabile che la rabbia percepibile il questo disco sia legata anche alle scelte che ho fatto. Io ho sempre scritto molto di getto ed ho sempre cercato di mantenere questa urgenza anche nelle registrazioni per non snaturare i pezzi. Era da tempo che volevo registrare qualcosa di più elettronico e al contempo più aggressivo, ma non riuscivo a trovare i suoni giusti, poi Alessandro dei Clark Nova mi ha passato uno dei suoi Fuzz e mi si è aperto un mondo!”. Difficile non immaginare ascoltando le otto tracce di Ornery la figura di Mr. Henry stagliarsi da un vano sotterraneo ed osservare, per poi raccontarlo, il nulla conseguente all'esplosione che ha cancellato ogni cosa. E' questo d'altra parte lo spirito di chi rinuncia al declino rimanendo vivo in una solitudine artigianale sempre più attiva. “Ultimamente ho registrato un disco con un nuovo progetto che si chiama Downlouders in cui suonano anche membri di Freelance Co., Encode e Twisted Logic, intanto sto lavorando al quarto disco che sarà ancora diverso e mi piacerebbe lavorare con il miglior bluesman italiano, ossia Angelo Leadbelly Rossi. Invece Terra Desolata ha già in catalogo sei dischi (Freelance Co., Lucha Libre, The Lonely Rat, Mr. Henry, Downlouders, Clark Nova) e per dicembre sto preparando una compilation natalizia su cassetta in venticinque copie in cui il primo lato sarà compilato da me ed il secondo sarà bianco in modo che ognuno possa crearsi la propria compilation. Più DIY di così...”. Luca Barachetti Turn On 9 L Cheater Slicks Long Gone Rejects Cheater Slicks, ovvero come tirare avanti a schiena dritta suonando dinamitarde miscele di noise e r’n’r dal 1989. 10 Turn On a loro è una proposta che ha fatto scuola, portando avanti quel processo di rilettura della tradizione musicale americana che fu prima dei Cramps, poi di Gun Club e Beasts of Bourbon, ed infine di Pussy Galore e Chrome Cranks. Parliamo dei fratelli Tom e Dave Shannon e del batterista Dana Hatch, in arte Cheater Slicks, quartetto (con il bassista dei Real Kids "Alpo" Paulino) per un soffio e rigoroso trio poi. Formazione garage per antonomasia dagli elementi focali quali il folkblues-rock (la materia viva su cui agire) e il modus operandi dei Velvet Underground, quelli di White Light/White Heat. E' dal 1989 che i nostri sono on the road e da allora sono sempre stati fuori moda; mai completamente dentro alle cose che girano e all'inizio addirittura con un pubblico che li guarda attonito. A fine anni '80 infatti impazzava il revival purista del garage sixties, con Fuzztones e Fleshtones alfieri di una ripresa fedele e pedissequa del rhythm'n'blues bianco di vent'anni prima. "Agli inizi nessuno capiva cosa facevamo" dice Tom Shannon, chitarra scordata e voce rauca fin dal giorno zero. "Non c'era cognizione di cosa fosse un garage-punk come il nostro ai tempi e certamente noi eravamo una delle pochissime band di r'n'r rumoroso esistenti". Nel lustro successivo, con il punk-rock di casa Rip-Off a farla da padrone, il trio continua a fronteggiare le avversità. "Nei '90 tutto era piuttosto dritto e quadrato, e noi volevamo fare altro. Ci piaceva il garage dei '60 e il punk dei '70 ma volevamo rivederlo aggiungendoci qualcosa di nuovo". Presto però sembra aprirsi uno spiraglio; etichette come la In The Red stanno scandagliando gli antri più bui del sottomondo garage e gruppi come i Cheater Slicks non possono passare inosservati. E non sono i soli: presso la label di Larry Hardy albergano anche Gories, Bassholes e ’68 Comeback e il soggiorno è così invitante da durare fino al 2003. Dieci anni in cui i tre licenziano cinque album, compreso il capolavoro Forgive Thee, un doppio compact che è un vero e proprio manifesto letterario a base di corde rotte, false partenze e linee vocali sbagliate. Il destino dei tre è tuttavia segnato: con il nuovo millennio si passa a etichette più piccole e nuovi culti. "Lo svantaggio risiede nella tiratura delle pubblicazione; solo un numero limitato di copie viene stampato. Il vantaggio sta invece nella maggior libertà del processo creativo e nella velocità con cui si riesce a far uscire qualcosa. Dover aspettare i tempi dei grossi distributori è esasperante e spesso anche molto ingiusto per le band". Quest’anno, per il ventennale, la formazione ritorna con Bats In The Dead Trees. Un assalto frontale senza strofe, ritornelli e strutture: la cosa più prossima al noise che un gruppo garage-punk abbia mai registrato. E ovviamente c'è della coerenza in tutto ciò. "È stato un leggero allontanamento, ma chiunque ci conosce sa bene cosa stiamo facendo. Ci sono le influenze di sempre, soltanto in strutture più libere. Ci tenevamo molto a mostrare l'altra faccia del gruppo: quella che non avevamo mai registrato". Le prime copie vanno sold-out in un lampo e, qualche mese dopo, la label ristampa l'LP con un compact disc contente l'unica esecuzione dal vivo dell'album. E' la testimonianza migliore dell'interesse che ancora ruota intorno a Cheaters. "I puristi non hanno mai gradito gruppi come il nostro; a qualcuno invece siamo piaciuti questo ha dato vita a nuove band, a un nuovo modo di fare musica più primitivo e selvaggio. E' bello vedere una nuova generazione più scomposta e rumorosa; è un po' come se fossero figli nostri". E i Times New Viking? "Quelle band sono più indie, noi pienamente rock'n'roll; la nostra musica nasce da lì e non certo dai dischi dei Pavement. Amiamo piuttosto la violenza di Hunches, Hospitals e TV Ghost". Andrea Napoli Turn On 11 Six Finger Satellite Neu Wave, il futuro era un'ipotesi A volte ritornano più arrabbiati che mai. Contro tutto e tutti. E con un cuore tanto. 12 TUNE IN “Senza cuore e artisti dove i loro compatrioti sono accorati e senz’arte, i Six Finger Satellite sono il miglior gruppo della Sub Pop dai tempi di chi-sapete-voi.” (Melody Maker) C i aveva preso, il defunto Melody Maker, una volta tanto. O quasi, poiché questi ragazzi del Rhode Island un cuore l’avevano e assai rivelatore, benché mediato da ragione e sarcasmo. E’ noto che chi ami sia critico dell’oggetto dei propri sentimenti, ed è cosa logica: i Six Finger Satellite, come i Devo, amavano - nel loro perverso modo… - la società americana. Ne erano perfetti figli degeneri, come appare dall’etica del lavoro incanalata dentro una critica verso la “american way of life” assai sottile. Ed è soltanto se disponi di un cuore indurito al punto giusto, puoi resistere mentre altri mediocri incassano danari sulle tue intuizioni. La soddisfazione, se tale è, resta l’aver indicato da pionieri un passato recuperabile da smaliziati che non restano stritolati, che cavalcano l’onda che fu nuova senza annegare. Perché guardavano anche a quella Germania Anni Settanta che oggi fa chic citare ogni minuto, e sa di scontato, di fretta d’arrivare da nessuna parte. Nel 1992, in pieno grunge, era la cosa più fuori dal mondo che si potesse pensare era un recupero - e personale il suo - di istanze kraut e new-wave. Se aggiungevi un lavoro sulla psicologia dell’ascoltatore (messo in difficoltà da repentini cambi di stile e audaci trapianti) e la capacità di fomentare la paranoia per demolirla nello spazio dello stesso brano, le carte per entrare nelle enciclopedie non mancano. Sarà una questione di tempo, che vorremmo vedere aiutata dall'attuale ritorno sulle scene, sempre col loro tempismo fuori sincrono oppure no; con quell’abilità nel complicarsi la vita da finti tamarri a stelle e strisce. Con la svagatezza da personaggi di Douglas Coupland, non fossero ben più maligni pur sempre a nostro beneficio: di occhi aperti di fronte al nulla pneumatico del post-moderno non se ne parlava; piuttosto di condurre una vita normale con un lavoro normale in modi che normali davvero non sono. Prendete un concittadino illustre come H.P. Lovecraft o i terroristi sonori giunti da Providence nell’ultimo decennio: ti fanno riflettere su cosa ci sia nell’acqua da quelle parti, laddove si tratta della benefica dislocazione tipica della vita lontana dai grandi centri. Della provincia, a farla breve, che permette di rileggere mode e fenomeni in modo critico. Poche storie: come in un romanzo di Philip K. Dick, se prevedi, preconizzi. Poteva nascere solo al tramonto del rock “indie” americano, una band siffatta, in un 1990 dove i Sonic Youth arrivavano alla Geffen. L’impero di sabbia delle “indie label” cedeva sotto lusinghe e pressioni e il revival sixties lasciava posto ai ’70. Tra i tanti che oltre i Led Sabbath non sapevano andare, Jeremiah “J.” Francis Ryan (voce/tastiere), John MacLean e Peter Phillips (chitarre), Chris Dixon (basso), Rick Pelletier (batteria) osano di più e di meglio: “Eravamo soliti provare ogni sera della settimana, non per diventare dei virtuosi dei rispettivi strumenti ma per trovare il modo di suonare la musica più potente possibile.Venivamo da un retroterra punk dove l’impegno rappresentava tutto; da ragazzini ascoltavamo hardcore, per cui volevamo esprimerci al meglio con dedizione quasi fanatica.” (John McLean) Detto fatto: i primi risultati sono inviati con un demo alla Sub Pop che li assolda all’istante; il nastro esce come l’e.p. Weapon nel 1992, attestato acerbo benché recante in tralice quanto nascosto tra il punk e l’hard. La medesima annotazione valga per il doppio 45 dell’anno seguente spartito con i Green Magnet School, Declaration Of Techno-Colonial Independence, vieppiù disseminato di indizi come fiati, synth e stramberie assortite. Non deluse dunque le attese il debutto a 33 - in realtà due mini riuniti - The Pigeon Is The Most Popular Bird (Sub Pop, 1993; 7,5/10), dove Kurt Niemand subentra a Dixon e Bob Weston siede alla regia. Metamorfosi robusta e in retrospettiva incompleta, alterna dieci canzoni vere e proprie con undici strumentali, alcuni semplici schizzi e altri - i migliori - più compiuti, che spaziano dal "krautismo" (7,9) al rock spaziale (5) per mischiarli (11) come fanno con Cluster e il David Bowie berlinese del plumbeo masochismo 21. Le composizioni vere e proprie sono operazione analoga, rileggono la new wave mischiando la visione di discepoli e maestri col favore del distacco critico e cronologico. Laughing Larry esce dal Metal Box e Save The Last Dance For Larry da un più esasperato Entertainment!; Love (Via Satellite) può dirsi inedito dei Mission Of Burma e diverse tracce omaggiano l’amata asse Birthday Party/Jesus Lizard. La scala reale si cala col sensazionale boogie blues destrutturato in stile Captain Beefheart Hi-Lo Jerk (Marcellus Hall dei Railroad Jerk all’armonica) e una Takes One To Know One di jazzata demenza. Tra una genuflessione noise e l’altra, afferri squadrature ritmiche e TUNE IN 13 piccoli dettagli d’elettronica citazionista etichettabili oggi come post-rock. Oltre il rock e non solo stavano, alla luce del successivo di un anno Machine Cuisine, 10” che pigia il pedale su tastiere e assurdità in scia agli Mx-80’s come del resto la semiomonima cassetta, mentre al corcevia tra omaggio e sfoggio di carattere sono i concerti interminabili e dissacranti, il sintetizzatore a tracolla e le tutine indossate. Aria di cambiamento che reagisce all’uscita di scena di Phillips e Niemand, stroncato da un’overdose: dentro James Apt per il capolavoro Severe Exposure (Sub Pop, 1995; 8,0/10), che mostra la via ai Trans Am - e Brainiac e VSS, Lost Sounds ed El Guapo - tramite un cocktail di Beefheart e krautrock ad elevata tossicità. Fusione indistinguibile di moog e chitarrismo abrasivo, solidità d’impianto e capacità d’elevazione, di Chrome, Shellac, Blues Explosion (Board The Bus: nel delirio sentite anche il basso letteralmente copiato dai manichini Strokes). E cento altre cose ancora, come chiariscono l’isteria danzereccia di Cockfight, gli echi industriali in Simian Fever, l’adrenalina colante da Bad Comrade e Dark Companion. Geniale trasfigurazione della tradizione dall’interno, il disco smonta e rimonta strutture (esemplari Rabies e Where Humans Go) senza lesinare sfregi. Frattanto, una fetta di anticipo contrattuale se n’è andata nell’allestimento di un proprio studio di registrazione - inciso lì quanto appena magnificato - chiamato The Parlour. Da lì, un po’ come i Kraftwerk, il triennio seguente vedrà gente di belle speranze prendere esempio per smuovere le fondamenta del rock alternativo. Poco dopo, un video a basso costo della tambureggiante Parlour Games si infiltra in un episodio di Beavis And Butt-head ma non sarà la loro Whip It. Almeno non in termini di vendite incrementate, giacché Paranormalized (Sub Pop, 1996; 7,1/10) esce troppo a ridosso del predecessore e a tratti perde di vista la scrittura, sino a quel momento lenta e tuttavia inesorabile a conquistare spazio. Sebbene ci si muova di lato e non avanti, la caratura resta buona (Padded Room, Great Depression) e addirittura ottima (la tagliente Greatest Hit e il Lydon rimbambito dalle strobo in Coke And Mirrors; i ronzii di Paralyzed By Normal Life e il senno perduto da Slave Traitor.) Lo stallo, però, però più grave del previsto, un arenarsi su secche sperimentali che avrebbero meglio figurato agli inizi; a questo punto, sospetti una tartaruga che tira la testa dentro al carapace. Il 14 TUNE IN 12” su Load di quello stesso anno, dal titolo “programmatico” - autocritico? - Clone Theory, si fa ricordare solo per i Tubeway Army con parentesi “concreta” di Ich Weil Nacht e una War Cries da coltello tra i denti. Il resto sono strumentali limitati entro una “weirdness” episodica ed eccessivamente compiaciuta. Logorati, i Six Finger Satellite, s’imbarcano in una tournee lunga mesi in compagnia di numi tutelari (Shellac, Jesus Lizard) e discepoli inizialmente simpatici (Trans Am). Al termine, tirano il fiato e assoldano un produttore/musicista che di strada ne farà parecchia e lastricata d’oro, James Murphy. Logico dunque che, oltre a rivelarsi egregio per penna ed esecuzione, il quarto lp Law Of Ruins (Sub Pop, 1998; 7,5/10) sia quello che “suona meglio”: festa raffinata ma energica d’intarsi e magie della consolle, richiami space-rock in contesti rumoristi e sagaci intuizioni da scuola teutonica anni ’70. Guarda da adulto lo ieri dei suoi artefici (Race Against Space, Lonely Grave) e cambia le carte in tavola (l’elettro-dub che non esplode mai Fall To Pieces, l’omonimo metal cibernetico); apre il suono al “panorama” (una Fuer Immer Liebe prossima a lidi Schwingungen, la struttura stratificata di The White Visitation e Hertz So Good), s’impiastra allegro le mani in laboratorio (Sea Of Tranquility: undici minuti di Sonic Youth elettronici; New Kind Of Rat: nuovo miracolo hard rock). Terminano qui i giochi, alla dimostrazione di affinità elettive e al reciproco scambio di favori sottolineati dall’investitura del futuro LCD Soundsystem a “uomo del suono” negli spettacoli dal vivo. Si chiude benissimo un cerchio ispirativo ed esistenziale: MacLean saluta per accomodarsi sulla pista da ballo sotto l’egida della murphiana DFA ed è un colpo bassissimo. Ecco la prima dissolvenza, costellata da problemi con l’etichetta: “Nulla da dire circa il comportamento della Sub Pop, che si è anche rifiutata di lavorare alle nostre recenti uscite. Probabilmente è meglio così: sarebbe stato un ennesimo giorno coi soliti problemi, dato che oggi Sub Pop è nel pieno di una sbandata “retro ‘60”. Fossimo ancora con loro, salterebbero fuori le vecchie questioni: siamo fuori posto e non saprebbero che fare di noi. Un decennio fa stavamo per raggiungere un certo “successo”, però il mondo della musica è per ritardati, come chiunque con un pizzico di cervello può capire. Suppongo che in quanto gruppo “influente” potremmo far soldi da qualche cazzo di reunion, ma non accadrà. A questo punto, mi basta registrare nuove canzoni.” (J. Ryan) Nuove uscite, già: nel ‘99, Ryan e Pelletier, vicendevoli bracci destri, ricompongono il puzzle con due membri dei Landed - Apt è tornato a Boston - fino al 2001 senza registrare alcunché. Occorre l’arrivo degli altri locali Dan St. Jacques e Brian Dufresne per lavorare su otto brani, “riesumati” dalla Load soltanto pochi mesi fa per Half Control (cfr. spazio recensioni). L’ascolto riconsegna la difficoltà a reagire, dote umana che conferma il cuore di cui in apertura e qui sta il pregio più profondo dell’opera. Purtroppo, rabbia e distrazioni annebbiano la mente e appesantiscono un passabile noise-punk in cui l’elettronica viene messa da parte ed è una mossa a vuoto. Ci sono muscoli, foga e fracasso da vicolo cieco o, tutt’al più, da uscita laterale: solo due le cose irrinunciabili - l’articolata ed elegante Artificial Light; il “lato oscuro” Bored Oracle - eppure sufficienti a un’assoluzione e a uno spiraglio di speranza. Succede però che tutto venga all’epoca accantonato per cause di forza maggiore e ci si separi più a lungo. Rick Pelletier fa del dub con i La Machine e siede dietro tamburi e piatti per i validi copisti P.I.L. The Chinese Stars; Ryan si trasferisce in Colorado e suona con gli Athletic Automaton. E’ la pausa necessaria a ricaricarsi e a lenire delusioni e amarezze. “Credo che la differenza o la direzione siano ora basate sui membri del gruppo: ci sono stili personali distinti che, quando combinati, danno nuova magia. Inoltre è salutare che non vi sia un “programma” e che suoniamo ciò che ci piace fino a renderlo nostro. C’è stato un tempo in cui Six Finger Satellite prendevano idee per trasformarle in canzoni; persino i riff e i suoni più stupidi potevano essere cool, ma verso la fine dei ‘90 siamo incappati in qualche esercizio di stile. Ora siamo tornati a un approccio più libero e disinvolto verso i nostri modi eccessivamente perversi. Siamo sempre in movimento!” (J. Ryan) Possibile che siano queste - e una sana indifferenza verso il tribolato passato, vorremmo aggiungere - le ragioni dell’ottima forma attuale, in un 2009 in cui la nuova wave al cubo affoga nell’insipienza. L’equipaggio è cambiato di nuovo, Rick sta alla chitarra timpiazzato da Jon Loper dei Made In Mexico. Mai allontanatisi veramente, come quei Three Mile Pilot al pari importanti e redivivi, Pelletier e Ryan posseggono un’intesa rodata e messa a frutto in cinque mesi di calibrato lavoro in studio. Lavagna ripulita da dubbi e abbozzi, A Good Year For Hardness mostra coerenza e verve ritrovata, confermandosi presenza necessaria nell’odierno pantano sonoro. Che viene smosso con vigore, soprattutto da Don't Let Me (essere sexy secondo The Fall), Midnight Rails (ostacoli triturati con noncuranza), Hearts And Rocks e Rise (la tradizione rinasce splendida). Bentornati, ragazzacci dal cuore duro. Giancarlo Turra TUNE IN 15 S Dieci anni alla velocità della luce e un nuovo album che non ne vuol saperne di scalare marcia. Osservazioni in movimento e qualche appunto... - Stefano Pifferi 16 DROP OUT tadio nido d’uccello di Pechino o Olympiastadion di Berlino, finale delle Olimpiadi o dei Mondiali che sia per lui non fa differenza. Brucia tutto e tutti sullo scatto, parte a velocità supersonica e con una progressione devastante straccia il nastro del traguardo lasciando tutto il mondo molto dietro di sé. Poi, incurante di tutto e tutti, ricomincia la sua sceneggiata buffonesca fatta di balli primitivi e sconclusionati, risatine sguaiate e facce buffe. Follia e velocità, guasconeria e scatto bruciante. Questo è ciò che fa di un ragazzone giamaicano di nome Usain, il Bolt più veloce e pazzo del pianeta. A chi si intende di musiche dell’underground quel nome - e soprattutto l’essere abbinato a velocità e follia clownesca - dev’essere apparso qualcosa di simile ad uno scherzo del destino. Sì, perché l’ascoltare/vedere un Bolt sfrecciare in quel modo irriverente e devastante, non può non aver richiamato alla mente un duo di altrettanto furibondi personaggi anch’essi al limite del cartoonesco. Di nome fanno entrambi Brian; uno (Chippendale) suona la batteria e ogni tanto urla frasi sconnesse, l’altro (Gibson) suona il basso. Sono il duo più potente al mondo e il nome che si scelsero ormai più di un decennio fa non lascia spazio a dubbi: Lightning Bolt. Proprio come è stato soprannominato quel pischello giamaicano tutto mossette e furia. Non sono però le gesta da recordman del giamaicano a spingerci a parlare del duo americano, quanto un’altra ghiotta occasione. Di quelle da non lasciarsi sfuggire per offrire una riflessione di più ampio respiro sul fenomeno Lightning Bolt. È infatti appena uscito il quinto album Earthly Delights, dopo che uno iato quasi quinquennale dal precedente Hypermagic Mountain aveva addensato tristi presagi sul progetto: o la dismissione (cosa peraltro smentita da una attività live piuttosto cospicua per gli standard del duo e dai continui side-project Mindflayer, Black Pus e Wizardzz) o, peggio ancora, una preoccupante pausa di riflessione su una direzione musicale talmente incompromissoria da essere sempre sul crinale del cedimento strutturale. Insomma, non ci meraviglieremmo se a molti di coloro che seguono approfonditamente le vicende del duo di Providence la notizia del comeback - dopo l’iniziale brivido entusiastico - avesse posto dei dubbi sul cosa (e soprattutto sul come) avrebbero combinato quei due. Il rischio, in casi estremi come questo, si sa, è che la formula mostri la corda, soprattutto nel lungo periodo. Che, cioè, partita letteralmente a spron battuto finisca col diventare parodia di se stessa, ripetizione standardizzata, vuota e fiacca di quello che assomiglia più a un “gesto” che a un “suono”. È successo a mostri sacri come i Napalm Death, perché non temere che possa accadere a due nerd della provincia americana? Tra matematica ed educazione fisica La storia dell’entità LB è ben nota ormai: l’occupazione/creazione di Fort Thunder (squat, laboratorio DROP OUT 17 Una breve intro li mostra alla guida di una macchina scassata e piena di peluche coloratissimi come due nerd americani qualsiasi in fissa con la vita on the road. Ma è una illusione, perché tempo di sistemare ampli e batteria e parte una sarabanda di live footage - che questo è il realtà il dvd, una fotografia del tour del 2001 inframmezzato da qualche sporadica intervista agli amici Pink & Brown, Dan Auchenbach e altri - da lasciare interdetti. Sì, perché specialmente dal vivo, quello dei LB è uno scontro. Estenuante. Sfibrante. Abnorme. Sempre sul filo della tensione e dell’eccesso di volumi e violenza sonora senza mai finire nel parossismo o nella parodia. Non è wrestling, insomma, nonostante l’immaginario da supereroi fake possa ricordarlo, specie nelle maschere usate da Chippendale per reggere in bocca il microfono. Quella dei LB è qualcosa che al limite rimanda alla lotta greco-romana. È sfavillio di muscoli e lucentezza di sudore.Tanto sudore. E tanta, tantissima energia. C avalcando artistico, sala prove/concerti, e solo il dio del rumore sa cos’altro) intorno alla metà dei ’90; l’esordio proprio in quelle stanze da archeologia industriale come trio col nomade noise Hisham Baroocha (di lì a breve transfugo nei Black Dice); la crescente fama extra-musicale come artisti e/o creativi sui generis che ha scoperchiato il vaso di pandora di una nuova arte brutta made in Usa. Prima di tutto questo, l’amicizia ormai pluridecennale tra Chippendale e Gibson nata sui banchi del Rhode Island School Of Design (RISD); dopo, la credibilità conquistata a squassoni basso&batteria che ne ha fatto gli assoluti paladini del nuovo weirdnoise brutale a cavallo dei due millenni. Punto di riferimento e prisma iridescente di cacofonie “brutte”, la coppia di fatto(ni) si sarebbe a breve dimostrata esempio di “artista del 2.0” in grado di interagire sia col sottobosco diy di matrice punk che coi circuiti d’arte istituzionalizzati. Proprio il RISD occupa una posizione fondamentale nella genesi dei LB. Da quell’ammasso di creatività deforme che è l’istituzione arty per antonomasia del Rhode Island sono usciti personaggi niente male (da David Byrne a Gus Van Sant, per arrivare a - sembra - mostri come Prurient…) e da lì prende il via quel continuo mesh-up tra arte e 18 DROP OUT musica, vita e attitudine che ne segnerà il percorso. Da quel contesto scolastico però i due Brian traggono anche una metafora utilissima per definire il proprio suono e ribadire affinità e divergenze con altri mostri sacri del rumore. Ecco cosa dichiaravano in una intervista datata in merito ai Ruins, duo nippo-noise molto affine all’eruzione sonica del duo americano: Se fossimo studenti della stessa classe loro sarebbero i più bravi in matematica e noi i migliori in educazione fisica. Semplice, vero? Una metafora che in nemmeno un paio di righe riassume grossomodo tutto l’universo LB. Un universo fatto sì, di rumore primordiale, di scale vorticose, di ampli fumanti e costantemente al massimo livello ma soprattutto di estrema fisicità, di atletismo spinto, di agonismo brutale. Ed ecco che l’accostamento iniziale con l’altro Bolt, quello giamaicano, torna di diritto. Solo che se lì si tratta di mettersi alla prova con se stessi, nel caso dei due fulmini (o fulminati?) di Providence lo scontro è col mondo intero, racchiuso circolarmente intorno a sé. Basta fare un giro su youtube o dare uno sguardo al dvd The Power Of Salad And Milkshakes (Load, 2003) per rendersene conto. Proprio il secondo è un documento fondamentale per farsi una idea di chi e cosa siano questi due scotennati. i cieli Restii alle interviste (Non è che non ci piace essere intervistati… semplicemente non lo cerchiamo, dichiarava tempo fa Chippendale in proposito) i due preferiscono far parlare ampli e tamburi. Annichilendo l’ascoltatore messo egli stesso ogni volta alla prova - che sia live o semplice ascolto casalingo - dallo sconquasso mongoloide e selvaggio inscenato ormai da un buon decennio. Tutto nasce con Ride The Skies, l’album del 2001 che li consegna all’attenzione di un numero crescente di ascoltatori, anche fuori dai confini americani. Quel monolite sfaccettato in 8 tracce però non è l’album d’esordio. Prima, molto prima, diciamo intorno al 1997 c’era stato l’omonimo album giallo, anche conosciuto col nome di Yellow Album o First Record. Della serie, evviva l’originalità. Eppure di originalità ce n’è eccome sepolta sotto una coltre cacofonica da far spavento. L’impatto soprattutto, è di quelli devastanti: metal deviante suonato da hardcore freaks per una gioventù bisognosa di distorsione e feedback che si raccoglie devota intorno ai suoi dei in quello che è un vero e proprio rituale pagano dedicato ai gods of thunder. L’edizione vinyl-only viene poi ristampata sempre dalla Load nel 1999 con l’aggiunta di un paio di monstre bonus track (Zone conta ben 32 minuti di devastazioni free-noise in modalità impro) e - seppur limitata in quanto a resa sonora - resta un ottimo punto di partenza per decodificare il fenomeno LB. Certo, l’hi-fi non è che sia al centro dell’universo del duo, ma il passaggio dalla registrazione casalinga in quel di Fort Thunder ad uno studio professionale (e soprattutto ad un ingegnere del suono come David Auchenbach) si farà sentire eccome al momento di Ride The Skies. L’amplified tribe of two, secondo la splendida definizione che ne da l’etichetta, spicca il volo e cavalca letteralmente i cieli del suono rumoroso in un disco che però è anche dolorosa polaroid della fine di un’epoca. Fort Thunder è infatti, a quell’altezza, sull’orlo dell’esproprio. Il microcosmo weird messo su dalla comune artistoide di Providence sta collassando e i due sembrano sfogare tutta la frustrazione accumulata in un disco che è non solo una bomba in quanto a violenza sonica e nitidezza di suoni, ma anche un accorato epitaffio al proprio mondo. Alcuni brani (Force Field, St. Jacques) sono esplicite dediche a chi ha condiviso l’esperienza dello squat, ma è l’albo nella sua interezza a porre la devastante proposta del duo sullo stesso piano delle efferatezze di progetti made in Japan come Ruins, Zeni Geva, Boredoms. Merito del basso di Gibson, modificato e accordato in modalità eterodosse, capace di esprimersi quasi fosse una orchestra di rumorose corde in scale vertiginose e assalti all’arma bianca, mentre DROP OUT 19 il sodale Chippendale percuote pelli come un primitivo armato di clava e gorgheggia incomprensibili nenie autistiche (la aliena The Faire Folk). La situazione personale è lì lì per degenerare, ma l’indole cazzona dei due non perde occasione per mostrare il proprio spirito freak e buffonesco: ascoltate Wee Ones Parade, pezzo che per buona parte dei suoi 5 minuti gioca di sponda tra un basso che sembra imitare una gallina scontrosa e una batteria che gli fa il verso, prima di infilarsi nel vicolo cieco di un maelstrom reiterato e cafonissimo. La fase post-Fort Thunder procede poi a scatti biennali con Wonderful Rainbow, prima e Hypermagic Mountain, poi. Ma non si tratta di timbrare stancamente un biglietto guadagnato sul campo. Si tratta di porre un abisso ancora più ampio tra sé e tutti gli altri efferati calpestatori di decibel del pianeta. Roba da bang post-atomico, fusione termonucleare a caldo, Tetsuo deforme di mille forme di musica estrema ma… umano all’inverosimile. Sì, perché lo scarto - uno dei tanti possibili - risiede proprio nella materialità fisica, concreta, corporale del suono dei due, nella sua componente ipoenergetica fatta di muscoli, sudore, movimento ipervitaminizzato. Ipercinesi è un ottimo termine per sintetizzare il portato della band all’altezza del distico centrale della propria produzione. Il suono si ispessisce all’infinito, 20 DROP OUT si centuplica. Le frasi musicali si stratificano mentre l’assalto ritmico sembra sfasarsi in contorsioni epilettiche. Su tutto, un inquietante wall of noise letteralmente annichilente e aberrante. Dracula Mountain dal primo e 2 Morro Morro Land dal secondo sono forse i vertici mai toccati dai LB e vette realmente irraggiungibili per moltissimi adepti al culto del rumore. Do it yourself metallaro e delizie terrestri Nell’immaginario rutilante dei due Brian tutto rimanda al do it yourself d’ascendenza punk. L’occupazione di stabili in disuso come difesa dalla fottutissima quiete dell’americano medio (Mat Brinkmann dixit); l’arte fumettistica e non, fatta di riutilizzo di scarti post-industriali come referente immaginifico o, più spesso (come nel collettivo Forcefield) come reale riuso arty della pattumiera; lo schiaffo in faccia delle musiche dure e prive di compromessi che diviene urlo munchiano di chi è troppo spesso senza voce e si vede costretto ad inventarsi un megafono che la amplifichi (in una parola, l’hardcore). Però a ben vedere dietro la musica dei due, o meglio dentro, c’è il metallo, anche se suonato con la furia iconoclasta tipica degli hc kids. Strumentalmente parlando, non passano inosservate le verti- ginose scale del basso distorto di Gibson - spesso capace di fare il verso a Van Halen et similia - così come i ritmi impostati dal furibondo e tentacolare collega Chippendale sfiorano lo stomp metal, tanto cadenzato quanto cafone e esagerato. La musica del duo è insomma un continuo incitare all’headbanging e alla slam dance furiosa, nello stesso modo in cui è l’immaginario anche semplicemente discografico (titoli e copertine, insomma) a richiamare alla mente un cartoon heavy metal. E del metal la musica del duo mantiene in nuce una sorta di spiritualità incompromissoria, depurata però delle sovrastrutture e degli orpelli inutili. Niente pose (rimando al dvd perché le immagini sono più esplicative delle parole), zero politica o denuncia sociale; solo autoironia e attitudine dissacratoria per una musica che è etimologicamente metallo (fuso) pesante. Riprova ne è anche l’appena uscito Earthly Delights. Sin dal distico iniziale, il comeback si immola al verbo del metallo e del rumore, dissipando i dubbi di cui parlavamo in apertura e (ri)collocando i due sull’olimpo delle musiche noise. Rispetto ai brothers in arms Wolf Eyes e Black Dice - trimurti ormai storicizzata del nuovo noise a stelle e strisce - i LB sono come si sarà capito quelli più matericamente umani, gli unici che non ricorrono a macchine o tecnologia per produrre le quintalate di rumore puro col quale da un decennio fanno sanguinare le orecchie di chi li ascolta. Earthly Delights conferma, inoltre, che delle mille sottorivoluzioni cui abbiamo avuto modo di assistere in questo scorcio di terzo millennio, i LB sono - sia rispetto ai precursori from Providence (Landed, Arab On Radar, i redivivi Six Finger Satellite…), che ai mille contemporanei ed epigoni - quelli che forse meglio hanno retto la prova del tempo. Un universo coloratissimo e in continua espansione, un buco nero che tritura e ingloba in egual misura Slayer e AC/DC, Ruins e Melvins, Napalm Death e Flying Luttenbachers (ri)proponendo se stesso come un classico delle musiche brutte e rumorose. I LB hanno mano a mano messo a fuoco una proposta incompromissoria e devastante che tale è rimasta negli anni, variandola lievemente (pensiamo alle melodie che sottostanno al wall of sound dei due o alle via via più pulita perizia sui suoni) ma non arretrando mai di un passo in quanto ad aggressività e ferocia. Drum’n’bass del paleolitico; speed-trash-metal rinsecchito dopo essere stato lavato con l’acido muriatico; panzer noise-math-metal out of control: tutte queste e molte di più le possibili definizioni valide per descriverne musiche. E tutte azzeccate. Per forza di cose, rimangono fuori da questa trattazione alcuni aspetti dell’arte del duo. In campo musicale, i side-project: Wizardzz (Gibson stavolta dietro le pelli con Rich Porter ai synth), Black Pus (Chippendale in solo tra noise e spasmi free) e Mindflayer (sempre Chippendale col fraterno amico Mat Brinkmann in un progetto tra rumore e immaginario fantasy) meriterebbero un discorso a parte, se solo avessimo ulteriore spazio. Così come, in campo più ampiamente artistico, lo meriterebbe tutto il coinvolgimento nelle arti visive, dal fumetto all’istallazione, all’animazione che contraddistingue i due da Fort Thunder in poi. Basterà qui citare il dvd Mystery Tail (Load, 2006) in cui Gibson anima le sue creaturine Barkley’s Barnyard Critters o le prove di Chippendale ben sintetizzate/celebrate nella retrospettiva Wunderground: Providence, 1995 to the present (Picturebox Inc, 2006) o nella appena conclusa mostra al Macro Future di Roma dal titolo New York Minute (insieme, tra gli altri, a Dearraindrop, Paper Rad, Mat Brinkmann…). Insomma, come concludere il discorso Lightning Bolt senza apparire banali? Beh, depurando il tutto dalle tendenze superomistiche, si potrebbe citare Friedrich Nietzsche e il suo Zarathustra: “…Io vi insegno il Superuomo: egli è il fulmine e la demenza”. Chi più dei Lightning Bolt rientra in questa categoria? DROP OUT 21 Candeggina Pop Neverending Summer Una generazione di artisti under trenta riporta gli Ottanta da Ibiza nelle camerette post-club. Synth-hypno-pop is the now loud. - Edoardo Bridda, Marco Braggion, Stefano Pifferi 22 DROP OUT è dall'estate scorsa che Rolling Stone (edizione americana), Wire, Fader, Stereogum, Blissout, e non da ultimo Pitchfork, cercano di definire prima e diffondere poi un verbo dai contorni conturbanti. All’inizio era un'etichetta piuttosto piatta (e non troppo aderente) come dreamwave, successivamente avamposti in vista del giornalismo di settore hanno diffuso hypno pop e glo-fi e le cose hanno cominciato a girare. Al giornalista di Wire David Keenan ha risposto Simon Reynolds assieme a migliaia di bloggers e forum in rete: tutti a fare quadrato e ad aumentare l’hype. Grossomodo a settembre il fenomeno è scoppiato, innescando un’onda lunga che non sembra scendere di un millimetro neppure ora che vi scriviamo e imponendoci pertanto la scelta di campo, anzi, d’etichetta. Aggiudichiamoci glo-fi. La potremmo definire, se non l’ufficiale, la più sintetica e immediata, oltre che la più di successo (autori: i tipi di Pitchfork). Glo sta per glow, luce soffusa da crepuscolo, calore soft che ricorda l’estate e, nel contempo, per day-glo, il colore fluorescente, gli ‘80. Soggetto pulsante, oggetto della labelizzazione e cuore della faccenda sono sonorità che hanno nell’estate un inconfutabile minimo comune denominatore; mix fatti in casa di una generazione specializzata in vacanze ai tropici mai fatte, pretrentenni con il numero/spada di Damocle a calargli sulla coppa, gente senza scrupoli quando si tratta di rivangare l’infanzia e zero problemi o conflitti con Ottanta mai vissuti se non attraverso i bleep bleep dei videogiochi. In pratica il glo-fi non è una scena ma un club immaginario: la membership promette abbandono dei sensi, Utopia onirica, un sound che più che dreamy è hypno. E Hypno induce de facto ai sogni. Dopo il glo c'è pure il Fi. Fi senza Lo, storico prefisso, per distinguerlo dalla bassa fedeltà dei vari Lou Barlow, e pure dalle camerette dei cugini più vecchi che si sono fatti i ’90. Ombre lunghe sulla spiaggia del ricordo estivo DROP OUT 23 paninaro-milanese. In mezzo: gente e suoni ancora più off, il decennio con l’8 davanti come Thule parallela; in comune la sola tecnologia in un misto di estasi ed ecstasy consumata in casa, nostalgia dell'allora presente, e nostalgia per la nostalgia in un gioco di specchi straniante e derivativo. (EB) Padrini , ducktails che non sono le proiezioni dei children dei Boards Of Canada, ma che ci danno la perfetta scusa per tracciare una bella demarcazione: al di qua della linea glo i sintetici e i provetti produttori / remissatori, al di là (dunque al di fuori di essa) gli psichedelici e i new ager più freak amati da Wire. Fi-ers con i sintetizzatori e Fi-ers con le chitarre. Due generi che, fatti i dovuti distinguo per qualcuno che li cavalca entrambi, ci permettono di dividere altrettante tipologie e prendere le dovute distanze sia dall'articolo apparso su Wire lo scorso agosto, sia dal nostro approfondimento (SA59). Un ponte tra le indagini comunque c'è, e fuor di dubbio è racchiuso nella creatura di Matthew Mondanile aka Ducktails: l'ideale zona di confine tra gli psichedelici infatuati per l’acqua, il mare e la chillwave (altra definizione che viaggia per la rete). Non solo. Fa capolino pure un recentissimo progetto, i Real Estate, il cui disco omonimo è esattamente quel sogno estivo fi e glo e hypno di cui stiamo cercando di darvi le coordinate. Tutte tranne una. Questi ultimi newbies insieme a Predator Vision, Parasails e tutti i progetti del versante Tropical non hanno il taglio synth pop che è invece la matrice dell'intera faccenda qui narrata. Così la Real 24 DROP OUT Estate entrata in scena per un attimo, già ci tocca abbandonarla, come pure Julian Lynch (molto affine a Mondanile) e tanti altri tra cui il celeberrimo James Ferraro. Il synth è la sfaccettatura che ci porta dalle parti degli Ottanta, pure più rovinosi e trash. Preparatevi. Dopo aver trattato l'ambient revival nell'ambito dell'elettronica targata UK, e quasi in risposta al Wonky che spopola nelle camerette londinesi, oltre Atlantico troviamo un movimento in rapida crescita e in fissa per una magica intersezione: quegli 80/90 che portarono in una breve luna di miele gli Ottanta funk-soul alle tastiere, i neonati Novanta della futura IDM e un pizzico di New Age firmata Windham Hill d’antan. Giusto dietro l’angolo: i miti estivi della borghesia yuppie incarnati in clip del calibro di Rio dei Duran Duran, Club Tropicana degli Wham!, Do You Really Want To Hurt Me dei Culture Club ricordati sullo sfondo di uno schermo con una palla gialla che mangia pixel bianchi. E dunque ancora sole e mare, colorazioni che iniziano ad assumere contorni più definiti: un misto di waspness britannica che sfocia a Ibiza, isola paradigmatica più che reale, estate da dopo party, e nostalgia Pet Shop Boys (We Will Never Being Boring) e ponti , eccezioni A proposito di tutte le immagini con le quali vi abbiamo fasciato la testa, ai lettori più scafati non saranno sfuggiti i rimandi agli ultimi Animal Collective. Sacrosanto, ma se vogliamo scovare lo zio di turno, il nome è presto detto: Ariel Pink, quel pazzo reclutato proprio dal trio a inizio Duemila che aveva riempito gli scaffali di ristampe di album mai usciti alla ricerca di un mitico pop perduto. Pink proclamava che il pop migliore era quello senza nome dalla familiarità disarmante. Affermava che più l’ascolto era distratto e confuso e più risultava stregante. L’autoproclamata hauntology dello striminzito genietto è la lezione che oggi i ragazzi mandano più o meno consapevolmente a memoria.Tutti loro, come prima Ariel, s’addormentano davanti a MTV sparandosi in uno stato R.E.M. i So Eighties e i So Seventies del caso. La differenza è il mancato massimalismo e l’assenza di presupposti estranei al revival di una golden age. Pink invece aveva messo la magia in scatola, l'aveva concettualizzata, le aveva fatto acquistare una patina psichedelica indiretta e dentro la lavatrice sonica ci aveva ficcato di tutto, da Tin Pan Alley a Madonna. Washed Out, Neon Indian, Memory Tapes, Delorean, Föntan (in panchina per ora la riserva svedese Boat Club e Air France), Toro Y Moi delimitano invece il campo d’azione. I campioncini del glo preferiscono l’utopia all’arrovello complesso delle citazioni. Anche da queste parti le eccezioni confermano le regole: l’ultimo dei ragazzi citati, personaggio occhialuto e stiloso, apre un ponte con il britannicissimo e colto Bibio attraverso break di rimandi vintage (leggi funk soul e rare groove) che vanno oltre la mania Ottanta. Pure in quegli intarsi però il sole picchia forte e così la nostalgia dei suoni sentiti da piccoli che confusamente si mescolano ad altre fonti fuori tempo massimo: Giorgio Moroder, le sigle dei cartoni, i primi Depeche Mode, il nostrano Gazebo, la lounge dei b-movies e così via, fino alle voci grosse degli immancabili Daft Punk e Air, entrambi fondamentali per qualsiasi approccio vintage ai sintetizzatori. Il tutto sotto una mostruosa lente sepia. Eppure il glo, contenute le voglie da poseurs, è una cosa intimista fatta di combriccole e di provincia, nerd cresciuti con le consolle che rivendicano il past perfect e si ribellano con pastiglie fatte in casa. Gente che non disdegna il ballo e che ama saltellare in casa con gli amici, tra un sampling affilato pop/ kitsch e perché no, una cassa dritta che li riappacifica con il presente (EB) D olce V ita America e nostalgia. In due parole Washed Out. La visione sepia tone, gli scatti con la Lomo in bassa fedeltà, il suono balearico chilling che torna nelle camere. Voglia di vecchio, di tastierato analogico. Vedi lo stile nelle copertine e nei video del ragazzo Ernest Greene: gente che fa cose normali come una nuotata, gente che si sballa senza speed. Il relaxing chimico di questi anni sul baratro (i pallidi ‘manager nella nebbia’ degli Amari). La crisi vista dalla parte degli slackers, di chi non si muove se non per star tranquillo e in pace, senza rivoluzioni, senza miti, solo buona musica per buona compagnia. Oggetti sonori che lasci andare e non ti accorgi che sono in loop mentale da ore. Sarà ambient, sarà di nuovo ancora e sempre new age, ma stavolta si aggiunge anche il battito di quelle tastierine Bontempi tipo clavietta filtrato Boards Of Canada. Quel beat sporco lo-fi che lo digerisci a qualunque ora. Non servono le luci stroboscopiche e i laser, qui è tutto senza mediazioni. Cose di pancia da picnic countryside americano; scampagnate di provincia che fanno scena e bisboccia di classe. Ernest sta nell’angolo, schivo, il bravo ragazzo senza cresta, col taglio di capelli appena rifilato dal barbiere di fiducia, col Mac e con la tastierina a due ottave che suona sui palchi nascosti della grande mela. Aggiungici la cravattina stretta, il maglioncino col collo a V e anche le mamme son contente. La sua linea la professa già dal primo EP: Life Of Leisure (Mexican Summer, agosto 2009). Dolce vita per lui e per i suoi amici che si immergono in acque fatte di funk ciccione (l’intro di Lately è l’omaggio nascosto ai Daft Punk) ma sempre con quelle vocals in riverbero infinito, segno di grandi spazi ma anche di presa distanza dal mondo. In più ci sono l’obbligatoria new wave (Hold Out), i rimandi agli ‘80 del pop da classifica britannico (gli Wham! in Get Up e le discotechine in You’ll See It) ma anche ai salotti della lounge da pulp movie (Feel It All Around). Come in una grande visione dall’alto il ragazzo ci vede giusto DROP OUT 25 e non si preoccupa del successo, tanto che riporta poi su nastro altre considerazioni, le chiacchiere del dopo barbecue, magari sorseggiando qualche Bud. Il nastro (sì, proprio la cassetta) in questione è High Times. Come sopra, il titolo è già estetica. High Times nel senso di sballo, ma anche di fuga estemporanea dal qui e ora. Temporalmente si viaggia negli ‘80 synthetici à la Comanchero(Olivia), nelle brughiere new age dell’ambient targata Warp (Clap Intro) e nell’appartenenza a una generazione post-Beloved (Belong) che non si può aspettare più nulla e che ha come unico scopo lo sballo. Una rivisitazione in chiave 00 dell’estetica balearica e del disco-funk (vedi la citazione all’Incredible Bongo Band in Yeah). Lo sgami subito che il ragazzo è americano. Il funk ce l'ha nel DNA. Prima parte dalla città natale Philly, poi approda al sogno mentale delle isole ispaniche. Il suo è il ritmo che movimenta il passaggio dal ban- con gli ultra citati Boards Of Canada. Chaz in tutte le sue incarnazioni fa da spola tra le avenues della grande mela e l'elaborazione sintetica europea targata Daft (il funk ibizenco di Low Shoulder), il bbreaking hop che si intrufola nello space surf estivo di Wilson e compagnia bella (Fax Shadows). Il compromesso tra melodia e ritmo che punta al beat in slomotion e che ricorda gli eroi del soul chic in falsetto Bee Gees (You Hid). Toro Y Moi è poi anche un'esperienza che viene narrata sul blog Toroymoi.blogspot.com con i soliti link ai video cool, alle foto e ai ricordi della scuola di graphic design. Un bel tipetto, questo Chaz, che promette già di avere materiale sufficiente a stampare un secondo album nel corso del 2010 e che fa il verso al pargoletto di casa Warp Bibio. Il quattro hip-hop ben piantato in testa, le forbicine da sartoproducer taglia e cuci e gli accenni al funk. Sta a vedere che non lo chiamino da Londra... (MB) cone del bar alla sdraio. Generazione senza spina dorsale? I nuovi smidollati (al plurale, perché Ernest è spalleggiato dal già citato amico Chaz Bundick in arte Toro Y Moi) sono modellati dalle droghine da cameretta in un pongo che ha la maschera di Aphex Twin truccato American Dream. Dietro ai sorrisi vedi quindi la mutazione di un sentire 2.0 che ha nuovi eroi e nuove modalità di scambiare esperienza (musicale e non solo). Le visioni citazionistiche dal passato sono pezzetti di memoria che dura un attimo, gettoni per l’autoscontro che non ricordi ma su cui vuoi riprovare a salire. Più che documentare, il ragazzo ‘fa sound’. E per ricordartelo, come la droga, devi rimandarlo in play. Addicted to rhythm (MB) You S hould B e D ancing with M oi Come abbiamo appena visto, Chaz è un grande amico di Ernest. Il sound dei due si situa sulla stessa I ndiano Toro Y moi washed put 26 DROP OUT linea stilistica, ma il Toro prende un sentiero che non punta solo sulla melodia, anzi ci va di ritmo. Il ventitreenne della South Carolina ha un passato newyorchese che lo connette a gruppi più blasonati (Animal Collective, Flaming Lips e inevitabilmente Ariel Pink) e gli permette di allargare le vedute di provincia del vicino. La sua produzione si accosta inizialmente a quella di Washed Out: un nastro su Mirror Universe (Body Angles) e un remix del mini-inno Feel It All Around. Passa ben presto al vinile con il singolo Blessa / 109 che preannuncia l'album Causers Of This in uscita a febbraio 2010 su Carpark, ma già disponibile sui fidati siti di downloading. Blessa è l'America che incontra le sonorità 4AD passando per il breaking slavato di J Dilla. 109 è il lato B: il ricordo che si spinge fino ai ‘60 di motowniana memoria, ci infila dentro delle Les Paul da surf e il gioco è fatto. I due estremi che si incontrano sulla supernova del ritmo e che per questo aprono le porte a un mix che va oltre i riferimenti ‘80. Il ragazzo non si accontenta poi del moniker glo-fi e si reinventa dancefloor con il progetto Les Sins. Andate a vedere il suo myspace e vi accorgerete che la rete dei rimandi è fitta e non si risolve solo al neon Alan Palomo è il suono delle estati del Texas riportato a Brooklyn. Lui è l’Aphex Twin della situazione. Produzione in camera, chili di nostalgia, qualche lacrimuccia, i suoni dell’Atari e vai di culto. Tradotto in disco: Psychic Chasms, appunto. Abissi psichici, nel senso di ricordi che vengono fuori direttamente dai suoni in un’aura pop diversificata nella proposta: reggae à la Attenti al lupo - sì, il Lucio Dalla trashpop - in Laughing Gas, il ricordo Darkel (Terminally Chill), il pop da balera con gli echi wave (Should Have Taken Acid With You) e tanto per sbordare un po’ di bbreaking (Ephemeral Artery). L’eredità del padre Jorge, una specie di pop star messicana della fine Settanta viene fuori nelle tecniche del figlio, che esplora l’antico e lo riporta in una dimensione di sogno elettronico. Quello che fa Alan è un po’ il background che accomuna l’intera scena glo. Suonini campionati dai videogames dell’epoca, un po’ di arpeggi italo, coretti in background lounge, un approccio che a qualcuno potrebbe ricordare i Daft Punk un po’ slavati, senza mordente dancefloor. Il tutto viene poi ripassato su nastri rallentati o velocizzati, il trucchetto (grazie anche alle mitiche tastiere Korg) infonde l’aura di magico e di onirico che già il Beck d’antan aveva ripescato per il suo ripensamento del blues. L’old-school si riprende tutto lo spazio che può e ci innesta pure un buon quantitativo di droghe. Perché se già dai titoli capiamo che qualcosa scorre nelle vene e nei neuroni, è proprio questo perdersi in una DROP OUT 27 N astri dimensione broadcastiana (e prima stereolabiana) che dà al suo viaggio lo status underground di coolness garantita. L’origine messicana del ragazzo, collegata alle insalate di funghi e peyote chiude il cerchio. Non c’è però spocchia poshy. C’è l’improvviso successo decretato da critici over 30 che rivedono in questo teen il sogno degli anni ormai andati, dei club e delle paillettes su spalline oltremodo vistose e su qualche paio di Levi’s 501 troppo stretti. C’è la non consapevolezza che il suono di oggi è quello di ieri proiettato phuture. Un po’ come il revival ‘90 che Crookers e compagnia bella stanno sparando nel fidgeting. Qui la base di partenza sono gli ‘80 sprofondati in qualche bel divano. Stupid (?) Dance Music per il nuovo Richard D. James glo. (MB) 28 DROP OUT e memoria Dayve Hawk ha il suo ‘giro giusto’ nel New Jersey, stato-provincia del più vicino e blasonato New York. In poco tempo ha sfornato un EP (Call & Response) come Memory Cassette, si fa chiamare anche Weird Tapes e poi rimescola i due nomi nell’LP a nome Memory Tapes (Seek Magic). Un modo per scartare i fan e per rinnovare una proposta che scava inevitabilmente nel passato. L’ex frontman del gruppo post punk Hail Social si rivela essere il più maturo dei ragazzi glo. Non ancora trentenne è già papà di una bambina di quattro anni, non ha un cellulare e nemmeno l’auto. Se gli chiedi come fa a muoversi ti risponde che non gira poi così tanto. Si accontenta di stare a casa e di passare il tempo con la pupa. Un bradipo? Non si direbbe, dato che ha remixato pezzi per Yeah Yeah Yeahs, Peter Bjorn and John, Britney Spears e ha ricevuto pure una proposta dai Major Lazer e dalla label di Michael Jackson per un remix del re del pop. Questa maturità indie e un po’ eremitica si traduce nel ritmo quadrato del singolone estivo Bicycle con gli archi per Robert Smith, nell’ostinato quattro che scandisce il tempo e che fa gola a James Murphy (Stop Talking), nei rimandi a Elizabeth Fraser (che - dice lui - lo aveva contattato tempo fa per una collaborazione) e nei suoni in remember 4AD. La voce androgina, filtrata in stile Flaming Lips, trapassata dal fantasma Police e dai Pink Floyd pastorali (nella lunghissima coda Treeship) è il suo biglietto da visita. Ingrediente che si riverbera con tastierine e field sounds come in qualche vecchia polaroid sbiadita. Quel vedo/non vedo che affascina e infonde l’aura magica del ricordo attualizzato. Il diario dell’americano non è comunque critica storica. Visto che siamo nel mondo del pop, viviamo l’attimo e basta, ricordiamo dettagli riciclabili e dopo un attimo dimentichiamo. Con lo stereo in loop ci si accorge infine che la ‘lofiness’ di Memory Tapes è in sordina rispetto agli altri personaggi chillwave. Sarà una piccola sfaccettatura, sarà che gli echi di Geogaddi si mescolano alle chitarre pulite dei New Order, comunque quello che esce dagli speaker è un afflato più vicino alla pulizia, una cosa che puoi addirittura pensare di ballare. Il paparino dai molteplici nomi preferisce la pulizia (poco) mascherata da sporcizia.Volente o nolente si fa quindi portavoce di una sensibilità da dancefloor ‘adult’ che con il suo full lenght raggiunge una maturità inattesa. Aspettiamo entro la fine di questo 2009 una conferma (/smentita) negli annunciati due (!) lavori in uscita... (MB) Fontän S vezia lisergica La new age di Andreas Vollenweider mescolata con le progressioni kraut del dopo Lindstrøm. Se ci aggiungi poi gli effettacci dei Pink Floyd cadi sul territorio dei Fontän. Molta Windham Hill. Ricordate? L’etichetta che nei ‘90 riuniva il gotha chill mondiale: quando c’era la new age la gente si prendeva sul serio e partiva con dei trip per la via della seta (Kitaro) o si innamorava di tutto quello che era indiano: il tantra, lo yoga, il Tibet (Mark Isham) e altre infinite suggestioni. Metteteci il motore dalla Germania, i filtri a scomparsa multipla (che sì, son sempre ereditati dal cavaliere in seta bianca Moroder) e allora vi potete autoinvitare a mangiare salmone per cena dagli svedesi Jesper Jarold e Johan Melin. I Can e Ibiza in testa per i due ragazzi alle prese con un suono congelato nel passato (il titolo del disco è Winterwhila, che sta per ‘ibernazione invernale’) ma pieno di vita con la miccia pronta a far esplodere progressioni space-disco à la Alan Parsons. Un pantalone a zampa, un organetto, qualche beat e i giovani del nuovo surf sono qua. Parola d’ordine chillwave psych-robotica. La leggenda narra che i due casalinghi abbiano editato tutto l’album nel magazzino della nonna. Sembra di vederli là, nella capanna in mezzo alla neve a scaldarsi con qualche sigarettina +, a registrare takes e consumare i vinili della collezione dello zio strafatto di ambient. La chillwave è una corrente anticiclonica che li lega alle Baleari, ma che col ghiaccio che li circonda ti fa veder pure l’aurora boreale. E allora per scaldarti non puoi non invocare i movimenti delle macchine umanoidi ‘80, il funk bianco (il basso degli Spandau Ballet in ...You Too), i demoni degli Happy Mondays, le tastierine a 8 bit e Super Mario sgranato a 16 colori. Un sentire decisamente più suonato e live rispetto ai cugini americani traduce il sogno in una DROP OUT 29 O uter E ighties delorean visione ‘70 (i Goblin in Neanderthaler) e ‘80 (i Japan di Sylvian in The Bridge) che non contempla passivamente il tempo che fu, ma che ha al suo interno delle coordinate progressive in caduta libera per far muovere la gente sotto il palco. Un’estetica al limite tra rock e contemplazione, Syd Barrett che viaggia a braccetto con Morricone (Nightrider), il tutto attualizzato dal fantasma Eskimo (Lindstrøm e Prins Thomas in primis). L’agenzia spaziale di viaggi Fontän ci dà il benvenuto per un’andata ritorno Ibiza-Göteborg. Alla cabina di pilotaggio ci sono due robot pronti a farci dirottare sul lato oscuro della luna. (MB) A yrton S enna I s R iding A D elorean Se fin qui avevamo sentito l’assenza di un effluvio p-funk, ecco che spuntano i Delorean. Il combo barcellonense fleshato dalle prove tropical psych di El Guincho aggiunge alla proposta oltre all’ingombrante eredità di Rapture e !!!, il camp targato Patrick Wolf, le tastierine spastiche ereditate dal bbreaking ‘90, la wave danzereccio-minimal e il sentire ‘estivo’ di Panda Bear e Todd Terje. Il documento sonoro su cui possiamo mettere le orecchie 30 DROP OUT per ora è l’Ayrton Senna EP (oltre a qualche remix per Glasser, Franz Ferdinand, The XX, Teenagers e altre briciole sonore), uscito a maggio 2009. Pubblicato dalla Fool House, la label dei dancebloggers francesini Fluo Kids, il disco è un perfetto mix di rock wave mutato house in 25 minuti. Il dancefloor si illumina di un sole che non ha nessuna intenzione di spegnersi e il suono del quartetto è la carta da giocare nelle piste affollate da giovani che non osano più il pogo post-techno dei Justice. Il pubblico dei Delorean è quindi il distillato electropop stanco delle chitarre degli Strokes ma sempre e comunque concentrato sulle vetrine. L’accostamento cui probabilmente aspirano è ai Beach Boys. Ma di mezzo ci sono stati i Wavves, il fidget e molto altro. Le senti tutte queste contaminazioni 00 nel singolo Seasun con quel ritornello che è già anthem e che mima la Kids di MGMTiana memoria. Se poi la riascolti nella versione di John Talabot ti vengono i brividi da spiaggia ibizenca. Per chiudere degnamente ti rilassi con le tastierine ‘90 e gli echi degli archi disco di Big Dipper e stai lì a prenderti il sole anche se non c’è. Babe, if you want to we could run away up into the sun / But we would only fade from black to black. (MB) Prendiamo un bel respiro e facciamo una pausa. Saltiamo di nuovo il fosso della delimitazione che sta all’origine di Candeggina Pop e ritorniamo dalle parti di “quelli con le chitarre”. I più si staranno chiedendo quale senso abbia ritornare su quel tropical sound approfondito non più tardi di un paio di mesi fa, soprattutto alla luce di un suo ipotetico, teorico sviluppo laterale (o speculare, dipende da dove lo si guardi). Ci si torna perché il fenomeno non sembra essersi fermato, anzi è in grande fermento. Partiamo dal capostipite Matt Mondanile aka Ducktails che ha appena pubblicato il suo disco migliore Landscapes; mentre nello stesso tempo ha portato all’esordio - dopo qualche 7” e cassetta d’ordinanza - il progetto Real Estate, vero e proprio supergruppo di cui fanno parte (più o meno marginalmente) Alex Bleeker e Julian Lynch. Quest’ultimo da tradizione bedroom-pop hero ha esordito in solo con Orange You Glad per Olde English Spelling Bee (marchio anche di Landscapes), mentre il primo è in procinto di farlo col progetto Alex Bleeker & The Freaks, sempre su Underwater Peoples; ideale spiaggia (è il caso di dirlo) su cui naufragano un po’ tutti i protagonisti qui elencati. Metteteci anche che l’omonimo non è l’unico disco in uscita in questo periodo per Real Estate (sta per essere pubblicato il 12” Reality per Mexican Summer, casa anche di Washed Out - e magicamente tutto torna) e che, nel frattempo, le gemme sparse nella compila Summertime Showcase hanno cominciato a germogliare mostrando ottimi frutti (su tutti Frat Dad e Family Portrait con 7” in arrivo) e capirete il perché di questa postilla. Diciamo che siamo al livello dell’attualizzazione del presente, in questo (sotto)mercato onnivoro e inarrestabile. Nomi diversi, seppur di poco, per proposte diverse, seppur di poco. Eppure se le si unisse come i puntini di uno di quei giochini della settimana enigmistica avremmo un microcosmo interessantissimo e frastagliato. Prendiamo Real Estate e Julian Lynch. Affini lo sono, visto che il secondo suona spesso coi primi che, a loro volta, lo considerano una delle loro influenze principali. Ma ad ascoltare Real Estate e Orange You Glad non è che ci si ritrovi proprio sullo stesso piano. RE è pop sixties sotto valium, forma canzone + melodia compressa come se provenisse dal fondo del mare; Lynch un caleidoscopio freak che del pop mantiene strutture e accessibilità. Inserirli sotto la cappella del hypnagogic pop made in Keenan non è affatto sbagliato, a patto che si consideri la definizione non tanto come un suono specifico, bensì come un feeling, un immaginario rievocabile “a mente”. La linea di demarcazione di cui sopra - fi-ers con synth vs fi-ers con chitarre - perde un po’ della sua nettezza. A riprova di ciò, il fatto che proprio l’iniziatore di questa “riflessione catalogatoria” inserisca nel calderone progetti molto diversi come Oneohtrix Point Never e Zola Jesus, Pocahaunted e Emeralds arrivando a mostri sacri della merda-music più oscura e carbonara come James Ferraro & Spencer Clark aka Skaters e mille altri nomi ancora (Lamborghini Crystal e Vodka Soap i più significativi). Non è dunque il suono in sé ma la “memoria offuscata” o “nostalgia artificiale” il tratto unificante. Le musiche degli hypnagogici sono proprio questo: il ricordo di un ricordo, modificato, deviato, scontornato dal suo contesto, come derivante da un dormiveglia continuo e cosciente che crea spesso cortocircuiti assurdi che nemmeno il bastard-pop: ascoltatevi a proposito Green River dall’omonimo di Real Estate e ditemi se non vi torna in mente Il Cielo È Sempre Più Blu di Rino Gaetano. Fermiamoci. Altrimenti i cerchi concentrici che si aprirebbero ci farebbero perdere di vista il punto focale della postilla: se nella fluviale indagine di Keenan è stato facile perdersi in mille e più rivoli, nella nostra una linea comune c’è ed è piuttosto evidente. È quella di un immaginario da spiaggia in bassa risoluzione, immagini sfocate e lampade bubble da hippie fuori tempo massimo. (SP) DROP OUT 31 Recensioni::::dicembre:: ►►►► 2020 Soundsystem - Falling (2020 Vision, Novembre 2009) G enere : electro suonata Quando l’elettronica si pulisce e si pompa con i compressori da floor vai sul sicuro e sai che puoi aspettarti il suono duro che ti trapassa fino all’alba. La nuova fatica di Ralph Lawson (ex DJ al Back To Basics di Leeds), Danny 'Dubble D' Ward, Fernando Pulichino e Julian Sanza (questi ultimi due argentini ex Silver City importati UK) è un buon compromesso tra le stanze plastiche dei Gus Gus e l’energia rock-based dei redivivi Depeche Mode. Un’elettronica che non spinge troppo sul tempo e che si avvicina alle modalità compositive dei New Order puntando però su una coerenza deep che ama e coccola il suono caldo. Le svisate tagliagola prog di Bisco, il clubbismo wave F Communications di Falling, i rimandi funk 80 di Satellite, la wave postStone Roses di Closure e in definitiva un suono che sta in piedi da solo, ci portano egregiamente from disco to disco. Suonabilissimo da cima a fondo, il disco ha però solo un apice che potrebbe sbancare (Everytime guardacaso richiama la minimal di Circlesquare). Li aspettiamo di nuovo sui palchi del Sonar.(6.5/10) Marco Braggion 3 Shades - Thank God For Beatniks (Alien Transistor, Ottobre 2009) G enere : psichedelia lo - fi Thank God For Beatniks è un disco di confine. In bilico tra il “non del tutto riuscito” e il “più che sufficiente”. E pazienza se tra i crediti c'è gente che in vita è stata capace di scrivere pagine importanti dell'indie e dell'elettronica contaminata come Carl Oesterhelt (Carlo Fashion, F.S.K., MS John Soda, Tied & Tickled Trio), Ivica Vukelic (Die Regierung, Ligthnin' Ivi), Markus Acher (The Notwist, Tied 32 recensioni & Tickled Trio, Village of Savoonga, Lali Puna, 13 & God) e Micha Acher (The Notwist, Tied & Tickled Trio, MS John Soda). Mood minimale e lo-fi per questo ennesimo progetto collaterale degli elettronici dutch; suono adagiato su una base di chitarre, organo, glockenspiel, basso, batteria; aspirazioni che sfiorano concettualità kraut, ipnosi da bar sport, hip-hop elettroacustico, psichedelia scassata. Come dei Pavement blues traviati dalle tastierine dei nostri Father Murphy (Tiny Beats Of Terrible), certi Whitest Boy Alive sgualciti e poco glamour (Thank God For Beatniks), dei Notwist gangsta senza rivoltelle (Subsequently, alla voce Fat Jon). Materiale che si diverte a disegnare nuovi orizzonti tra i generi (e questo è bene) ma che nel contempo non riesce sempre ad ottenere risultati all'altezza delle “esplorazioni” promesse sul sito dell'etichetta (e questo è male). Piacciono soprattutto El Topo, Bombay Can e la già citata Tiny Beats Of Terrible, la prima un blues desolato mixato a ottoni malinconici, la seconda una cavalcata innaturale sul terreno accidentato del rock tedesco che tutti conosciamo. Il resto però, è per lo meno opinabile.(6.4/10) highlight Aidoru - Songs Canzoni – Landscapes Paesaggi (Trovarobato, Dicembre 2009) G enere : art post post - rock Quarto album in studio per i cesenati Aidoru, ensemble rock e non solo, le cui esperienze si sono da sempre contaminate con il teatro e le arti performative. Songs canzoni - Landscapes Paesaggi raccoglie cinque anni di lavori dei quattro membri del gruppo, suggestioni esclusivamente strumentali questa volta, fatte di frammenti sonori. Frammenti di paesaggio, per meglio dire, in un disco diviso in due parti: Songs canzoni comprende, come sempre, strutture atipiche e non canoniche della forma canzone, evoluzioni che dal post-rock alla contemporanea all’art rock al jazz e all’improvvisazione contribuiscono a formare la cifra stilistica degli Aidoru, che tende perlopiù alla sottrazione in questo ultimo album. In Landscapes Paesaggi le trame si fanno ancor più rarefatte e accompagnano musicalmente l’evocazione di paesaggi naturali e urbani. Una serie di induzioni che tra rumori, timbri e soprattutto silenzi, fanno procedere togliendo e scarnificando; il risultato è suggestivo, segnando un’ulteriore evoluzione della band, che si fa più minimale, ma non meno espressiva, anzi. L’emotività resta sempre infatti il suo tratto distintivo, per una musica mai fredda e distaccata. Una colonna sonora di stati emozionali profondi.(7.4/10) Teresa Greco Fabrizio Zampighi 50 Cent - Before I Self Destruct (Interscope Records, Novembre 2009) G enere : gangsta rap Che dire del quarto disco di 50 Cent? Che prima di autodistruggersi, Curtis Jackson ci tiene a dare un'ultima succhiata alla mammella del gangsta rap versione Duemila. Che si rimpiange l'ultimo Eminem. Che le basi sono così fiacche (con l'eccezione di Death To Enemies, firmata da Dr. Dre e Mark Batson) da fare sembrare il film allegato al disco qualcosa di eccitante. Che John Cena - e non è solo una battuta - rappa meglio. (4/10) Gabriele Marino AGF - Einzelkämpfer (AGF Production, Novembre 2009) G enere : elettronica avant Sesto album solista per Antye Greie meglio nota ai più come AGF. A dispetto della recente produzione, per il nuovo lavoro solista prosegue lungo la traiettoria tracciata da Words Are Missing, ovvero concentrarsi soprattutto sul suono della voce e delle parole. Il taglio delle composizioni non potrebbe essere più avantgarde nel senso proprio di immaginare nuovi ambienti sonori in un’ottica di sperimentalismo puro. Si perde così per strada gran parte della ritmica. Quando appaiono i beat non sono mai per muovere ritmo, quanto piuttosto parte dell’arredo di scena, dettagli in un mare magnum amniotico e stordente. Detto che Einzelkämpfer sta letteralmente per “Guerriero Solitario”, quello di cui l'album difetta è essenzialmente il suo concept stesso (nonché il modo di sviscerarlo). Composizioni astratte e severe come Her Beauty Kills Me, non aggiungono niente a quanto detto fin’ora, e in più non si giovano di alcuna forma di comunicatività, chiuse come sono in un profilo algido e intoccabile. Gran parte del disco va preso in questo modo. Un monolito androide che guardi di profilo senza mai riuscire ad entrarci. Quello che ad AGF riusciva brillantemente nel precedente lavoro, qui si perde per strada, come una foto che non riesci mai a mettere a fuoco. Un lavoro interessante come al solito, ma per l’appunto fuori recensioni 33 fuoco, soprattutto nelle ipotesi post Bjork di Worin Mein Mund Zur Bewegung Fand e Alone In The Woods (The Fox, The Skunk And The Rabbit), o nelle le geometrie congelate model Zavoloka di A Poem. Per la cronaca è il primo disco registrato dopo il trasferimento in Finlandia con il compagno Vladislav Delay… si aspettano nuovi sviluppi nel perenne trip sperimentalista dell’artista teutonica.(6/10) Antonello Comunale Alessandro Magnanini - Somewhat Still I Do (Schema Records, Novembre 2009) G enere : jazz Che gli italiani siano dentro al jazz è cosa nota. Rava, Bollani, Fresu, Conte (sia Nicola che Paolo) e compagnia bella hanno riportato il mondo (e l’America) a considerare il Bel Paese come uno dei punti di riferimento per il linguaggio black per eccellenza. Non è da meno il disco d’esordio di Alessandro Magnanini: chitarrista, arrangiatore e direttore di quella Duke Orchestra che ha decretato il successo di Mario Biondi. L’emiliano si avvale qui della complicità di un roaster di tutto rispetto: le voci di Jenny B (stupenda nella bossa So Long, Goodbye) e Liam McKahey (il cantante dei Cousteau in gran spolvero nella ballad Livin’ My Life). In più il cameo della meravigliosa Rosalia De Souza che canta in italiano lo slow brasileiro à la Astrud Gilberto (L’estate è qua singolone da pelle d’oca) e la partecipazione di Stefania Rava e Renata Tosi (direttamente per un remix su F Communication lo swing uptempo di Stay Into My Life). In più tanto per far quadrare il cerchio la base musicale di un gruppo ultrapremiato come l’High Five Quintet. Che dire di più? Qui si sente come ci sia ancora un enorme spazio per il jazz popular (nella miglior accezione del termine) di classe. Canzoni che dopo un’istante sai già fischiettare, sulle orme di Mancini, Morricone (Suddenly...) e della tradizione brasiliana. Dopo This Is What You Are Alessandro ha fatto il botto e ora è pronto a farsi riconoscere. Seguitelo, non vi deluderà.(7.2/10) Marco Braggion Amolvacy - A La Lu La (Ultramarine, Novembre 2009) G enere : avant impro Il trio che muove le fila del progetto Amolvacy è di quelli di origine controllata.Tutta gente con un certo 34 recensioni pedigree nel settore, a partire da Aaron Moore dei Volcano The Bear, che per l’occasione si accompagna a Dave Ness della No Neck Blues Band e Sheila Donavan dei Laboratory Theater Company. Questo licenziato per l’italianissima etichetta Ultramarine è il secondo parto della compagine. Il centro del discorso è una partitura strumentale che poggia le sue fondamenta su una base percussiva ispida e creativa, arrivando anche a mimare battiti e tremolii, con strumenti e voci. Siamo in un territorio che per forza di cose arriva a tratti a collidere con il Beefhart più obliquo e anfetaminico (Beat Of The Drum) o il Moondog più naive e visionario (On Top Of Unknownille), tutto ovviamente calato in una tenebra esotica alla Volcano The Bear su cui la mano di Moore si muove sicura come un alchimista che sa quali sostanza miscelare nei suoi alambicchi. L’altro protagonista dell’operazione sta poi nelle parti vocali di Sheila Donovan, sorta di incrocio tra Yoshimi e Lydia Luch, che riesce al tempo stesso a farsi cartoon isterico (Ho-Ho-Kus) e suffragetta no wave con assorbente chiodato (Lula, Vehicular Bitterness). Non meno interessante poi tutto l’assunto base del disco, che prendendo le mosse dalle parole riportate sul retro ad opera di Jose da Fonseca e Pedro Carolino, autori portoghesi che nel 1855 scrissero un libro di prose in inglese intitolato “English As She Is Spoke”, pur non conoscendo una parola di inglese. Da qui e da una riflessione sul ruolo del suono e della musica nella comunicazione nello scambio primordiale tra linguaggi diversi e inintelligibili il titolo ironico-dadaista di A La Lu La.(7.3/10) Antonello Comunale Ancestors - Of Sound Mind (Tee Pee, Novembre 2009) G enere : prog stoner - rock Il comeback del quintetto californiano allarga il respiro e mostra la voglia di sviluppare trame più complesse rispetto all’esordio Neptune With Fire. Nelle otto tracce, Of Sound Mind alterna brevi sketches, semi-interludi, momenti di rilascio (From Nothing),malinconiche reiterazioni pianistiche (Not The Last Return) borbottii di synth e drones a fluttuare liberi (A Friend) e epocali e stakanovistiche dilatazioni prog-psych-metal dal minutaggio esoso (ben 4 pezzi girano intorno al quarto d’ora) . Proprio qui risiede il pregio maggiore dell’album: le aperture, come in Mother Animal (dall’iniziale pantano stoner agli umori hard-rock sixties) o Bounty Of Age (dai Pink Floyd ai Neurosis passando per King Crimson e Goblin) e soprattutto i continui, ben piazzati ponti interni ai pezzi stessi, configurano le canzoni come vere e proprie suite attualizzanti il concetto di “heavy-psych rock” tra infiltrazioni doom, sludge, stoner, prog e hard-rock. A volte il risultato è eccessivamente prolisso, anche se un brano catastrofico e ancestrale, mefitico e angelico, liquido e acido come The Trial fa correre brividi lungo la schiena. Eppure la sensazione generale è di un lavoro autoreferenziale o da iniziati, rivolto cioè a chi il macro-genere di cui sopra lo mastica a fondo.(6.8/10) Stefano Pifferi Andrea Belfi/Machinefabriek Pulses & places (Korm Plastics, Settembre 2009) G enere : D rums & D rones Impulsi e radar, macchine e materie: questo l'intruglio sinestetico di Andrea Belfi con Machinefabriek. C'era una volta la psicoacustica, sorta di sistema immaginario della percezione; in “Pulses & Places” c'è psicosintesi, evoluzione sintetica del piano mentale, immaginario prodotto da spazzole, radiofrequenze misteriche, contatto percussivo. Rutger Zuydervelt ed Andrea Belfi si dividono i piani: scorribande dronico-ammalianti il primo, processi ritmico-spezzettati il secondo. Quattro traccie per tanti varchi, finestre aperte, nascondigli dove i suoni restano illesi, fisicamente accessibili, liberi di sedurre. Le trame diventano ondate monolitiche di segnali morse, monogrammi leggiadri, scenari filmici. Addirittura in “Pulses & places 4” l'organo accenna un iniziale motivetto melodico e la musica si sposta su atmosfere nostalgiche fatte per accarezzare e meravigliare. Per chi ha amato “Knots”, questo duo ne rappresenta un'evoluzione tangibile, perché prolunga grazie a Machinefabriek, tutto ciò che d'involuto e vuoto si registrava in quel brano solitario del Belfi. Un buon connubio tra post-rock progressivo, dronica-leggera ed elettronica emotiva.(7.2/10) Salvatore Borrelli Andrea Salvini - Senza paura (The Lads Productions, Novembre 2009) G enere : easy listening Andrea Salvini sta' a metà strada tra la musica di Barry White - e di conseguenza del suo più prossimo emulo, Mario Biondi - e certo crooning traviato dal jazz, canzone d'autore e funk, easy listening e melodia. In una terra di mezzo che è un equilibrio precario, vista la pericolosa vicinanza con certi ambienti mainstream in cui sguazzano i furbetti del quartierino, ma anche un piccolo rifugio affidato alla sensibilità di ogni musicista. Fuor di metafora: se sei uno che sceglie la qualità a discapito dell'ammiccamento facile, c'è anche modo di realizzare un buon prodotto. Salvini ha la fortuna di possedere una voce che non ricalca i modelli citati e una cifra artistica che, salvo qualche caduta di tono, osa qualcosina in più: se in Pesche e Tulipani c'è fin troppa “canzone italiana”, se in Mat Sicuri siamo quasi dalle parti di Love Is In The Air, se nella title track vengono in mente i Dirotta su Cuba, nello scat di Oscar si coglie invece qualche rimembranza Bryter Layter - per lo meno negli arrangiamenti -, in Non chiedetemi si respira un jazz fumoso e affascinante, in Mariposa si gioca con ritmi centroamericani eleganti ricorrendo pure alla steel guitar. Quando ci si sposta di qualche centimetro dalle coordinate easy che dovrebbero solleticare il giro delle radio commerciali, si ottengono i risultati migliori, nell'ottica di un prodotto che rimane comunque legato a un interplay virtuoso tra pianoforte, basso, batteria e ottoni. (6.4/10) Fabrizio Zampighi Apse - Climb Up (ATP Recordings, Ottobre 2009) G enere : indie pop L’effetto è a dir poco straniante, tanto che ci si ritrova spesso a guardare nomi e copertina, note e rimandi online per comprendere se questi Apse sono “quegli” Apse. Per capire come sia possibile che il gruppo che nemmeno 3 anni fa distribuì, prima in solitaria, poi con l’appoggio nientemeno che della ATP, lo splendido Spirit sia lo stesso dietro questo Climb Up. recensioni 35 L’esordio era infatti un album wavish che riesumava sentori da trance-rock californiana piegandoli di volta in volta agli stilemi della wave, del post-punk, financo del post-rock più dilatato e dreaming. Ma sempre virando quelle sensazioni al nero. Ora il comeback, sempre per ATP, spiazza completamente perché sembra una accozzaglia non troppo originale di suoni di derivazione post-indie pop in cui i tratti che facevano risaltare Spirit restano seminascosti o in secondo piano. Un album fatto di pezzi malinconici, struggenti, al limite del gothic sound in alcuni casi (All Mine), romantici e progressivi in altri (le aperture ariose di The Return), altrove pericolosamente vicini a orchestrazioni catchy alla Arcade Fire (3.1) o - peggio ancora - ad un pop intriso di sentimentalismo di matrice radioheadiana (al limite del plagio, in Lie). Insomma, non un brutto disco: ben suonato, sentito, appassionato nelle sue scelte ma totalmente distante dal precedente. Ma forse la chiave di lettura per interpretare quanti danni abbiano fatto Thom Yorke e soci alla comunità musicale underground è proprio in dischi come questo. Una sufficienza di stima nella speranza che rinsaviscano presto.(6.2/10) Stefano Pifferi Avion Travel - Nino Rota L'amico magico (Sugar, Ottobre 2009) G enere : pop d ' autore Che sia riqualificare in senso nobile brani finiti ingiustamente nel carrello delle canzonette di consumo (Ma che freddo fa di Nada, tanto per dirne una) o recuperare tesori seminascosti dal tempo e dell'incuria della critica (Che cosa sono le nuvole? di Domenico Modugno-Pasolini) o ancora rileggere classici in vita rivelandone attitudini pop non del tutto attese (il difficile ma riuscito tributo a Paolo Conte di due anni fa), quello degli Avion Travel è sempre stato un percorso a mano stretta con la tradizione, come principio e fine di un modo di intendere la musica decisamente obliquo e (chissà che vorrà dire?) postmoderno. 
 Con L'amico magico è la vota di Nino Rota, ripreso non in senso generale, e quindi generalista, ma calibrando l'attenzione soprattutto sulla collaborazione con Fellini (e Wertmüller, Scorsese, Zeffirelli) in una direzione piuttosto canzonettara, e quindi 36 recensioni meno conosciuta, a sfavore dei temi più celebri che ci sono, seppur rispettosamente interpretati: vedi un Amarcord che con dobro e vibrandoneon si fa desertica e stellata come il canto notturno di un pastore errante della Pampa.
 Il risultato, lo diciamo subito, è ottimo. Perché gli Avion Travel in compagnia dell'Orchestra Camerata Ducale di Vercelli fanno una cosa semplice e difficile allo stesso tempo: calcano la mano sull'aspetto onirico della musica di Rota ma evitano (quasi) del tutto quello circense-surreale-utopico, che fatti i conti rimane solo nella chiusura (ovvia, ma a quel punto ci sta) con La passerella di “8 e mezzo”. 
 Il nodo sta nella scelta dei brani, tutti attraversati da un leggero tratto verticale, volatile, se non addirittura spirituale, che i tre casertani amplificano a dovere. Gli Avion Travel del tributo a Rota, come di quello a Conte, non hanno più un suono da Piccola Orchestra (e difatti è scomparsa quella parte di nome) ma da ensemble modernista, vedi una Giulietta Masina di Caetano Veloso - reintitolata non troppo felicemente Pelle bianca - coverizzata come l'avrebbe rifatta Arto Lindsay. L'utilizzo di didascalie blues, eleganze pop anche radiofoniche e accenti nu-jazz è al servizio di una materia da manipolare tenendone intatta l'identità, che ha come protagonisti la solita interpretazione teatrale di Peppe Servillo e qui come non mai la chitarra di Fausto Mesolella, abile nel passare da pennellate aeriforme quasi Robert Fripp (la sinuosa Parlami di te) a terrigne narrazioni acustiche che rispondono alla volta celeste dell'orchestra (lo strumentale The immigrant, da “Il Padrino II”), fino ai soliti campi lunghi morriconiani quali conferme di una tendenza cinematica a tratti un po' ridondante. 
L'orchestra dal canto suo sottolinea e riempie, a volte esagerando secondo il difetto di molte produzioni italiane ad alta tiratura. Ma tanto il resto della magia, non come mero incanto ma proprio come tensione verso il mistero, lo fanno le composizioni di Nino Rota. Almeno tre su tutte: l'architettura mistica di Ai giochi addio (da “Giulietta e Romeo” di Zeffirelli) con gli archi sapientemente attraversati da un gorgoglio elettronico di maniera ma efficace; una perlacea e sontuosa Gelsomina (“La Strada”) perfettamente interpretata da Servillo e il divertissement in zona Beatles di Bevete più latte (“Boccaccio '70”), colorato come una b-side di Yellow Submarine e la guest di Elio senza Storie Tese. Completa il tutto un dvd con sei brani registrati agli Arcimboldi di Milano lo scorso maggio, quando il progetto venne presentato. Avion Travel in grande spolvero.(7.4/10) Luca Barachetti Barbacans (The) - God Save The Fuzz (Go Down Records, Novembre 2009) G enere : garage Ci sono dischi che dichiarano la propria appartenenza sin da titolo e copertina. God Save The Fuzz opera prima del quartetto marchigiano - appartiene a questa categoria. Un dio hippie e frikkettone giace con spinello, chitarrina e occhialetti alla Lennon sul retro della cover mentre i loschi figuri armati di caschetto d’ordinanza irrompono come novelli Mosè con le tavole dei comandamenti del garage-rock. E infatti God Save The Fuzz è un 12 tracce sparato dritto in faccia, senza fronzoli o ammiccamenti alla moda, intriso di garage sound fino al midollo e in cui Joe Carnarelli (voce, farfisa),Walker (chitarra), Purple Guescio (basso) e Il Sindaco (batteria) non si risparmiano affatto. E nemmeno annoiano, a dirla tutta, con la loro viscerale energia che tritura tutto ciò che esiste dai Sonics in poi passandolo attraverso la ingombrante e decisiva presenza del farfisa e del fuzz nella migliore tradizione dei Fuzztones. Ne escono piccole gemme garage ’60 virate di volta in volta verso lidi psych-lisergici (Turn Away), power-pop (i coretti di Time For The Choice), punk 77 (What’s Fantastic), addirittura gothic (We Have The Right Sound) o horror-rock (il finale di White Mask, Jude The Honest, la coda di Walking On Newspapers) alla Morlocks, in cui riverberi ed echi la fanno da padrone e l’immaginario evocato non è così lontano dal Batcave. Insomma, se questi sono i risultati, cosa dire se non lunga vita al fuzz?(6.7/10) Stefano Pifferi Benjamin Biolay - La Superbe (Naive, Ottobre 2009) G enere : canzone d ' autore Figliastro di Serge Gainsbourg, scapestrato sì ma mai come il padre putativo, Benjamin Biolay è il classico personaggio che farebbe bene a qualsiasi tradizione musicale ancorata sul fondale della propria classicità e in attesa di una spinta per tornare a galla. Dal 2001 ad oggi il cantautore francese ha prodotto, rinnovandone l'allure, i lavori di alcuni dei nomi bene del più ordinario songwriting d'oltralpe (Julien Clerc, Coralie Clement) e scritto canzoni per colonne portanti mai veramente usurate come Henri Salvador, Juliette Gréco, Francoise Hardy. Il tutto con un approccio teso a riprendere e riqualificare la mitologia pop del suo Paese lungo quegli canali transgenere che già furono del suo genitore artistico-spirituale. La Superbe, sesto lavoro dal 2001 ad oggi, arriva quindi a fare i conti con l'oste per dimostrare una volta per tutte il valore di Benjamin, ed espone i capisaldi di un'estetica di certo derivativa ma ancora parecchio in salute, poiché racchiusa in un doppio disco-romanzo che è prima di tutto un inarrestabile florilegio creativo. La trama è quella una storia d'amore che inizia e finisce con conseguenti risvolti dolorosi, tossicodipendenza inclusa, da cui alla fine il protagonista tenta di rinascere: plot e toni rimangono intrisi di un'aurea maudit-metropoliana che a molti potrà sembrare un po' di maniera, tuttavia è nella quantità incredibile di influenze e cambi d'espressione che La Superbe dà il suo meglio. 
La track-list, sempre sopra la media, assesta metodicamente il colpo decisivo un attimo prima che affiori la noia; il songwriting brucia del fuoco di uno spirito senza regole che emerge tanto nei testi quanto nelle scelte sonore. E le canzoni vengono così costruite rubando a destra e a manca oggetti dalle forme e dai colori più vari per comporre sculture dall'impianto sempre riconoscibile ma decisamente multiforme sul piano evocativo ed emozionale. Ecco dunque, accanto ad episodi tipicamente da chansonnier più o meno moderno (Sans viser personne, Ton héritage), la genesi di calligrafie dandy pop-rock tra Morrissey e David Bowie in Reviens Mon Amour e Prnons le large, gli ammorbidimenti jazz di spazzole-pianoforte-tromba nella splendida La toxicomanie, le cellule hip hop che fanno da appoggio a talkin' ballad mozzafiato come Brandt Rhapsodie (in duetto con Jeanne Cherhal), gli esercizi synthpop spudoratamente anni ottanta con sottofondo di chitarrine funky e tanta voglia di fottersene di tutto di Assez parlé de moi. Addirittura ad un certo punto le chincaglierie andaluse di Lyon Presqu'Ile e l'imitazione Noir Desir tutt'altro che artificiosa di Tu es Mon Amour, ennesimi tasselli di un mondo sonoro che traccia dopo traccia pare rigenerarsi recensioni 37 in soluzioni sempre inedite ma altrettanto in linea con le precedenti. Lo zenith gestativo di Benjamin Biolay si realizza in un disco importante per la canzone d'autore francese e definitivo per il suo titolare.(7.5/10) Luca Barachetti Benjy Ferree - Come Back To The Five And Dime, Bobby Dee Bobby Dee (Domino, Dicembre 2009) G enere : songwriting Bobby Driscoll chi era costui? Il ragazzino che aveva dato la voce a Peter Pan nel film della Disney del 1953 e interpretato altri film negli anni 40 e 50, per poi venire scaricato da adolescente, avere in seguito una vita burrascosa tra alcol e droghe e morire di un attacco di cuore a 31 anni, solo e dimenticato. Una storia tristissima, emblematica delle regole spietate della “società dello spettacolo”. Per il secondo album, il songwriter Benjy Ferree fa un omaggio e una riflessione su fama e morte. E lo fa alla sua maniera, inscenando un quasi musical empatico, dove i T. Rex convivono con Jimmie Rogers, e dove la teatralità di Freddy Mercury si fonde con il dramma nero alla Nick Cave. Uscito a inizio 2009 e distribuito solo ora da noi, Come Back To The Five And Dime, Bobby Dee Bobby Dee - che riprende sin dal titolo un riferimento che Robert Altman aveva fatto negli ’80 all’altra icona giovanile, James Dean, - è una elegia per il Driscoll che Ferree aveva idolatrato da bambino. Roots music, Americana, rock, samba, songwriting, musical, dramma teatrale sono i generi lambiti, con la passione che lo contraddistingue. Un’ode cantata allora, che possiede un senso del sacro e una tensione palpabile, teatrale come è nello stile dell’autore di Washington. Che si conferma songwriter dotato e di grande sensibilità. Heavy weighs the burden of Brother Dee.(7.2/10) Teresa Greco Bill Orcutt - A New Way To Pay Old Debts (Palilalia, Settembre 2009) G enere : B rutal B lues Dopo l'omonimo datato 1996, annunciato da un 7'' in edizione limitata, arriva il primo vero ellepì 38 recensioni dell'ex-Harry Pussy Bill Orcutt. Come un Son House moderno, l'uomo è un pugnalatore e questa collezione di "cadute" su una chitarra ne sono l'ideale compendio. Chino su una sei corde acustica, Orcutt inciampa in movimenti sghembi, stecche terrificanti e intervalli dissonanti che sono un po' il pane di Ian Williams e dei compianti Storm & Stress, con la differenza che il piglio è visceralmente punk, un rutto hardcore ai contorsionismi di Derek Bailey.(7/10) Leonardo Amico Black Cobra - Chronomega (Southern Lord, Novembre 2009) G enere : S toner /M etal Chronomega è un viaggio senza pause, plasmato da un suono massiccio, vigoroso e forgiato nel fuoco. Giunti al terzo disco, i Black Cobra paiono dei Kyuss più truci e incazzati dopo una dieta a base di anabolizzanti. Ci troverete tutto quello che è successo negli utimi anni in ambito stoner/heavy-metal, dagli High On Fire passando per i Mastodon. Difetto dell'operazione non è di poco conto: nell'incapacità di domare il magma se ne diventa schiavi. Ne consegue il classico pastrocchio di tracce troppo simili le une alle altre, annichilimento e infine noia. Alla prossima.(6/10) Nicolas Campagnari Black Keys - Blak Roc - Blak Roc (Blackroc, Novembre 2009) G enere : hiphop rock Damon Dash, l'altra metà della Roc-A-Fella Records di Jay-Z, scopre l'indie blues sanguigno dei Black Keys e se ne innamora. Vuole combinarci qualcosa e se li porta in studio assieme al rapper Jim Jones. Recluta poi altri dieci vocalist, e partono così undici giorni di session per undici brani fatti e finiti, il tutto documentato da nove video disponibili sul sito del progetto Blak Roc. Sono nomi HH con la 'n' maiuscola, da Mos Def a Pharoahe Monch a Raekwon e RZA del Clan (e c'è anche un ripescaggio del fu Ol'Dirty Bastard) a Q-Tip alla singer Nicole Wray, che dà un tocco r'n'b soul al tutto. La prima metà del disco, fino alla performance di Raek (pura classe rap), è ottima, con pezzi efficacissimi (tipo quello di Mos Def, sempre in zona chico hop solarizzato come in The Ecstatic, ma molto più a fuoco). L'altra metà è invece un po' buttata lì, per quanto i pezzi siano sempre costruiti bene e la Wray, affusolata e brava, dove la metti sta. La vera questione: highlight Annie - Don't Stop (Smalltown Supersound, Ottobre 2009) G enere : electro pop Le ragazze che ambiscono al trono del pop. Anne Lilia Berge-Strand, la piccola grande norvegese in comeback. Ed è già gara e parallelo obbligatorio con l’impertinente La Roux. Annie parte favorita. Uno: l’album che ha sbancato, quell’Anniemal che nel 2004 ha fatto alzare le antenne anche a Pitchfork (il singolo Heartbeat è stato inserito addirittura nella top 20 del decennio). Due: il pregevole mix DJ Kicks su !K7 (targato 2005). Tre: la provenienza da Bergen, ovvero dal calderone Telle Records che ha sfornato gente del calibro di Kings Of Convenience e Röyksopp. Ma torniamo al ring. La bionda e la rossa, si diceva. Se per l’albionica c’era l’impertinenza del palco, qui ci sono pulizia e raffinatezza. Annie è la secchiona della classe, quella che non la saluti perché è troppo tutto: bella, intelligente, misteriosa e simpatica. L’altro paragone now è se volete anche con Lady Gaga. Quest’ultima almeno ha la patina rozza della tedescona uscita dalla birreria con il grasso del wurstel mit kartoffen sotto le unghie. Qui invece non ti puoi attaccare a niente, tutto è asettico, come nelle installazioni giapponesi alla Biennale, quei mondi perfetti al neon con la popness che ti mette a disagio. Annie è quindi un robot post-Kraftwerk che incarna le visioni patinate sulle fashion cover ma che ha anche la storia delle indie-stars (la prematura morte del partner Tore Korknes nel 2001 la avvicina infatti a noi comuni mortali). Dopo qualche controversia con i Girls Aloud e dissapori varî con la linea della Island (che hanno fatto cambiare idea alla ragazza oggi approdata su una indie label), abbiamo finalmente il ciddì definitivo. Il suono è quello che ognuno si aspettava: Madonna meets Kylie Minogue meets Nelly Furtado. L’essenza storica incarnata pop si professa ancora una volta per l’esercito dei non più teen che oggi sono transformers poshy (e che una volta erano paninari). Per capire cosa gira nelle menti dell’ascoltatore medio è necessario sostare su questo sussidiario della gioventù uber-00. La voce nordica e wasp che muta con la base break hop (Hey Annie), lo spettro degli 80 che non incombe ma che aiuta con le sue tastierone e laser (My Love Is Better è puro distillato Ciccone, The Breakfast Song e Songs Remind Me Of You sono Sabrina Salerno senza tettone), i synth maranza 90 (Bad Times), la classe nella traccia omonima puro distillato teen-floor, l’accenno al fidget e alle esperienze di Miss Kittin (altro santino che Annie ha nel wallet) in I Don’t Like Your Band e per chiudere l’obbligatoria ballad (When The Night). O bionda, surfa ancora sulle onde quadre della cresta ingellata del pop.(7.5/10) Marco Braggion che dietro tamburi chitarra ed effetti ci siano i Keys, ecco, questo si capisce e non si capisce. Un po' come il senso di tutta la cosa, forse semplicemente occasione di reciproca promozione.(6.3/10) Gabriele Marino Black To Comm - Alphabet 1968 (Type Records, Novembre 2009) G enere : F orest drone Entità misteriosa Black to Comm ovvero Marc Richter, animatore di meccanismi cibernetici, musicista iper-meccanico dall'impronta arcana. Parola d'ordine: Migrazione, perché migratorie sono le criptiche cifrature di Jonathan; il collagene transizionale Void; l'occupazione indebita di spazio di Houdini Rites. Ovunque regna il migrare basato sul caoide, il luogo-tunnel dove innesti vintage-analogici masturbano passaggi sotterranei, ricurvi, emblematici. In ogni anfratto sonoro di Alphabet 1968 si nascondono meccanismi isolazionistici, centrifugati su sorecensioni 39 stanze imprevedibili con un occhio rivolto agli abissi, e l'altro al canovaccio oscurissimo fatto di rigurgiti solidi ed ipnotici. E non si tratta solo di questo, Black to Comm è autore d'immaginari mortiferi, sulla soglia del collasso trasformazionale, attraversati da un suono perverso a metà tra rito funebre e dronismi ben lontani dalle mode. Ce lo dice pure il titolo Alphabet 1968: un cespuglio, un alberello diradato e al centro un personaggio forse in estasi, forse in caduta libera, forse solo rapito di un'apparizione. Ce lo dicono le geometrie maligne, rigonfie di materia cerebrale, i cunicoli spaziali ed i buchi neri di questi vortici che con l'elettronica condividono solo l'uso del sequencer, ma che di elettronico hanno poco o niente. E questa è l'altra grande consapevolezza di Richter: quella di trattare il suono come forma pura, evitando che il contenuto lo faccia il genere piuttosto che l'imprinting e l'immaginario che c'è dietro. Si chiude con Hotel Freud, altro tassello di una discografia misteriosa e impetrabile, in pratica, un William Basinski nella foresta infernale o se preferite, un Fennesz a campionare riti magici. Eppure l'evoluzione di questa musica consiste nel trattare l'ambient, la weird-folk, i field-recordings come se fossero un'unica pasta color-seppia, su cui imprimere un linguaggio post-digitale imparentato coi sentimenti e la lirica. Una miscela ermetica quella di Black To Comm, musicista solitario, misterioso, mistico.(7.8/10) Salvatore Borrelli Body Hammer - Origins of Body Hammer (Improvvisatore Involontario, Dicembre 2009) G enere : impro / lounge post - bomba Agosto 2002, Sampieri (Ragusa): Francesco Cusa e Carlo Natoli, compagni abituali di improvvisazioni involontarie, sonorizzano il secondo capitolo della saga cyberpunk-cronenberghiana di Shinya Tsukamoto, The Body Hammer. E' la scintilla di questo progetto, poi trio assieme ad un altro habitué come Emiliano Cinquerrui, tutto costruito sull'immagine tetsuiana di fusione tra carne (batteria e chitarra) e macchina (laptop). Ma se in Tetsuo 40 recensioni l'unione delle due componenti è violenta e traumatica, qui appare invece perfettamente naturale, forse perché rassegnata (senza per questo intendere che la musica che ne viene fuori sia pacificata). Mood scurissimo e opprimente (disco monocromo, colore grigio), forma jazz (Cusa non manca mai di ribadire il concetto), risultato che è una lounge per questi nostri giorni - maltrattata e instabile - nutrita da accordi di chitarra e da crescendo residui del post-HC, da bruciature al silicio accese dagli Autechre, da dub chetaminico e broken beats, da zornianerie per spazzole cangianti, da vuoti & pieni tipici dell'impro. I tre riescono a fugare quel frequente effetto collaterale di tanta avanteccetera (numi tutelari, da Zorn in giù, in testa) motivo delle idiosincrasie del sottoscritto nei confronti del "genere": il fumo senza l'arrosto, la fuffa figa ma che sempre-fuffa-è, i rumorini e i rumoroni buttati lì come semini che non germoglionano mai, la sperimentazione da catena di montaggio. L'avanguardia automatica. Da queste parti l'avanguardia è involontaria: c'è intensità (cosa sempre più rara dentro e fuori la parrocchia), non ci si annoia, il disco scivola e al contempo avvince. Sfibra e sbriciola, eppure costruisce. Sette pezzi per dire che si può ancora fare avant senza rompersi le palle, in Italia.(7.2/10) Gabriele Marino Boys Noize - Power (Boys Noize, Ottobre 2009) G enere : P ost -D aft techno fidget trash Alex Ridha, il tedesco mago del mix che ti fa saltare il club con quattro passaggi di mixer, ritorna dopo svariate compilation in zona minimal fidget. Il seguito di Oi Oi Oi spinge i soliti tasti che tagliano a metà i dancefloor laserati dagli ormai onnipresenti Crookers o Steve Aoki (Sweet Light). Et voilà: il menu a base di techno scuola Mr. Oizo (Starter), di sampling selvaggio dei Daft Punk versione forza nuova (Jeffer) e, da metà scaletta, della sperimentazione tra Kraftwerk e Pump Up The Volume (Transmission, Nerve, Trooper), pegni infiniti alla techno belga (Drummer); per finire una bella bussola che punta al rave nordico (Nott). E' il dancefloor now: revival faceless bollocks. Ma come in un arcade game sparatutto, e tanto di citazioni evidenti.(6.5/10) Edoardo Bridda Bruce Gilbert - Oblivio Agitatum (Mego, Novembre 2009) G enere : ambient Non sempre è un bene per gli artisti andare dietro alle proprie idee ed inclinazioni. Bruce Gilbert che deve gran parte della sua fama agli acclamati Wire, si è infatti già da tempo spostato in un territorio che ha sempre cercato: la drone music più estatica e senza compromessi. Oblivio Agitatum è la summa di questo suo perdersi nelle frequenze più alienate. Sorta di ep camuffato da disco, laddove l’album sta tutto nella centrale Zeros, il disco non fa altro che mimare i soliti ambienti astratti, con costruzioni su tessuti sintetici da epoca digitale senza anima. Non c’è passione, né energia creativa nei corridoi horror con echi siderali dei venticinque minuti del brano. Tutto è eccessivamente statico e prevedibile. I brani di contorno che incorniciano il tutto, aumentano il senso di insufficienza, per una musica che vorrebbe essere visionaria e invece è solo l’ennesimo disco di drone music da scaffale. Non se ne può più.(5/10) Antonello Comunale Bum Bum Baby San - Al sicuro (Effetti Collaterali, Ottobre 2009) G enere : rock L'onda lunga del punk macerato di paranoie e tabule rase, le frenesie che sprizzano dai meravigliosi tubetti e l'escursione sonico-letteraria, come dire un'eredita di cui i Bum Bum Baby San - trio che potremmo definire emo-power casomai significasse qualcosa - s'incaricano con la convinzione del caso. Formatisi nel 2000 in quel di Bernalda (provincia di Matera), il nome ispirato alle signorine di piacere vietnamite che allietavano e terrorizzavano le giovani macchine da guerra statunitensi (vedi Full Metal Jacket), denunciano discendenze evidenti dai nineties italiani come appunto CSI, Afterhours e Marlene Kuntz, cui possiamo aggiungere senza indugio il Santo Niente e un pizzico di Massimo Volume. Abbiamo già dato, ho pensato io e penserete voi. Però, attenzione: c'è quella vena di lucido delirio, l'avventatezza che non fa sconti, l'ambizione un po' disperata e perfino ironica di chi nella vita sembra non voler fare altro. Qualcuno avverta questi tre lucani che il demonietto della wave cantautorale se li è presi. E' raccomandabile un bell'esorcismo. L'alternativa è pasturarlo ben bene. Farlo diventare grasso e spesso che ci sono mostri da mettere al mondo negli anni a venire. Intanto, di fronte a fenomeni di tal fatta, accantono la sensazione del già udito e - a voi piacendo - mi scappello. (6.9/10) Stefano Solventi Carmen Consoli - Elettra (Universal, Ottobre 2009) G enere : cantautoriale L'amarcord dell'anno scorso con la ripubblicazione in formato deluxe del fondamentale Mediamente Isterica non ha riportato Carmen Consoli al rock. Ed Elettra continua invece su quella strada folk che dal precedente Eva contro Eva ha sciolto il nodo lento-acustico/veloce-elettrico in favore della prima ipotesi, levando la siciliana da un'impasse che nel fin troppo manieristico L'eccezione rischiava di soffocarla. Così il songwriting di Carmen Consoli continua in quell'elogio della complessità che è la cifra costante della sua ultima produzione: un repertorio in cui le canzoni arrivano lente ma durano, e scelgono l'intensità non istantanea di bozzetti dalla forza poetica sottocutanea, che a frasi musicali elaborate, cangianti, eppure sobrie fa corrispondere la ricercatezza quasi filologica dei testi - basti pensare ai tanti rimandi tra mito, figure femminili e simbologie assortite riqualificate in chiave moderna che riguardano le dieci canzoni di questo disco e il titolo in primis. 
La livrea folk-mediterranea del predecessore Eva contro Eva si sposta ora verso il nordeuropa. Più NMA che world, insomma, più Kings of Convenience che il De André di Anime Salve. Ma di quest'ultimo rimane l'attenzione verso le vittime e le loro storie, alternate alle riflessioni personali di una donna matura dinanzi a ciò che accade.. Ecco dunque il saluto al padre scomparso di Mandaci una cartolina, memoriale dolceamaro di un tempo all'insegna del buon senso e del pudore che pare ormai finito («Viva l'Italia, il calcio, il testosterone / gli inciuci e le buttane in preda all'ormone») e i versi raggelanti della storia d'abuso di Mio zio, un brano che qualche anno fa avrebbe sfuriato elettrico e che invece oggi si trattiene ugualmente incisivo su un bouzouki trotterellante come un banjo. Ecco ancora l'eleganza alla Domenico Modugno, direttamente citato nel testo, di Col nome giusto recensioni 41 (archi in volteggio suadente e ritornello accorato per una vicenda d'amore che accumula separazione, dolore ma anche piacere) e lo splendido omaggio a Rosa Balistreri di 'A finestra, cantato in un dialetto grasso ed espressivo che acuisce veracità e ironia nella denuncia del perbenismo incafonito di un paese qualsiasi, ovvero l'Italia tutta, osservato e raccontato affacciandosi da una finestra come nella tradizione dei cantastorie.
 Immagine, quest'ultima, perfetta per descrivere Carmen Consoli e il suo percorso, ormai capace di usare trasversalmente le radici di tutto il mondo per raccontarne le storture e la vita.(7.4/10) Luca Barachetti Cheap Wine - Spirits (Cheap Wine Records, Ottobre 2009) G enere : rock - folk Affezionati a una gestione autarchica - compresa l'etichetta, non a caso Cheap Wine Records - e a una formula da sempre in direzione ostinata e contraria, i Cheap Wine potrebbero essere ben rappresentati da un "faccio la mia cosa nella casa" del buon Frankie HI-NRG. A conferma, una lontananza evidente dalle sirene più “in” dell'indie rock attuale e un suono incastonato in certo hard-rock-folk quasi immutabile. Del resto, quando arrivi al settimo disco - compreso l'Ep d'ersordio Pictures del 1997 - in dieci anni di carriera, di cose ne hai viste fin troppe e poco t'importa di quello che si dice in giro. Soprattutto se già agli esordi eri una mosca bianca. Soprattutto se chi ti segue - in Italia, ma anche all'estero - sa bene dove andrai a parare ed è disposto a condividere ogni tuo passo, come si fa solo con i mostri sacri. Roots e dintorni, arpeggi di chitarre acustiche che si intrecciano, aromi (naturali) western: è questa la svolta di Spirits. Un disco che stacca idealmente il jack dall'amplificatore pur senza mescolare troppo le carte, che si tratti di brani autografi (il blues crepuscolare di Just Like Animals rubato a certi Dire Straits un po' ruffiani, gli Allman Brothers di Leave Me A Drain, i chiaroscuri jazzati di La Buveuse) o di cover (Man In The Long Black Coat di Bob Dylan e Pancho & Lefty di Townes Van Zandt). Per una band che viaggia sui binari di un classicismo nobile e sferzante ben piantato nell'immaginario americano tradizionale ma al tempo stesso al riparo dalla nostalgia.(7/10) Fabrizio Zampighi 42 recensioni Cheveu - Cheveau (Permanent, Settembre 2009) G enere : NO B lues Dopo l'omonimo album di debutto dell'anno scorso e l'ottimo singolo Like A Deer In The Headlights, il trio parigino più calvo in circolazione torna a farsi sentire con un LP che raccoglie outtakes, rarità e pezzi presi da demo sperduti nel passato neanche troppo prossimo. È buffo come di questi tempi raccolte del genere non vedano più la luce solo dopo svariati anni, ma sempre più spesso a seguito del primo disco; in ogni caso, a fugare qualsiasi dubbio ci pensano subito i primi pezzi del disco. Si parte infatti con un tripletta da convulsioni isteriche (Pangolin, Palestine e soprattutto Kadir Du Porno, che mostra gli Cheveu più violenti che memoria ricordi). Da qui in poi è un continuo alternarsi obliquo e debilitante di nenie rumoristiche (St. Jazz, Planet Camping) synth-blues moribondi (Sacha, Espace Detente) e vorticosi electro-boogie (Elvis, Psyx). Certo non è l'organicità la dote da cercarsi in dischi come questo; al contrario è importante lasciare le redini ed annegare nei fumi e nei laser giocattolo che i tre ci sparano dritti in faccia e, per quanto possibile, ballare la danza post-atomica del Capello.(7.1/10) Andrea Napoli Chinese Stars (The) - Heaven On Speed Dial (Anchor Brain, Novembre 2009) G enere : noise dance - punk Era la fine del 2002 e una delle realtà più strambe, storte e destabilizzanti del sottobosco americano decideva di mettere la parola fine alla propria esistenza. Neanche il tempo di celebrare il giusto funerale che 2/4 degli Arab On Radar risorgevano a nuova vita da quelle ceneri, con il moniker The Chinese Stars: il chitarrista/cantante Eric Paul e il batterista Craig Kureck per l’occasione tiravano dentro l’altro chitarrista Paul Vieira e soprattutto l’ex Six Finger Satellite Rick Pelletier al basso, poi sostituito da V.Von Ricci. Un esordio col botto (l’ep a forma di stella Turbo Mattress), un album lungo che lasciava soddisfatti ma non troppo (A Rare Sensation) e un secondo che deludeva totalmente (Listen To Your Left Brain) e ora, in concomitanza con i ritorni epocali del Providence sound (Lightning Bolt e Six Finger Satellite su tutti) questo vinyl only che, almeno sulle prime, rinverdisce i fasti di un suono spastico e sopra le righe. Rabbit Face è un assalto highlight Hollowblue - Wild Nights, Quiet Dreams (A Cup In The Garden, Novembre 2009) G enere : rock Disco dopo disco - siamo al terzo - gli Hollowblue stanno ritagliandosi un mondo proprio.A forza di storie che esplorano, indagano, mettono in scena e alla prova le turbe esistenziali, il dilemma del sentimento, l'ombra terribile ed enigmatica della morte che guata le caviglie. Romanticismo noir dal piglio assieme cinematico e letterario, ogni canzone l'atto di una rappresentazione teatrale ben delimitata, che procede per situazioni scenografiche in bilico tra rock incandescente e cantautorato mitteleuropeo. T'imbatti quindi in una mischia tra ugge cameristiche e ghigno elettrico, frenesie da blues sclerotico e jazzato (le vampe di tromba, il pianoforte prezioso ed elusivo...),come dei Dirty Three alle prese con l'idioma languido e sferzante d'un Paolo Benvegnù (impressione rafforzata dal sorprendente finale in italiano di Sigma), o come un Nick Cave in bilico tra laconico struggimento Venus e rovello Morphine (come nel melò appassionato e ossessivo di Wild & Scary). Altrove l'impasto si tinge di asprezze desert, come la murder song da mariachi impazzito di Honeymoon, sempre però sul punto di contagiarsi d'altro, come le suggestioni tra Canterbury e deserto Mojave di The Last Day, per non dire della "texbalcanica" Shout, cogli umori decadenti e la febbrile escursione art-wave sbilanciata prog. Quando se la giocano più dura, sanno essere assieme saturi ed eterei (una You Cannot Stop che potrebbe addirittura piacere ai fan dei Placebo), acidi e tormentati (il funky nervoso di I've Go The Key To Change The World). Poi ci sono le ballate, un po' Leonard Cohen e un po' Radiohead, tutto un caracollare fra tumulti sanguigni ed ebbrezza malsana (su tutte la trepida Wild Dogs Run, ospite Sukie Smith al canto), salvo poi spiazzarti in chiusura di programma con una Cry Hell! che imbastisce un raga psych febbrile come un bolero deragliato tra Haight-Ashbury e CBGB's. Sound elaborato, denso e intenso per un disco che sgrana complessità risolte come un rosario d'inquietudini. Gli Hollowblue sono una signora band. (7.3/10) Stefano Solventi ossessivo a base di noise-core spastico con un intermezzo robotico a metà tra Six Finger Satellite e dei Devo sotto anabolizzanti, mentre la seguente No Car No Job è un dance-punk groovy e irregolare come una versione p-funk dei Blood Brothers. Premesse ottime, ma presto disattese, perché l’ipercinetico, massimalista, sboccato suono dei quattro si appiattisce su se stesso, legandosi troppo ad alcuni elementi (il suono modificato delle chitarre e l’invadente vocalità di Paul) e pregiudicando così ogni forma di sviluppo. La durata breve (mezzora esatta) e la continua riproposizione, al limite del monolitico, dello stesso sound può però far pensare ad una sorta di provocazione messa in scena dai quattro reietti. Dopotut- to l’area di provenienza e il background sembrano avallare questa ipotesi. E così nel dubbio ci manteniamo su una sufficienza di stima.(6.5/10) Stefano Pifferi Chris Forsyth/Shawn Edward Hansen - Dirty Pool (Ultramarine, Novembre 2009) G enere : avant impro Forsyth e Hansen sono due figure abbastanza defilate della scena avant rock di questi anni, eppure con la sigla Phantom Limb & Bison, che li vede protagonisti entrambi e ancora di più con i Peeesseye (che è la band madre dietro cui si muove il primo), hanno attirato le orecchie giuste dei palati più recensioni 43 difficili e raffinati. Dirty Pool, titolo che sigla una jam psichedelica in tre movimenti tra le più riuscite di questi anni, non è però pubblicato sull’etichetta di Forsyth (l’ormai mitica Evolving Ear), quanto piuttosto sull’italiana e promettente Ultramarine, che si va ad aggiungere idealmente all’altra italiana Qbico nella difficile tradizione del vinile di culto. Il disco parte sonnacchioso e criptico, nell’intimità di un dialogo intimo tra chitarra e organo che occupa tutto il primo lato, in un modus che fa pensare sia a Tom e Christina Carter che al Loren Connors più lunare. Il secondo lato si anima sulle spartane orme di un blues stiracchiato, che si aggroviglia lento e mantrico su un arpeggio appena elettrico in crescendo epico che come giustamente fa notare qualcuno strizza l’occhiolino ai Television, seppure in un modo del tutto desueto. In chiusura, una frase emozionata di chitarra in partitura stellare a due con il farfisa di Hansen nella scrittura di una stupefatta nuova Dark Star degli anni 2000. Disco raffinato eppure sempre e comunque comunicativo e immediato, lontano dalle nebbie più criptiche, presuntuose e snob di tanta avant-“merda” di questi anni.(7.3/10) Antonello Comunale Cindytalk - The Crackle Of My Soul (Mego, Novembre 2009) G enere : dark ambient Fa un certo effetto avere tra le mani un disco nuovo dei Cindytalk. Indimenticata sigla dietro cui si muove il demiurgo goth Gordon Sharp, ennesimo residuato bellico dei vorticosi anni ’80 al suono di un Post-Punk tra i più truci e malati dell’epoca. Che il percorso sonoro della band sia poi passato per l’ormai quasi canonico abbandono delle strutture più rock in favore di una malsana distesa dark ambient questo ormai non sorprende più nessuno. A rigor di logica non saremmo molto distanti dall’excursus Loop-Main di Robert Hampson, ovvero preferire astrazione e spirito in favore di forma e sostanza, ma Sharp non aggiunge nulla di nuovo, né eccelle lungo il canovaccio post industrial. A The Crackle Of My Soul va tuttavia riconosciuto il pregio del rinnovamento. Se Sharp si fosse presentato con un disco nello stile più classico della 44 recensioni Soilelmoon lo avremmo liquidato storcendo il naso, ma i riferimenti vanno maggiormente nella direzione di Pita e Kevin Drumm, soprattutto nei momenti più harsh come Feathers Burn e Trasgender Warrior.L’ultima Debris Of A Smile strizza persino l’occhiolino a Fennesz… Un ritorno che non sorprende, né brilla per qualche merito particolare, che non sia quello di riconoscere a Sharp un certo buon gusto.(6/10) Antonello Comunale Clare & The Reasons - Arrow (Fargo, Novembre 2009) G enere : chamber art pop Si diceva l’anno scorso delle potenzialità del duo di Brooklyn Clare & The Reasons, in bilico tra songwriting jazz pop e umori chamber; c’erano collaborazioni illustri (Sufjan Stevens e Van Dyke Parks) in quel disco d’esordio, The Movie e ascendenze Lee Hazlewood/Beach Boys tra le altre cose. Dopo poco più di un anno li ritroviamo con Arrow: siamo ora dalle parti di un pop sofisticato, un po’ più leggero ma consistente. Se prima era il mood jazzato di Rickie Lee Jones, ora uno dei punti di riferimento di Clare Muldaur, cantante e songwriter del combo, è Shara Worden alias My Brightest Diamond, non a caso ospite del disco. Ecco allora arrangiamenti stratificati, umori tra operetta e chanson, echi alla Bjork più imprevedibile ma anche percentuali di Belle And Sebastian, Nina Persson (The Cardigans), Andrew Bird e Beirut (quest’ultimi fanno parte del gruppo che li accompagna live, e tutto torna). Arrow rappresenta allora un passo in avanti, nel quale Clare e Olivier Manchon, la prima autrice di quasi tutti i pezzi, il secondo arrangiatore compongono un album equilibrato con una cifra personale ben riconoscibile.(7.2/10) Teresa Greco Controluce - Aprile (Novunque, Novembre 2009) G enere : pop , songwriting Il duo milanese Controluce, sulla scena indie da qualche anno, esordisce con Aprile su etichetta Novunque. Una declinazione dell’indie cantato in italiano, in bilico tra pop e canzone d’autore, psichedelia (Pink Floyd, Beatles) e post rock, questo è essenzialmente l’album in questione. Con la collaborazione di amici musicisti, come Lele Battista e Giorgio Mastrocola (La Sintesi) con il primo a produrre, e numerosi altri, il progetto Controluce (Simona Rotolo e Miky Marrocco) si distingue per chiarezza e sintesi compositiva innanzitutto e per un buon controllo espressivo. Poi atmosfere autunnali e dimesse, acusticità diffuse, testi interessanti e raffinatezza pop. I rimandi sono per un certo cantautorato romano degli ultimi anni (si pensi per esempio a Max Gazzè) ma non solo, anche Afterhours, C.S.I. e Cristina Donà. Esordio interessante.(7/10) Teresa Greco Converge - Axe to Fall (Epitaph, Novembre 2009) G enere : M etal C ore La velocità impressionante delle prime quattro tracce delinea un suono inquieto che possiede ancora l'urgenza a premere sull’accelleratore. Axe to fall prova nuove strade senza rivoluzioni epocali e per una band che ha raggiunto l'apice nei primi anni Novanta c'è di cui godere. Non mancano i consueti rallentamenti intrisi di scorie noise (Worms Will Feed e Damages) ma qualcosa d'inedito si muove nelle ultime tracce: Cruel Bloom, in cui dà man forte la voce di Steve Von Till, è un blues sbilenco e acido come solo a Tom Waits riuscirebbe; la lunga Wretched World, con l’assistenza dei Genghis Tron al completo, dilaga in una nenia tanto sonnolenta quanto bastarda. Non avranno superato il “complesso Jane Doe”, ma non hanno smesso d'incidere dischi degni d'essere comprati e consumati.(7.4/10) Nicolas Campagnari Crookers - I Love Techno 2009 (Lektroluv, Ottobre 2009) G enere : compil ation techno Tons Of Friends sarà l’album in uscita a gennaio 2010. L’anticipo è qui per i Crookers, una compilation velocissima ma piena di cose intense, come l’inno iniziale che fa già tutto, quella Glamourama di Photek spoken inno post-floor, un po’ di dubstep e di wonky (Zomby e ovviamente quel tagliagole di Rustie con la sua immortale Bad Science), il remix per Fever Ray (Seven banghra-fidgeting nell’alto dei cieli) e ovviamente l’acido che corrode (Peanuts Club di Noob e Brodinski e l’ossessione deep di Osborne). In attesa dell’ellepi, i ragazzi ci han fatto venire l’acquolina in bocca. (7/10) Marco Braggion Curtis Harvey - Box Of Stones (Fat Cat, Dicembre 2009) G enere : country folk Un artista “paradigmatico”, Curtis Harvey. Per la modestia e la partecipazione che emergono da un curriculum folto e immacolato, caratteristiche tipiche di un sentire defilato e, proprio per questo, autenticamente indipendente. Trovi in lui la devozione alle radici e uno sguardo contemporaneo che le trasfigura in misura diversa a seconda delle occasioni; maniere risolute da artigiano esperto e ben consapevole del proprio ruolo. Figura rara che va premiata perché esiste e ancor più quando pubblica dischi di vaglia. Si è dunque preso del tempo per il debutto da solista, l’uomo, dopo aver militato in Rex, Pullman, Loftus e diversi altri progetti incrociando via e strumenti con i Red Red Meat. Affine del resto approccio e provenienza: come innumerevoli connazionali, Curtis è cresciuto con il bluegrass e i suoi dischi di Carter Family, Bill Monroe e dei “nuovi tradizionalisti” non prendono polvere. Sapete perciò cosa attendervi e cioè l’ennesimo solido mattone sulla strada del cantautorato americano, affrontato spesso e volentieri rifacendosi alla scuola texana del capostipite Townes Van Zandt (Borrowed Time, Bag Of Seeds) e proseguita da Steve Earle (Oldertoo, Across The Sea); concedendosi distrazioni in territori più strettamente folk come la corale Seen o l’inchino a John Fahey di Nod. Sarebbe tuttavia figlio del suo tempo, se non lasciasse tracce in alcuni passaggi strumentali modernisti ben integrati alla scrittura (Medicine), se non ragionasse su una redenzione per Elliot Smith in Joking o non si abbandonasse al familiare blues teatrale e strafatto nella conclusiva Bad Patch? La risposta sta nel sapiente approccio e nella conoscenza della materia che respiri in questo lavoro sincero, sovente catturato alla prima take sfruttando al meglio mezzi minimali e felici casualità. Un diario illuminante su un amico riservato, ma che batte sulla spalla quando serve. Negli ultimi tempi, molto spesso.(7.2/10) Giancarlo Turra recensioni 45 highlight King Midas Sound - Waiting For You... (Hyperdub Records, Novembre 2009) G enere : r ' n ' b step Anticipato nel Dub Heavy / Hearts and Ghosts EP, il progetto di Kevin Martin (aka The Bug) è quel che ci voleva in un anno magro di lavori potenti in campo step. Quasi ci tremano le mani a scriverlo ma Waiting For You... possiede il peso specifico dell'Untrue di Burial. La personalità c'è e pure i gradi di separazione necessari. Ma soprattutto a non mancare è l'alchimia tra presente e passato: un suono figlio della scala di grigi e dell'urbanesimo fumoso del misterioso londinese, portati però su un inedito piano sexy, minimal e afro. Le fondamenta del resto sono potenti: Martin tocca l'r'n'b come Burial toccò il soul, entrambi hyper-ventilano l'anima, ancorandola però all'umbratilità del dub e a quel che rimane della battuta scandita. L'innesto dell'r'n'b lavora in Waiting For You... per sottrazione, per rarefazione. Eppure ne sgorga una sensualità impalpabile, come gas che si propaga in una stanza. La collaborazione con l’MC di Trinidad Roger Robinson e con la vocalist dei Dokkebi Q Kiki Hitomi ci porta pure in territori triphop (Massive Attack e persino Portishead: sentite Goodbye Girl), conditi con una dose calibrata di afrofuturismo, mentre altre rifrazioni del prisma rivendicano un'anima Prince nella nebbia (Meltdown) di Bristol, il falsetto Marvin Gaye nel minimal-caraibico di Cool Out, One Thing e Dahlin, e un perfetto bilanciamento ragga/darkness nelle movenze di Outer Space. Un album che brilla di una luce nerissima e non di meno accecante.(7.7/10) Edoardo Bridda Digital Leather - Warm Brother (Fat Possum, Novembre 2009) G enere : indie - synth Warm Brother vuol dire omosessuale, secondo un’espressione gergale nazista. E giù a cercare di capire sotto quale registro il titolo del nuovo album di Digital Leather, il primo per Fat Possum e il primo realizzato in studio, citi quel modo di dire. Che sia ironico o meno, sicuramente Shawn Foree è un ragazzo che si diverte a suonare con synth e chitarre d’annata. Dopo qualche uscita per l’etichetta dell’amico Jay Reatard, la Shattered Records, ci ri-presenta oggi i suoi strumenti preferiti - a fronte di un lavoro di realizzazione più professionale - nel contenitore a volte poco più che pretestuoso di una raccolta di canzoni. E abbiamo detto quasi tutto. Manca giusto dire che Warm Brother suona come un indie sintetico che va nel filone tanto di Beck che a volte degli Eels (All The People), senza risparmiarci evitabili momenti synth-pop (Modern Castles, Gold Hearts). Ma i protagonisti sono i suoni, 46 recensioni di tutti i tempi. Al loro, Settimo Serradifalco e la sua cricca hanno invece incontrato il nostro Cesare Basile, che non sarà forse l'Anticristo ma certo rimane uno dei migliori autori italiani in circolazione. Ad accomunarli, oltre alla provenienza geografica, un folk rinsecchito, notturno, in bilico tra canzone d'autore e cadenze popolari. Se per l'esordio - Donsettimo - i punti di contatto tra il mentore e i discepoli erano evidenti, tra le pieghe del seguito Notte di mamma (prodotto sempre da Basile) le cose cambiano: il gruppo allarga lo spettro delle influenze e al tempo stesso affonda le mani nella tradizione locale, da un lato citando Tom Waits (Viziosa) e Vinicio Capossela (Il vangelo di Toto' e Padrino compagno) e dall'altro omaggiando anche artisti distanti anni luce dall'immaginario rock come Renato Carosone (Sceriffo, non a caso cantata in dialetto). Nessuna contraddizione e nessuna imitazione, comunque. Semmai un'ispirazione dai presupposti riconoscibili, in accordo con venature autoriali ancora presenti (soprattutto nei testi, risultato di un taglia e cuci magistrale) e certi aromi bandistici che già nel primo episodio rivelavano una Sicilia sempre più vicina.(7.3/10) Fabrizio Zampighi anzi la loro pasta, per usare un termine caro a chi coi sintetizzatori ci ha a che fare fin nel metalinguaggio. La sovrastruttura diventa struttura. L’intro del disco in questo è rivelatore, e affascinante, per quel pubblico, mentre poi i brani passano senza farsi ricordare (tranne casi isolati come Your Hand, My Glove, punk sintetico semplice e rotondo; o come Homesick For Terror, dove si compie l’equilibrio tra scrittura e cultura strumentistica). Ma se così è, come ci pare, niente ci farà voltare quando sentiremo che è uscito il prossimo disco di Digital Leather.(6/10) Gaspare Caliri Donsettimo - Notte di mamma (Malintenti Dischi, Novembre 2009) G enere : folk - musica d ' autore Ogni musicista ha un personale “crocevia”. C'era il Diavolo in persona - almeno, così si narra - ad attendere a quello di Robert Johnson per sottrargli l'anima e farlo diventare il più grande bluesman Elm - Nemcatacoa (Digitalis, Novembre 2009) G enere : country - drone Esistono diversi modi di raccontare il deserto. Quello che Jon Porras ha scelto di scrivere con il suo progetto solista Elm, è il capitolo più mistico e metafisico di una ideale e ineasauribile desert session che percorre tutta la storia del rock. Metà esatta del duo di drone masters di stanza a San Francisco, chiamato Barn Owl, già autori di per sé di una musica quanto mai alienata, quella di Elm è una fantasiosa elegia degli spazi vasti. Una base quanto mai blues su cui sperimentare diverse gradazioni di echi e riverberi a mimare un infinito che sembra potresti toccare con una mano. Porras è un eccellente pittore di paesaggi. Di quelli languidi e abbandonati. Lontano da Dio e dagli uomini, una natura silenziosa e ripiegata su se stessa cura le proprie ferite ricurva sul ventre molle delle proprie debolezze. Elm mima con pochi mezzi una panoramica immensa: sparu- te corde di chitarra acustica, scheletro blues su cui innalzare cattedrali di droni maestosi come aurore boreali (Nemcatacoa, Arc Of Wisdom); echi di sirena su note sostenute dal piglio ipnotico (In The Shadow Of Red Rock); romanze folk che si sciolgono acide al sapore di peyote e droghe pellerossa (Silver Dust In Moonlight, Sacrament At Dusk). Il country-drone di Elm è come il western in bianco e nero di Jarmush, una radiografia di elementi mitici che come una visione alterata dagli acidi distorce le cose più evidenti per rivelarti quello che c’è dietro.(7.5/10) Antonello Comunale Embassadors (The) - Coptic Dub (Nonplace, Novembre 2009) G enere : fusion Secondo album, stavolta interamente strumentale, per il collettivo multietnico guidato dal fiatista neozelandese Hayden Chisholm. Morbida fusion e atmosfere come da deserto jazz-noir, suono (coproduce Burnt Friedman) impeccabile, disco suonato benissimo, protagonista il contrabbasso nodoso di Matt Penman (uno che di solito suona con John Scofield). Un paio di pezzi intriganti, su tutti la sinuosa arabeggiante Polar Sexus, il resto elegante sofisticato sottofondo.(6.3/10) Gabriele Marino Flipper - Love (Mvd Visual, Maggio 2009) G enere : noise L’uscita di American Grafishy, disco della prima ricomparsa dei Flipper, nel 1992, aveva una motivazione abbastanza trasparente. Si era immersi nel grunge e coloro che dagli adepti del movimento furono considerati degli iniziatori non potevano che presenziare all’evento. Chi scrive è tra quelli che minimizzano il collegamento Flipper-grunge (sebbene in questo disco il basso sia suonato da Krist Novoselic, membro fondatore dei Nirvana); e che ciononostante oggi non rinuncia a posizionare Love in un mercato di riferimento. Il motivo è semplice: i Flipper di Love sembrano inseguire quello che già hanno fatto, quando hanno creato vie di fuga e nodi nella rete. Oggi riattraversano quei corridoi che non possono che sapere di vecchio. Gran parte di questa sensazione è da addurre alla mancanza (neanche questa una novità) del primo vocalist Will Shatter, morto nel 1987. Bruce Loose, che lo sostituisce oggi, fa quel che può, cioè la voce recensioni 47 grossa; nei momenti migliori somiglia a Von Lmo, nei peggiori è imbarazzante (Trasparent Blame). Senz’altro alla band di oggi riescono meglio gli incubi lunghi e lenti, piuttosto che quelli veloci. E nel mood si gioca parte della differenza con il passato, che in quanto tale è una buona notizia, visto che sono passati 25 anni. Prendete Sex Bomb, che chiudeva Album Generic: era infinita ma aveva qualcosa di euforico. E ora prendete Old Graves, ultima traccia di Love: altra prova dilatata dove però tutto è fosco. E' questo il numero più convincente del lotto, visto che finalmente la voce non è sgolata, non si sforza di essere violenta, anzi si limita a essere uno spokenword rassegnato ma sostenuto. Peccato rimanga un caso isolato.(5.8/10) Gaspare Caliri Fm Belfast - How To Make Friends (World Champion, Ottobre 2008) G enere : S ynth P op L'aspetto a saltare all'orecchio per primo è l'estraneità ai classici suoni a cui l'Islanda ci ha abituati: niente Sigur Rós e niente Mùm, per il trio della Capitale (che alla bisogna s'allarga fino a trenta elementi), al loro posto la fetta di synth pop che ruota attorno l'EBM, l'indie imbastardita con l'hip hop e quel pizzico di Go! Team, il cui riferimento ci fa sempre comodo in questi casi. La miscela è autoironica e giocata sul cool, aspetto che ha mandato in visibilio l'isola un anno fa che pacatamente ci convince a partire dal brano con il quale probabilmente verranno ricordati: Pump Up The Jam, cover dei Technotronic, qui in versione ultra sincopata. E non è la sola: Killing In The Name dei Rage Against The Machine subisce lo stesso divertente trattamento portandosi a casa qualche sorriso. La medesima carta arrangiativa - un equipaggiamento minimo che prevede due tastiere, una drum machine e due microfoni dove corrono le strofe intrecciate un po' alla Stereo Total di Árni Rúnar Hlöðversson (Plúseinn) e Lóa Hlín Hjálmtýsdóttir - ce la ritroveremo nelle restanti tracce, intriganti soprattutto le conversioni bianchissime dei soliti riferimenti black ovvero funk, disco e soul (Synthia, Frequency, I can feel love). Attenzione però al disclaimer: è un disco mordi e fuggi, dietro alle citazioni tamarre (leggi euro techno laser connessi), e ai momenti di puro cheese (Par Avion, President con le tastiere di Van Halen e Europe), c'è una batteria scarsa quanto quella dell'Iphone.(6.3/10) Edoardo Bridda 48 recensioni Fontän - Winterwhila (Information, Novembre 2009) G enere : kraut chillwave Due ragazzi da Göteborg riportano il paradigma ibizenco a Nord e, senza accorgersene, si insinuano nella scena glo-fi. Così, a base di krauti a merenda, l’esordio di Jesper Jarold e Johan Melin viaggia su coordinate new age (Backustugu), si bea del successo di Lindstrøm (mescolandolo con le chitarre di David Gilmour in ...You Too), pompa nelle vene l’energia di certi Goblin (le cavalcate prog da urlo di Neanderthaler), aggiunge qualche spezia orientale tagliata con la lounge di Morricone e Umiliani (il koto filtrato nello sciccosissimo downtempo di Land Of The Dragon), rivanga gli '80 con il basso slappato che è marchio Japan (The Bridge) e sogna visioni pastello nella suite conclusiva Nightrider. Registrato in un capanno in mezzo ai boschi, nell'album ritroviamo l’energia del sole balearico ma anche l'aurora boreale. Il tramonto sul mare trasfigurato in un misto di rock à la Can contaminato da tastierine disco, zampa d'elefante e tanta anima in movimento. In bilancia: basi Donna Summer e i capelli lunghi da progger. E' ancora remember, anzi, flash forward...(7.1/10) Marco Braggion Four Tet - Love Cry 12'' (Domino, Dicembre 2009) G enere : M inimal psych Un singolo in edizione limitata piazzato (ovviamente dalla Domino, che segue Four Tet da quasi un decennio, ormai) per far salire la proverbiale antiscimmia dell’IDMer. Un assaggio di There Is Love In You, in uscita a gennaio, l’anello mancante tra questo e il precedente Ringer EP. Love Cry è il modo in cui Kieran apparecchia la discussione mostrandoci gli agoni che animano la sua musica, gli opposti che hanno però una radice comune, fosse anche solo il tavolo dove giocare a scacchi. Minimo comune denominatore, una quasi-parola: minimal. Che a essa gli si faccia succedere -ismo (e che la si traduca in meditazione trascendentale), oppure o che lo si isoli per trovarla contestualizzato nell’elettronica, è la ripetizione e la trance indotta - niente a che vedere con le catarsi psicotrope - ad arare il campo di Four Tet. I campanellini di Our Bells sono le sue riflessioni orientali. Da perfetto londinese di origini indiane qual è, Hebden non ci arriva certo con viaggi col pensiero, ma con il lavoro di studio, certosino fino alla mania, al quale ci ha abituato. E che trascina per nove minuti anche Love Cry, traccia (presente anche sul My Space) che davvero sa di apripista (da camera) del corso di Four Tet 2009-2010. E l’attesa sale ancor di più.(7/10) Gaspare Caliri Francesco Buzzurro L'esploratore (Irma Group, Novembre 2009) G enere : chitarra cl as sica / jazz Fa zigzag e torna alla chitarra sola di Freely (2002) Francesco, dopo avere ripreso con Naxos (2006) il discorso col Quartet, inaugurato da Latinus (1999). Se in Freely rileggeva per lo più classici jazz e latin, qui si concentra su classici "etnici", dalla Sicilia agli Stati Uniti passando per la Spagna, dalla Grecia alla Cina passando per la Russia. Francesco ne conserva le specificità senza scadere nel cartolinismo (rischio che si corre se si ha a che fare con Tico Tico), iniettando della sua debordante mediterraneità, ora solare ora agrodolce, brani anche lontanissimi dalla nostra tradizione musicale. Buzzurro, nato a Taormina, formazione classica e tecnica cristallina, cuore votato alla melodia e al ritmo, insegue sempre il filo dell'emozione, in un modo che a chi non lo conosce può forse apparire retorico, e invece è semplicemente genuino. I suoi due dischi in quartetto sono senza mezze misure pirotecnici, con brani autografi e riletture sorprendenti per freschezza e incisività. L'esploratore, pur sentito e intenso come sempre, ci sembra la sua creazione meno bella finora: e questo la dice tutta sulla qualità della sua musica.(7/10) Gabriele Marino Gemma Ray - Lights Out Zoltar! (Bronzerat, Ottobre 2009) G enere : folk - pop - psych Superato il primo impatto con una copertina a dir poco orripilante e per nulla rappresentativa della musica contenuta in Lights Out Zoltar!, potreste anche scoprire uno dei vostri dischi dell'anno. A patto che siate consapevoli ammiratori del lavoro di Lee Hazlewood, dei Beach Boys e in generale di certe cadenze tarantiniane anni sessanta/settanta venate di rimembranze chicane - 1952 e 100 mph (in 2nd Gear) - e “cowboy psychedelia”. Locuzione, quest'ultima, che starebbe ad indicare lo stile dei brani dello stesso Hazlewood portati al successo anche da Nancy Sintatra - su tutti This Boot Are Made For Walkin' ma anche la Bang Bang (My Baby Shot Me Down) di Sonny Bono -, materiale non troppo distante nella concezione generale da quanto si ascolta in questo secondo disco dell'inglese Gemma Ray. L'obiettivo, in questo caso, è attualizzare l'imprintig di base mascherandolo con un pop di scuola anglosassone (Tough Love), progressioni a marca Portishead (Snuck A Peek), un' Isobel Campbell decisamente folk (No Water) e vaghezze oniriche (If You Want To Rock And Roll), pur mantenendo gli aromi legati a un certo tipo di immaginario. Più o meno gli stessi che nove anni fa fecero la fortuna degli Shivaree di Ambrosia Parsley, con quella Goodnight Moon tratta da I Oughtta Give You A Shot In The Head For Making Me Live In This Dump tutta sensualità e fascino d'antan. Ecco. Dove la band americana era fashion ed eleganza patinata da classifica, l'artista inglese è creatività e accelerazione sul versante psichedelia, nell'ottica di un disco che riesce a suonare fresco anche senza inventare nulla di nuovo.(7.2/10) Fabrizio Zampighi Gianmaria Testa - Solo dal vivo - Special edition (Produzioni Fuorivia, Ottobre 2009) G enere : canzone d ' autore Tra i migliori cantautori italiani per quanto riguarda la performance dal vivo in qualsiasi situazione e formazione (solo, duo, trio), Gianmaria Testa propone qui la registrazione di un intero concerto tenuto nel maggio del 2008 all'Auditorium Parco della Musica di Roma. Il disco era già uscito all'inizio dell'anno e viene ora riproposto con un bonus dvd contenente un'intervista e un videoclip. L'intento dell'operazione è sicuramente antologico ma anche e soprattutto “fotografico”, visto che l'uscita del cd non era prevista ed è stata decisa solo per la particolare intensità dell'esibizione e per la sintonia crerecensioni 49 atasi tra il titolare e il pubblico. Intensità e sintonia che si ritrovano in toto nella registrazione, non eccelsa sotto il profilo tecnico ma vivida come certe foto scattate per caso e senza troppi accorgimenti che riescono a cogliere l'anima di ciò che è ritratto. 
 Testa per l'occasione si accompagna con la sola chitarra e propone uno dietro l'altro brani da tutti i suoi dischi, con una particolare attenzione verso l'ultimo Da questa parte del mare risalente ormai a tre anni fa ed in apertura una cover de La nave di Angelo Ruggiero. In chiusura, invece, l'unico inedito intitolato Come al cielo gli aeroplani e registrato in studio. 
 Non fa nulla di straordinariamente nuovo il cantautore piemontese ma ciò che fa lo fa straordinariamente bene. Una canzone d'autore, la sua, che sull'onda di Ivano Fossati e Paolo Conte - ma è una parentela più vocale che altro - dosa con parsimonia accordi e versi, insistendo su una scrittura che narra procedendo per scorci evocativi ed immagini quotidiane ma fantasiose. Grazie ad una capacità interpretativa in grado di pesare le parole al meglio e ad una voce che sa di terra coltivata e fumo, sul palco le sue canzoni sanno prendere vita più che su disco (Dentro la tasca di un qualunque mattino e Biancaluna su tutte). Provare per credere in questo live, punto di partenza ideale per un primo approccio all'artista.(7/10) Luca Barachetti Githead - Landing (Swim, Novembre 2009) G enere : new wave E’ impossibile accostarsi ai Githead senza tenere in considerazione il curriculum di chi vi suona. Poiché non si tratta di carneadi o esordienti allo sbaraglio, bensì di gente in circolazione da decenni e che in un caso ha pure fatto la Storia, il campo non lo puoi livellare. Uscita numero tre in un lustro, a due anni da un Art Pop che convinse se non esaltò, Landing non teme né pretende confronti; diligente e sereno, si mette in fila a osservare la propria contemporaneità. Mai dubbia e a maggior ragione da che (facciamo un paio di annetti) l’ennesimo revival del Post-Punk è in grave debito d’ossigeno. Verrebbe da obiettare che è facile, se di nome fai Colin Newman, Malka Spigel, Max Franken e Robin Rimbaud/Scanner, uscire con martellamenti secchi tuttavia agili, bassi rotondi e chitarre taglienti, pop e paranoia. La magia sta comunque nella fre50 recensioni schezza, in quell’attitudine diventata realtà e nelle visioni plasmate a concretezza. Qui allora il punto, cui si deve aggiungere l’appartenenza allo ieri che chiamiamo attualità e che frantuma le ossa a ogni sbiadito clone: inquadri subito Lightswimmer e Take Off come figlie spirituali di Chairs Missing (Over The Limit di 154: ma il basso dub, sbiancato e genialmente trattenuto?) finché la voce le consegna ai primi Stereolab e attorno si levano energici aloni shoegaze; lo stesso valga per From My Perspective e Before Tomorrow spostando la lancetta su A Bell Is A Cup. Accelerate la ritmica di Displacement & Time ed ecco Madchester a cavalcioni della jungle, laddove la title track ricopre di zucchero i Neu! e Ride immagina Laurie Anderson in vesti jazz-wave. Infine, il capolavoro Transmission Tower gestisce otto minuti di (falso) ghiacciaio emotivo con disinvoltura esemplare. Basta e abbonda, giacché Landing non approfitta subdolamente della nostalgia e preferisce indicare una via per riappropriarsi di coraggio e avanguardia nella forma canzone. La testa ronza, e ci sentiamo leggeri come di rado accade.(7.4/10) Giancarlo Turra Golden Serenades - Hammond Pops (+3dB, Ottobre 2009) G enere : H ammond N oise Jørgen Træen e John Hegre non sono due novellini. Sotto il moniker Golden Serenades, i due norvegesi torturano i timpani degli incauti ascoltatori già dal lontano 1999 e da allora ad oggi hanno dispensato svariate cassette, Cd e Cd-r che sanno di apocalisse e che fanno sanguinare le orecchie. La loro specialità, e il motivo sostanziale per il quale ne parliamo, è l'instrument bashing: ovvero il suono degli strumenti mentre vengono distrutti. Del tipo che, nel 2007, mandano in pezzi una chitarra del valore di 5000 dollari e che anche i momenti più blandi farebbero impallidire i sabotaggi dei primi Einstürzende Neubauten. Con Hammond Pops il duo s'allarga a trio. Entra l'organista e ricercatore Sigbjørn Apeland e il titolo del disco si traduce in "scoppi di hammond", quelli che i tre fanno fare al malcapitato strumento. L'incubo è totalizzante, tra picchi acuti e distorti e violenza sconvolgente come solo un maelström dei loro mari artici potrebbe essere. Figura centrale:Apeland e gli sconfinati modi attraverso i quali agghiaccia, e al contempo, ammalia l'ascoltatore. Quello dei Golden Serenades non è un mero as- highlight Kuupuu - Lumen tähden (Time Lag, Novembre 2009) G enere : P re - birth folk Dal lotto delle sorprese weird-finlandesi, di cui Comunale e Collepiccolo, avevano già parlato, sfugge un personaggio finora rimasto ai margini, ma non meno necessario. Si tratta di Kuupuu, al secolo Jonna Karanka, agitatrice di quell'oggetto non-identificato posto sotto le direttrici della scena finlandese, variopinta freakkeria di folkers e noisers. La Karanka solo per confermarne l'ossutezza sta dietro a nomi quali Avarus, The Anaksimandros, Maniacs Dream, Kukkiva Poliisi, Hertta Lussu Ässä, ma Kuupuu resta a tutt'oggi il suo progetto principale. Cantautrice acid, manipolatrice di objet-trouvé, impastatrice di pittura e collageista psichica, Kuupuu approda su Time-Lag, dopo due buoni lavori su Dekorder. Le sue composizioni sono come i suoi quadri: isterismo cronicizzato da incanti vaudeville, oggetti-senza-oggetto dispersi tra lividi colori pastello, volti mozzati su lane-mosaico. Kuupuu è la croce ed Islaja la testa della stessa moneta: la prima forza l'ascolto all'inferno, la seconda ammalia come un'incantatrice di cobra. In Kuupuu c'è del ferro pesante, in Islaja un lago tra foreste; una è il corpo, l'altra l'anima. Non sorprende la vicinanza di ambedue, con l'altra principessa Lau Nau: un modo tutto angelico e diabolico di fare-musica dopo l'apocalisse. Lumen tähden è una foresta tantrica con i suoi personaggi depressi ed onnivori, i suoi pianoforti malandati, le arpe attraversate da pietre smeraldo, l'inferno dei campioni harsh, le svolate perpendicolari delle viole e dei carillon, le pennellate colorate ed inusuali. Se la musica è un immaginario prima che un suono, se è fatta di visioni trascendenti e sferzate cataclismiche, questa è la sua cripta, come quei musei egizi dove il tempo pareva fermarsi nell'altrove e nel domani. Sarebbe impossibile descrivere le coordinate di Kuupuu: si passa dal forest-folk al drone sinfonico, dal pre-birth folk alle vocalizzazioni Fursaxa, dai campionari pianistici eleganti al surrealismo ipnotico. C'è molta ossessione nelle linee vocali, frasi che si ripetono come una cantilena malefica, un rito stregonesco. Un rebus la cui forza sta nell'avere una terra dietro: la Finlandia sempre attraversata dalla notte; e un genere musicale che ha il sapore di una magia antichissima e fieramente inattuale.(8.2/10) Salvatore Borrelli salto frontale; una sorta di malsana dipendenza si insinua mentre si è sottoposti agli eccessi dell'unica traccia di 40 minuti. Un effetto narcotizzante che impedisce la fuga. Solo per palati estremi e ruvidi, ciò nondimeno attenti, come non mai.(6.8/10) Andrea Napoli Heavy Trash - Midnight Soul Serenade (Fat Possum, Novembre 2009) G enere : folk blues rock Heavy Trash atto terzo vede la ditta Jon Spencer & Matt Verta-Ray sempre più simbiotica ed efficace, in quello che si delinea sempre meno come un capriccio della mezza età e sempre più come un progetto dal senso compiuto. Con della sostanza annidata tra i ruggiti fumettistici, i ghigni gotic, le melliflue pseudo-nostalgie, la verve da fantasma carnoso degli Elvis andati. Un Elvis primitivo, scosso dalla stessa demoniaca possessione che rese possibile il big bang delle Sun Sessions, figura dai contorni scomodi, misteriosi e tutt'oggi minacciosi, con le radici affondate nella zona d'ombra della multicultura americana. Va da sé che i Nostri ci si tuffano di testa. Sgranano un rosario acido di rumbe sgranate ed errebì torrecensioni 51 vi, squarciano tex-mex tarantiniani e soul caramellosi, spiaccicano al suolo un blues tra cianfrusaglie e borbottii cinematici psych fino a farlo sembrare un prequel trip-hop (The Pill), oppure lasciano che una tempesta Cramps frusti lo stomp appiccicaticcio di Bedevilment. I ciuffi impregnati di catrame, gli organi fumettistici, il piglio stradaiolo e quel senso di malia assieme calda e insidiosa dominano gli spurghi estrosi di Good Man, la circospezione androide di Isolation, la caramellosa In My Heart (al sapor Ritchie Valens), una (Sometimes You Got To Be) Gentle che fa azzuffare i primi Rolling Stones coi Primal Scream più roots e quella Bumble Bee che rifà un vecchio cavallo di battaglia errebì (l'originale è di Lavern Baker, anno domini 1960) come un amante posseduto dallo spirito killer di Jerry Lee Lewis. Pensavo fossero pantomime, invece somigliano sempre più a carotaggi sonori nella carne malsana ma (ancora) viva dell'immaginario rock. (6.9/10) Stefano Solventi Helena Verter - Questione di ore (Sana Records, Novembre 2009) G enere : rock - wave Questione di ore è un fulgido esempio di un rock all'italiana che funziona. Materiale che dalla new wave nostrana di fine anni Ottanta - inizio Novanta riprende la tendenza a declinare le influenze musicali estere in una formula musicale di stampo generalista - senza che al termine vengano assegnate connotazioni negative -, poco riconoscibile e fortemente legata ai tempi e ai modi di chi suona. La sensazione che si prova davanti a brani come Squali avvoltoi buffoni voyuer, Gondole viola, 5mg...di vero niente è un po' quella che si doveva provare negli anni Sessanta ascoltando i gruppi beat nostrani che copiavano i modelli inglesi: un dejavù controllato dal sapore peninsulare e valorosamente provinciale. Degli Helena Verter si apprezzano testi capaci di unire significati e musicalità ragionata, una voce femminile virtuosa e mai sopra le righe, la sobrietà degli arrangiamenti, l'onestà creativa. In una produzione geograficamente ben radicata nel costume - quello intelligente - di casa nostra e venata di rimembranze autoriali per nulla campate in aria.(7/10) Fabrizio Zampighi 52 recensioni Hello=Fire - Hello=Fire (Schnitzel, Ottobre 2009) G enere : rock Hello=Fire è la creatura solista di Dean Fertita, membro in pianta stabile dei Queens Of The Stone Age nonché touring member dei Raconteurs e recentemente accanto a Jack White nei fin troppo chiacchierati Dead Weather. Che cosa faccia in questo nuovo (ennesimo) progetto lo si capisce dai musicisti che lo accompagnano, a partire da quel Brendan Benson già con lui nei Raconteurs - e che qui firma insieme al titolare cinque brani - passando per Michael Horrigan degli Afghan Whigs fino a Troy Van Leeuwan, Joey Castillo e Michael Shuman dei QOTSA: rock, of course, virato al più classico classicismo sessanta-settanta con ingenti dosi di psichedelia, prima passione di Dean. Dunque riffarama a non finire, lisergici com'è ovvio quando non semplicemente vitaminici, gran lavoro operaio d'organi che crea fondali e occupa spazi e una carica che in quaranta minuti non cede mai il passo se non per l'immancabile ballad. Qui arriva alla traccia cinque, con una Nature of our minds inacidita e sognante che appoggia sul ricamo acustico luccichii di rhodes e chitarra reverse. Il resto, come si dice in questi casi, piacerà a chi già piacciono i gruppi sopracitati (soprattutto i Raconteurs) ma anche i Super Furry Animals, rimanendo l'ascolto piacevole anche per tutti gli altri.(6.3/10) Luca Barachetti I gatti mézzi - Struscioni (SAM, Novembre 2009) G enere : jazz Il nome scelto per il gruppo e il titolo del disco fanno sorridere. Eppure anche questi sono dettagli importanti nell'ottica del progetto. Un immaginario in cui rientrano Paolo Conte, Fred Buscaglione, Enzo Jannacci e tutta quella scuola musicale “alta” in bilico tra eleganza e ironia che ha fatto un po' la fortuna commerciale del jazz italiano.Tradizione che i Nostri fanno propria, facendola girare su uno swing in dialetto pisano infarcito di cronaca locale e toni semiseri da “toscanacci” d.o.c.. Dietro alla ragione sociale si nascondono Francesco Bottai e Tommaso Novi, oltre ai musicisti aggiunti Matteo Anelli e Matteo Consani, per un quartetto più o meno classico (pianoforte, voce, contrabbasso, batteria, chitarra e fischio) che gioca con certe rincorse scapicollanti à la Conte (Portami a pescare) come con lentezze melodiche crepuscolari da night club anni quaranta (Morandi). Su arrangiamenti che da un lato dimostrano una certa classe nel reinterpretare cadenze nobili del jazz francese e autoctono e dall'altro stupiscono per vitalità. Non per originalità, però, visto e considerato che c'è chi questa formula l'ha praticamente inventata. Il gruppo comunque conosce bene il mestiere e stando a quanto si sente in giro sembra pure diventato un piccolo “caso” a Pisa e dintorni.(6.9/10) Fabrizio Zampighi I've Killed The Cat - Forgiveness Party EP (Smoking Kills, Dicembre 2009) G enere : blues - rock - wave C'è una buona componente glamour negli I've Killed The Cat. Un'impeto rock & roll "de noiartri" che va dalle capigliature scapigliate à la Nick Cave periodo berlinese alle giacchette strette di pelle, dagli scatti in bianco e nero in pose da Rimbaud della chitarra elettrica ai Ray-Ban d'ordinanza. I nostri Stooges di quartiere non si fanno mancare nulla e dimostrano di aver trascorso una giovinezza felice a scartabellare tra i magazine specializzati e i dischi dei fratelli maggiori. Prendendo dagli stessi ciò che ritenevano più adatto a veicolare la propria voglia di rock e di vita “on the road” nei club alla moda della Milano da bere. Nello specifico, voci che più Iggy Pop di così non si potrebbe, il fascino sdrucito di certi Gun Club e un pizzico di wave-post punk ultimo periodo, giusto per non scontentare nessuno. Il risultato è un suono di chitarra, batteria, basso e synth semplice, immediato, persino orecchiabile, ma con poche pretese. Roba che se fossimo nel 1969 e senza tutto quello che si è ascoltato di lì in avanti a Detroit e dintorni funzionerebbe pure, ma che nell'Anno Domini 2009 porta l'azienda a un inevitabile commissariamento. In attesa di un primo disco lungo che speriamo non si trasformi in un fallimento annunciato.(6/10) Fabrizio Zampighi Illàchime Quartet - I'm Normal, My Heart Still Works (Fratto9 Under The Sky, Settembre 2009) G enere : avant - jazz Della serie meglio tardi che mai, ci ritroviamo tra le mani un disco che sarebbe peccato mortale non evidenziare. In primo luogo per il ricco parterre de roi schierato per l’occasione di supporto all’Illàchime Quartet: Rhys Chatham, Mark Stewart (Pop Group e Maffia), Graham Lewis (Wire) e il jazzista nostrano Salvatore Bonafede. Poi perché, seppur valide e roboanti, queste insigni presenze non sono l’unico motivo di vanto di I’m Normal, My Heart Still Works. L’ensemble napoletano - Gianluca Paladino (chitarra, samples), Pasquale Termini (cello, synth) e Fabrizio Elvetico (piano, basso elettrico) con l’ospite fisso/quarto membro Agostino Mennella (batteria, electronics) - è un vero portento nell’amalgamare elettronica e strumentazione acustica, fondendo il freddo e asettico portato della prima con il caldo fluire della seconda. La miscela che ne esce è letteralmente esplosiva: se di base I’m Normal… è un disco che si nutre di post-(punk)-rock jazzato e avanguardistico, la commistione infrageneri e la stratificazione di suoni trovati e/o modulati unita alle screziature fornite dai vari ospiti ne fa un mix in cui convivono slanci neo-cameristici e deformazioni wave, silenzi anatrofobici e invettive da Pop Group del terzo millennio, aperture etno-jazz, richiami al rock cinematico e citazioni davisiane; il tutto spesso suonato con un incedere angolare e in modalità improvvisativa. E se Discentro e Terminali (Source) si fanno preferire - la prima in virtù di un techno rock vorticoso impreziosito dall’ugola al vetriolo di Mark Stewart; la seconda per il senso (e)statico ed ectoplasmico della composizione - in ogni pezzo dell’album vive un microcosmo di suoni/sensazioni che necessiterebbe di una rece a parte per essere descritto. Insomma, è l’intero album a mantenersi su standard veramente eccellenti, a dimostrazione di una rinascita napoletana (si veda A Spirale, Mesmerico, Asp/Sec) in ambiti out-rock.(7.5/10) Stefano Pifferi JC Brooks & The Uptown Sound Beat Of Our Own Drum (Vampisoul, Novembre 2009) G enere : vintage soul A meno che non si tratti di una (non granché) umorecensioni 53 highlight Ninni Morgia Control Unit - Ninni Morgia Control Unit (Ultramarine, Dicembre 2009) G enere : free - jazz psichedelico Quello di Ninni Morgia from Catania è un girovagare artistico oltre che fisico. Lo spostamento verso NYC, mecca indiscussa di certo rock rumoroso, alla distanza è equivalso alla necessità quasi fisiologica di allargare i confini di un suono al quale era legato e col quale era cresciuto. Questa (in)consapevole e costante crescita ha fatto vedere i suoi frutti sia nella padronanza dello strumento - sempre più matura e personale -, sia nell’allargamento dei riferimenti - ormai un vero e proprio universo fluttuante in cui convivono noisers e jazzisti, bluesman e folksters - e soprattutto nella considerazione di pubblico e critica, colti e non. Tutta questa premessa per introdurre quella che è, ad oggi, la migliore prova del nostro. Giocato proprio su un terreno a lui non nuovo, quello della copula tra free jazz spirituale e psichedelia diluita e mistica, NNCU vibra di nuovi stimoli grazie anche a compagni di ventura non di poco conto. Ad accompagnare la chitarra di Morgia sono il batterista/ percussionista Jeff Arnal e soprattutto Daniel Carter, sassofonista e multistrumentista già avvistato in una collaborazione coi Talibam! e tra i più attivi della scena free newyorchese. Non di poco conto il fatto che elementi del genere - si nota anche Scott Colburn in cabina di regia - si “prestino” ad un progetto focalizzato intorno alla figura di Morgia, vero? Tutto meritato. L’ennesima creatura di Morgia è un concentrato di alta scuola jazz-psych, in cui suite raga senza tempo e visioni davisiane, mantra inaciditi e mistici deragliamenti free convivono agilmente e in splendido equilibrio. NNCU è uno splendido doppio vinile in cui non c’è realmente una nota fuori posto. La dimostrazione dello spessore di un Artista.(7.5/10) Stefano Pifferi ristica boutade, JC Brooks e i tre Uptown Sound - visi pallidi provenienti da Chicago a chitarra e sezione ritmica - hanno una bella opinione di se stessi. Si descrivono come Otis Redding accompagnato dagli Stooges. Beato il “brother” che ci crede, essendo la verità ascrivibile alla moda che nell’ultimo lustro testimonia un ritorno al soul come lo si suonava nei Sessanta e/o nei primi Settanta. Non possedendo corde vocali memorabili, JC si appoggia ai propri santini - Curtis Mayfield, Donny Hathaway, giustappunto Otis - mentre la band gli sfacchina dietro con appassionato calligrafismo. Dunque non si capisce che c’entri l’approccio iconoclasta alla negritudine di Iggy Pop e soci, giacché la filologia domina e siamo lontani dalla ruvidezza dei BellRays (l’ottimo stomp Baltimore Is The New Brooklyn vorrebbe ma è troppo stiloso…). Forse dal vivo le cose stanno diversamente: fatto 54 recensioni è che del manuale del perfetto soulboy non manca nulla, dai “booty shakers” (Alright, l’invocazione al fu patron della Motown Berry Gordy in Berry Please…) alle sensuali ballate (Here Comes The Fall) e gli spigliati tempi medi (Love One Another, 75 Years Of Art Sex); trovate il gusto pop “di una volta” (Hold You Back, una He Does The Town che immagina il giovane Joe Jackson risvegliatosi con la pelle nera) e la produzione puntualmente elegante.Tutto “piuttosto” godibile, comprese liriche non banali che compensano la penna non esattamente brillante ed è uno dei due problemi. L’altro essendo la carenza di personalità che fa spiccare il balzo autentico sopra la massa.(6.8/10) Giancarlo Turra Jello Biafra - Jello Biafra & The Guantanamo School Of Medicine The Audacity Of Hype (Alternative Tentacles, Novembre 2009) G enere : punk - hc Riemerge di tanto in tanto come un fiume carsico della controcultura occidentale. Ed ogni volta bastano pochi, brevissimi secondi del suo cantato per riconoscerlo e far riaffiorare in chi ascolta mille e mille ricordi. L’affronto/sberleffo di fine '70 ad una intera cultura dominante con la scelta di chiamare il proprio gruppo i Kennedy morti (immaginatevi oggi un corrispettivo italiota cosa provocherebbe…); l’ascesa/provocazione politica che lo portò a sfiorare la poltrona di sindaco di San Francisco; le mille dispute col sistema che ne fiaccarono temporaneamente la carica sovversiva (il processo per la inner sleeve di Frankenchrist o quello contro la Alternative Tentacles…). Su tutto, il punk straight in your face dei Dead Kennedys. Poi, una volta dismessi i panni di frontman di quella band epocale, Jello Biafra - metà Johnny Rotten, metà Noam Chomsky - ha intrapreso una carriera equamente divisa tra spoken word al vetriolo e caustici one-shot d'appoggio a band sodali quali D.O.A., Melvins, Mojo Nixon e NoMeansNo. Adesso è il turno della Guantanamo School Of Medicine, estemporanea (ma non troppo…) e solidissima formazione che coinvolge personaggi come Billy Gould (Faith No More), Ralph Spight (Victim’s Family), Jon Weiss (Sharkbait) e Kimo Ball (Freak Accident) e che si propone fresca e velenosa come nella migliore tradizione del nostro. In The Audacity Of Hype non c’è, però, traccia dell’hc evoluto dei Victim’s Family o delle schizofrenie rock dei FNM, ma soltanto per corpose, potenti, devastanti stilettate sotto forma di punk song impreziosite dall’ormai leggendario cantato al curaro di Jello Biafra. Clean As A Thistle, New Feudalism, la stupenda Electronic Plantation vivono dello stesso spirito aggressivo, ironico, amaro e caustico dei primi Dead Kennedys con Jello Biafra spirito libero e contro che, come si premura di rassicurarci nel conclusivo tour de force I Won’t Give Up, ha ancora molto da dire. Lunga vita a Jello Biafra.(7/10) Stefano Pifferi Jewelled Antler Collective - The Jewelled Antler Library (Porter Records, Luglio 2009) G enere : N ature P sych La Jewelled Antler Collective merita un posto d'onore nelle vicende dell'ultimo decennio (weird)folk. Creata da Loren Chasse e Glenn Donaldson nel 1999, come un'estensione dei Thuja, il collettivo ha concentricamente riguardato nomi più o meno altisonanti del panorama dell'Outdoor-Folk internazionale. Gli artisti coinvolti fanno Nature Psych, ovvero registrano all'aperto, con mezzi di fortuna in condizioni estemporanee. Una sorta di "Dogma", di accordo stabilito a-priori tra gli adepti su taluni punti. 1) le riprese sono quasi sempre field recordings bucolici, dove a risuonare è "l'aperto" insieme agli strumenti stessi come fossero parte della natura; 2) la scelta del luogo: spazi abbandonati come esterni di negozi, cantieri dismessi, vecchi capannoni industriali o spiagge assolate; 3) l'uso preferenziale di alcuni "oggetti" come terriccio, erba, arbusti, carta, sassi, in simultanea ai suoni; 4) lo strumento inteso come "Arpa" sia da sfregare con l'archetto, che d'accarezzare per produrre note aperte e lunghe. Porter Records ristampa i primi dodici 3” in quattro cd con box cartonato. Dentro ci troverete tutte le copertine di quei lavori che impiegarono l'arco di un anno, per venire alla luce con singola uscita mensile. Si parte dalla giungla metafisico-zoofila di Loren Chasse, per toccare gli interstizi merzbowiani e catacombali di Tomes; la liturgia autunnale di Ivytree cade come foglie secche tra ballate e canti d'uccelli; fino ai balcani di Steven R. Smith con i suoi Hala Strana che suonano tra la desolazione di cani che abbaiano su chitarre straziate. Tre sonnambolici soliloqui con voce recalcitrante e chitarra contrappuntata per Dead Raven Choir, passando per lidi più angelici ma comunque oscuri con Famous Boating Party, fino alle astrazioni cacofoniche e disperate del finlandese Uton. Claypipe sforna alcune cantilene che suonano come lo Julius Caesar di Smog, voce compresa; Thuja si presenta con due composizioni-manifesto: musica concreta per dronica roboante, oggetti percossi, campanellini e caos: San Francisco come baricentro emotivo della nuova-psichedelia. Harbinger of spring di Fursaxa è il diamante del lotto: 18 minuti di vocalizzazioni celestiali, flauti pan, fiori a cascate, petali che si staccano dal cervello. Un colpo sorprendente al cuore di disarmante ed autentico forest folk. A seguire il recensioni 55 folk magico di Kemialliset Ystävät, carico di figure ipnotiche. Chiude il box, Ways of God to Man, altro progetto di Chasse e Donaldoson, la loro cosa meno riuscita. Lo Psych-folk con Jewelled Antler diventa acqua, terra, vento e fuoco; qualcosa di metafisico che non risiede più dentro un brano con chitarra, voce ed un delay. E' come se l'ambient naturalistico di Eric La Casa ed il folk intimista di Pearls Before Swine convivessero in uno spazio completamente assediato da fantasmi e visioni alchemiche.(7.8/10) Salvatore Borrelli Jim Jones Revue (The) - Here To Save Your Soul – Singles Volume One (Punk Rock Blues, Novembre 2009) G enere : r ' n ' r Arde in fretta e si immola completamente al verbo del rock’n’roll questo Here To Save Your Soul. Come recita il sottotitolo non di disco originale si tratta, bensì del recupero di 4 singoli pubblicati tra le fine del 2008 e il 2009. Quattro singoli per otto pezzi e nemmeno mezz'ora di bruciante, incattivita, arrogante rock’n’roll music tanto che essi stessi la indicano “guaranteed to rock any house party till the roof falls in”. Insomma, un piccolo ed agguerrito bignami che parte da Elvis e Little Richard (le due cover di Big Hunk O’ Love e Good Golly Miss Molly, rispettivamente), passa per le brutture della Detroit dei sixties, supera a destra il primo della Jon Spencer Blues Explosion e arriva fino ai Dead Weather di cui, non a caso, supportano le date in terra d’Albione. La band dell’ex Thee Hypnotics, e ci saremmo meravigliati del contrario, è molto più tradizionalista nel trattare la materia: ciò che importa è solo che le spie degli ampli siano sempre al rosso come nell’iniziale Rock’n’roll Psychosis (il punto di contatto tra Jerry Lee Lewis e i Birthday Party?), nel bluesaccio limitrofo ad un rochissimo Tom Waits alla guida degli MC5 di Burning Your House Down, nella fusione postatomica di Chuck Berry e Sonics di Princess And The Frog. Uniche pecche, la brevità e il fatto che siano già pezzi editi.(6.5/10) Stefano Pifferi 56 recensioni Joan of Arc - Flowers (Polyvinyl Records, Giugno 2009) G enere : post indie Non sai mai come pigliarlo un disco dei Joan Of Arc, tanto il caso suona anch’esso una sua musica, sbilenca e perciò perversamente adeguata. Nello specifico, Flowers consta di brani ricavati da quattro distinte sessioni in compagnia di altrettante diverse formazioni, unico comune denominatore la presenza del deus ex machina Tim Kinsella. Che dici libero come sempre di sperimentare e colpire in contropiede le aspettative dell’ascoltatore con la naturalezza di chi la stravaganza ce l’ha nel DNA. Gli eccessi di autoindulgenza stanno sulle dita di una mano e per l’ennesima volta avanza spazio. Quando arrivano, perdoni subito Tim perché maneggia uno spirito dotto in maniera educata, del tipo che non ti sbatte in faccia la collezione di volumi di semiotica e la laurea incorniciata al muro. Un intellettuale americano, per questo somigliante più a Mayo Thompson che a Green Garthside e coerentemente i suoni vanno dietro a tale carattere. Lungo gli accidentali e sempre apprezzati percorsi riconoscenti a Red Krayola, Art & Language e Gastr Del Sol (prevalgono l’ondeggiare sensazionale del brano omonimo e una sdrucciolevole Tsunshine) inciampi in frammenti e deviazioni. Ben vengano l’elettro-wave gustosamente d’annata (Fogbow) e la vibrazione urbana colata dallo stampo velvetiano (Delicious Herbal Laxative); le citazioni lucide di Robert Wyatt (The Garden Of Cartoon Exclamations), la psichedelia in prestito (restituita liquida in Explain Yourselves e contorta per Life Sentence/Twisted Ladder) e i bordoni e i rumori che sembrano scale nei quadri di Escher. Ti pigli un’emicrania se cerchi ciò che non può esserci, ovvero un senso convenzionale che sorregga il tutto. Le dettano i punti interrogativi, le regole, e un sagace enigmista con fior di genitori di cui va orgoglioso. Sono indubbiamente altri i lavori su cui si fonda la bellezza della pulzella di Chicago, ciò nonostante si ascoltano qui cose che voi umani…(7/10) Giancarlo Turra John Zorn - Femina (Tzadik, Ottobre 2009) G enere : musica da camera + concreta Zorn torna al collage via game card e dirige un ensemble di sole donne (con Laurie Anderson ad introdurre il tutto) per un omaggio all'eterno femmineo, incarnato da figure come Meredith Monk, Frida Kahlo, Gertrude Stein, Yoko Ono. I momenti strettamente musicali sono spesso molto belli, focalizzati sulla recente riscoperta zorniana del minimalismo (molti suoi dischi 2009), con passaggi solari e romantici - guardando a Sakamoto - e altri più solenni (l'inizio della terza traccia). E' però proprio il giochetto dell'alternanza rumore-melodia a sembrare stanco: stanchi i siparietti "di disturbo", ricalcati sopra quel Zorn che ama incasinare il camerismo con inserti concreti, quasi a rifare il collage sessantottino zappiano di Lumpy Gravy (la cosa appare in tutta la sua sconcertante evidenza nell'incipit della seconda traccia, tra archi schonberghiani, rumori metallici e versacci umani). Forse progetti del genere verrebbero meglio testimoniati da un dvd, dando il giusto peso al lato scenico-performativo.(6.2/10) Gabriele Marino Jon Hopkins - Seven Gulps Of Air (Domino, Novembre 2009) G enere : ambient ' n ' beats Un inedito e quattro rmx dall'ultimo Insides (uno autografo e tre firmati da altri). Jon fiuta il vento Hyperdub & Co. e mette in apertura un buon wonky sincopato e poliritmico con scat battidenti (ce ne aveva dato anticipazione a Ypsigrock 2009). Occhei le riletture che sviluppano (A Small Memory by Tunng, il pezzo migliore), riarrangiano (The Low Places by Geese, esoteric-folkie) e in generale movimentano gli originali, migliorandoli. Lui però toglie la ritmica da A Drifting Up (e la ribattezza Down), lasciandola tutta nebule di tastiera, un po' inutile, e Tom Middleton manda Light Through The Veins in disco, ma la cosa è solo parzialmente riuscita: meglio l'originale. Resta su Jon la sensazione di uno tecnicamente bravo e che fa esercizi, per quanto ben fatti, con risultati finora mai troppo personali. Continua a non spostare nulla.(5.9/10) Gabriele Marino Julian Lynch - Orange You Glad (Olde English Spelling Bee, Novembre 2009) G enere : hypnagogic pop Per la serie “cogli l’attimo”, ecco che continua l’onda lunga del tropical sound o hypnagogic pop che dir si voglia. Non si è spenta l’eco del nuovo Ducktails che già Matt Mondanile si ripresenta con l’altra faccia della medaglia, quella di Real Estate. In mezzo, ma proprio in mezzo (tanto da esserci quasi dentro) ai due progetti c’è Julian Lynch, già amico d’infanzia di Mondanile e con uno split 7” d’esordio su Underwater diviso proprio con Ducktails. Ora, dopo la pletora di cd-r d’ordinanza, è il momento dell’esordio lungo e, guarda caso, proprio su quella Olde English Spelling Bee che il mese scorso ha rilasciato proprio Landscapes. Quando si dice le coincidenze eh? OrangeYou Glad, non sarà difficile intuirlo, si muove lungo quel crinale lì: una psichedelia pop sonnacchiosa e ovattata, soffusa, incerta, barcollante eppure sempre così fortemente childhood friendly. L’euforia (ehm) che segna alcuni momenti targati Ducktails lascia però qui il campo aperto ad una sorta di melanconia soffice, dominata da venature lo-fi ma intrisa di ariose e intriganti aperture a oriente. Così se Venom è un pezzo che ormai diremmo classico di certo psych-pop indolente e Winterer One naviga letteralmente su un oceano di reminiscenze (a sto punto, tanto vale dirlo) ipnagogiche, un pezzo come Mercury si avvicina all’onnivoro distendersi di Valerio Cosi mentre la lunga The Flood parte come un mantra e si apre in un acidissimo trip orientaleggiante. Julian Lynch, si sarà capito, è un altro piccolo genietto pazzo e solitario sputato fuori dal qualche lontana galassia dello spazio-tempo di ognuno di noi. Multistrumentista, studente di etnomusicologia, con un passato alla Smithsonian Folkways Recordings di Washington. Uno che si prende il lusso di suonare live in broadcast all’Underwater Peoples Late Summer festival direttamente dal salotto di casa sua, nel Wisconsin. E che pensa di organizzare futuri live sempre rimanendo comodamente in casa sua. La cameretta che ingloba pure la dimensione live. Cazzo, è bedroom pop totale!(7.3/10) Stefano Pifferi King Khan & BBQ Show (The) Invisible Girl (In The Red Records, Novembre 2009) G enere : r ' n ' r garage Da Mark Sultan in versione King Khan & BBQ Show possiamo solo aspettarci qualcosa che sta al centro del mondo In The Red. Garage e ancora garage. Ecco quello che si può trovare in Invisible Girl (olrecensioni 57 trepassando, so che è dura, l’orribile copertina): del rock’n’roll anni Cinquanta virato Nuggets. E nel fare questo Mark Sultan è maestro. Riesce a citare pedissequamente la tradizione mettendo giusto qualche storpiatura garagista, se non altro nel timbro degli strumenti (cioè, delle chitarre). A volte (Untitled, Crystal Ball) poco più punk e Ramones-iano (Crystal Ball) - e chi continua a dire che la differenza che corre con il r'n'r dei primordi è poca, ha ragione. Mezzi avvisati, mezzi salvati. Decidete voi.(6/10) Gaspare Caliri Klein Blue - Fertilizzafrasi EP (Vaggimal, Novembre 2009) G enere : pop folk Questo quartetto veronese al debutto testimonia un senso di recupero e sbrigliatezza, la voglia di fare (indie) pop che sbocci dal basso delle camerette e delle camporelle, sgranando canzoni come pietruzze di una collana tenuta assieme dal filo d'inquietudine del vivere moderno. Ballate e ballatine perlopiù acustiche (la sola Sistri dimostra contagi elettrici, in ossequio alla tensione smithsiana che la innerva) all'insegna di viola, chitarra e una batteria vivida, a cui si aggiunge spesso e volentieri una tromba, per un impasto assieme arguto e naif. Un po' come i testi. E come la voce di Carlotta, sorta di nipotina sensibile e screanzata di Edie Brickell (cui la fragrante Nubicuculia rimanda più o meno direttamente). Ci senti l'estro vagamente hippie del folk studio, la voglia di jingle-jangleggiare a spine staccate (un po' Housemartins) e la spiegazzata verve dei neo-bucolici contemporanei (alla Peksniff, per intendersi). Inolte, e soprattutto, certa graziosa scompostezza che se da un lato reclama una più robusta produzione, dall'altra colpisce proprio per la grana tenera e malferma.(6.4/10) Stefano Solventi Krallice - Dimensional Bleedthrough (Profound Lore, Novembre 2009) G enere : B l ack Krallice è l'idea di black metal di Mick Barr (Orthrelm, Ocrilim/Octis) e Colin Marstron (Behold... The Arctopus). E quello che all'inizio poteva sembrare un progetto occasionale dei due - solitamente dediti a musiche ben meno ordinarie - sta acquistando una dimensione importante, complice anche la riuscita dell'esordio. Dimostrazione ne è l'ingresso in pianta stabile del bassista Nick McMaster e il 58 recensioni fatto che quest'anno il gruppo si sia speso molto nei concerti della attiva scena black metal americana. Krallice percorre i territori di genere, evidenti nei toni epici, nelle grida agonizzanti, nei saliscendi vorticosi. Il susseguirsi frenetico di riff in tremolo perpetuo sembra fare il verso a Blind Idiot God e agli intrecci chitarristici di Don Caballero, ma aggiunge alle trame asettiche del math una componente emotiva - tanto da ricordare i disagi violenti di casa Ebullition e Gravity Records. C'è spazio anche per atmosfere scure e dilatate, e in alcuni episodi il suono si fa Neurosis (forse a causa della presenza anche in fase di scrittura del nuovo bassista, che come secondo cantante, affianca una voce più profonda alle urla sguaiate di Barr). Non lontano dal precedente, Dimensional Bleedthrough risulta maggiormente calibrato e meno impulsivo.(7/10) Leonardo Amico Kreidler - 2014 (Italic, Ottobre 2009) G enere : K raut -D etroit Pur bravi e fedeli al "ritmo + groove" che andava dalla metà dei Novanta, i Kreidler non hanno mai brillato di luce propria. All'inizio erano troppo filo Tortoise, poi assomigliavano a una discreta versione dei primi To Rococo Rot, dopodiché ad un mix già ampiamente masticato di Tarwater e Schneider TM, infine (nell'ultimo fino ad ora Eve Future, del 2002) a un meditato progetto tra classica e campionamento che peraltro sublimerà e sfonderà, nel 2008, con il famoso Recomposed di Craig e Oswald. In pratica, il loro bello stava nell'eleganza a incastro tipica della deutsche welle e nell'effetto zero compiacimento filiato dall'estetica Techno: non sbottavano, non emozionavano, ma cercavano di ammaliarti attraverso mood rigorosi, quasi come se si ponessero in dialettica con i calorosi "sudismi" dei Mouse On Mars e i riff brandizzanti dei Tortoise. Poi in buca ci si sono messi da soli, incapaci di scegliere da quale parte inclinare la cloche: tra Basic Channel (o certa IDM) o le istanze chicagoiane che così tanto avevano influenzato la compagine "Postwall" (Mort Aux Vaches), il progetto s'insabbiò lasciando pure aperta la storica forbice che li vedeva far pensare nel salotto e ballare nei live set. Con 2014, a ben sette anni dall'ultima prova, tra relax balearico in filo rosso con certe sonorità altezza Kreidler (2000) e ritmi più impattanti, una sintesi pare possibile, soprattutto grazie all'inedita scelta highlight Ramadanman/Chef - Dubstep Allstars Vol. 07 (Tempa, Novembre 2009) G enere : D ubstep & C o . Curato da Hatcha e datato 2004, il primo volume aveva acceso la miccia dubstep nell'overground. Il settimo volume ne è un bignami targato 2009 oltre l'avanguardia Hyperdub. Un disco mixato da Chef aka Chefal (nero, stazza importante tipo vecchia scuola house o hip hop), uno da Ramadanman (bianco, occhiaie e sguardo chetaminico), giovani dj e producer in prima linea nelle serate dubstep anni Duemila. Una valanga gli artisti presenti, pezzi grossi come Benga e Skream (e poi Cyrus e il duo spezzato Digital Mystikz) accanto a nomi mai sentiti. Per quanto ci siano intersezioni di mood e di suono tra le due tracklist, fin dalle aperture si delimita una separazione di campo: Chef parte con un ragga vocoderizzato, suo e di Coki, e prosegue col soul di Von D per la splendida languida voce di Lady Phe Phe; Ramadan attacca col legno e colle bolle melmose di Untold & D. Franklin e col minimalismo addirittura Steve Reich (via Four Tet) di Peverelist. Si balla sempre, più o meno dritti, più o meno wonky, ma un ciddì è a colori, l'altro in bianco e nero, uno più dancefloor (ovviamente sporco), uno più IDM, più asciutto, elegantemente monocromo e fumoso. Fino alla buonanotte miagolosa firmata da Mount Kimbie. Bassi profondi, fuzz e bordate droniche e troniche, (alcuni) pezzi drogatissimi, reminiscenze house e drum'n'bass, esplicitazioni delle radici ragga-dancehall, e quel clima da bunker, da dopobomba, da post-umano (eredità questa della Weltanschauung techno) che caratterizza le cose migliori che ultimamente ci sono passate per le orecchie.(7.5/10) Gabriele Marino d'incidere la tracklist in una sola settimana. Le indagini afro-futuriste sono le migliori, e se a tratti i nuovi Kreidler faranno rimpiangere i Radian, è innegabile la qualità di un album dalle krauterie ponderate giù fino a Detroit; e un Vangelis, alla bisogna, ambient senza timori.(7/10) Edoardo Bridda La Sindrome - L’arena del peccato (Autoprodotto, Ottobre 2009) G enere : rock Esordio dei milanesi La Sindrome, tra indie/classic rock e influenze italiane. Nella nostra lingua sono infatti i testi che si incastrano con sonorità che privilegiano il più delle volte la melodia. C’è infatti più di un’influenza nella recente musica nostrana, vengono in mente soprattutto i Negramaro, mentre per la ricerca melodica rimandano in alcuni casi ai Pearl Jam. Gruppo nato prima con cantato in inglese e poi evoluto verso l’attuale direzione, La Sindrome con L’arena del peccato confeziona un prodotto curato dal punto di vista delle sonorità, non originalissimo ma che grazie a una certa espressività si ritaglia uno spazio nel genere di riferimento. Che però non è poi chiarissimo, oscillando più che verso l’alternative, verso uno stile radiofonico con tendenze a certo mainstream di moda. Se son rose.(6/10) Teresa Greco Le Loup - Family (Hardly Art, Settembre 2009) G enere : family - folk Programmatici già dalla bio, “Le Loup is still a young family, of course, but Family is nothing short of a musical coming-of-age, and adulthood never sounded so promising”. A chi pensa fosse evitabile la citazione messa qui, a esordio del discorso, rilancio dicendo che la famiglia Le Loup è cresciuta a pane, Akron/Family e Animal Collective, quali recensioni 59 fossero burro e marmellata. Scegliete voi chi fa l’uno e chi fa l’altro. In Family c’è la solita summa degli ’00, di quel cantautorato corale, già dall’iniziale Saddle Mountain, che del collettivo degli animali sa fino a un miglio di distanza. E non finisce qui. Passando dalla critica all’ascolto ingenuo, chi scrive ammette che la prima volta che ha ascoltato questo disco, dopo qualche traccia, l’ha tirato fuori dal lettore per accertarsi che non si trattasse di una raccolta inedita dei primi Akron/ Family. Probabilmente il punto preciso si attestava sull’ascolto di Morning Song, filiazione diretta della famiglia di Akron, con tanto di ukulele e di coro decisamente aderente alla fonte. Oppure al momento in cui passava la title-track, che ha uno sviluppo che segue pedissequamente le vicende della band di folk-freakers. E lo dice anche il nome, ovviamente. Ora, in casi come questi, generalmente, si passa per derivativo punto ciò che ci fa dire quanto appena detto. Eppure Le Loup convincono, pur nel loro essere direttamente collegabili ad altre esperienze. Sherpa è un brano come ne abbiamo sentiti tanti altri, ma testimonia, come il successivo nella track-list (Neahkahnie), il passaggio di un gruppo da bedroom project di una persona (Sam Simkoff, in questo caso) a progetto di una piccola collettività. Il che è uno degli aspetti più interessanti di questo decennio che si chiude. Specie quando riesce bene.(6.6/10) Gaspare Caliri Leg Leg - Manta (Wallace Records, Novembre 2009) G enere : math - rock Continua a stupire il suono chitarristico proveniente dalle Marche, anche se stavolta non si tratta di esordienti ma di veterani che, a dispetto della giovane età, hanno curriculum invidiabili. E questo assaggio di nuova formazione non fa che confermare questo sentore. Punta di diamante è Mattia Coletti, già noto anche ad altri panorami impro. Con Leg Leg il chitarrista ritorna al trio, dopo l’esperienza Sedia: ad accompagnarlo ci sono la batteria di Roberto Ceccacci dei Lleroy e il basso di Andrea Giommi di Edible Woman a tagliuzzare, masticare e risputare fuori la tradizione math-rock a stelle&strisce più varia e cangiante. 60 recensioni Manta è un sei pezzi breve e compatto che arde del sacro fuoco juneof44iano, con il gusto per gli intarsi dei Don Caballero e quello per le poliritmie dei Battles. Robusto, corposo e con la chitarra di Coletti attenta a cesellare arpeggi post ma anche sempre ben memore delle sue esperienze out-rock: così se Manta e A Roof In Spring sono ottimi bignami di rock intricato e strumentale, il finale in arpeggio haiku di Ibis e la conclusiva, acidissima cavalcata mathey Telephone Rings From The Hand Of Summer offrono interessanti spunti altri rispetto ai canoni del genere. Dettagli senza dubbio, ma che lasciano ben sperare in evoluzioni future.(6.7/10) Stefano Pifferi Lorenzo Bertocchini - Uncertain, Texas (Autoprodotto, Settembre 2009) G enere : roots - folk - rock Bruce Springsteen versione E-Street Band ma anche Dire Straits. E di lì non ci si sposta. Uncertain,Texas rappresenta una rivisitazione fedele ad opera di un emulo del Boss di quel classic rock venato country che andava negli Usa un paio di decenni fa. Stile vocale e scelte estetiche che fanno il paio con le foto di un Bertocchini sorridente mentre canta con l'idolo di gioventù e che involontariamente definiscono tutti i pregi e i limiti del disco in oggetto. La dietrologia rispettosa e curatissima del varesino, comunque, non dispiace per nulla. Anche se sempre di gloria riflessa si tratta, visto che l'unico brano che si discosta dai modelli genitoriali è la parentesi reggae di Too Lazy.(6.3/10) Fabrizio Zampighi Luke Lukas - IIII (Lepers Produtcions, Ottobre 2009) G enere : folk rock pop Il caro Luke Lukas torna sul luogo del delitto Lepers Produtcion, stesse modalità riguardo al free download, sempre nel solco d'un folk-rock dalla laconica tensione, dal solipsismo lunatico, dalla ciondolante risolutezza lo-fi. E' nuova semmai la lucidità di un'ispirazione che serra i ranghi, si concede a situazioni più ammiccanti senza cedere di un millimetro sul piano del carattere, anzi guadagnando un paio di tacche nella scala del registro espressivo. E' il caso di una Maybe Maybe Maybe che col suo incedere da filastrocca alienata sembra non attendere altro che una breccia (uno spot, una sigla, un dj occhiuto...) per infilarsi nelle playlist d'ogni ordine e grado. E poi di quella Bacon che architetta un serafico miraggio a cappella col malanimo nel taschino e tutto un mondo sintetico dietro l'angolo. Per non dire di una Mr. Strange che nel finale si estenua per quasi nove acidi ed enfatici minuti, chitarre gracchianti, violino e tastiere. Poi, ok, restano pur sempre quelle sciroccate e adorabili traiettorie in obliquo tra marcette The Band disidratate Beck (Dead Woman Blues), quadretti onirici colti nel giardinetto Radar Bros (Echo Of My Soul), certe bestioline cresciute a Beta Band e Nirvana (Seems Funny). Non mancano insomma gli indizi per sostenere che il ragazzo è cresciuto, anzi maturo, pronto ad ammaliare e stupire. Tenetelo d'occhio. (7.3/10) Stefano Solventi Martha Wainwright - Sans Fusils, Ni Souliers, a Paris: Martha Wainwright's Piaf Record (V2 Music, Novembre 2009) G enere : chanson Quanto Marta Wainwright fosse personaggio poco prevedibile e dalle risorse ancora tutte da esplorare ce lo immaginavamo. In un certo senso, i suoi lavori ci avevano fatto intuire finora potenzialità e carattere senza però esprimerli con la dovuta forza, lucidità e determinazione. Questo omaggio a Édith Piaf invece va fino in fondo, e pazienza se il repertorio del passerotto francese non è quel che si dice il massimo del cool per le giovani generazioni contemporanee. Della Piaf la cara Martha coglie tuttavia quel languore malsano e irrequieto che ne fanno un classico dalle vibrazioni attualissime, vi basti la decadenza jazz-blues di Le Brun et le Blond e soprattutto il cinematico struggimento di Adieu Mon Coeur e Soudain Une Vallée (cui l'incanto obliquo d'una Goldfrapp non appare così estraneo). La sorella del beneamato Rufus non difetta certo di corde vocali, ma ancor più si fa apprezzare per l'agilità delle modulazioni, per come s'incarica del mood fino al limite della recitazione (sentitevi Non, La Vie N'est Pas Triste o L'Accordéoniste), come si conviene per chansons di tal fatta. A tal proposito, sono belle le orchestrazioni, mai tronfie, in cerca del magico che brulica in punta di palcoscenico (le incisioni sono avvenute in parte dal vivo), in bilico tra avanspettacolo e dimensione teatrale. Una nota filologica che un po' impreziosisce e un po' stranisce un album più che apprezzabile.(7.1/10) Stefano Solventi Matias Aguayo - Ay Ay Ay (Kompakt, Dicembre 2009) G enere : world funk Sudamericano. Caliente. Cittadino del mondo. Pensate a Paul Simon e proiettatelo nel nuovo secolo. Ay Ay Ay è il Graceland dance. Dimenticatevi i Closer Musik, Are You Really Lost (il debutto dell'uomo datato 2005) e ascoltate Menta Latte comodi in poltrona. Il piede inizierà a muovere il ritmo sopra un tappeto funk declinato world. Poi c'è Ritmo Tres che rammenta il disincanto dei Talking Heads e le fattezze Tv On The Radio, Desde Rusia indolente e ipnotica, Ritmo Juarez e Koro Koro dagli smalti d’Africa. La title track invece è pura psichedelia moderna. E di elettronica c'è poco o nulla. Di umano - nel senso organico del termine - tanto, poiché è il beatboxing (per la cronaca, l’arte di riprodurre percussioni d’ogni tipo col solo uso della voce) il motore dell’intera faccenda. Dopo la techno, l’essenza del ritmo.(7/10) Gianni Avella Mattress - Low Blows (Malt Duck, Ottobre 2009) G enere : S ynth -C rooning Rex Marshall, in arte Mattress, è un personaggio oscuro. Viene da Portland, e se questo già la dice lunga, da sempre è un tipo solitario e poco incline alle mode e alle tendenze. Da vero one-man project, Rex fa da sé senza bisogno di tanto clamore: dal 2006 rilascia Cd-r e 7" e Low Blows è la seconda prova lunga dopo il debutto Heavy Duty su Reluctant Recordings. Si riparte dalla voce, un crooning umbratile e baritonale che ricorda, a seconda dei momenti, Ian Curtis o Jim Morrison. Attorno poco altro: un synth proprio come se fosse un piano a coda e qualche scheggia impazzita di chitarra ad enfatizzare le parti incalzanti. Senza dimenticare episodi più accessibili (Light My Life, Gone To Waste), la vera novità è la componente drammatica e lirica, accentuata ed enfatizzata come solo nella hit Eldorado in precedenza. Roll Roll Roll, Remember e Stay Poor agitano lugubri spettri nell'aria, recensioni 61 highlight Six Finger Satellite - A Good Year For Hardness (, Maggio 2009) G enere : electro - rock Gran casino quando arrivi per primo ma - i tempi non maturi eccetera - la grana finisce in tasca agli epigoni del decennio dopo. Sintetizzando brutalmente la storia dei Six Finger Satellite è questa e la buona notizia è che i lucidi folli del Rhode Island sono di nuovo tra noi con due dischi: uno Half Control "recuperato"; e il presente A Good Year For Hardness nuovo di zecca. Raccolto attorno al nocciolo radioattivo di J. Ryan e Rick Pelletier, il progetto si arricchisce di una sezione ritmica giovane ma abile: mossa decisa che fa ulteriore tabula rasa di ciò che ruota attorno a musica ed estetica. Immutate ambedue ma anche no, attualissime - il paragone da farsi non è con pivelli tipo Rapture, semmai verso seguaci un tempo acuti: vedi alla voce Trans Am - al punto che i diretti interessati spiegano quanto le loro mutazioni siano sempre state graduali. Ci piace starli a sentire perché un gancio che spedisca al tappeto è gradito, necessaria conseguenza di argomenti solidi e ottima forma. Sancite dal ricorso affatto scontato a movenze chitarristiche di scuola Gang Of Four, all’ossessione di muscoli più sarcasmo (uguale moog krauto e sei corde irruenti) e quel che sta nel mezzo. Dalla postdisco golosamente paranoica Don't Let Me (The Fall in sexy fogge Jon Spencer) ai rinvigoriti pronunciamenti circa la ”american way” (Wilson P., Swamp Wanda); da cingolati AOR secondo il vangelo Shellac (Midnight Rails, Half Life) a stordenti giostre (Broken Brain). Piazzando in chiusura, con scelta di classe e perspicacia, le gemme assolute: il sixties garage in trasferta a Manchester Hearts And Rocks e i Joy Division a passeggio - indecisi tra colonna sonora o cosmico afflato - lungo il buio capolavoro Rise. Un riassunto che non vuole esser tale e perciò centra il bersaglio, lontanissimo da un’autocelebrazione impossibile in chi maneggia sapientemente l’ironia. Il dilemma, semmai, è che a questo mondo non esiste giustizia.(7.4/10) Giancarlo Turra proprio nulla (archi, fiati, contrabbassi, glockenspiel, bidoni, mandolini ecc...). Manfredi, lo dicevamo, ha tanto del classico cantautore italiano, vuole che le parole pesino e lascia che siano pesanti, ma allo stesso modo esige sostanza dagli spartiti. E l'esito è spesso frutto di strategie ben studiate, per accumulo o contrasto emotivo. L'ora del dilettante monta incubi e tensioni di un mondo ammattito dove trionfano i mediocri con archi tellurici e cromorni rinascimentali; Il regno delle fate narra su toni da fiaba di chitarra, piano e spring drum il brulicare di vita multiforme di una viaggio in treno dove ognuno si cerca un senso; Zimbalom sparge magie e sensualità in un viaggio da Belgrado a Bombay passando per Istanbul. In chiusura, prima della riproposizione di un vecchio duetto proprio con De Andrè (che di duetti ne faceva davvero pochi) su La fiera della Maddalena, Il morale delle truppa lancia su un'andatura da marcia slava una storia di decadenza da vodka e trincea, mentre Il treno per Kukuwok dichiara programmaticamente la poetica del genovese: da «un cartello sballato in stazione a Pavia» che appunto reca la destinazione Kukuwok nasce infatti una fantasia folk (come il Vinicio Capossela quacchero di Da solo), dove i pendolari diventano nuovi indiani di «praterie con aziende vinicole doc» in fuga verso quel luogo fantastico generato dalla follia di un display. L'identica follia, amplificata da una curiosità intellettuale inarrestabile, che attraversa tutte le canzoni di Luna persa: oggi disco outsider che fra qualche anno potremmo tuttavia considerare parecchio importante.(7.4/10) Luca Barachetti probabilmente gli stessi le cui mani vediamo sorgere nell'illustrazione di copertina. La stampa su vinile trasparente e l'inserto con alcuni testi, infine, suggellano una delle produzioni più interessanti degli ultimi mesi.(7.2/10) Andrea Napoli Max Manfredi - Luna persa (Ala Bianca, Settembre 2008) G enere : canzone d ' autore La Targa Tenco 2009 come miglior disco dell'anno sigilla un percorso lento (cinque dischi in diciotto anni) ma attento a rivitalizzare una canzone d'autore ultimamente in debito d'ossigeno. E probabilmente se Max Manfredi fosse nato una decina di anni prima, lui classe 1956, oggi ce lo ritroveremmo nel pantheon del cantautorato nostrano. Questio62 recensioni ni di tempi mutati, ma anche di un approccio alla canzone che cercando nella complessità la propria cifra - una complessità che è continua generazione di sfumature e punti di vista inediti, lontana da ogni sterile sortita - si trova fuori rotta rispetto al tuttosubito degli anni zero. 
Luna persa nasconde significati fin dal titolo, nel quale l'aggettivo non corrisponde a “perduta” ma ad un participio passato fuori uso significante rossastro; dunque una luna rossa, di smog, di città. E si autoalimenta nelle tredici canzoni previste di un continuo intrecciarsi di influenze che partendo dall'ultimo Fabrizio De André allargano la propria anima mediterranea a stralci classicheggianti, fragranze balcaniche e slave, esotismi turco-indiani alla Paolo Conte e sparuti inserti elettronici che completano un arco strumentale nel quale non manca Meat Puppets - Sewn Together (Megaforce, Maggio 2009) G enere : indie 80' s Spiega tutto il titolo in questo dodicesimo disco dei Meat Puppets. E che bella scelta è, echeggiata dall’artwork ma soprattutto dal contenuto. Sewn Together significa “cucito assieme”: subito pensi a una coperta indiana composta da differenti pezze che acquista senso osservata da lontano. Soltanto così la squisita totalità restituisce la sua superiorità alla mera somma delle parti. Secondo passo della reunion dei fratelli Kirkwood questo album, graditissimo a prescindere visto l’inferno attraversato da Cris causa vicende di droga e cronaca nera che paiono seppellite definitivamente. Lo sottolinea una ricomparsa in grande stile del- la “sexy music”, come la battezzarono i diretti interessati; del coacervo di punk, psichedelia e radici che li rese esponenti tra i più sinceri e persuasivi dell’underground americano anni ‘80. Musica del deserto che non suggeriva desolazione e solitudine, casomai il ricordo di policromi, raggianti “trip” interiori. Così è l’Arizona dalle loro parti e ciò accadeva quando erano giovani, persi dentro un paesaggio suggestivo a mescolare l’impossibile in un cocktail stordente. Succede anche qui, tuttavia con continuità e brillantezza sconosciute al predecessore Rise To Your Knees, servito forse da riscaldamento e idem i concerti nel frattempo tenuti col nuovo batterista Ted Marcus. Ipotesi plausibile alla luce di una dozzina di brani che del succitato stile propongono il riassunto mentre ne sottolineano l’immutata unicità. Senza cigolare di giunture, spediscono i Grateful Dead a formarsi nei primi ’70 (la title track, Rotten Shame) o parafrasano i R.E.M. (Blanket Of Weeds, Smoke). Stringono al cuore il country con svagata vivacità (la fischiettante The Monkey And The Snake, il banjo in I'm Not You) e affidano la propria Grandezza alle traslucide ballate Smoke e Sapphire, senza dimenticarsi certi ibridi tra hard rock, funk e oriente. Curt oggi risiede in Texas, ma non c’è dubbio che la sua mente vaghi sempre lungo i cieli stellati sopra Phoenix: prova ne siano l’attaccamento al fratello e un ospite che imbraccia la chitarra in un pezzo, il quale - buon sangue non mente - fa di nome Elmo Kirkwood. E’ suo figlio e chissà che in futuro non possa sorprenderci, da fortunato frequentatore di una scuola da elevare ad esempio per eternarne l’insegnamento.(7.4/10) Giancarlo Turra Memory Tapes - Seek Magic (Acephale, Agosto 2009) G enere : G lo F i Vicino più a Washed Out (e in distanza perimetrica dal wizkid Neon Indian), Dayve Hawk aka Memory Tapes (e prima Memory Cassette) è uno di quelli che con gli Ottanta ci lavora pesantemente senza dimenticare alcune lezioncine. Flirta gagliardo con l'idm infantile firmata Aphex Twin (Bicycle), con le krauterie sintetiche, osserva iperlucido resistendo agli oppiacei e poi c'è l'house. Parigi. I Daft recensioni 63 Punk. Il suono vintage dai campioni neri di vent'anni prima, la materia dell'arrangiatore più che dell'autore, del remissatore più che del musicista puro. Quando c'ha le melodie in testa, Hawk le pensa black nell'accezione della sua Philadelphia e la mano è quella del dj chino sull'euro-disco, eppure non siamo in una groove mission: metà scaletta è fatta di canzoni che si fanno contenitori. Si parte in un modo per poi finire in un altro. Si aprono sipari inaspettati e di lì, come nelle cose di Ariel Pink, non sai mai bene come andrà a finire. Prendi Graphics: memorabilia istantanea di Cocteau Twins, chitarre Cure, riff New Order e Yellow Magic Orchestra, spezie a sorpresa amate e poi affogate in altre. Il mood è il tratto aggregante. Chiamiamolo glo-fi. Roba velata, zuccherosa e all'occorrenza new age, Tangerine Dream (Pink Stones) e di nuovo in risalita WARP. E non mancano neppure l'indie song (Plain Material), il dancefloor in veste DFA (Stop Talking) e il classico momento del sole che cala all'orizzonte in un finalone da ben 22 minuti (Treeship). Frankie Knuckles è li a sorriderti da lontano. E' un laboratorio. Ma l'alchimista sa il fatto suo. Che trip.(7.1/10) Edoardo Bridda Mirt - Most (The bridge) (MonotypeRec., Novembre 2009) G enere : D isintegration loops Tomek Mirt, dei Brasil and the Gallowbrothers Band, torna in solitario col suo nuovo Lp in 250 copie, due traccie registrate nel 2003 che raggiungono appena i 24 minuti. “Si si”, il full-lenght precedente, diramava su planimetrie notturne, migrazioni interstiziali poste tra circolarità basinskiane. Questo nuovo lp parte dalle medesime fissazioni analogiche ma è attraversato da motivi oscuri, che hanno un sapore più amaro e memoriale. “Most 2” è il momento più compiuto: isolazionismo termico fitto di uiniverso Labradford, disintegration loops e istanze concrete prese dalla strada, da voci che si raccontano sotto una coltre spessa di reiterazioni nostalgiche. Tra le note impalpabili, una trombetta processata che dona spunti quasi fusion. Nulla di particolarmente nuovo; William Basinski si nasconde dietro ogni dettaglio con un pugnale in mano, eppure "Most" piacerà agli innamorati persi dell'ambient filodiffusa.(6.2/10) Salvatore Borrelli 64 recensioni Miura - 3 (Prismopaco, Novembre 2009) G enere : rock Terzo lavoro per i Miura, band di Diego Galeri, ex batterista dei Timoria, ma quest'ultimo nome non vi preoccupi troppo. Del resto, qualcuno potrebbe conservare buoni ricordi del precedente Croci (Prismopaco, 2008), prodotto dal buon Giorgio Canali. Nel caso, il qui presente 3 spinge più a fondo sulla cura dei suoni, scegliendo quale partner in studio quel Giacomo Fiorenza che non ha certo bisogno di presentazioni. Il risultato è un adult-indie rock che tira le fila delle evoluzioni alternative italiane da un quindicennio a questa parte, veicolandone le traiettorie in una forma compatta e nervosa. Dove la trepidazione indolenzita dei Perturbazione incrocia veemenza Afterhours (Malati Sani), dove il chitarrismo senziente dei CSI mescola le carte con la vis teatrale dei Massimo Volume (Underworld), dove i Marlene Kuntz indossano le maschere dai Tre Allegri Ragazzi Morti (Non vado forte), dove i Verdena si fanno strattonare dai Ministri (Giuda). Eccetera. Ovvero, rendendosi disponibili ad allucinazioni sintetiche (Andiamoci piano con le emozioni) e pacate inquietudini quasi Max Gazzé (Normale). Come certi centravanti dal tiro troppo pulito, non mettono a segno troppi goal. Però si fanno apprezzare. (6.3/10) Stefano Solventi Mr. Chop - For Pete’s Sake (Now Again, Novembre 2009) G enere : jazz - funk Proprietario di uno dei migliori studi vintage (leggi "analogici") d'Inghilterra, gli Ape, amico e collaboratore di MF Doom e di Catto e dei suoi Heliocentrics (due di loro li ritroviamo anche qui), di casa a Now Again, Stones Throw e Jazzman come ingegnere del suono e produttore, autore di prove soliste su piccola e media distanza (ultimo l'ep Lightworlds) votate ad una miscela di jazz, funk e colonne sonore, il polistrumentista Coz Littler propone adesso la sua rilettura - tutta suonata e interamente strumentale - di dieci produzioni di Pete Rock, alternate a sette pezzi autografi perfettamente calati nel mood (eccezion fatta per l'elettronica psych-concreta del sesto intermezzo e l'epica tastierosa del settimo). Interessante l'idea - peraltro sempre più diffusa, vedi cose analoghe fatte col repertorio di J Dilla, per non dire di Christian Prommer con l'house - di suonare cover di produzioni hip hop ormai classiche. Il risultato è intriso di passione e piacevolissimo, forse a tratti un po' troppo sottofondo, ma come per molti prodotti di questa area stilistica e di questo pugno di label tra loro affratellate, l'appassionato ha davvero di che godere. Pare uscirà presto anche un singolo su vinile con due pezzi cantati da CL Smooth, spalla vocale per antonomasia di Rock.(6.9/10) Gabriele Marino Music Go Music - Expressions (Secretly Canadian, Novembre 2009) G enere : iperpop Della serie californiani estrosi, i Music Go Music debuttano via Secretly Canadian con un disco pazzesco. Immaginatevi un minestrone di pop, prog, disco e folk con la barra puntata verso i primi seventies, nello specifico: la verve pastello degli Abba, il torrrido algore moroderiano di Donna Summer, l'enfasi bucolica dei Fletwood Mac e quella tronfia degli Electric Light Orchestra. Un frankenstein affabile ai limiti dell'untuoso con velleità arty, inseguendo un'aura po-mo d'accatto che ce li rende assieme irresistibili e insopportabili. La penna non gli manca, vedi quella specie di Waterloo aggiornata che risponde al titolo di Light Of Love, la pseudo suite quasi King Crimson di Reach Out, oppure quella Love, Violent Love capace persino di sbriglire caligini Ultravox e giochetti asprigni Syd Barrett. In qualsiasi modo tiri le somme, alla fine ti ritrovi con un adorabile baraccone, improbabile e impagabilmente balzano. (5.8/10) Stefano Solventi Naam - Naam (Tee Pee, Novembre 2009) G enere : heavy psych Trasuda spiritualità da ogni poro l’universo Naam, terzetto americano di lungocriniti asceti e devoti al versante più mistico del suono psichedelico odierno. I 17 monolitici minuti di The Kingdom che danno la stura all’omonimo esordio danno il segno del tutto: un crescendo sepolcrale sul quale si innestano rifferama hard-rock e vocals effettate che, una volta raggiunto il climax, si accartocciano su se stesse in un tripudio di miasmi mediorientali e intrecci doom-stoner. Gli Sleep privati della fattanza e gli Om dell’ultimo periodo (quelli della svolta mistica, per capirsi) sono gli ovvi punti di riferimento del suono arcaico del trio, ma non di limitati orizzonti si tratta; fuzz a gogo e una certa predilezione per atmosfere spacey e kraute tirano dentro l’ipotetica cosmogonia del fenomeno Naam anche Can e Hawkwind, Black Sabbath e le nuove leve dell’heavy-psych contemporaneo (Mastodon, Earthless, Ancestors), Monster Magnet e certi campioni open-minded dell’era grunge, Soundgarden su tutti. Naam, insomma, ci consegna una band in totale espansione, capace di insidiare a breve i mostri sacri del genere, e nello stesso tempo consacra la scena heavy psych newyorchese, in cui Ryan Lugar (chitarra, voce), John Bundy (basso, voce) e Eli Pizzuto (batteria, percussioni) sono in bella compagnia: White Hills, Weird Owl e perché no? pure Psychic Ills.(7/10) Stefano Pifferi Naked Musicians - Emiliano Culastrisce (Improvvisatore Involontario, Novembre 2009) G enere : jazz - avanguardia Improvvisatore involontario frantuma e reinventa. Si autoreplica. In una serie di progetti e in collettivi di vario genere che hanno il solo scopo di non avere (apparentemente) uno scopo. Tra i tanti, i Naked Musicians di Francesco Cusa. Un gruppo che fa della forma un informe sformato di genere imprecisato. Del jazz una stanza senza più pareti ma alberi. Dell'avanguardia una massa di note per masse pensanti poco massificate. In questo terzo episodio del gruppo si incrociano voci che sono loops ad uso e consumo della ritmica (ilfunkydinoccolatoilfunky di Emiliano e Biagio in funky town), urla e battere tribale su ottoni à la Archie Shepp periodo Attica Blues (Emiliano e gli animali felici), sordine, hard bop e chitarre noise (Emiliano e il codice fiscale), samplers e nonsense in rima (Emiliano Biagio e l'incanto della sirena). Con lo scopo di recensioni 65 highlight Zelienople - Give It Up (Type Records, Novembre 2009) G enere : psichedelia Musica che muove fantasmi e animi inquieti come marionette in un teatrino al di là del tempo, ovvero come flirtare con l’ambient e la psichedelia facendo tesoro della tradizione. Gli Zelienople del 2009 meritano di essere considerati gli unici legittimi eredi di gente ben oltre la sostanza come Talk Talk, Bark Psychosis e Slowdive. Give It Up è infatti lavoro che non si presta a fraintendimenti e gioca subito, in maniera quasi istintiva, la carta della classicità. In altre parole, il trio di Chicago sta provano ad interfacciarsi con i propri modelli travalicandoli secondo il proprio gusto e la propria estetica e qui sta la vittoria del loro approccio a tratti quasi calligrafico con la band di Mark Hollis. Pertanto questo nuovo lavoro si permette subito un intro di oltre sette minuti (Aging) che, senza alcuna paura di suonare eccessivamente lenta, fa della proprio del suo passo malfermo e sospeso l’ideale porta di ingresso in un territorio languidamente psichedelico. Musica che sa essere felice ibrido tra i Pink Floyd più mistici e gli Slowdive più epici (Can’t Stop) o tenebrosa discesa nel mondo dell’ombra al suono di un Badalamenti ai confini della realtà (All I Want Is Calm). Il meglio, i tre lo raggiungono quando la forma convive con l’astrazione, quando i residui di una forma canzone ormai provata ed abusata in tutti i modi, passano in maniera quasi impalpabile nel regno dell’informale (Little Little Eye-Full, Flurry). Ben più a fuoco e rifinito del precedente lavoro su Type, Give It Up consegna i suoi autori tra gli eroi della psichedelia anni 2000. (7.5/10) Antonello Comunale sincopare testi e musica in un'entità inscindibile e al tempo stesso “involontariamente” coerente con il tema centrale del brano. Il tutto entro confini prestabiliti da particolari sonori (emblematica la ripetizione ad libitum di “piorrrrrrrea” in Emiliano e la Piorrea), sovrapposizioni di livelli, timbriche lontane anni luce tra loro, liriche che giocano sapientemente col significato e col significante musicale. Registrato dal vivo - come del resto tradizione di Improvvisatore Involontario vuole - e realizzato in forma di concept da una ventina di musicisti di varia estrazione, Emiliano culastrisce pare un parto assai convincente, in più baciato da una “semplicità” d'uso che non diresti possibile visto il polverone anarchico sollevato dai settantatrè minuti di programma.(7.5/10) Fabrizio Zampighi 66 recensioni Namosh - Keep It For Later (Crippled Dick Hot Wax, Novembre 2009) G enere : synthpop Mitteleuropeo fino all’osso, Namosh. I suoi synth risuonano della tradizione che ha investito anche gli Ultravox di Vienna, ma lui è capace di rivolgersi, oltre che al suono, alle melodie di quasi-decadentismo da centro-Europa. Come See Me è un manifesto, uno dei brani sci-fi-synth-pop più riusciti che mi sia capitato di ascoltare. Una canzone bilanciata e progressiva come appunto solo quegli Ultravox avevano saputo fare. Contiene e si chiude con quell'organo che pare essere lo strumento preferito di Namosh, al secolo Namosh E. Arslan, tedesco classe ’81, di origine curda e di stanza a Berlino. Peccato che poi Who Were You? sia una ballata melensa che scivola sulle proprie intenzioni, cioè omaggiare il synth-pop di fine Ottanta. Del resto sta tutto qui il filo su cui cammina Namosh, in bilico tra proprietà di penna e caricatura. Arslan è un poseur, che sa spaziare da Jean Michel Jarre (Farever) al canto a cappella (Entrain). È un performer, che comunica la voglia di salire sul palcoscenico anche mentre lo si ascolta su disco. È uno che immaginiamo vestito da ballerino dada, a fare gesti con una mano, mentre con l’altra suona la tastiera in Two Pieces (in cui risuonano i Tuxedomoon, altro gruppo che parla pietanze europee). In questo modo ha convinto anche Bjork, che nel 2005 ha dichiarato di ritenere Cold Cream (singolone elettropop a firma Namosh, appunto, confluito l’anno dopo nel primo album, Moccatongue) la sua preferita dell’anno. E ci siamo convinti anche noi.(7/10) Gaspare Caliri New Rhodes - Everybody Loves A Scene (Urtovox, Novembre 2009) G enere : indie pop rock Per questo quartetto bristoliano è il secondo album, dopo quel Songs From The Lodge che nel 2006 consentì loro un paio di singoli nelle classifiche UK ed una certa fama nel paese del sol levante. Non era abbastanza, ovviamente, per una band la cui ambizione presumo sia pari alla freschezza del piglio pop, una formula che sbriglia melodie baldanzose e un pizzico indolenzite in sella a chitarre generose ai liiti del volitivo. Ogni complessità emotiva risolta anzi spianata in un vero e prioprio tritatutto adrenalinico, un po' come usano fare da qualche tempo gente come Killers, Bravery e Kooks, tanto per abbozzare la cerchia stilistica. Nel caso specifico, la voce di James Williams possiede quella marcia in più che ce li fa sembrare dei nipotini pettoruti degli Smiths morsi da una tarantola che arriveresti persino a dire Hüsker Dü (solo e soltanto per il piglio da gioiosa macchina da guerra pop). Schema tattico che si prende una tregua con la sola The Bells Of St. John, ballatina sognante pescata in un acquario fifties, buona a scomodare scampoli d'immaginario New Pornographers, fermo restando lo stampo brit della cosa. Molto talento e poco genio, contagiosi ma sostanzialmente innocui, ergo: radiofonici a palla. Ci siamo capiti?(6.4/10) Stefano Solventi Nina Kinert - Pets & Friends (Ninkina Recordings, Novembre 2009) G enere : folk - rock Gioca, Nina Kinert. Con tutto quell'immaginario folk anni Settanta che va da Leonard Cohen (Love Affair e Me Love U Long Time) in avanti. Filtrato dall'algido trasporto di una Svezia ABBA citata più dal look nostalgico apposto su una già generosa Madre Natura - ciglia finte lunghissime, fascia per capelli, trucco eccessivo - che nella musica, eppure trasversale al pari di una Goldfrapp pop su obliquità P. J. Harvey mixate a certe cadenze istituzionali in stile MTV (A-Worn Out). Cerchiamo di essere più precisi. Combat Lover è un singolo ragionato, tanto che dentro ci trovi batterie Jesus & Mary Chains, un tribalismo percussivo Joy Division e certe sonorità di mellotron e harpsichord che ti spediscono direttamente nell'orbita di un cosmic rock da zeppa. Che pero', nel caso specifico, non è rock in senso classico, ma una specie di ballata wave malinconica con un approccio quasi disco. Chiaro, no? Nei minuti successivi ti aspetteresti come minimo di continuare con lo stesso registro e invece Golden Rings e Get Off introducono una Cat Power con carta di identità svedese; I Shot My Man recupera un blues desertico che sarebbe piaciuto a una Nancy Sinatra progressista come a dei Sons & Daughters meno sboccati; Beast è Tori Amos ai confini con l'Islanda; The Art Is Hard è la Harvey dell'ultimo disco ma rinsecchita su una drum machine. Siete confusi? Anche noi. Dote maggiore della Kinert è la capacità di rivitalizzare le influenze, mescolando strumentazione e arrangiamenti in un caleidoscopio stilistico che garantisce una certa “libertà” espressiva. Il tutto finemente calcolato e congeniale a un pop ingarbugliato che ti si appiccica addosso, a capacità vocali e musicali sopra alla media, alle qualità di una scrittura che non si lascia troppo sbugiardare .(7.2/10) Fabrizio Zampighi Notwist (The) - Music From Storm (OST) (Alien Transistor, Novembre 2009) G enere : soundtrack Strano cimento per i Notwist, quello della soundtrack per il political thriller Storm del regista tedesco Hans-Christian Schmid. La gravità delle situazioni spinge il mood sonico verso un ambient carico di inquietudini tese, rese con un piglio minimale recensioni 67 ma intenso, parente in qualche modo degli scarni quadretti periferici imbastiti dai primi Godspeed You Black Emperor (tolte ovviamente le sfuriate elementali), cosicché una Jan o una Jonas sbocciano da bordoni caliginosi e ossessivi su cui agisce una malferma teoria di chitarra e tastiere, quando non prevale la struggente malinconia degli archi (come nella toccante Storm 2). Altrove la trama è più sintetica, quasi una folktronica incupita e dimessa (vedi The Hague), oppure un Autechre spossato (Prayer), mentre un pizzico dei "soliti" Notwist fa capolino in Sarajevo 2, se non altro per quell'arpeggio di banjo che però non alleggerisce il senso di generale apprensione. Una soundtrack pura, funzionale alla pellicola cui s'ispira, e in questo senso riuscita. Meglio arrangiata che ispirata, a dirla tutta, però almeno sorretta da una progettualità forte.(6.5/10) Stefano Solventi Oh No - Dr. No's Ethiopium (Stones Throw, Dicembre 2009) G enere : basi hip - hop E ci torniamo su. La quantità influenza la qualità, il come il cosa. Ma non sempre e non troppo. Oh No raddoppia (quantità) i pezzi della tracklist presentata a ottobre e rimescola la sequenza (il come). Tra le new entry ci sono cose interessanti, e in generale non mancano singoli numeri molto buoni (specialmente quelli in chiaroscuro come il dilliano Melody Mix, già nella versione "light"), ma si trovano come dispersi tra troppi pezzi che non vanno oltre l'intermezzo. Il giudizio di fondo resta insomma inalterato, resta la sensazione che il nerdismo jacksoniano - che ben conosciamo - non abbia qui giovato. Cresce un po' il voto perché è (opportunamente) aumentata la carne al fuoco.(6.4/10) Gabriele Marino Owen - New Leaves (Polyvinyl Records, Ottobre 2009) G enere : chamber pop Se non ci siamo persi nulla per strada, New Leaves è l’album numero sei di Owen, pseudonimo dietro cui si nasconde Mike Kinsella in libera uscita dai Joan Of Arc. Il titolo promette “nuove foglie” e di 68 recensioni conseguenza nuovo è anche il volto del Nostro, che risulterà gradita a quella fetta di palato indie che ama le belle maniere e che verso Red Krayola e Gastr Del Sol ha sempre nutrito diffidenza. Registrato lungo l’arco di un biennio, il materiale non risulta disorganico e in tal modo indica che la mossa è frutto di pianificazione. Lascia viceversa perplessi il risultato, gradevole benché (eccezioni il brano omonimo e la ritmata Good Friends, Bad Habits; la Amnesia And Me al gusto di primi Belle & Sebastian e un’elaborata The Only Child Of Aergia da post-rock decaffeinato) poco incisivo compositivamente. A proprio agio con atmosfere argute, pregevoli storture o alvei acustici, Mike non riesce ad azzeccare le melodie adatte al pop d’autore; altra la sua indole, coglie la trama intimista e le lusinghe cameristiche, conserva la cura formale e l’arguzia dei testi. New Leaves dondola come un acrobata sulla corda tesa: poiché l’artista possiede esperienza e talento, cade solo qualche volta e sempre sulla rete. Raramente però le sue evoluzioni lasciano a bocca aperta, così che lo sguardo finisce catturato altrove.(6.5/10) Giancarlo Turra Peanut Butter Wolf - Straight To Tape 1990-1992 (Stones Throw, Settembre 2009) G enere : H ip H op Cinquanta minuti di produzioni inedite targate PBW 90-92, la "four track era" come la definisce lui, quando ancora viveva con la mamma e reclutava i rapper di San Jose per fare una compila, forte dello status di unico uomo nella zona a possedere un campionatore. Il progetto venne abbandonato per lavorare col solo Charizma (Charles Hicks), l'amico del cuore e il partner musicale più dotato, ucciso per strada nel 1993, gettando PBW nella disperazione totale. La rinascita nella musica come unica possibile salvezza con la fondazione della Stones Throw nel 1996. Questi pezzi erano intesi come ruff draft da portare in studio e rifare, realizzati in maniera che definire artigianale è eufemismo, zero effettistica e qualità audio da bootleg ripulito (sono in pratica dei provini), ma le produzioni di Peanut sono davvero colorate e freschissime, e le performance dei rapper spesso sorprendenti (Deshee, N.O.T.U., Quiz One, Peace Maker, Mc Twan, Raised by Suess, Double Duce & Kid Krush e ovviamente Charizma). Goduria che trasuda dalla passione.(7/10) Gabriele Marino Pecora - Le patrie balere ep (Dizlexiqa, Maggio 2009) G enere : punk hip - hop Come se gli Altro si mettessero a fare hip hop, o come se Frankie Hi NRG si lasciasse produrre dai Dälek per una volta più pacificati del solito. L'urgenza punk dei Pecora non diviene urlo a pieni polmoni ma elucubrazione tagliente volta a ripulire la realtà dalle fiabe e a cogliere il lato grigioalienazione di una luna in technicolor. Nel gregge belante e catodico l'ovino dei quattro milanesi è ovviamente nero, sta fuori dal gruppo e lo prende a zoccolate ipotizzando un tacito patto di non aggressione tra sistemi di potere monoteistici (Benedetto) e dichiarando resa all'attuale sistema economico dominante (L'erba voglio), dove ogni forma di consumo alternativo è solo il lavacro di coscienze non meno conformate. 
 Qualunquismo? Voglia di dire troppe cose in troppo poco spazio? Può darsi, ma a parte l'effetto tazebao di alcuni passaggi (Il qualcosologo) - anche derivazione di una precisa appartenenza, testimoniata dalla rilettura Crass di The sound of free speech - dei Pecora interessa il punto di vista spiazzante su basi ridotte all'osso, la forza sillogica che preannuncia impasti chitarristici abrasivi. Elettrica, basso e groovebox per istanze tutte da sviluppare insieme a un lavoro maggiore sulle voci (maschile e femminile) e ad un'eco Oneida che scorre sotterraneo e che potrebbe rendere il tutto ancora più avvincente di quanto non lo sia ora. Cresceranno i Pecora, il gregge purtroppo no.(6.6/10) Luca Barachetti Pelican - What We All Come To Need (Southern Lord, Ottobre 2009) G enere : P ost - metal Cosa può promettere un nuovo album dei Pelican di Chicago in questo tardo 2009? E soprattutto: mantiene quello che promette? Laurent SchroederLebec (chitarra), Trevor de Brauw (chitarra), Bryan Herweg (basso) e Larry Herweg (batteria), in realtà, sono gruppo ben meno monolitico di quanto distrattamente sembrerebbe. City Of Echoes (2007) aveva raffinato quella formula di post-rock strumentale che il precedente Australasia (2003) pian piano sottraeva agli idoli Neurosis e Fugazi per spostarla persino verso ambiti dreamy, ambient, assolutamente raffinati nell'intreccio chitarristico marchio di fabbrica del gruppo. Che in questo nuovo What We All Come To Need perviene ad una sintesi (già adombrata nel più recente ep Ephemeral): squarci sinfonici, melodie sempre più distese un partiture latantemente prog (Glimmer) e in virtù della quantità di elettricità diffusa dagli amplificatori (The Creeper) persino psycho-metal. Partecipano al disco un'orda di graditissimi ospiti: Greg Anderson (Sunn O)))), Aaron Turner (Isis), Ben Verellen (Harkonen e Helms Alee) e Allen Epley (The Life & Times, Shiner). Un disco che è fumigante e complesso al contempo, che suona posato e veemente ad un mentre, che sancisce la maturazione (di disco in disco, anno dopo anno) dei Pelican verso una forma di strumentale 'post' (metal? dreammetal? psych-metal?) "assoluto".(7/10) Massimo Padalino Phill Niblock - Touch strings (Touch Music UK, Novembre 2009) G enere : M acro -M inimalism Dei tre movimenti in cui è divisa la quarta mastodontica impresa di Niblock per Touch, Poure è quello che mette d'accordo tutti. L'ameranno i tantrici adoratori del para-sinfonico, i naturalisti del neopaganesimo acusmatico e i divoratori di decibel ammainati alla deità Sunn O))). E' anche la traccia meno processata e quella più ricca di dettagli e misticismo ma come negare la bruttezza di Stosspeng? Un corpo unico imbottito di tensioni e distensioni di 59 minuti, un vagone di gradazioni monocromatiche e velocità variabili, una ghost-sonata dronata... Se li porterà anche bene gli anni Niblock, eppure non possiamo tacergli un'ambizione per la "forma pura" che sconfina troppo facilmente nell'accademismo forzato. Un'evidenza la ritroviamo sostanzialmente nell'uso delle macro-strutture circolari basate sul medesimo canovaccio temporale, omogeneo e lineare. Ma qui si rischia anche peggio: duplicare se stessi all'infinito.(6.3/10) Salvatore Borrelli Pipers - No One But Us (Materia Principale, Novembre 2009) G enere : brit pop Non ci girano intorno, i Pipers: quattro napoletani dediti al verbo del brit-pop. Lo fanno del 2007, con tanto entusiasmo e convinzione da guadagnarsi recensioni 69 il ruolo di opening act per le date italiane di The Charlatans e Ian Brown, ottenendo altresì il ticket per suonare in UK con relative note di merito da parte della stampa d'Albione. Ed eccolo quindi inevitabile l'album d'esordio, intitolato - tra l'arguto e lo sbruffone - No One But Us, nel quale appunto ribadiscono i paletti attorno alla loro sbandierata attitudine. Che è brit nel senso di indie-pop emotivo e casomai acidulo per non dire sognante. Nel guado insomma tra estro baldanzoso (come in Britpop Lovers, in pratica una dichiarazione d'intenti) e sbrigliatezza sbarazzina (la briosa Sick Of You, col coretto al sapor di college e vaghi aromi John Lennon nel ritornello), tra apprensione affabile (la title track) e turgori psych (Flourish Again, roba da cuginetti svenevoli dei Verve), passando dalla ballata popadelica di Don't Ask For More (come potrebbero dei Manic Street Preachers in fregola Elbow) a quella tra chamber e twee di Eveline (con l'indie che comunque entro gli rugge). I limiti sono quelli tipici delle band al debutto, ovvero certe cadute di tono, gli episodi interlocutori che non sanno elevarsi oltre l'insipido (è il caso di Chance e Bitter, tanto per metterne due in croce). Lo sanno tutti del resto che la differenza tra le grandi squadre e le matricole, seppur "terribili", passa anche dalla continuità dell'azione. Ragion per cui, tempo al tempo. (6.6/10) Stefano Solventi Pontiak - Sea Voids (Thrill Jockey, Ottobre 2009) G enere : post hard rock I tre Pontiak lavorano davvero all’insegna del più spinto stacanovismo: alle spalle hanno un ottimo 12" in coabitazione con gli Arbouretum, un album intitolato Sun On Sun (venduto durante i tour ma ristampato dalla Thrill Jockey) e il validissimo successore Maker che la scorsa primavera richiamò la nostra attenzione.Tutto quanto in qualcosa più di un anno, alternato con un’attività live che le cronache riferiscono intensa e convincente. Può essere fatale l’iperattività, anche per dei bravi ragazzi americani venuti su con una robusta etica del lavoro, ragion per cui ci siamo accostati un poco trepidanti a que70 recensioni sta ennesima fatica, composta, registrata e mixata in otto sessioni sparpagliate lungo tre settimane. Abbiamo dato troppi numeri, è vero, e non siamo i soli: fortuna vuole che Sea Voids prosegua imperturbabile e sardonico la rivisitazione psichedelica dell’hard a cavallo tra ’60 e ‘70 condotta sin qui. Punteggiata da limpide oasi folk (Life And Coral, It's The Life) e rallentamenti che mescolano l’acido lisergico alla codeina (The Spiritual Nurse, World Wide Prince); percorsa da echi attitudinali di Thin White Rope (la stranita Feeling, il brano omonimo) e riduzioni minimaliste del vocabolario appartenuto a Blue Cheer e Black Sabbath secondo la grammatica di Kyuss e Melvins. Un po’ come accadeva nei giovani Motorpsycho, il revival non prevarica l’esecuzione e la scrittura perché ci si volge indietro assorbendo l’ispirazione e restituendola alterata. Trucchi antichi (accordature grevi e rimbombi di batteria; distorsione stordita e stordente) che in mano ai copisti creano un buco nero di patetica nostalgia, qui respirano con personalità sfuggente e intrigante il giusto. Edizione su vinile limitata a mille copie e mezz’ora di durata da godere a tutto volume, mentre i fratelli Carney - incredibile ma vero! - sono all’opera su un altro 33 giri previsto per il 2010. Ma quando accidenti dormono?(7/10) Giancarlo Turra PULP-iTO - La vergine e la rivoluzione (Snowdonia, Novembre 2009) G enere : art wave Fanno tredici anni che i PULP-iTO si sono formati su iniziativa dei fratelli Luca e Simone Giordani. Il luogo è la provincia di Lecco. Il piano padano paranoico covava più sotto le residue scorie geniali che porteranno al canto del cigno CSI di lì a poco. I Marlene Kuntz dribblavano il testimone entrando nel vivo di una calligrafia che sarà sempre più propria, come già avevano dimostrato con Il Vile. Il momento era di transizione, in bilico sugli anni zero. Per i PULP-iTO, ormai un collettivo che di stabile aveva solo l'idea d'un rock che sperimentasse sul proprio farsi linguaggio e comunicazione, era tempo di autoproduzioni. Uscirono Kiosa nel 2001 e Gagliardo nel 2004. Il live si faceva performance sempre più strutturata. Si arriva quindi al 2008. Il combo si stabilizza in quintetto e arriva il contatto con la sempre occhiuta Snowdonia. Eccoci quindi ad oggi, a La vergine e la rivoluzione. Il piglio è punk-wave e arty, le chitarre ghignano rumore, il drumming è frastagliata nevrastenia, le elettroniche innervano le strutture imbizzarrendole, il violino taglia e cuce l'atmosfera come un brumoso retaggio High Tide. Una congettura piuttosto instabile e insidiosa capace di epico trasporto, aperture melodiche (si prenda il caso di Lei) e sarcasmo obliquo (la splendida Rivoluzione), che prende sia a modello che di mira il verbo Ferretti, alla cui voce le voci maschili (di Luca e Cecco) si rifanno fino allo sberleffo (La luna e le stelle), riuscendo talora a riarticolarne la forza in un presente che beffardamente riecheggia l'ultimo Massimo Zamboni (X-Rosmarino). Quanto alla voce femminile (è Birò aka Roberta Maddalena, tra l'altro illustratrice già al lavoro per Paolo Benvegnù e Marta Sui Tubi), quel misto di devozione e svenevolezza è un contrasto che produce delizioso sconcerto rappresentando il link più evidente con l'estetica Maisie, qualunque cosa questo significhi. Ci sono idee, c'è una direzione, ci sono svolte e scelte controverse, qualcosa che brulica dentro e intorno. Disco e band difficili da ignorare.(7.2/10) Stefano Solventi Racoon - Little Shapes (Disaster By Choice, Novembre 2009) G enere : elettronica “Il fine di Racoon non è la sperimentazione di nuove forme (shapes) sonore quanto piuttosto la ricerca di una dimensione intima e forse per questo spesso impercettibile”. Oh! Eccone uno che finalmente non si nasconde dietro il dito della sperimentazione. Uno che non sta lì a menartela con chissà quale ricerca inedita e inaudita camuffando così l’assenza di idee e la facilità con cui si fanno dischi oggi. Quello che Distasters By Choice pubblica in questi giorni è un disco di musica elettronica “pop” senza tanti grilli per la testa. Luigi Marino, artista romano formatosi al Mills College di Oakland (e che quindi una certa frequentazione con la musica contemporanea può sicuramente vantarla), con Racoon è interessato soprattutto alla vignetta elettronica, una sorta di nuovo madrigale elettro, mai eccessivamente astratto e sempre carico di una malinconica no- stalgia. Non siamo per niente distanti dagli Sparkle In Grey che pure, con le dovute eccezioni, frequentano questi ambienti, ma l’elettronica di Racoon è più orientata al paesaggio dell’anima. Tanto Squarepusher quanto Dntel, eppure sufficientemente personale.(7/10) Antonello Comunale Raoul Sinier - Tremens Industry (Ad Noiseam, Ottobre 2009) G enere : elettronica Raoul Sinier è un artigiano parigino. Crediamo sia la frase che meglio inquadra il personaggio. È uno che tratta l’elettronica come un saper fare, e così pure il disegno grafico con il suo mac, che ci mostra con auto-compiacimento. Allo stesso modo è uno che si costruisce da solo la chitarra e video-documenta l’episodio. È appunto la capacità, il sapere artigianale, che lo contraddistingue. L’opzione operativa. Da qui, il passo successivo sarebbe potuto essere un’ipertrofia documentale e produttiva. Cioè il fatto di non saper limitare il fare (e il riportare), all’interno di quel saper fare. Tremens Industry, viene da dire, è proprio la testimonianza di tale aspetto di Raoul, anche se - lo immaginiamo - questo cd e dvd sarà sicuramente frutto di un’attenta scrematura del magma di atti musica e visual realizzati da Raoul negli ultimi anni. Il difetto di Sinier è di lasciare sotto-sviluppata una questione che altri suoi colleghi più avveduti ritengono giustamente cruciale, onde evitare di rimanere nel limbo (vecchio e ormai con scarsissime chance di andare in paradiso) dell’elettronica intelligente da ascoltare. Parliamo della chiarezza estetica, dell’eloquenza e del decisionismo stilistici. È lì che capiamo solo in parte; Raoul fa parte di quella schiera che preferisce i colori freddi a quelli caldi, le figure inquietanti a quelle cristalline, i toni cupi e cyber alla serenità figurativa. Ma questa non è più una scelta da decenni.(5.5/10) Gaspare Caliri Real Estate - Real Estate (Woodsist, Novembre 2009) G enere : B each P op Matthew Mondanile ha un'evidente ossessione per l'acqua, sia essa di mare, di lago o quella al cloro di una piscina. E come più volte analizzato, il trip acquatico ha trovato in progetti come Ducktails, Predator Vision e Parasails esiti piuttosto simili nel rimanere sempre in bilico tra psichedelia, recensioni 71 kraut e free form. Nei Real Estate, ferme restando alcune coordinate di partenza, il sound si riconcilia con il pop; fate conto una versione surf/exotica dei Clean, fra tempi lenti, chitarre riverberate e voci serafiche tra Beatles, Beach Boys e Todd Rundgren. Tutto come si era intuito nei singoli usciti per Underwater Peoples e Woodsist, ma anche di più, con brani come la zuccherosa e corale Snow Days o l'ipnotica Suburban Beverage che in sei minuti rapisce ed incanta. Quello evocato dai Real Estate è, ormai si saprà, un mondo perso nelle pieghe della memoria, nascosto dietro una caligine spaziotemporale che i nostri tentano di diradare tramite un mood sonnolento, placido e dilatato. Nel caso specifico però l’uso del pop sixties non fa che aumentare la presa rapida come cemento: ascoltare Beach Comber e il suo coretto jingle-jangle per farsi una idea. Non solo atmosfere e immaginario sono sempre nel solito stile Mondanile, ma anche i titoli dei pezzi giocano di brutto alla giostra del tropical (Black Lake, Let's Rock The Beach e Pool Swimmers) e faranno sicuramente la gioia di Pitchfork. Per ora, fanno anche la nostra, contenti come bambini nel riassaporare ricordi che consideravamo persi.(7/10) Andrea Napoli, Stefano Pifferi Rodolfo Montuoro - Lola (Mythologies 3) EP (Believe, Novembre 2009) G enere : wave - canzone d \' autore C'è la parte legata al marketing. Quattro Ep pubblicati nell'arco di un paio di anni (questo dovrebbe essere il secondo) che confluiranno in un unico album nel 2010, ognuno il risultato di uno scambio costruttivo tra artista e fans e ognuno ispirato all'esplorazione della mitologia della notte. Con titoli come Orfeo e, appunto, Lola. E poi c'è la musica, un'elettro-wave traviata dagli archi che duetta con certa canzone d'autore del Battiato più facile, citando nel contempo cadenze notturne à la Giancarlo Onorato. Nel taschino la Berlino primi Ottanta e in primo piano una voce non virtuosa ma affascinante nei suoi recitati avvolgenti. Chanson obliqua, stridente ma dall'estetica ad ampio respiro. Frutto di una scrittura elegante e per nulla spaventata dallo spingersi in intellettualismi ricercati ormai appartenenti - per lo meno nella complessità generale - ad altre epoche (il progressive). In attesa di un disco "lungo" che potrebbe confermare la statura artistica di Montuoro.(6.8/10) Fabrizio Zampighi 72 recensioni Sam And Me - The Battle of Hemsby (Akoustik Anarkhy, Settembre 2009) G enere : folk psych Sam Zindel and Rowan Dawes scrivono e suonano assieme da un pezzo. Almeno dieci anni. Può esservi capitato di incontrarli nei Datura Dream, casomai qualcuno di voi abbia mai incontrato la musica dei Datura Dream (io neanche sospettavo che esistessero). Poi hanno deciso di aprire una ditta più snella e laconica, a partire dalla ragione sociale. Perché c'erano sogni pop da far decollare come piccole mongolfiere multicolori. Come innesco vale bene l'immaginario dei Flaming Lips più accomodanti, quelli di Do You Realize? per intendersi, citata non a caso nell'iniziale Sonic Boomerang, per il resto tutto un estro Beach Boys via Radar Bros. contagiato di affabili complicazioni prog. Alt, però. Non fate divagare le aspettative. Che se c'è da additare una progenitura non è certo a Coyne e compagni che si deve guardare, ma a dei più aulici Simon & Garfunkel (massimamente in London), opportunamente disciolti in una brodaglia madreperlacea insaporita da fregole psych post-moderne (lasciate perdere quindi i Kings Of Convenience). Capace cioè di travestirsi da ballatina McCartneyBrian Wilson (Green Fingers) e ammantarsi di piglio indie Neutral Milk Hotel (A Lying Down Disposition), di sfiorare le ugge technicolor dei REM altezza Reveal (I Fall, Can I?) oppure il Badly Drawn Boy ancora in grado dei più morbidi sbigottimenti (The Book, Something I Can Give). Una pacchia, insomma. Che si crogiola un po' troppo di se stessa, specchiandosi nella propria facoltà d'incantare, incantandosi. Scordando affilatura, profondità, spessore. Tutto il resto però resta. Ed è un bel sostare. (7/10) Stefano Solventi Sean Lennon - Rosencrantz And Guildenstern Are Undead (Chimera Music, Novembre 2009) G enere : soundtrack Di Jeff Buckley ce n’era purtroppo soltanto uno e stava nell’empireo con altri Grandi. Sotto, a faticare cercando un’identità, decine di figli d’arte portatori sventurati di un cognome troppo pesante per le loro capacità. Soggetti smarriti in cerca di personalità, chi più e chi meno per sempre artisticamente irrisolti. Una tragedia quotidiana, vieppiù quando nei pasticci costoro ci s’infilano con le loro mani. Perché, caro Sean Lennon, va benissimo allontanarsi dai dischi affatto male che hai sin qui pubblicato e dalle millanta collaborazioni per musicare una pellicola di Jordan Galland. Quando, però, propini incertezze orchestrali lontane dall’erudizione di John Cale e composizioni prive dell’ironia che ha reso grande Pascal Comelade o dell’umanesimo appartenuto alla Penguin Café Orchestra, qualcosa non va. Per tacere di una canzone disarticolata come Desire che nemmeno Kool Keith e Miho Hatori redimono, o episodi dove punti gli Air e precipiti in una pompa che più magna non si può. Le aspirazioni sono un macigno che non ti lascia respiro e, pur volonteroso, affastelli discreti passaggi noir ed emuli fiacco Ennio Morricone e Bruno Nicolai. Poche cose tediano come la musica che, se slegata dalle immagini che commenta, non vive autonomamente: per quello occorre una sensibilità verso la materia che qui latita. Sean, la prossima volta che tocchi qualcosa che non ti appartiene, chiedi prima il permesso alla mamma.(4/10) Giancarlo Turra September Collective - Always Breathing Monster (Mosz, Novembre 2009) G enere : elettronica Gran parte di Always Breathing Monster sta nella spiegazione della tecnica di realizzazione dell’album. Si tratta di un lavoro, austero ma non troppo (Waldflöte, Terzian), di trattamento in midi del suono dell’immenso organo della chiesa protestante di Düsseldorf. Qualcosa di assolutamente teutonico, spesso e probabilmente anche volentieri, ma non sempre. E in questo scarto ci si sguazza. Vi nuota meccanico il gioco dodecafonico e minimalista di Prinzipal, trattato sui timbri e sulle dissonanze come in una versione organista e ancora più astratta dei Denison/Kimball Trio. Così come la successiva Mechanik, un break percussivo fatto, supponiamo, dei rumori sordi dei pedali premuti senza pigiare i tasti. Scarto nello scarto. Una procedura che va al termine ultimo dell’errore (chi ha detto glitch?), citato a tre navate da Dulzian, come se fosse una sua versione per kraut d’annata. In effetti, dopo le parabole dei protagonisti del moniker September Collective (Paul Wirkus, Ste- fan Schneider, Barbara Morgenstern), come di tutta la compagine elettronica tedesca, questi suoni sembrano per certi versi un ritorno all’austerity, intellettuale e analogica. Non tanto per l’organo in sé (del resto alla Morgensen e al suo piano ci siamo già abituati). Ma per aver lasciato che, come si diceva nelle prime righe, dato strumento fosse il protagonista indiscusso della pubblicazione. E che la tecnica, il modus operandi, venisse prima dei cervelli (che evidentemente, mordendo la coda al cane, lo hanno scelto). Del resto lo abbiamo già segnalato in altre sedi. Accanto alla decostruzione (Sasqualtera) c’è la leggerezza (in senso calviniano). La combinazione è sempre più rinfrancante. La risposta contenuta nella domanda: dove possiamo arrivare se frammentiamo il suono magniloquente di un organo a canne? Arriviamo a fare della piccolissima scala un ambiente. E questo è ciò che più conta di dischi come questi.(7/10) Gaspare Caliri Sergio Cammariere - Carovane (EMI, Ottobre 2009) G enere : canzone d ' autore Nel 2002 Dalla pace del mare lontano lo propose come nuovo esponente di una scuola d'autore che passando per Umberto Bindi e Sergio Endrigo guardava agli chansonnier francesofoni (Jacques Brel e Charles Aznavour su tutti) senza accantonare uno spirito jazzistico nato e cresciuto sotto l'aureola di Keith Jarret. Un ottimo “esordio” - con virgolette d'obbligo, dato che il primo passo Sergio Cammariere lo fece in realtà già nel 1993 con I ricordi e le persone insieme al fido paroliere Roberto Kunstler - seguito poi da prove non altrettanto all'altezza, che rimanendo stabili nelle coordinate sonore, con giusto qualche tonificante scampagnata carioca ogni tanto, non trovavano brani capaci di eguagliare la forza dei primordi e lasciavano in bella mostra un canovaccio ripetuto e ripetuto ancora. Ora, giunto al quinto disco in studio, Cammariere prova una svolta non del tutto azzardata ma significativa. Carovane infatti amplia lo spettro d'azione del cantautore crotonese verso lidi etno, speziando recensioni 73 il solito connubio da quartetto jazzistico formato da piano-contrabbasso-batteria-tromba (di Fabrizio Bosso) o sax (di Javier Girotto) più voluttuosa orchestra con aromi indiani di tabla e sitar. Il risultato, stante un effetto un po' da cartolina quasi inevitabile dato l'innesto didascalico su un marchio a sua volta consolidato nella memoria, non è male, e non è quindi aleatorio che i brani migliori tra i tredici del disco siano quelli dove la speziatura si realizza in forma canzone (La rosa filosofale), magari con qualche striatura elettrica (di Michele Ascolese sul cinemascope Senti), o in strumentali vicini ad un Ludovico Einaudi virato all'improvvisazione moderata (Varanasi, La forcella del rabdomante). 
Che sia quella world la strada da seguire in futuro per Sergio Cammariere? Di fronte ai risultati di altri pezzi più vecchio stampo, dove è tutto perfetto ma anche piuttosto soporifero (Insensata ora, il singolo Carovane), viene da dire razionalmente di sì. Ma a pelle la sviata indiana appare momentanea, appunto cartolinesca. Anche se l'augurio è ovviamente di sbagliarci.(6.2/10) Luca Barachetti Shackleton - Three EPs (Perlon, Ottobre 2009) G enere : minimal dubstep Sam Shackleton è il personaggio dietro Skull Disco (assieme all'amico Appleblim), giovane label di culto pompata da opinion leader come The Wire e Mary Anne Hobbs, vicina al mood asciutto e astratto di gente come Coki, Mala e Digital Mysticz (li trovate tutti su Dubstep Allstars Vol. 07). Affida però alla tedesca Perlon, decisamente fuori dai soliti giri dubstep, il debutto sulla lunga distanza: nove pezzi su tre EP. Il perché è abbastanza chiaro: Shackleton è un produttore che non parte dal dubstep e che ha fatto sua prima di tutto la lezione della minimal techno (da Thomas Brikmann alla Basic Channel) e della deephouse minimalista (dalla jazzofilie delle origini agli elicotterismi di un revivalista radicale come Omar S), tingendo il tutto di tribal, facendone il cuore di un desolato scenario dubstep. Una minimal che si veste di dubstep, un dubstep che si nutre di minimal. Dici tribal e pensi a Luciano (che guardacaso su 74 recensioni Perlon ha stampato delle cose, come del resto Ricardo Villalobos, con cui il nostro ha collaborato), ma qui ovviamente non c'è nessuno tributo al sole, semmai colori scuri illuminati dalla bruma londinese. Le composizioni ci sono (scenari ambientali pittati benissimo), nessuna ruffianeria timbrica, e però vince lo stesso quello: un suono che sa di organico, legno su legno e pelli tirate, come in molte delle migliori cose electroniche degli ultimi anni, dalla gommosità dei Cobblestone Jazz alla porcellana e al budello di Bruno Pronsato e del nostro Andrea Sartori. Minimalismo sì, e fino al pauperismo produttivo di There's a Slow Train Coming, ma con puntate anche più generose come in Mountains Of Ashes. Disco austero, compatto, elegante. Musica desolata ma non disperata, in questo Shack diverso da Burial o Flying Lotus.(7.5/10) Gabriele Marino Sight Below (The) - Murmur EP (Ghostly International, Dicembre 2009) G enere : techno shoegaze Per il nuovo Murmur Ep,The Sight Below chiama a sé Simon Scott degli Slowdive affidandogli il remix di At First Touch. E' la conferma che il producer di Seattle, oltre agli omaggi (vedi Glider) e alle parole (vedi interviste), muove i fatti. Tra le quattro tracce, due delle quali inedite, si disgiunge la title track dal beat ipnotico (mutuato al solito dalla Basic Channel), dalle coltri dreamy e gli echi dub prossimi a Deadbeat. Wishing Me Asleep, invece, rammenta i migliori momenti di Glider, mentre il lavoro di Eluvium, No Place For Us (dall’omonimo Extended del 2008, in download gratuito via Ghostly) acuisce il muro dreamy (e la battuta a farsi rantolo incantevole). Di contro, Simon Scott spoglia At First Touch (che apriva il debutto adulto) d’ogni fattezza techno: ne estirpa il battito per farne brumosa ambient isolazionista. Per gli interessati, l’edizione in vinile comprende The Sunset Passage remixata da Biosphere. P.s. The Sight Below e lo stesso Scott sono al lavoro per del nuovo materiale.(6.5/10) Gianni Avella Six Finger Satellite - Half Control (Load Records, Anchor brain Aprile 2009) G enere : electro - rock Come chiariamo da altre parti su Sentireascoltare, Half Control non è la “nuova” fatica dei Six Finger Satellite: registrato nel 2001, l'album rappresenta il seguito cronologico a Law Of Ruins, che undici stagioni or sono li mostrava lucidi adepti krautrock sotto la supervisione del semisconosciuto James Murphy. Costui se ne sarebbe andato poco dopo per mietere meritati allori (e con lui Juan McLean) ibernando la sigla fino ai giorni nostri. Messi allora da parte “ubi maior”, gli otto brani vedono la luce remixati e affidati alla conterranea Load e raccontano di un gruppo in stallo, concentrato su un appena discreto martellamento noise-punk con l’elettronica in un angolo, smarrito dentro l’abbondanza di aggressività e fracasso senza risolverli dal punto di vista compositivo. Erano con tutta probabilità indecisi sul da farsi, i Nostri, cercavano di reagire incanalando la frustrazione o poggiandosi sulle rare certezze; da brava gente che alle risposte preferiva i punti interrogativi, inciampano sovente - le uniche eccezioni una Artificial Light potentemente elegante e l’oscura epica Bored Oracle - in rabbia ed energia fini a se stesse. Prigionieri del proprio genio, si prenderanno una lunga pausa per tornare rafforzati e maturi. Fotografia della confusione di quei giorni, il disco è di spietato rigore storico, come si conviene allo scomodo ruolo che incarna.(6.5/10) Giancarlo Turra Slayer - World Painted Blood (American, Novembre 2009) G enere : T hrash - metal Sarà poi vero che agli Slayer gli si chiede solo di esistere e di non incappare in incidenti di percorso come fecero a loro tempo i Metallica. Soltanto tre anni fa usciva Christ Illusion, che oltre a vedere il ritorno dietro i tamburi dello storico Dave Lombardo, fotografava il combo californiano in ottima forma, dopo prove non memorabili quali God Hates Us All e Diabolus in Musica. World Painted Blood cerca di svecchiare la formula pur mantenendo saldi i piedi nella tradizione. Andatevi a sentire le rasoiate iperveloci e abrasive di Unit 731, Hate Worldwide, Psychopathy Red o Public Display of Dismerberment, e capirete che Kerry King e soci non hanno nessuna voglia di appendere gli strumenti a chiodo, anzi. Si fanno apprezzare anche midtempo heavy, scarni ed essenziali come la title track o Beauty Through Order, a metà strada tra South in Heaven e Divine Intervention. Da segnalare il ritorno ai bei tempi di Jeff Hanneman che firma sei pezzi degli undici totali portando la band un passo prima di quel cul de sac nu-metal che fu Diabolus in Musica. Le liriche riescono ancora graffiare come si deve (la critica antiamericana di Americon, l’atto d’accusa verso la religione organizzata di Not of this God), testimoni di un invecchiamento dignitoso senza improponilbii appelli a pacchiani “ritorni alle origini” (Death Magnetic vi ricorda qualcosa?).(7/10) Nicolas Campagnari Sudden Weather Change - Stop! Handgrenade in the Name of Crib Death 'nderstand? (Kimi Records, Novembre 2009) G enere : indie noise Ah, la gioventù sonica. Rifiorisce sempre, con la tenacia di un salnitro, come la celebre ruggine che non dorme mai. E' uno spettro che si aggira per il mondo, almeno in quella parte di mondo devota al verbo del rock. E' il leviatano bianco (bianco come il rumore) che abita gli abissi, riemergendo per marcare una mappa di apparizioni ubique. Prendete i Sudden Weather Change, quintetto di Reykjavík al debutto: in loro si agita forte la fregola Sonic Youth, è un intercalare che strattona la vena espressiva fin dall'iniziale Kilgore Trout III e continua a pulsare - inabissandosi e riemergendo - nelle restanti dodici tracce. Durante le quali si fa luce altresì una febbre melodica indolenzita che sembra rifarsi ad uno strano connubio Robert Smith-Greg Dulli. Un quid appassionato e malsano che trova apoteosi nella melmosa Pray Mode (con altresì echi dello scabro lirismo Crazy Horse altezza Weld) per poi esorcizzarsi nel trafelato punk'n'roll di Ampeg!. Fermo restando quel caracollare sperso e convulso denuncia chiare ascendenze lo-fi e post-post, segnatamente Pavement (immancabili) e Polvo (immarcabili), una devozione che non si fa mancare contagi electro e ammiccamenti punk funk. Merito di questi ragazzi è saper esprimere entusiasmo come se fosse urgenza, districandosi tra spasmi e burrasche in direzione di un'epica garagista che riesce a suonare genuina, congrua, mai tronfia malgrado i tanti ingredienti e l'ampiezza della portata. In ragione di ciò, perfettamente attuale.(7.1/10) Stefano Solventi recensioni 75 Tarwater - Donne-Moi La Main (OST) (Gusstaff, Novembre 2009) G enere : S oundtrack La seconda uscita per la polacca Gusstaff vede i Tarwater (e l'ospite Stefan Schneider di Mapstation, To Rococo Rot) alle prese con le musiche di un road movie diretto dal regista Pascal-Alex Vincent e un sound anche parecchio distante dalla formula del duo. Dimenticatevi dunque il sound wavey'n'eighties e pensate a certo folk smaltato dell'America dagli spazi sconfinati: c'è il tratto (non il fingerpicking) del John Fahey amato profondamente da Jim O’Rourke, la spruzzata ambientale-elettronica tipica della compagine berlinese, ovviamente tutto il sostrato post-rock europeo che tutto ciò comporta, e il tocco dubby specifico di Mapstation. Il mix finale, vincolato dal regista anche attraverso l'indicazione di determinati strumenti da utilizzare (banjo, armonica a bocca e fisarmonica), presenta un'attenzione rurale resa con trame di chitarra e una cura spaziale riprodotta attraverso fascinazioni morriconiane.Tentazioni spaghetti ampiamente sedate comunque, e nella tipica maniera post per mano di ricchi contrappunti (i citati strumenti più tastiere varie, effetti, vibrafono, oboe ecc.) e risultati non distanti dai Califone. Sono pertanto le tre canzoni a riportarci su binari propriamente tarwateriani anche se, compiutamente, soltanto nella finale Chairs li si riconosce appieno, benché non nella forma migliore. E' la colonna sonora tutta a soffrire - come avvantaggiarsi - dell'impalpabile personalità. La bella e cortissima Le Chemin Traversait La Forêt (ampio spettro strumentale, ricco interplay tra gli strumenti) è l'unica a godere di un certo peso, altrove è un attento smalto sonoro al film. Solo per cultori ma anche un approfondimento ambientale dell'ultimo lavoro dei Tarwater, Spider Smile.(6.5/10) Edoardo Bridda Thomas Function - In The Valley Of Sickness (Fat Possum, Dicembre 2009) G enere : rock eighties La NY eighties punk rock del fu Jim Carroll e di Richard Hell, ma anche dei Violent Femmes ibridati Modern Lovers attraverso Jerry Harrison, con dosi di powerpop e country: questi i riferimenti principali dei Thomas Function, gruppo proveniente da Huntsville, Alabama che si era fatto notare l’anno scorso con l’esordio Celebration! al quale avevamo dedicato spazio ed approfondimento. 76 recensioni Una voce convulsa, quella di Joshua Macero, che ricorda Tom Verlaine, un’acidità palpabile, un senso del divertimento, dell’immediatezza e della furia del rock’n’roll che, se non raccontano niente di nuovissimo, lo fanno da post-tutto come avviene diffusamente in questi anni. Ma qui l’attitudine conta, eccome, per far distinguere i poseurs (pensiamo a Strokes e compagnia) da chi, come i Nostri, riprendono quelle sonorità per costruire qualcosa che abbia un senso, musicale ed esistenziale, oggi. E’ quindi musica, quella della band, sentita e vissuta sulla propria pelle, e si percepisce, senza artifici di sorta. Un buon dosaggio tra scrittura e produzione, così come era avvenuto per il primo album, del resto, fanno di questo secondo lavoro, se non il botto, difficile probabilmente con questo tipo di sonorità, un buon proseguimento di carriera.(7/10) Teresa Greco Tom Waits - Glitter And Doom Live (ANTI-, Novembre 2009) G enere : blues Diciassette pezzi dal tour europeo e americano del 2008 in un cd, mentre il secondo, Tom Tales, contiene un lungo monologo di affabulazioni alle quali l’autore americano non è di certo nuovo. Un tour celebrato, Glitter And Doom, che l’anno scorso lo ha visto portare sui palchi tutto il suo mondo fatto di blues fangosi, ironie e ritmi indiavolati, con la sua più tipica raucedine. Una carriera che negli anni si è mantenuta, anche negli inediti, a livelli più che buoni, segno di una longevità appassionata e mai indomita. Non fa eccezione questo album dal vivo e la relativa tournée che lo ha visto protagonista anche dalle nostre parti. Un’occasione da non lasciarsi sfuggire, anche se ascoltando qua e à i brani si percepisce una carica maggiore che forse mancava in qualche occasione nelle esibizioni italiane. Ma tant’è, il Nostro non si discute o perlomeno non ci sembra veramente ora il caso, visto dall’alto di una carriera così scintillante. Una testimonianza quindi per chi c’era e per chi non c’era, del carico di visionarietà, si veda il monologo sbilenco per esempio, che tuttora Tom Waits riesce a costruire intorno a sé.(7.3/10) Teresa Greco Tricky - Tricky e South Rakkas Crew - Tricky Meets South Rakkas Crew (Domino, Novembre 2009) G enere : dancehall electro fidget versions La pratica del versioning sta alla base del dub: riprendere le tracce senza vocals e trasformarle con i suoni contenuti nelle B-sides. Ha un po’ di questa tecnica in mente Tricky, quando pensa di rivisitare l'ultimo Knowle West Boy in chiave electro dancehall. Non è un disco di dub: il buon vecchio kid chiama in studio la South Rakkas Crew, gruppo pescato a Orlando (mescolato a origini giamaicane e sviluppi canadesi) che viaggia su coordinate ragga dancehall e ha al suo attivo remix per VIP del settore (Diplo, Sinden, Switch, Surkin, A-Track). Il risultato va da un electro col vocoder (C’mon Baby) a uno step di classe (Coalition), break con i tagli acidi (Slow) e il classico ragga (Baligaga). Aggiungici un po’ di electro 80 (Numb), laseroni (Far Away) e scopri che le coordinate si amalgamano alla perfezione con il vocione di Tricky, conferendo nuova vita all’album che sarebbe rimasto in una dimensione off-dancefloor. Divertissement godibilissimo.(6.6/10) Marco Braggion Uncode Duello - Tre (Wallace Records, Dicembre 2009) G enere : impro - rock Stavolta siamo proprio all’essenza ultima del duello. Xabier Iriondo e Paolo Cantù sono soli, l’uno di fronte all’altro, lame sguainate ad affronarsi. Lo scontro è senza esclusione di colpi. Breve, intenso e all’ultimo sangue, come nella migliore tradizione cavalleresca. Il duo si mette in gioco in toto, passione per le musiche rumorose e propensione free: due uomini e un’anima divisa in due, aderente ai due lati del 10” Tre (anche in splendida versione cd cartonato): il primo, quello primitivo, aggressivo, rumoroso viaggia sul noise espressivo (Le Stesse Cose Che Ho Fatto), tutto spigoli e curve a gomito, sfaccettato come un caleidoscopio rotto e sull’orlo della distorsione (Sono La Nostra Storia); il secondo frammenta l’animo a colpi di impro, elettrico ed acustico scavano l’uno nelle vene dell’altro mentre voci trovate rendono il tutto sfuggente ed ectoplasmico (Train Is The Place). Uncode Duello dimostra ancora una volta non solo di saper camminare nelle impervie vie dell’impro-rock più deforme e rumoroso, ma anche di indicare il cammino a chi voglia seguirli.(7/10) Stefano Pifferi Underworld - Underworld vs the Misterons - Athens (!K7, Novembre 2009) G enere : J azz e other I fantasmatici Misterons altri non sono che Darren Price e il Junior Boys Steven Hall. Cosa ci facciano in una compila che pare abbia scritto in fronte "I Love Canterbury" è un vero enigma. "Tutto il disco gira attorno al jazz e ai groove" dichiara il duo, "gli Underworld hanno sempre dato enorme importanza al suonato. C'è troppa musica automatica nei club e l'idea attorno a questo lavoro nasce proprio dalla voglia di sottolineare le tracce in cui l'intesa live avesse un'impronta determinante". I brani selezionati per Athens pescano quindi sia dalla storia della contaminazione jazz sia dai suoi recenti innesti in territori house e techno. Gli Underworld stessi sono abilmente calati nel mood (Oh) tra hip house, psych Mahavishnu Orchestra (presenti con You Know,You Know) e la tribal filo Settanta di Osunlade (The Promise). Non mancano poi le chicche. Entrambe con Brian Eno dietro le quinte come la storica ballatona 2HB dei Roxy Music (arrangiamenti jazzy per loro) e l'inedito con lo stream-of-consciousness rap di Karl Hyde, Beebop Hurry, registrato a Sydney un paio di mesi fa (ancora jazz ma in chiave ancora più moderna). Cosa abbia portato gli Underworld così dentro Canterbury è un enigma. E poi, sarà vero amore? E come fa Squarepusher (Theme From Sprite) ad innestarsi perfettamente nei Soft Machine di Penny Hitch? Ci sta ci sta...(7/10) Edoardo Bridda Uv Race - The Uv Race (Aarght!, Settembre 2009) G enere : G arage P ost P unk Gruppo di punta di una carbonara scena post-punk australiana raccoltasi attorno ad etichette come Stained Circles, Aarght! e Fifth Column, gli UV Race giungono ora al debutto sulla lunga distanza. Che siano australiani si sente fin dai primi accordi, dalle influenze più classiche come Electric Eels e Urinals giù fino a leggende locali quali X e Saints (le asimmetrie di Dog Tired e Make You Strain e il sax di Driving In Our Car che ricorda il gruppo di Chris Bailey altezza Prehistoric Sounds). Poi potremmo tirecensioni 77 rare in ballo i Tyvek di Detroit, ma è l'anima più sghemba ed obliqua del garage punk ad essere fagocitata, masticata e risputata sul piatto.(6.8/10) Andrea Napoli Vals (The) - Sticks & Stones (Electrique Mud, Ottobre 2009) G enere : psych pop Quintetto da Belfast che da qualche anno scalpita facendosi le ossa, concerto su concerto, finalmente i The Vals debuttano e lo fanno nel segno della più convinta, densa, piena devozione al verbo John Lennon. Senza restarci imbalsamati, ovvero declinandolo in diversi modi perlopiù opportuni e arguti, tipo il brit-soul squillante dell'iniziale Too Many People (una brusca festosità Style Council) o il boogie pop con tentazioni eighties di With You (un autentico gioiello power pop), o ancora le striature (le contaminazioni?) George Harrison/Kinks di These Little Reasons e infine quella sorta di estro Echo & The Bunnymen posterizzato Franz Ferdinand che carbura in Where I'm Most Alive. Ribadiamolo, perché ne vale la pena: lo spirito di Lennon è dappertutto, abita le movenze e la fibra di ogni pezzo. Un'attitudine che in qualche modo riesce a sembrare genuina, certificata da un senso d'urgenza e di vissuto che ricorda i primi I Am Kloot, tanto che una Yesterday Today si può certo decifrare come una profusione d'espedienti lennoniani (diciamo una Mind Games trasposta su un piano di affabilità assoluta) ma del tutto convincente, avvincente, irresistibile. Nei termini che abbiamo appena descritto, è un disco eccellente. (7.2/10) Stefano Solventi Very Best (The) - Warm Heart Of Africa (Moshi Moshi, Novembre 2009) G enere : W orld Non poteva che essere Londra, città-mondo da sempre epicentro di molteplici innesti e contaminazioni, a propiziare la nascita di questi The Very Best, sodalizio che unisce il duo di produttori/dj Radioclit (il francese Etienne Tron e lo svedese Johan Karlberg) ed Esau Mwamawaya, giovane talento originario del Malawi con in curriculum svariate espe78 recensioni rienze musicali. Succede che i tre si incontrano in un negozietto d’usato, si fiutano ed evidentemente si piacciono, tanto da decidere di capitalizzare i rispettivi background dando vita a una nuova creatura sonora. Risultato: il folgorante mixtape-manifesto diffuso gratuitamente in rete sul finire del 2008, oltre 300.000 download pervenuti sul loro myspace a far montare l’onda dell’hype e un altro bel colpaccio assestato ai danni delle detestabili major. Considerate le premesse, c’era da attendersi un esordio coi fiocchi, e così - per una volta - è: dodici tracce in programma, dodici formidabili schegge pop che sorvolano coordinate d’ogni genere (geografiche, musicali, linguistiche) muovendo verso nuovi orizzonti, sorta di immaginaria free zone al crocicchio fra lucidità contemporanea (vedi i beat ultracromatici e i calibratissimi innesti elettronici) e slancio ancestrale (il mantra innalzato al cielo d'Africa sulle note della conclusiva Zam’dziko).World music a uso e consumo delle platee indie rock, si dirà, e allora ben venga un pezzo come Rain Dance - con quella ritmica battente che pare prendere di petto le fregole afro dell’ultima Bjork (altezza Earth Intruders) e una special guest del calibro di M.I.A. - ad aprire le danze, laddove la title track (altro ospite di riguardo, Ezra Koenig dei Vampire Weekend) è miraggio pop memore del Paul Simon sudafricano. E il resto? Tutto un susseguirsi di polifonie estatiche (Yalira), esotismi da stordimento dei sensi (Ntende Uli, Kamphopo, uno dei due pezzi ripescati dal mixtape, l’altro è un remix di Kada manja) e aperture melodiche semplicemente irresistibili (Julia, Chalo). E allora non resta che denudarsi, commuoversi e ballare.(7.3/10) Nunzio Tomasello War Duo - La commissione d'ascolto (Improvvisatore Involontario, Novembre 2009) G enere : jazz - avanguardia Batteria e pianoforte. Il secondo che diventa uno strumento percussivo al pari del primo, tanto da seguirlo a scapicollo in ogni mutazione ritmica. Sembra di ascoltare un Dave Brubeck periodo Time Out fuori controllo o un Art Tatum traviato da certo classicismo da camera avanguardista (Monovano vista mare), il tutto decontestualizzato. Fuori da ogni melodia e lontano da temi facilmente identificabili. Improvvisazione, destrutturazione, ma soprattutto scambi continui e tensioni irrisolte tra i tamburi di Francesco Cusa e i tasti di Marcello Di Loren- zo. Free come non ti aspetteresti (Fun 2), crescendo inquietanti in cui si passa dai legni alle pelli a seconda dell'intensità del suono, rincorse ironiche a perdifiato (Giuvanni? Alléviti!), cascate di note dissonanti su basi dispari (Puglisi). Unire l'avanguardia jazz alla classica più sperimentale giocando con la ritmica: questo l'obiettivo dei due musicisti. Il risultato è un disco ostico e di spessore, capace di concedere al gusto più tradizionale solo i ventitré secondi (complessivi) del Prologo e dell'Epilogo.(7/10) Fabrizio Zampighi Washed Out - Life Of Leasure / High Times (Mexican Summer, Novembre 2009) G enere : glo - fi nu - new age Il formato dice tutto: si va sulla breve distanza per l’esordio dell’americano Ernest Greene. Nel giro di due mesi, prima ai nastri (a settembre) dalla sua label / blog / showroom Mirror Universe Tapes, poi su digitale. E torniamo su terreni glo-fi tra tinte sepia, sound ovattatissimo e tastierine con il setting esplicito ai riferimenti anni Ottanta: Englishman in NY per Belong, gli Wham! in Get Up, la memorabilia mixage in Good Look e Olivia e poi giù di spezie soul (Hold Out) alla ricerca di un eldorado edonista. Strano tipo Greene: sogna una provincia americana senza western, né bisogno di conquista, si dipinge paladino blog di una generazione dell’ancora-un-video-so-eighties-e-poi-esco, prova nostalgia per degli Ottanta inglesi - e per la Milano da bere via Paninaro dei Pet Shop Boys - che non ha vissuto. Ti gira poi la frittata in blacksploitation (It's Kate's Birthday), ci va di funk facendo rientrare dalla porta l'america black che era uscita per un attimo dalla finestra per togliersi lo sfizio wasp wave di fine '80. Operazione riuscita e tutta in divenire quella di Washed Out. Come dire nu-lounge, mossa hip e non solo martini bianco e pompelmo rosa a bordo piscina.Grande cura per l'atmosfera che poi è quel che conta e distingue questo ennesimo revival.(7.1/10) Marco Braggion Weltraum - Sy (Toxo Records, Novembre 2009) G enere : R izomatil C haos Sette movimenti ondivaghi, sette traccie, sette rizomi. Un rizoma è qualcosa di più di un arbusto: non ha linee, circola in particelle autoriproduttive, ha un dna multiplanare, è infinito al suo interno. Questi sono i Weltraum, ovvero P'ex (chitarra preparata e metalli), Luca Piciullo (batteria e campane), _Sec (synth, elettronica e microfoni). Un tempo adoravamo i Laddio Bolocko, c'era freschezza lì dentro, krauta ed ermeneutica; i Weltraum hanno il loro corpo senza organi appollaiato su quelle stesse coordinate fantasmatiche, ma in loro c'è l'infinita ciclicità del caos, la profondità oceanica di ciò che è occulto, la caduta tra la materia e l'antimateria. Si parlò per qualche stagione di quel miracolo chiamato The union of a man and a woman, con cui il gruppo in questione può condividere l'età, approssimativamente giovane, ma qui dentro non c'è taglio e ritaglio, questi brani sono totali perché diretti, senza copia/incolla, suonano così perché sono così. Concatenamenti collettivi, rotture e riorganizzazioni mimetiche, inversioni e cervelli deterritorializzati: "non c'è speranza" c'è scritto sulle note, non c'è veemenza, lasciate il cuore da qualche altra parte, perché qui ogni strumento è doppio, poi triplo e poi moltiplicabile al rizoma ed è quindi dovunque. L'ascoltatore è condannato a morte sotto questi suoni... I Weltraum sarebbero capaci di far suonare un synth come un vulcano ed una chitarra come una meringa, hanno coordinate mentre non ci sono coordinate nel loro manifesto programmatico: prendono un suono e lo capovolgono, un barile di benzina diventa una pianta carnivora, una lastra di metallo un igloo per animali spaziali. Non si sa da che direzioni stiano arrivando gli schiaffi, i calci, se questi siano abbracci o addii. E' una musica che fulmina, che chiede attenzione alla stessa maniera di una persona che saluti da un treno e non rivedrai mai più. Non sai se dopo sarai esausto, morto, vivo e vegeto; quello che conta è rimanere collegati al tragitto, camminare sulle acque, sfondare montagne per trovarsi dall'altra parte del nulla. Segnatevi questo nome: mettetelo sulla lista nera oppure portatelo sulla vostra isola deserta ideale. Ne riparleremo in sede appropriata.(7.7/10) Salvatore Borrelli recensioni 79 Wizzard Sleeve - Make The World Go Away (Hozac, Ottobre 2009) G enere : C yber G arage P unk Nell'affollato microcosmo del weird-punk americano c'è spazio anche per gruppi provenienti dalle periferie del Nuovo Continente e i Wizzard Sleeve ne testimoniano il valore; certo rispetto ai loro colleghi di NY sono tendenzialmente meno smaliziati e più legati al vecchio modo garage di suonare, ma ciò non è da considerarsi un male, anzi. Proprio quando la matrice blues-rock esce di scena è bene che ci sia qualcuno che ne ricordi l'importanza radicale; in altre parole: come avvicinarsi al synth senza dimenticarsi del fuzz. Non stupisce quindi che tradizione e (archeo)futurismi convivano pacificamente e fruttuosamente in solchi come questi. Così i vecchi blues dell'Alabama sembrano ora essere suonati da macchinari robotici (Chrome Intensifier), e gli stomp polverosi da sapore sudista (Shapeshifter Blues) sono messi a sedere vicino a dei cyborg con la fissa, manco a dirlo, per i Chrome (No Mongo). Unica nota dolente, se così la vogliamo considerare, l'elevato numero di pezzi già pubblicati sui singoli degli scorsi anni che, purtroppo, non sempre sono all'altezza delle prime versioni. In particolare per chi ha ancora nelle orecchie la take di Alabama's Doomed presente sullo split con gli Amber Alerts, questa nuova, oltretutto messa in apertura di album, sarà un po' deludente; ma è solo un primo intoppo, il resto poi scorre via che è un piacere.(7/10) Andrea Napoli Wora Wora Washington - Techno Lovers (Shyrec Records, Novembre 2009) G enere : electro - post - punk - psych Sono taglienti e acuminati, ma non c'entrano nulla con i coltelli “Miracle Blade”. Con certi Arcade Fire shoegaze (Daisy) e un elettro-post-punk in stile techno-Rapture pero' si, con tutti gli annessi e connessi del caso. Il che significa programming eccitato (Drum Machine), chitarre acide (Seven Days), synth scostanti (Ten Seconds) e in generale una tendenza a scovare l'arrangiamento più cool tra hype sincopato e staffilate in distorsione. La macchina di Marco De Rossi, Matteo Scarpa e Giorgio Trez 80 recensioni è ben oliata, tanto che il primo impatto è di quelli che lasciano il segno. Poi capisci che dietro ci sono ascolti ripetuti di antecedenti illustri e un'ottima capacità di selezionare in quella complessità di patterns e riff ad effetto che un orecchio sveglio e una mano veloce possono garantire. Con due anime distinte che si mescolano all'interno del disco: una traviata da bordoni sintetizzati massicci quanto ingombranti e l'altra interessata a solleticare le elettricità malleabili di chi nell'indie “emodelico” degli ultimi tempi ha trovato un comodo asilo politico. A fare da collante, un'ombrosità new wave sottomessa eppure palpabile, invischiata nei suoni delle chitarre quanto nelle progressioni armoniche. L'esordio dei veneti Wora Wora Washington è di quelli che valgono un messa. Ben suonato, coscienzioso, sottilmente conservatore, adatto a un rock club con aspirazioni “danzereccie” come allo stereo di qualche orfano di The Faint, The Music e compagnia. Tanto che sarebbe un delitto non dargli almeno una possibilità.(7.2/10) Fabrizio Zampighi Xabier Iriondo/Stefano Giust/ Gianni Gebbia - L'Edera, il Colle e la Nebbia (Setola Di Maiale, Settembre 2009) G enere : impro - jazz Titolo poetico per l’ennesimo lavoro collaborativo tra Mr. Setola di Maiale Stefano Giust e Gianni Gebbia. Al batterista extraordinaire spesso e volentieri citato in queste pagine e al sassofonista free palermitano si aggiunge in occasione di queste sessions dal vivo un terzo elemento che non sfigura affatto come terzo vertice del triangolo: Xabier Iriondo. Le sette improvvisazioni libere che compongono l’album, dopotutto, non lasciano spazio a dubbi sulle capacità creative e sulla sensibilità del trio: obbiettivo centrale delle registrazioni di tre diverse live sessions targate 2007 è quello di plasmare la materia di partenza, ovviamente e latamente impro-jazz, secondo l’umore del momento. In questo è centrale l’operato di Giust e del suo indubbio orecchio musicale, capace di sottolineare col drumming eterogeneo che lo caratterizza da sempre ogni momento della performance. Ai lati, per modo di dire, il sax alto di Gebbia contrappunta con dettagli, frammenti, frattaglie e stacchi minimi mentre Iriondo, persa ormai per strada la chitarra, si china sulle sue creazioni artigianali (in primis la mahai metak, ma anche electronics e crackle box) per condire, riempire, stranire il suono prodotto dai sodali. L’edera, Il Colle, La Nebbia è il sunto di performances live dei tre in cui si procede per sottrazione, anzi per riduzione senza per questo risultare minimali, perché a scavare, anche nei vuoti e nei silenzi che lo condiscono (vedi Camminando Guardo), se ne trovano eccome di gemme. Veramente pregevole.(7/10) Stefano Pifferi Zoey Van Goey - The Cage Was Unlocked All Along (Chemikal Underground Records, Ottobre 2009) G enere : indie - pop Un canadese, un irlandese e un'inglese che si incontrano nei “verdi giardini dell’Università di Glasgow” e fondano un gruppo che porta il nome di una pittrice Amish raggiunta da una certa fama underground dopo essersi trasferita a Berlino per poi scomparire nel nulla in seguito alla caduta del muro può fare solo un genere di musica: il famigerato indie-pop-da-cameretta, croce e delizia per tutti coloro che sì la malinconia, sì la tristezza, sì le atmosfere sognanti e crepuscolari ma ogni tanto anche scendere in strada e annusare l'asfalto no che non è male.
 Così i Zoey Van Goey, ultima scoperta Chemical Underground, invero camerettari ma non così tanto. I tre infatti narrano con spirito naïf, voci dolcificate (due: una maschile e una femminile) e melodie a ventosa le loro magagne sentimental-amicali, ma ogni tanto aprono anche le finestre della loro stanza e durante una giornata di cielo sereno con qualche nuvola all'orizzonte guardano il mondo o almeno quel che appare a loro come tale. Per il resto fanno ciò che ci si aspetterebbe da qualsiasi pop-band degna di questo nome, ovvero canzoni confortanti e fantasiose, nelle quali da un armamentario strumentale assai assortito (chitarre, piano, synth vari, ma anche banjo, drum machine, viola, dulcimer, casiotone e l'immancabile xylophono) emerge soprattutto un'anima folk-pop tutta arpeggi legnosi e coloratissime foglie che cadono. Con City is exploding, riflessione non del tutto comprensibile sull'apocalisse che sta per arrivare, provano a scrivere la canzone e quasi ci riescono, con quel tanto di atmosfera irlandese che date le origini di uno dei tre componenti è anche normale che venga fuori. Buon esordio insomma, e bello l'artwork del booklet un po' fiaba, un po' fumetto, un po' realtà come loro.(6.7/10) Luca Barachetti recensioni 81 live report Zen Circus Officina 49 (Forli-Cesena) 07 Novembre 2009 Bastano un basso, una chitarra e un rullante per fare serata. E ovviamente un gruppo come gli Zen Circus. Già lo sappiamo. Finiremo col perderci in una trafila di luoghi comuni. Cerchiamo di esaurirli nel giro di qualche riga, dicendovi in primis che gli Zen Circus sono semplicemente una delle migliori macchine da concerto uscite in Italia negli ultimi anni. Se non ci credete chiedetelo al pubblico “incravattato” e trendy dell'Officina 49, capace di trasformarsi nel giro di un'ora in un Hyde con diritto di replica alle provocazioni (volute) di un Appino decisamente in serata. Sottolineando poi come il trio pisano eviti con grazia gli stereotipi legati alla “notorietà” - nonostante gli ottimi riscontri raccolti da Andate tutti affanculo -, grazie a un set sudatissimo e coinvolgente. Rilevando infine come l'esperienza non sia solo un accessorio ma torni utile quando c'è da confrontarsi con situazioni in cui non tutto gira per il verso giusto.Vedi alla voce “acustica”, in un locale in cui - complice anche una morfologia evidentemente poco consona - l'impianto spara nel modo giusto gli strumenti ma perde per strada la voce. Venendo alla cronaca, si parte con Gente di merda e si finisce con It's Paradise, per un concerto che prende in prestito soprattutto episodi tratti dall'ultimo disco (tutti in scaletta a eccezione di Amico mio) e dal precedente Villa Inferno. Segno evidente che dello scarto esistente tra il nuovo materiale e la produzione passata s'è accorta anche la band e non solo qualche critico particolarmente puntiglioso.Tanto più che l'impatto live dei nuovi brani è devastante, sia per chi con certe cadenze punk-rock-autoriali ci traffica già da un po' sia per chi non ha mai sentito parlare della formazione. Conseguenza diretta, crediamo, di una scrittura finalmente riconoscibile e ricca di personalità. Nella girandola delle richieste c'è tempo per il pop di Punk Lullaby e l'ironia di Vent'anni, i Talking Heads di Wild Wild Life e il Sud America di Mexican Requiem, la poesia da strada di Figlio di puttana e il punk di Vana gloria, oltre che per amor fou 82 recensioni una cover raffazzonata ma cattivissima di White Light White Heat dei Velvet Underground. Quest'ultima suonata con un signor “nessuno” - probabilmente un autoctono - emerso dal pubblico con chitarra elettrica al seguito e deciso a improvvisare una jam session con il Circo Zen. Dettagli, anche questi, che la dicono lunga su un approccio alla musica che per la band rimane democratico, senza filtri e slegato dalle dinamiche di ruolo che lo stare su un palco di solito dovrebbe prevedere. Fabrizio Zampighi Wilco Teatro della Pergola Firenze 13 Novembre 2009 Oltre due ore di generoso e sincretistico rituale adult-rock officiato da una band in forma straordinaria. I Wilco, al loro meglio. E adesso che il concerto è finito, ti resta la sensazione d'aver assistito a due, anzi tre, a non so bene quanti concerti incastrati assieme. Compressi ed espansi in oltre due ore sudate, tirate, distese ed infine - ahinoi - evaporate in una nuvola di ricordo indelebile. Di questo sincretistico rituale adult rock, Jeff Tweedy è impagabile quanto improbabile cerimoniere, stretto nel suo tipico giubbottino jeans, l'aria da povero cristo stropicciato e vagamente pasoliniano, un disilluso che forse ha finalmente fatto pace con la vita. Forse. Attorno a lui, assieme a lui, una band con i controcoglioni. Nella quale spiccano i contributi di Nels Cline - dalla cui chitarra spasmodica e incendiaria il Wilcosound davvero sembra non poter più prescindere - e Glenn Kotche, probabilmente il batterista rock più dinamico ed evoluto sulla piazza. E' un sestetto che impressiona per la compattezza, quel senso di interplay assieme disinvolto e rigoroso che permette anzi incoraggia anzi esige evoluzioni soliste sempre ben integrate nel sound. Sound che quindi si sbriglia come tumulto organizzato, una tempesta mentale che ora infuria ora si placa fino ad uno stato di quiete armata, dove comunque quella tempesta non smette mai d'esserci e somiglia maledettamente a qualcosa di veramente accaduto. Che forse la vita ha metabolizzato. Forse. E' una sarabanda di cicatrici che tornano a farsi sentire, di fitte nell'anima che metti a tacere con scariche d'adrenalinico abbandono, questa la formidabile terapia che il rock'n'roll può - e sa - apparecchiare. Le ricette si sbrigliano tra il chimico e l'alchemico: una versione cubista della Band, un John Lennon risorto post-rock, certe imponderabili epilessie Steely Dan, Gram Parsons infebbrato soul, una autobahn tra San Francisco e Chicago... Ad ognuno la cura adeguata, lo sciroppo prediletto. Il dosaggio è pur sempre quello della canzone. Tra queste, al sottoscritto hanno provocato brividi fin dentro lo stomaco Via Chicago e At Least That's What You Said. Su tutte però ho gradito i positivi effetti di una stratosferica Impossible Germany, nonché il conforto del cazzeggiare generoso e impeccabile durante Hate It Here e Spiders. Scaletta ricchissima, orientata dalle parti di A Ghost Is Born. Se guardi al resto del repertorio hai l'impressione - oserei dire la certezza - che se ne potrebbe ricavare almeno un'altra di pari bellezza e intensità. Questo sono i Wilco, oggi. Bontà loro. Fortuna nostra. Stefano Solventi Margareth/Alessandro Grazian/Guru Banana Macaco Country Birthday Party Macaco Night (Treviso) 31 Ottobre 2009 Metti una sera a casa Macaco per un Halloween indierock senza maschere e lontano dall'Italia in sbornia yankee Autocarri solitari, SUV tirati a lucido che ti tampinano da dietro per schizzare chissà dove e una sfilza di paesi della bassa veneta - con relativi incroci, autovelox e pensionati valorosi che pedalano a bordo strada - da attraversare. La statale SS309 è un piccolo inferno, inconsapevolmente in tema con la serata di Halloween. Roba da restarci secco. Roba da “periferia del mondo occidentale” come cantava Gaber un po' di tempo fa. Inevitabile pero', visto che la destinazione sono i dintorni di Mogliano Veneto e questa è la strada più breve per arrivare. L'occasione è importante: si festeggiano i primi cinque anni di una delle etichette discografiche più in vista del panorama sotterraneo nostrano. Vino, persone, ma soprattutto musica, come dimostra una locandina che chiama a raccolta Guru Banana, Alessandro Grazian e Margareth in concerto. Memorizziamo, apprezziamo la scelta e aspettiamo, il tempo di una pasta e fagioli con radicchio - in piena tradizione locale - biologica e decisamente gustosa. Del resto il posto merita, immerso com'è nella campagna più sperduta. Una co-housing ritagliata in un lembo di terra enorme tra l'A27 e il passante di Mestre - il traffico è a due passi, ma non si sente - che vive in totale autarchia. Il che significa colture di prima mano, gruppi di acquisto, cooperazione e solidarietà. Bello e insolito per un Paese come l'Italia in cui ci si ammazza tra vicini di casa. E in linea con una concezione di indie-rock che cerca di coniugare la qualità a uno scambio vicendevole tra le parti, vivendo nel contempo di situazioni sempre più ridotte (complice, anche la crisi economica). Come dimostrano le serate organizzate periodicamente dalla Macaco in questa sede - cena più musica - e in generale la moda degli house concerts diffusasi negli ultimi anni.A spiegarcelo è anche Paolo Zangara dei Lo.mo, uno che può vantare una certa lungimiranza in questo senso con l'associazione Sur Le Sofa. Il “successo” del format, ci fa capire, va ricercato in elementi banali quanto fondanti: prezzi ridottissimi, ambiente intimo e la certezza di assistere a un evento (quasi) irripetibile. Chi suona apprezza il clima familiare e l'estrema attenzione che ne deriva mentre il pubblico ha la possibilità di vedere e ascoltare musica senza doversi svenare. Adatto, ne converrete, a un' Italia del rock indipendente in miniatura, con scarsissime risorse a disposizione ma non certo a corto di idee. Ci dice anche altro, Paolo. Ad esempio che Milano non è più la terra promessa per ogni buon musicista che si rispetti, soprattutto per una carenza cronica di spazi intermedi - tra il centro sociale e il grande club, per intenderci - in cui suonare. Passiamo in rassegna le principali città italiane e tra le tante ci viene da salvare solo Torino, che anche Bologna ultimamente non se la passa troppo bene. E allora viene da pensare: ma non è che questa cosa del “piccolo ma bello” che si vede nei concerti faccia un po' il paio con una rivalutazione della provincia (nell'organizzare eventi e nel trovare spazi deputati) a discapito delle grandi città? Una riflessione plausibile, ma da destinare ad altra sede. Anche perché ora c'è da fare altro. Nello specifico dribblare conigli, galline, pavoni e filari infiniti di radicchio trevigiano per assistere a questa versione country - field concert ? - dei concerti da appartamento. Nel freddo pungente della campagna si socializza il giusto, ci si confronta con Alessandro Grazian su canzone d'autore e dintorni e si ripassano nomi: Giovanni Ferrario, Andrea Fusari, Scott Mercado (Black Heart Procession, Manuok). Ognuno di loro recensioni 83 presente, ognuno di loro un ruolo nella storia dell'etichetta. A cominciare proprio dal Ferrario produttore artistico e punto di riferimento per molta della musica della label veneta, come potrebbero confermarvi i Grimoon di Lanterne Magique e Le 7 Vies Du Chat o lo stesso Fusari di quei Gurubanana in cui milita anche il musicista lombardo. Meriti conquistati sul campo e lavorando sodo, tra una P.J. Havey e un John Parish, Hugo Race e Morgan. Insomma, più guru di quanto non ti aspetteresti, ma forse, a ragione. L'americano deve invece alla Macaco un No End To Limitations di due anni fa ed è qui per offrire i suoi servigi dietro al mixer per l'imminente quarto disco dei Grimoon.Tanto che si presenta solo in tarda serata e per suonare dieci minuti, dopo aver passato tutto il giorno a lavorare proprio alla nuova fatica della band veneta. Il giorno successivo ci sarà modo di ascoltare pure un paio di pezzi del CD in anteprima, troppo poco per pensare anche solo lontanamente di trarre conclusioni di alcun genere. E siamo al concerto. La sorpresa sono i Gurubanana: bravi su disco e “tiratissimi” dal vivo, con una sezione ritmica di carattere e certe chitarre elettriche assassine a cesellare brani come Cold Water e Bucky Bucky. Non c'è un attimo di tregua durante il set e il rock lourediano della compagine fa morti e feriti tra gli ospiti un po' su di giri, ribadendo il concetto che per suonare ottima musica non servono progettualità mirabolanti ma soltanto qualche buona idea (i brani di Fusari) filtrata da un certo buon gusto (la produzione di Ferrario). Che dire, vorremmo rivederli al più presto, al completo e magari più vicino a casa. Come rivedremmo volentieri anche Grazian: lui è sempre lui, che lo si ascolti con una schiera di musicisti classici attorno o da solo con la chitarra acustica, come in questa occasione. Voce toccante, musica vera, canzone d'autore di livello come sono rimasti in pochi a farla in Italia. La verità è che ci vorrebbe più attenzione per proposte del genere ma l'attualità del rock indipendente è purtroppo anche esterofilia e questioni di corsi e ricorsi stilistici, questi ultimi spesso poco in linea con la serietà compita di una musica come la sua (parliamo di Grazian, ma potremmo citare anche 33 Ore,Adriano Modica, Cesare Basile, ecc..). Nella terra di mezzo tra l'uno e gli altri si posizionano i Margareth, nuova scoperta in casa Macaco. Il loro set è un succedersi raffinato di trombe in sordina e pianoforti, batterie e chitarre, tanto che tornano in mente certe derive dei Mojave 3 con meno istinto pop e più eleganza. A febbraio uscirà il disco d'esordio, per cui rimandiamo tutte le possibili elucubrazioni al momento 84 recensioni della recensione. L'impressione generale, comunque, è positiva. Finisce così la serata, tra musica suonata, DJ di rito e sacco a pelo. Prima di chiudere ripensiamo a un caffè preso il mattino del primo novembre a un metro da un campo arato e sotto un sole capace ancora di riscaldare; a Scott Mercado che azzanna una fetta di pane e nutella dopo aver dormito tutta notte con un gatto sulla barba; a un Andrea Fusari appassionato di rock e blues d'annata in un'epoca in cui - purtroppo o per fortuna, decidete voi - si ascolta tutt'altra roba. Il resto è un ritorno a casa sulle note di It's Not Supposed To Be That Way dei Phosphorescent, con qualche ora di sonno in meno e molte buone vibrazioni in più. Fabrizio Zampighi Hair Police XM24 (Bologna) 11 Novembre 2009 Hair Police ed Hundebiss fanno tappa a Bologna per un tour all'insegna dell'antistile Mike Connelly lancia un guaito lacerante e s'accanisce sulla chitarra. Mano aperta-chiusa-su-giù come nella migliore tradizione Dead C. La batteria dietro monta ritmi incalzanti e poi c'è quella carcassa elettronica a collo ad agghindare la bolgia. Noise barbaro. Post nucleare. Sono le frigotecniche dell'Xm24 di Bologna ad accogliere l'unica data italiana di Hair Police, uno dei primi tra i mostri sonici partoriti negli ultimi 10 anni da quel pezzo d'america che ha dato i natali anche a Wolf Eyes, di cui lo stesso Connelly fa parte stabile. L'occasione è l'uscita per Hundebiss (quella dei concerti segreti milanesi, per intenderci) di un nuovo album che per la cronaca è stato registrato in un motel dell'Ohio (dove la band è rimasta bloccata in seguito a una tempesta di neve). Prima di loro, giusto menzionare i Catrame da Bologna. Suonano come dei Minutemen ritrovati hardcore: ritmi funk, chitarra surf e Negazione. E Dracula Lewis (una metà della Hundebiss); un set solitario per nastri ed effetti tra muggiti distorti ed ectoplasmi. Trenta e venti minuti rispettivamente e poi, appunto, ci becchiamo i capi branco: momenti sbronzi e brutali assalti, cavalcate percussive e così via. Poco resta dei brani degli Hair Police. Di rumore rituale, sociale e religioso si tratta ma restituito a mo d'immondizia in un ciclo perpetuo senza direzioni né obbiettivi. Ogni promessa di catarsi è dunque azzerata. Se c'è una parte della della scena intenta a riesumare linguaggi (Black Dice, Giffoni, Emeralds, Sigh- tings...) ce n'è un'altra che si ostina a distruggere. Leonardo Amico Dente/Franco Battiato/Vinicio Capossela/Ginevra Di Marco/Morgan... Premio Tenco 2009 Teatro Ariston (Imperia) dal 12 Novembre 2009 al 14 Novembre 2009 Premio Tenco 2009. Trentaquattresima edizione tra conferme, consacrazioni e poche novità. Assegnate due delle quattro targhe dell'anno scorso a Baustelle e Le Luci della Centrale Elettrica, e data così una spinta piuttosto decisa a quel ricambio generazione che per quanto riguarda la canzone d'autore negli ultimi tre lustri non ha ancora trovato nomi davvero di peso (se escludiamo Vinicio Capossela), il Premio Tenco di quest'anno propone soprattutto consacrazioni e conferme.Targhe dunque a Max Manfredi con Luna persa ed Enzo Avitabile con Napoletana, rispettivamente per il miglior disco dell'anno in assoluto e in dialetto, e a Ginevra Di Marco con Donna Ginevra per il miglior disco d'interprete, i quali confermano le cose buone fatte su disco anche durante le esibizioni all'Ariston. Deludono invece i vincitori della Targa per il miglior esordio, ovvero i romani Elisir e il loro jazz-pop venato di francesità che guarda da lontano (molto da lontano) la Piccola Orchestra Avion Travel e Paolo Conte. Di prime prove migliori del loro Pere e cioccolato ne abbiamo sentite parecchie quest'anno, e anche i nomi nuovi proposti dal Club Tenco non hanno brillato di chissà quale luce. Bravi Piji (ancora Conte, ma anche Natalino Otto e Sergio Caputo), Alessandro Mannarino (Vinicio Capossela, Gabriella Ferri, Franco Califano e il talking folk di Bar della Rabbia che si porta via tutti i presenti) e un Dente che tanto nome nuovo non è ma per l'occasione veste con lo smoking le canzoni di L'amore non è bello. Poca roba gli altri, tra tentativi di patchanka elettrificata tipo Gogol Bordello ma con un decimo della stessa energia (gli Ex, con membri di Mazapegul, Daunbailò, Mau Mau e Luca Morino ospite alla voce), bozzetti teatrali oppressi dall'emozione del palco (Momo) ed outsider presenti per la prima volta in solitaria come Edgardo Moia Cellerino, ex Le Masque Premio Siae, che strozza la classicità delle sue canzoni in suoni di tastiera che quasi nemmeno negli anni ottanta, o Franco Boggero e i suoi bozzetti ironico-amarognoli, divertenti e nulla più. Quasi sempre positivi al contrario i giudizi sul resto dei partecipanti - che non citeremo interamente per non rendere questo pezzo un mero elenco - a partire dai due Premi Tenco 2009 Franco Battiato e Angelique Kidjo. Il cantautore siciliano arriva trafelatissimo e accompagnato dal pianoforte canta magnificamente cinque canzoni con omaggio a Giuni Russo (L'addio), ripescaggio di un brano minore (Le sacre sinfonie del tempo), duetto che tutti attendevano (su I treni di Tozeur con Alice, alla quale è anche affidata la sigla Lontano lontano), hit vecchie (La cura) e nuove (Inneres auge, assai applaudita visti i mala tempora). Mentre la cantante originaria del Benin anticipa qualche brano dal nuovo disco Oyo di prossima uscita e sveglia il sempre un po' assopito pubblico dell'Ariston con un set vitale e forsennato nei ritmi. Ma gli applausi vanno anche al combat-folk rinvigorito da arrangiamenti all'altezza e canzoni piuttosto riuscite degli Yo Yo Mundi e a un Vinicio Capossela che coi suoi suoni inconsistenti (theremin, cristallarmonio, autoharp) pare aver (definitivamente?) trasferito la propria residenza artistica da Pomona ad un punto tra l'Arizona e l'Ohio che pare più letterario che geografico, visto il sentore Sherwood Anderson e Cormac McCarthy di cui sono intrise le canzoni del recente Da solo. ; Pollice verso invece per un Daniel Melingo perso in troppe pose bohèmienne - ed è un peccato perché il suo tango bagnato nello whisky di Tom Waits e nei fantasmi di sega e banjo della provincia americana potrebbe dare esiti più fecondi; per un Morgan ipertrofico in tv come sul palco - dove vuole suonare qualsiasi strumento maltrattando il canto e non rendendo servizio ne a sé ne al pubblico ha di fronte; e infine, prevedibilmente, per Vittorio De Scalzi con il Gnu Quartet, tanto fuori tempo massimo (alla fine arriva pure un revival New Trolls che ci starebbe se, appunto, l'atmosfera non fosse così nostalgica) quanto ancora alla retorica un po' stucchevole di una manciata di poesie inedite del poeta anarchico Riccardo Mannerini messe in musica. 
Fatti così i conti, la trentaquattresima edizione del Tenco mostra un movimento cantautorale che, come si diceva all'inizio, necessita di nomi tanto pesanti da scalzarsi di dosso l'ombra dei soliti padri putativi. Nel suo incessante ed essenziale lavoro di promozione di tutto ciò che è canzone d'autore e dintorni da qualche hanno la direzione del Club Tenco sta tentando anche un rinnovamento che parta dai nomi e arrivi ai linguaggi. Per riuscirci occorre continuare sulla strada intrapresa, magari calibrando un po' di più il tiro, e soprattutto non demordere. Luca Barachetti recensioni 85 WE ARE DEMO #42 I migliori demo giunti nelle nostre cassette postali. Assaggiati, soppesati, vagliati, giudicati dai vostri devoluti redattori di S&A.Testo: Stefano Solventi, Fabrizio Zampighi. Folktronicopera - Lucine intermittenti EP (Autoprodotto, Ottobre 2009) G enere : folk blues Alberto Mancinelli da Siracusa scrive, canta, suona la chitarra e porta in giro un'anima da busker. In passato ha fatto rock soprattutto cogli Electric Bayons (dal '93 al '96), per poi rimbalzare tra situazioni diverse (Bayons, Noybas, Buffalo Flint & Barbecues...), ma dal 2004 è Folktronicopera, il suo progetto solista, quello che riassume tutto nella dimensione cantautorale. Questo EP è il terzo titolo sotto tale egida, quattro canzoni in italiano a base di folk blues basale, ruvido, torvo ma generoso, appassionato ma cinico, intenso e amaro, qualcosa che potresti immaginare a metà strada tra Cesare Basile e il Bugo di Sentimento Westernato, con qualche aggancio plausibile al dimenticato Erz (soprattutto per la voce) e un santino del Bob Dylan beffardo sullo specchietto retrovisore. Credibile dalla prima all'ultima nota.(7.1/10) Stefano Solventi tre il drumming ribatte prezioso e misurato assieme (Giovanni Volpe dei Bisca). I testi in italiano se la cavano piuttosto bene, stendono le vocali senza forzare, s'avvitano intriganti e sinuosi. Insomma, parliamo di due pezzi originali ben messi, segnali promettenti di una calligrafia che deve solo trovare la giusta via tra fascino traditional e tremori contemporanei (come ben fa Tutto si altera). Scegliere poi la buckleyana Morning Glory quale terza traccia, interpretata con grande sensibilità e sostanziale mancanza di timore reverenziale, è il tassello che completa l'opera. Bel lavoro.(6.8/10) Stefano Solventi Emblema - Mare senza isole (Autoprodotto, Dicembre 2009) G enere : rock - wave Il rock che propongono gli Emblema dalla provincia di Forlì-Cesena è di quelli immediati, generalisti e poco cerebrali. Una via di mezzo tra new wave, distorsioni hard e una buona dialettica dei testi. Materiale che non impressiona per originalità - si parla inevitabilmente di soluzioni musicali trite e ritrite - ma che può vantare comunque un dignitoso livello qualitativo in mezzo a miriadi di produzioni sul genere decisamente meno efficaci. Grazie a un impianto musicale solido, qualche riff azzeccato e in generale una formula godibile che riesce a unire melodia e chitarre pungenti.(6/10) Fabrizio Zampighi (AM) - Soundtrack (Autoprodotto, Novembre 2009) G enere : foltronica ambient Gli (AM), ovvero Alessandro Degli Angioli e Michele Ducci mettono al centro del loro limpido discorso musicale una folktronica stropicciata da glitch birbantelli e resa squillante da una verve dance-pop che diresti senza indugio Royksopp. I Mùm quindi sono il riferimento inevitabile di questo Soundtrack, pubblicato in free download per la netlabel Musicaoltranza, ma non manca una certa inquietudine Radiohead stemperata da tentazioni melodiche che diresti Notwist ma altresì capace di folate vocali Sigur Ros (vedi ad esempio la bella Døra). Altrove poi li colgono spasmi scabri come se da fosse passato a trovarli zio Trent Reznor a tirare qualche scapaccione (_ N novella_), il che amplia il 86 recensioni ventaglio sonico/espressivo nonché le aspettative. Perché se è vero che non ci si libera dalla sensazione del già udito, di un orizzonte oramai esplorato ed esausto, i due dimostrano ottima padronanza di mezzi e una invidiabile chiarezza d'intenti. Teniamoli nella dovuta considerazione. (6.6/10) Stefano Solventi Dilis - Self Titled (Autoprodotto, Novembre 2009) G enere : folk Pietro Di Lietro è Dilis. Il suo è un cantautorato sensibile ma con carattere. Folk onirico che stempera inquietudini con una certa raffinatezza, cuce con la chitarra (acustica ed elettrica) trame di percussioni, flauto, contrabbasso (a cura di Ilaria Scarico degli ElGhor) e un canto capace d'insinuarsi sottile, men- Gardening At Night - Act Surprised EP (Autoprodotto, Ottobre 2009) G enere : indie rock pop Cinque ragazzi da Torino con le ascendenze ben chiare e dichiarate, indie rock melodico come se ne sentiva a bizzeffe nei nineties innamorati dei R.E.M., senza scordare ovviamente quanto fatto dalla band di Athens fin dagli eigthies. Così, questi tre pezzi che costituiscono l'Act Surprised EP ti rammentano un po' i Counting Crows e un po' i The Blue Aeroplanes, rock chitarristico con la fiammella della melodia sempre alta, irrequietezza pastosa ad altezza di post-adolescente, roba da college radio come può esserti capitato d'immaginartene una, casomai. Attitudine e calligrafia attagliatissime. Attendiamoli sulla prova lunga.(6.4/10) Leo - Hagakure (Autoprodotto, Dicembre 2009) G enere : cl as sica - ambient Portare la musica da camera ai confini con l'ambient e il progressive, in un disco di composizioni minimali in cui si respirano marcette di synth e note di pianoforte, glockenspiel e strumenti classici. Incisioni su incisioni che vanno a comporre un'opera gradevole e per nulla invasiva, da cui emerge il background accademico di Leonardo Barilaro quanto la sua voglia di perdersi in intellettualismi alti da compositore “serio”. Certo, le note in latino sul Myspace di riferimento forse sono un po' troppo pretenziose e non depongono certo a favore di una personalità disposta a diffondere la propria musica su più livelli.(6.4/10) Fabrizio Zampighi Mad Creudo - Dress The Reindeer (Autoprodotto, Dicembre 2009) G enere : psych - jazz - sperimentale La qualità audio di questo terzo demotape dei Mad Creudo fa a pugni con la buona creanza e a un primo approccio non si è nemmeno troppo sicuri che i nostri abbiano ricevuto una qualche forma di educazione musicale. Eppure viene naturale promuovere a pieni voti un'opera di destrutturazione, sperimentazione e follia musicale come Dress The Reindeer, coacervo di frammenti in bilico tra noise e toni faceti, blues à la Captain Beefheart e psichedelia, rumorismi e jazz, Grateful Dead e stomp, parti recitate e improvvisazione. In realtà è sufficiente dare un'occhiata ai titoli dei ventuno brani in scaletta (Anal Intrusion, La pastorella, Milingus) con uno sguardo un po' critico per rendersi conto che i Nostri ci stanno prendendo ampiamente per i fondelli. Nascondendo dietro a una crew sgangherata musicisti preparati e ben consapevoli di dove si andrà a parare con certe scelte stilistiche. Nello specifico, verso un non genere in cui si incontrano surrealismo e coraggio espressivo.(7/10) Fabrizio Zampighi Stefano Solventi recensioni 87 Ad astra “La facilità con cui si fanno dischi oggi non è cosa che mi riguardi. Sono qui per spingermi oltre gli ostacoli e ampliare la mente. Per andare oltre i confini a vedere e accettare le sfide e imparare ciò che è necessario affinché io sia soddisfatto. Non me n’è mai importato del successo: mi dedico con tutto me stesso all’arte e alla vita, alla bellezza e al mistero del momento.” P Hans-Joachim Roedelius L'alchimista Elettronica, house, idm o post-rock, Herr Roedelius di tutte ha posto le fondamenta e di tutte respinge la paternità. La classe e l'umiltà di un grande. - Giancarlo Turra, Gianni Avella, Filippo Bordignon 88 rearview mirror ensate alle cose più eccitanti dell’ultimo ventennio che esulino dal rock con evidenti radici country/blues ed eseguito avvalendosi del relativo, tradizionale apparato sonoro. Lasciatevi andare sotto pelle la vibrazione di house e techno che, dal dancefloor, si prestano a un ascolto “critico”; assaporate la capacità di riscrivere le regole appartenuta al post-rock e, infine, cullatevi nel senso di totalità che investe alcuni dei dischi migliori apparsi negli ultimi due decenni. Da quando, cioè, barriere e muri andarono giustamente a catafascio e si era finalmente felici di ibridare e imbastardire l’esistente in qualcosa di originale e nuovo. Per tornare, tra l’altro, allo spirito originale del “rock” (termine da intendersi nel senso più ampio possibile): andare oltre col cervello spalancato e attraversare un mare di splendide, elettrizzanti possibilità; fregarsene della banalità per vivere ininterrottamente sul filo di un rasoio, stupiti un giorno sì e l’altro pure. Di questo spiccato gusto per la scoperta, forte di una creatività che sfrutta mezzi minimali e non ostenta roboante inutilità - la differenza tra krautrock e progressive, insomma - i progetti cui Hans-Joachim Roedelius (classe 1934 da Berlino) ha posto mano nella sua pluridecennale carriera indagano ogni possibile risvolto. Ha scoperto mondi inauditi e senza spocchia si comporta da Maestro modesto, schiatta nobile che rifiuta il piedestallo pur conscia del proprio ruolo; che trova ragioni per la vita e l’Arte nel collaborare con chi è sulla medesima lunghezza d’onda, a prescindere dal campo d’azione: “Credi davvero che i Labradford o i Mouse On Mars siano davvero figli dei Cluster? Che proseguano ciò che abbiamo fatto? Non saprei dirlo con certezza e, fosse vero, non è che sto a pensarci più di tanto. Ognuno impara dagli altri, siamo tutti connessi in una sorta di network universale che non ha bisogno di internet per funzionare.” Colui che sa indicare vie nuove poi frequentatissime, lasciandosene trasportare fino a sparirvi dentro come un ancestrale artefice di prodigi. Tutto questo fa di Roedelius un autentico Genio di portata non igno- rabile, anche se il tempo dei suoi capolavori è alle spalle e la sua produzione eccessivamente copiosa: ti rimane la certezza che possa consegnare ancora un gran disco, attuale o fuori da ogni epoca mentre intuisce e assapora il respiro del presente. Non potrà uscirsene con novelli Zuckerzeit o Cluster II, ma del resto nemmeno i tempi sono più gli stessi e va allora benissimo così: “Tutte le persone che ho incontrato nella mia carriera hanno lasciato un segno; artisti da ogni parte del mondo che ho avuto l’onore di incontrare e coi quali ho percorso un tratto della mia vita. Molti di loro sono diventati ottimi amici come Tim Story e Alessandra Celletti, oppure Georg Taylor, Peter Baumann, Conny Plank e moltissimi altri.” Il segreto è, verosimilmente, di duplice natura: nel saper scegliere le anime affini, certo, e innanzitutto in un approccio alla materia sonora che è combinazione sapiente di assiduo studio e illuminata casualità. Un po’ come quel Brian Eno la cui strada incrocerà spesso e volentieri, Roedelius ha saputo porsi nei confronti dell’Arte da moderno umanista, collocando l’anima al centro del suo agire, appoggiandosi a una curiosità robusta e sull’applicazione indefessa - quella sì, rigidamente “teutonica” - alla/ della tecnologia. Senza argomenti da comunicare, avrebbe fatto la fine di chi è rimasto schiacciato dalle velleità, dal virtuosismo e dall’eccesso di mezzi. Ecco perché oggi i suoi lavori “storici” sono freschissimi, come se avessero visto la luce la scorsa mattina o la settimana ventura. Giocano con la nostra percezione cronologica perché se ne collocano al di fuori pur essendo databili (che non significa datati…). E’ il pregio di ogni musica innovativa con sentimento: “Non ricordo affatto quale fu il primo disco che acquistai. Sono cresciuto col suono delle bombe e delle granate, c’era poco da divertirsi! In ogni caso, mi piace la musica che abbia rilevanza a prescindere dallo stile. All’epoca del krautrock ero totalmente assorbito da ciò che facevo, ma la vita stessa - con tutta la bellezza e il dolore - era e rimane la principale ispirazione.” Per aspera All’inizio c’erano i Kluster, devoti al nostrano Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza e a Karlheinz Stockhausen. Un ensemble progressivo ma radicale calato dentro un contesto - l’underground tedesco - che stranezze non se ne fece mancare e che prese forma nel fatidico ’68. A Berlino, Conrad Schnitzler, allievo di Joseph Beyus, coinvolge Hans-Joachim Roedelius (già rearview mirror 89 nella comune Human Being; alle spalle un passato da attore fanciullo e militare disertore imprigionato per due anni…) nello Zodiak Free Arts Lab, sorta di Factory locale dedita a un’arte “libera” e multimediale. Palestra per Klaus Schulze e i Tangerine Dream dello stesso Conrad, tra le tante cose, soliti lanciarsi in tirate free-rock di sei ore mentre HansJoachim preferisce “essere consapevole di quanto stavo facendo e apprezzare e utilizzare l’attrezzatura tecnica a mia disposizione. Nessun approccio accademico, "solo" molta pratica con rumori, toni e suoni per imparare a utilizzarli e creare un mio linguaggio. Nessun movimento artistico: solo curiosità, divertimento, senso dell’avventura. Sia nella comune Human Being che allo Zodiak sperimentavo come capire il perché sono qui e a quale scopo.” E’ in questo humus che il Nostro si imbatte in Dieter Moebius, studente d’arte grafica svizzero di dieci primavere più giovane, e nel 1970 - dopo che i Tangerine Dream si sfaldano con Electronic Meditation e resuscitano - lo persuade con Schnitzler a formare appunto i Kluster. Faccenda incompromissoria lontana da armonia, ritmo e melodia; che disturba e rimane fuori da qualsiasi corrente coeva. Al punto che si fatica a trovare un’etichetta finché non arriva 90 rearview mirror la Schwann, specializzata in musiche sacre che impone la presenza di almeno una traccia per disco contenente liriche a sfondo religioso. Scappa da ridere, se non fosse che nei due lp - già registrati con Conrad Plank: Klopfzeichen (1970; 7.5/10), Zwei-Osterei (1971; 7.5/10) - non c’è nulla per cui sghignazzare: voci che si accavallano e distorcono su rantoli percussivi; organi dissonanti ed echi minacciosi; i testi sono salmodiati in uno straniante tedesco alimentando morbosità e apprensione. Ci trovate anche chitarre, percussioni, violoncello e flauto, ma più di tutto un senso del (dis)ordine - i Kraftwerk ancora Organisation un vago referente - che si spaccerà poi per nuovissimo chiamandolo “industrial”. Può durare poco senza diventare parodia: nel ‘71 un concerto a Gottinga conclude la vicenda. E’ una morte necessaria, giacché la crisalide ospita la meravigliosa farfalla Cluster. Si cambia una sola consonante e ciò nonostante la metamorfosi è graduale benché netta, monitorata com’è dal solito Plank: “All’inizio era più o meno una versione musicale dell’Azionismo (tana per i Throbbing Gristle, N.d.A.), e tutti coloro che erano coinvolti nei Kluster sapevano che era il modo giusto di fare; finché non capimmo che quella "musica" non funzionava e idem il lavoro con Schnitzler. Moebius e io avevamo maturato convinzioni differenti su come agire e vivere, pertanto sciogliemmo i Kluster per provare da soli. Come ben sai, le cose funzionarono”. Occorreranno ventiquattro mesi per carburare tramite due lp non facili, eredità di transizione benché di vaglia. Dapprima la creatura è ancorata ancora un pò al recente passato, e lo chiarisce un primo omonimo edito dalla Philips nel ’71 (7.3/10) colmo di gassosità ambientali, involucri fantasmatici e nervosi che levitano all’ora di chiusura dalle fabbriche della Ruhr verso lo spazio profondo. Come farsi ingoiare da un buco nero, volontariamente. Spetta al successore 2 (Brain, 1972; 7,8/10) restituire un’ancor più attenta, livida riflessione sulla Germania in bilico tra passato drammatico e scintillio dell’industrializzazione. Di renderla metafora dell’occidente prossimo venturo nella sua totalità, teatro di vendette perpetrate dalle divine e progressive sorti e un’indesiderata eredità da scontare come si può, più in fretta che si può. Martin Rev e Alan Vega, frattanto, esplorano inconsapevolmente le stesse minacce latenti, rispondono alle crisi interiori ed esteriori che esploderanno nel ’77. L’estetica urbana e grigio fumo del dopo punk risiede in massima parte qui, sappiatelo. Torniamo ora al cuore color pece dei Settanta: occorre una svolta dopo aver sviscerato un canone, di nuovo tramite una coppia di vinili. Provvidenziale per la “sterzata” Harmonia di tre anni più tardi l’entrata in scena di Michael Rother, in momentaneo sabbatico dai Neu!: “Ogni cosa nei Cluster e nel nostro lavoro accadeva in maniera accidentale. Così poteva trovare il proprio momento di fiorire e poi morire.” Ci piace tuttavia sottolineare anche una motivazione psico-geografica: dalla città il trio si sposta in una fattoria riconvertita a studio nella rurale Forst, sulle rive del fiume Weser. Zona di foreste e primordiali vedute, di paesaggi che piegano l’anelito di fuga cosmica dall’urbano in un’elettronica bucolica. La terra riconsegna musica e relativi artefici a una dimensione umana: “Rother fu importante, ma è stata più la vita rurale di Forst a cambiare le cose. La bellezza di quella parte della Germania, le vecchie case costruite tre secoli fa, il giardinaggio e la raccolta di frutta selvatica; cucinare e faticare per sopravvivere.” Paesaggi che appaiono sulla copertina di Sowiesoso, parto numero due della nuova vita, essendo il primo il quantico Zuckerzeit (Brain, 1974; 9,0/10) così abbagliante di melodico vignettismo; sorridente e contorto a seconda di chi componga (rispettiva- mente: Roedelius e Moebius) e in ogni caso in anticipo sull’elettronica ambientale e la trance. Melodie stralunate dai riflessi giocosi (illuminante il titolo: il tempo dello zucchero), tastiere caramellose e drum machine primitive che paiono incartarsi allorché inventano la sognante nostalgia - da Vhs scolorita e stridente - dei Boards Of Canada. Roba per sonorizzare cortometraggi della mente o fungere da commento ai primi esperimenti della tv a colori, inoltre, e non a caso gli Young Marble Giants del Testcard E.P. e gli Stereolab serbano gratitudine. Non se ne stanno con le mani in mano, i tre: intraprendono un tour e decidono di registrare un nuovo lavoro cambiando ragione sociale. Immutata la grandezza, la forma segue vie più ritmate e altrettanto importanti mediando l’esperienza Neu!. Musik Von Harmonia (Brain, 1974; 8,0/10) viene spinto con adeguato battage pubblicitario dalla casa discografica e vale l’impegno, segnalando il chitarrismo minimale e la pulsione “motorik” rotheriane; assemblato con pazienza su un paio di registratori a bobine, è traslucida magia di pop futurista e cavalcate sospese, sensazionali presentimenti di misterica techno nel nucleo di attuali ossessioni: musica umanissima prodotta con macchine e pazienza da artigiani entusiasti e perciò pulsante, mistica: “Harmonia fu sostanzialmente la via d’uscita di Michael Rother dai Neu!, che non riusciva più a lavorare con Klaus Dinger; desiderava rivitalizzare lo stile dei Neu!, almeno il “tiro” e la bellezza melodica. Andò bene per un po’, poiché come Cluster eravamo dissimili e non potevamo andare avanti all’infinito con la sua idea.” Bellezza che fa il paio col seguito Deluxe (Brain, 1975; 7,5/10), mentre qualcuno ha preso nota e imboccato una favolosa carriera con non pochi parallelismi. Ci arriviamo tra poche righe, magnificando prima gli emozionanti acquerelli Cluster di Sowiesoso (Brain, 1976; 7,5/10) che - paradosso ma mica tanto - sanciscono l’archiviazione del progetto Harmonia. Ora di accogliere il discepolo Brian Eno e, come spesso accade tra illuminati, inscenare un vantaggioso, duplice scambio. L’ex Roxy Music palesa l’influenza di Zuckerzeit in Another Green World e conseguenza ne è che si rechi in pellegrinaggio a Forst. Il rapporto di reciproca stima evolve nella composizione spontanea di numerosi brani e nelle posteriori collaborazioni: “Incontrare Brian fu un avvenimento grandioso e lo stesso lavorare con lui a tutti quegli album. Suonammo e registrammo assieme ciò che finì sui nostri lp, poi ci chiese il favore di mettere By This River su Before And After Science. Di certo era influenzato da rearview mirror 91 noi anche quando era nei Roxy Music e con le cose che pubblicò dopo con Robert Fripp e da solo. Collaborare fu divertente: eravamo interessati alle sue cose, non intendevamo sottomettere il suo stile.” Comprova ulteriormente il valore dell’operato il fatto che i vinili siano stati ristampati svariate volte in digitale e recentissimamente dalla Bureau-b. Il sublime Cluster & Eno (Sky, 1977; 8,0/10) è l’iniziazione che figlierà la controversa - non per noi - “musica per film e aeroporti”: produce Plank con ospiti di riguardo Holger Czukay e Asmus Tietchens. Il lavoro si racconta gemma che dai prati punta il cielo prima e il cosmo poi come il microfono in copertina; sintesi iridescente di tecnologia minimale e minuetti riflessivi, di intuizioni orientaleggianti ed estatici volteggi. Malinconico col sorriso, spiana la via a generazioni di trafficanti di elettronica e rimembranze da cameretta, stendendosi idillico ponte sul successore After The Heat (Sky, 1977; 7,4/10) figlio delle stesse session. Bizzarramente, trattasi di cosa diversa come si intuisce dall’intestazione - figurano i soli cognomi - e dallo stile, ritmicamente più folto e ricco di “groove”. Sorta di funk bianco surrealista anche se fosco, annebbiato e propenso a interpretare le radici terzomondiste con l’ansia che talvolta percorre il coevo Before After And Science , disperde 92 rearview mirror David Bowie negli strumentali di Low e “Heroes” inconcepibili senza... - ed è pronta a oltrepassare l’Atlantico verso i Talking Heads. Le strade infatti si dividono: Moebius/Roedelius proseguono come Cluster a stemperare la grandezza in eccellente mestiere, laddove l’indaffarato “non musicista” non ha più un minuto libero. Resta da citare il recente recupero Tracks And Traces (Gronland, 2009; 7,5/10) che simbolizza un anello mancante nella narrazione. Per l’occasione battezzatisi Harmonia '76, i ranghi imprimono su nastro materiali destinati a vicende piuttosto complesse: pubblicati una prima volta nel ‘97, sono ritirati dal mercato su pressione di Rother; i master andranno smarriti e successivamente ritrovati. Brian, da par suo, ebbe a definire Harmonia come la band più importate del momento e parteciparvi fu motivo d’orgoglio e ginnastica spirituale. Al supergruppo kraut per antonomasia si aggiunse un illuminato dell’art rock anglosassone e i risultati non potevano essere trascurabili. Vicini per forza di cose al luccichio di Musik Von Harmonia, al sapore melodico di Rother e dell’Eno di lì a venire, a verve ipnotica e oasi liquide che, sommate, danno classe immacolata e rilevanza storica confermata. Da qui si plana in parallelo con lo spegnersi della stagione krauta dentro la progenie new wave e il colpo di coda Rastakrautpasta (Sky, 1980; 7,8/10), pregevole assurdità a firma del solo Moebius (in combutta con Plank...) che cela apocrifi Suicide, giostre dub sinistri e ironia finto-etnologica. Meglio dei conclusivi capitoli clusteriani, benché validissimi e non oltrepassati dal presente, essendo semmai quest’ultimo a essere stato forgiato dal duo. Apprezzabili sono il riepilogare in classicheggiante serenità e nervosismi occasionali di Grosses Wasser (Sky, 1979; 7,2/10) e il più ansiogeno Curiosum (Sky, 1981; 7,2/10), storto di un'elettronica a "fedeltà domestica" che per moltitudini - la Sheffield di allora e la posteriore Warp, per dire - varranno più della stele di Rosetta. A ge of changes Prolifico fino allo sfiancamento l’Hans Joachim Roedelius da qui in poi, solista che sconfina nel solipsismo e, in tal modo, indica la necessità di avere a fianco qualcuno in cui specchiarsi creativamente. Trentasei fatiche in proprio - cui s’aggiungono quella quindicina tra collaborazioni e progetti vari… - disegnano una discografia intricata e dispersiva dell’innegabile talento. Perché a questi ritmi sbracherebbe chiunque occorre intervenire di setaccio e separare il grano dal loglio, e in ragione di ciò abbiamo deciso di offrirvi un orientamento il più possibile esaustivo che risparmi confusione ed emicranie. Il Nostro comincia alla pari di Moebius nel 1978: si abbandona però quasi del tutto la gloria passata mentre l’ex socio ne riprenderà diverse caratteristiche. Peculiari e non in positivo Durch Die Wüste e Jardin Au Fou, che il tedesco licenzia nel biennio susseguente in pagine didascaliche e rimasugli prog accesi da fiochi bagliori. Non lasciano segni rilevanti e sarebbe stato opportuno del riposo per un Genio prossimo alla cinquantina. Fa così storia a sé il progetto Selbstportraits, tre volumi dal 1979 al 1980 che mettono in scena un guardarsi indietro edulcorando outtakes dei Cluster con un’ambient a base di piano e synth nel frattempo divenuta maniera. Professionalità e rigore senza colpo ferire anche nell’accademia in scia a Brian e Harold Budd (Lustwandel e Wenn Der Südwind Weht, 1981; Flieg' Vogel Flieg', Wasser Im Wind e Offene Türen, 1982) che lambisce la tappezzeria col passaggio discografico alla Venture. Il lascito migliore di questa fase disordinata appartiene però all'ex compagno di cordata Moebius ed è il sorprendente Zero Set (Sky, 1983; 7,6/10), di freschissima riedizione su Bureau b e complottato a sei mani con l’ubiquo Plank e il batterista dei Guru Guru, Mani Neumeier. Rinfrescante figura, costui, che macina poliritmi math-rock in possenti composizioni che qui i Battles e là citano i King Crimson e Remain In Light. Serve forse a smuovere qualcosa, essendo dodici mesi dopo un (minore) acuto Geschenk des Augenblicks, archi e atmosfere severe ma all’occorrenza delicate che segnalano ritrovata verve avanguardista. Parrebbe la via giusta, sennonché il berlinese devia affidandosi a minuscole label e sentieri laterali di jazz applicato a beat techno. Bastionen Der Liebe guadagna irruento il confine tra jazz-rock e fusion postmoderna, mentre nel ‘94 Theatreworks riprende le sedute con Harmonia ed Eno e campioni da ogni dove per un pregiato avant jazz e una suggestiva neocontemporanea. Lieder Vom Steinfeld e Sinfonia Contempora sono i progetti allestiti poco dopo, il secondo rivelatorio per esito e metodologia: ancora vecchi nastri, però spezzati e sfasati in un straniante armonia. Resta a lungo l’ultima cosa rilevante fino al nuovo millennio dove - a un’età in cui tanti hanno tirato i remi in barca o non sono più tra noi - Hans Joachim allestisce nuove collaborazioni curiose per quanto in sostanza pletoriche. Eccezione incarnata da Inlandish con Tim Story (Gronland Records, 2008; 7,3/10), equilibrato saggio di cinematismi alla Erik Satie, parentesi cosmiche regalate dal passato illustre e strizzate d’occhio ad Alva Noto. Nondimeno: il passato è difficile scacciarlo e si accovaccia dietro l’angolo, lo si voglia o meno è lì pronto abalzarti addosso. Lungo la ridda di cui sopra i Cluster si riformano e, nel 1990, Apropos guarda alla stessa avant-techno di Grosses Wasser nel frattempo divenuta “hype” del giorno. Così come accade alla riscoperta del rock krauto di lì a qualche anno, che cagiona due tour dei Cluster che toccano Stati Uniti e Giappone e sfoggiano un suono non fossilizzato. Lo ribadisce un disco affatto male - conscio del percorso fatto sin qui benché non passatista - come Qua (Nepenthe Music, 2009; 7,1/10): “Decidemmo di ripartire dopo parecchio tempo perché, in realtà, come Cluster non ci eravamo mai sciolti. Avevamo bisogno di rendercene conto, perché esiste una sorta di motivazione psico-dinamica tra noi dopo tutti questi anni. Non c’è gran differenza tra i Cluster del 2009 e quelli dei Settanta: operiamo nella stessa maniera e non c’è dubbio che le nostre carriere soliste e le esperienze personali influiscano su di noi.” Da cosa nasce cosa, e anche gli Harmonia tornano in pista per un breve momento, lasciando alla fine l’amaro in bocca: “E’ stato bello tornare assieme ma, dal momento che siamo finiti a rimasticare lo stesso vecchio materiale, ho preso interesse e mi sono chiamato fuori. Cluster sono imprevedibilità, sperimentazione e avventura, cambiare strutture e umori.“ Filosofia antica e trionfante che sorregge Roedelius fin dagli albori e oggi gli permette, andando tranquillo incontro al proprio tramonto, di chiudere il cerchio senza dormire sugli allori. In un mondo dove chi pubblica anche un unico e mediocre disco sproloquia da emissario del divino, ne porti in palma di mano la lucidità: “L’attitudine non è mutata. La tecnologia oggi permette un miglior approccio sia dal vivo che in studio; del mercato non ci importa granché, la musica che facciamo si crea da sé un pubblico. Probabilmente molti artisti oggi sono “bloccati” ma potrebbe non essere colpa loro. Il business crea le proprie necessità, che siano o meno rilevanti per la consapevolezza di ciò che è giusto o sbagliato. Ci sono sempre state persone alle prese con un’arte che tocca spirito e cuore altrui, aiutando a cambiare mentalità. La cosa più complicata rimane rispondere a domande come ‘chi sono’ e ‘cosa faccio ‘qui’.“ Vecchio saggio, Hans Joachim, ha creato anni fa non poco del qui e ora con la quieta modestia e la visione cristallina dei Grandi. Sua la nostra riconoscenza, da qui all’eternità. rearview mirror 93 Ristampe AA.VV. - 15 Years Of Metalheadz (Metalheadz, Novembre 2009) G enere : D rum ' n 'B as s Assieme a Reinforced, Metalheadz è l'etichetta drum'n'bass per eccellenza, la label per la quale bisognava aver inciso almeno un 7’’ per esserne considerato un vero e riconosciuto protagonista. Fondata dal famigerato Goldie, Storm e la compianta Kemistry, la label festeggia un anniversario che non è di certo il primo, senz'altro però va sottolineato il tentativo della compila di restituire un’essenza pulsante al figlio vip dell’ardkore e della Jungle. La tracklist spara i colpi migliori grazie alle produzioni del periodo d’oro (il 1995-1997), sorvolando il biennio buio (1998-2000) e contenendo abilmente le complicazioni dei sottogeneri (la techstep portentosa di Doc Scott in Swarm e quella ancora più mefitica di Adam F in Metropolis) si porta in zona contemporanea. Ci troviamo le produzioni recenti, tutte peraltro impregnate di ricordi balearici e qualche rovescio belga. Sulla medesima linea estiva, la conclusiva Be True datata 2007; al mix i Commix, maestri da sempre e questa volta in taglio minimalista di scuola Laurie Anderson. Attenzione alla Metalheadz night a Roma il 19 dicembre. Ci saranno i fondatori e tanti altri al Alpheus Multiclub. Grandi assenti della compila: Ed Rush & Optical.(7/10) Edoardo Bridda 94 rearview mirror AA. VV. - Zevolution Ze Records Re-Edited (Strut Records, Ottobre 2009) G enere : mutant disco Proseguendo le celebrazioni per il trentesimo compleanno della ZE, la Strut si spinge un passo oltre in una collaborazione che, alla luce dei risultati, ci auspichiamo più duratura che mai. Intrigante e riuscitissima infatti l’idea di radunare brani del catalogo in versioni proposte da alcuni dj. Un progetto che, in verità, prendeva le mosse già nel 2004 con un 12” dove Optimo rifaceva nientemeno che Contort Yourself: da leccarsi i baffi in prospettiva, se non che la prematura scomparsa della povera Lizzy Mercier Descloux imponeva una pausa di riflessione. Altre le necessità dell’esistenza, così che la faccenda veniva accantonata. Frattanto l’interesse attorno all’etichetta newyorchese e alla sua estetica cresceva, diventava oggetto di tributi per l’attualissima miscela di post-punk e tentazioni danzanti, groove taglienti e obliqua solarità pop. Come trasportare il dancefloor in mezzo ai vicoli della Big Apple prima che gli Yuppies s’impadronissero del Village, laddove a condurre in porto la medesima operazione ci pensava frattanto Arthur Russell. Tra gli attestati di stima figuravano anche gli “edit” da ballo che andavano accumulandosi, sovente dando corpo a veri classici. Ne sfilano qui una dozzina e la festa è grande, con recuperi e novità commissionate per l’occasione che si con- fondono ed è complimento dei più alti. Nella scaletta - compatta e scorrevole nonostante la durata; disintossicante per muscoli e meningi - spiccano la On A Day Like Today di Gichy Dan (con quel famigerato loop di “la la” fanciulleschi che Todd Terje rende ancor più irresistibile) e Felix Dickinson che si lavora di gorgogli e pialla gli Aural Exciters (Spooks In Space), una devastante ricongiunzione a firma Richard Sen delle due Almost Black (così che James White risulta tutt’uno di No Wave e Mutant Disco) e i Material con Nona Hendryx che stracciano di lame rock il “post soul” Bustin’ Out. Tanto per dire, perché sarebbe insensato accantonare la favola disco-pop in creme d’archi Encore L’Amore (bellezza eterna griffata Garcons che, “trattata” da Leo Zero, spazza via tutte le simili nullità attuali) o il guasconeggiare da balera tropicale marca Kid Creole (addirittura due i brani, e ottimi: la take Idjut Boys su I’m Corrupt e Soul Mekanik che si occupa di Annie, I’m Not Your Daddy). Uscita da possedere assolutamente per almeno due ordini di motivi: la classe elevata della musica e la clamorosa modernità di quest’ultima. Non si può dire lo stesso di ogni suono che fu innovativo alla sua prima apparizione.(7.7/10) Giancarlo Turra AA. VV. - In The Christmas Groove (Strut Records, Novembre 2009) G enere : soul nuggets Ci vuole un bel po’ di cinismo e un cuore di pietra per affermare che le dodici rarità raggruppate qui dalla Strut sono robetta per curiosi e nulla più. Oppure bisogna ignorare che l’era aurea della black nutriva un amore costante - spesso ironico e divertito: è esattamente lo spirito adeguato - a materiali ispirati e/o dedicati alle feste di fine anno. Il fatto è che non puoi non ridere di gusto ascoltando gli Electric Jungle sciorinare Funky Funky Christmas tra voci alla Funkadelic e sax fumigante, oppure la Soul Santa dei Funk Machine quintessenza di Curtis Mayfield addomesticato, dire no a Milly & Silly quando ti invitano col wah-wah a un’improbabile Getting Down For Xmas. Che nessuno sia meno di un patrimonio per intenditori - eccezion fatta per Jimmy Reed, che sparge vischio sul blues e se la cava pure… - ci sta a pennello, giacché il punto non è chi ma come. Ovvero l’attitudine di gioiosa noncuranza che spingeva questi artigiani a piazzare cose del genere sui retri dei singoli facendola franca cavandoci un sorri- so e talvolta qualcosa in più. Bisogna proprio essere dei barbogi tediosi per non apprezzare i ragazzini dell’Harlem Children’s Chorus (affatto scontata Black Christmas, idem il suo “messaggio”) e la dissennata Bogaloo Santa Claus (!) di J.D. McDonald, una sensuosa Let’s Get It Together This Christmas (Harley Averne Band) e il classico Auld Lang Syne affrontato con piglio vibrante dai Black On White Affair. Non vi cambieranno la vita, nondimeno il buonumore è garantito. Dopo tutto è Natale, no?(6.8/10) Giancarlo Turra Claw Hammer - Live In Texas 1995 (Munster, Novembre 2009) G enere : P unk B lues I losangelini Claw Hammer catturati all'altezza della loro svolta major, dopo anni di praticantato indie. L'anno è il 1995, quello dell'album Thank The Holder Uppers (Atlantic), e davvero un solo rammarico si può esprimere, una volta finito di ascoltare e riascoltare questo live: peccato non esserci stati quella sera in Texas. Peccato perché la band di Christopher Bagarozzi (chitarra), Jon Wahl (voce) e Robert Walther (basso) dal vivo spaccava. Anzi: spacca ancora in questo disco. Come in Moonlight On Vermont, con quell'armonica a bocca per intermezzo, lo stomping fatale e blusey, la voce di Wahl che richiama tutti, ma in fondo nessuno. Un po' Axel Rose, un po' Capitano Cuor di Bue, un po' un adolescente strafatto. E un po' nessuno proprio. E non mancano qui i 'classici' della band riproposti: Succotash (da Ramwhale, SFTRI, 1992) o ancora Malthusian Blues e William Tell (da quel capolavoro che ha nome Pablum, Epitaph, 1993). E poi l'omaggio agli eroi assoluti di questo folle combo: i Devo. Una cover dal loro capolavoro: una Uncontrollable Urge che tira da matti, perfetta!, e che ci ricorda che questo è proprio il gruppo che omaggiò i prime movers di Akron coverizzandone per intero il primo disco a 33 giri. Peccato manchino all'appello piccole gemme, come il lato a sul loro terzo 7", datato 1989: Candle Opera, quella dove forse emerge con più compiutezza un'altra bizzarra influenza del gruppo, specie per il cantato di Wahl, ossia i Guns N' Roses.(8/10) Massimo Padalino rearview mirror 95 Emil Viklický - The Funky Way Of (Vampisoul, Novembre 2009) G enere : jazz funk Sembra che non sappia più dove sbattere la testa in cerca di originalità da ristampare, il capoccia della Vampisoul Inigo Muster. In chiusura di un fiacco 2009 punta i riflettori oltrecortina, su quella Cecoslovacchia che fu più rapida a recepire i mutamenti socioculturali degli anni Sessanta nonostante la repressione. Questo il contesto in cui lavorava Emil Viklický, tastierista jazz colà tra i più rinomati e oggetto di questa retrospettiva relativa al periodo 1975-1987. Tutt’ora attivo, nasce nel 1948 e inizia la carriera professionistica a ventisei anni con il jazzrock degli Energit incappando subito nella censura di regime; la cosa non gli impedisce di figurare poi nei affini SHQ, dirigere una propria “big band” e accompagnare la cantante Eva Svobodová. Lungo i ’70 si cimenta con jazz latino e mescolato alla tradizione morava, con folk-rock e new thing. Durante la borsa di studio annuale al prestigioso Berklee College Of Music di Boston, stringe amicizia con un giovane Bill Frisell e Vinnie Johnson e incide con costoro un lp in patria nel ‘78. In base a siffatto curriculum ci s’aspetterebbero cose ottime e invece nisba: l’ascolto restituisce la buona tecnica di un compositore devoto - parziale eccezione il passabile materiale con Frisell - a una fusion talora screziata di funk scolastica, quando non a un jazz più tradizionale de medesimo livello. Spiace, giacché non era facile suonare dalle sue parti all’epoca, ma non si va oltre la mera curiosità.Vampisoul, svegliati prima che sia troppo tardi…(6/10) Giancarlo Turra Julian Cope - Peggy Suicide (Deluxe Edition) (Universal, Ottobre 2009) G enere : psych - funk - rock Cope l'aspirante pop-star (Beautiful Love), Cope il santone del folk lisergico (Pristeen), Cope l'autore di ballate crepuscolari (Promised Land), Cope il bluesman tamarro e in acido (Safesurfer), Cope il Velvet Underground mancato (Drive She Said), Cope il Morphine inglese (You...), Cope il rocker pantaloni in pelle e stivali (Hanging Out And Hang Up On The Line) ma soprattutto Cope e il funk. Peggy Suicide ne è impregnato fino al midollo, in brani come East Easy Rider (ortodosso), If You Loved Me At All (minimale), Soldier Blue (tribale), Not Raving But Drawning (psichedelico) e chi più ne ha più ne metta. Una boccata d'ossigeno che arriva dopo un tritti96 rearview mirror co di dischi per lo meno discutibile, costituito dallo scialbo My Nation Underground, dall'acustico Skellington e dal dispersivo Droolian. In un momento in cui l'ex Teardrop Explodes ha decisamente bisogno di ritrovarsi. Peggy Suicide è l'opera giusta, un buon viatico per i novanta appena cominciati e un modo per rimettere a posto le idee. Diciotto brani in cui il Nostro recupera la vena creativa messa in mostra fin dagli esordi di World Shut Your Mouth e Fried cedendo all'inventiva, lasciandosi trasportare da un mix di follia incontrollata e abuso di droghe, mescolando generi e appartenenze. Ne nasce un concept sul rapporto uomo-natura (ma non solo) dai risvolti sorprendenti, un disco che certo non raggiunge le vette dei primi due episodi solisti ma ribadisce comunque la statura artistica di un musicista enciclopedico e perso nelle sue elucubrazioni. Nella ristampa deluxe uscita a ottobre trovate il cd originale più un secondo cd che raccoglie singoli, remixes, e b-sides: materiale che, a essere sinceri, poco aggiunge all'economia del disco originale.(7.3/10) Fabrizio Zampighi Marta Kubišová - NE! The Soul Of Marta Kubišová (Vampisoul, Dicembre 2009) G enere : sciantosa d ' oltrecortina Si possono estendere anche a questo cd le considerazioni sulla raccolta di Emil Viklický pubblicata in contemporanea da Vampisoul, col distinguo di una caratura qui leggermente superiore. Simili consto e vicende: Marta Kubišová era alla fine dei Sessanta la cantante più popolare della Cecoslovacchia, all’epoca in cui la contestazione fu schiacciata sotto i carri armati sovietici. Viene dunque spontaneo essere indulgenti con chi fu bandita per venti anni, benché la ragazza possedesse una voce niente male: profonda e versatile, indecisa tra pop irrobustito di negritudine e tentazioni più sperimentali alla Grace Slick. Questi gli estremi di brani estratti dagli archivi della Supraphon e risalenti al periodo ’66-’70, quando l’artista calcava professionalmente le scene da tre anni dopo la gavetta in provincia. La svolta fu seguire il pigmalione/produttore Bohuslav Ondrácek a Praga e diventare attrazione fissa highlight Nirvana - Bleach Deluxe Edition (Sub Pop, Novembre 2009) G enere : grunge primigenio Sembra ieri e invece sono passati vent’anni. Non si stenta a crederlo, dato che di acqua (leggi mp3) ne è passata eccome sotto i ponti (della circolazione musicale), ma fa pur sempre un certo effetto, soprattutto se quell’uscita - a posteriori fondamentale - la si è vissuta in diretta. Non è però solo una questione anagrafica; a suscitare impressione è l’attualità di un disco partorito in garage da quattro drop out di provincia ma cresciuto alla distanza nella considerazione dei fan fino a divenire il trademark dei Nirvana primigeni: quelli cupi, grezzi, ruvidi, straccioni… In una parola - che all’epoca aveva eccome ancora un senso - underground. Non che le cose sarebbero poi cambiate col successo post-Nevermind, col corollario di intrinseca irrequietezza e angosciosa inadeguatezza culminato in quello che ormai è storia del rock (e del gossip), ma si sa, la pepita “nascosta” è sempre quella che agli occhi dei fan più accaniti, quelli della prima ora, brilla di più. Perchè riascoltare il grezzume del riffone d'attacco di School, lo stomp melvinsiniano di Paper Cuts, l'aggro-punk in stop'n'go di Negative Creep, il boogie scavezzacollo di Mr. Moustache è sempre un tuffo al cuore oltre che l'apertura di nuovi mondi per il rock underground a venire. L’occasione è quella giusta. Così il ventennale dell’uscita viene celebrato dalla Sub Pop, per mano dell’allora ingegnere del suono Jack Endino, con la riproposizione in versione rimasterizzata di quella pietra miliare: doppio vinile bianco da 180gr, arricchito da un live del 1990, catturato al Pine Streets Theatre di Portland, e da un booklet che è gioia per gli occhi. E se il live - già circolato sotto forma di bootleg - permette di comprendere la vena aggressiva e incompromissoria dell’allora quartetto e l’accluso booklet di 16 pagine (52 nell’edizione in cd) mostra foto d’epoca praticamente inedite, a fare la differenza restano sempre quelle 11 tracce del vinile originario. Pezzi apparentemente semplici che segnano, però, la grandezza di un gruppo (e di un artista) da cucciolo, quando suonare dentro le quattro mura scalcinate di un garage era l’unica vera via per incanalare una rabbia e una sensibilità troppo diverse e difficile da comprendere per l’ambiente da boscaioli in cui Cobain e soci erano cresciuti. Non lo spartiacque che fu Nevermind, con tutto quello che significò per l’emersione di suoni destinati ad un pubblico sempre crescente, insomma. Ma pur sempre un disco capolavoro che mischia asperità e poesia, melodia e rumore, mostrando il lato ferino e genuino di quello che sarebbe poi divenuto il crack più clamoroso della storia del rock.(8/10) Stefano Pifferi del teatro Rokoko, fondare i Golden Kids (degli Os Mutantes assai meno geniali…) e, nel ’68, conferire lineamenti più ruvidi a un leggero beat-pop orchestrale venato soul. Il meglio lo offrono i brani autografi: Tak Dej Se… e Svlikam Lasku sono i Jefferson Airplane in chiave errebì, l’ottima Tajga Blues ’69 sta tra Lee Hazlewood e uno Scott Walker femmineo e terreno; le strutture della sensuosa Legendy e della tesa Jakoby Nic sfuggono la banalità. Quando l’Armata Rossa irrompe le luci si spengono: senza paura, Marta se- guita a sostenere il dissenso, figura popolarissima però scomoda cui è proibito esibirsi.Trascorre i due decenni successivi a fare la mamma e il portavoce del movimento Carta 77 con l’amico Václav Havel. Caduto il regime, raccoglie infine il plauso dei compatrioti. Un talento non disprezzabile il suo, in fin dei conti, benché la cosa più eclatante regalataci da quel paese in ambito rock seguitino a essere i Plastic People Of The Universe.(6.8/10) Giancarlo Turra rearview mirror 97 Peanut Butter Wolf - 45 Live: Classic Rap 45s (Stones Throw, Settembre 2009) G enere : H ip H op old skool meraviglia Chris Manak - bianco di San Diego, capelli rossicci, smunto, orbite scavate - è Peanut Butter Wolf (PBW), il fondatore e il capo della Stones Throw, l'uomo di Madlib e J Dilla (citiamo giusto i due che sono già classici). E' un nerd del vinile (ti pareva), un maniaco degli anni Ottanta (soprattutto del funk Ottanta; Dam-Funk mica per caso sta alla ST), un cultore della old skool rap. Ecco allora questo box di latta stile biscotti della nonna - artigianale e bellissimo come i migliori manufatti ST - con dentro dieci 45 giri: 18 classici hip hop editati da PBW (mai usciti prima in questo formato) e due sue produzioni preistoriche, 14 anni all'anagrafe (non incluse però nel promo, che è in formato cd mix). E' la musica perfetta per muovere il sedere ad un party indie che sia davvero indie, tutta sulla solarità delle basi - coi piedi piantati nel funk e un occhio al mondo dance - e dei rappati flowiali: "O-o-o-o-Old Skool". I nomi più noti sono veri pezzi di storia HH: T La Rock, Big Daddy Kane, Mantronix, Jungle Brothers, Boogie Down Productions. Andatevi a recuperare l'unico vero album prodotto finora da PBW, My Vinyl Weighs A Ton (1999).(7.1/10) Gabriele Marino Rastafarians (The) - Orthodox (Makasound, Novembre 2009) G enere : roots reggae Una vicenda che lascia di stucco: i Rastafarians erano un sestetto dedito alla piena devozione verso indovinate un po’ quale credo. Fin qui nulla di straordinario, non fosse che - in luogo di Kingston - erano domiciliati a Santa Cruz, California. Mica finita: stando alle dicerie, pare avessero occupato con amici e parenti assortiti nientemeno che una chiesa Battista, dalla quale officiavano il rito Rastafariano ogni domenica mattina con dovizia di fumate colossali e lodi all’altissimo su bassi da far crollare i muri. Ci si immagina lo sgomento del vicinato alla vista di questi personaggi intenti a ballare attorno al fuoco coi regolamentari dreadlocks che svolazzano per aria. Fin qui il folklore e l’aneddotica. 98 rearview mirror La musica? Buona e coerentemente adeguata a quanto sopra, nel solco di una battuta in levare che celebrava nelle liriche l’epoca “consapevole” e politicizzata mentre dietro l’angolo attendeva la “slackness”. Reggae che omaggia le radici africane secondo il manuale, allora, che non si nega azzeccati slarghi dub (Occupation, This Ya Music) e tuttavia patisce una scrittura non proprio memorabile (eccezioni il passo guizzante di A Love We Deal Wit e l’accorata Jah Greatest Blessings). Sorta di straight edge del credo, i nostri dedicavano quest’album del 1981 a Sua Maestà Haile Selassie I ed erano forse troppo presi dal fervore religioso per sgobbare quel tanto a raggiungere una promozione piena. Prescindendo dalla bizzarria del contesto, la riscoperta è discreta ma destinata in sostanza agli specialisti.(6.8/10) Giancarlo Turra Roll Deep - Street Anthems (Roll Deep Recordings, Ottobre 2009) G enere : G rime & C o . Collettivo nato nel 2002 nella Londra garage, cardine e vivaio della scena grime, con dentro figure chiave come Wiley, Skepta e la cash cow Dizzee Rascal. Tre album all'attivo, questa è la prima compilation, con diciannove tra classici assoluti del genere (la Eskimo di Wiley cantata da Rascal) e inediti, dalle prime prove underground, caratterizzate da un suono chiuso opprimente ipnotico gommoso e da un flow inintellegibile (cui tanto deve molta scena hip hop d'oggi, Eminem in testa), alle puntate pop (Do This Ting, Shake a Leg, Avenue), hip hop/r'n'b/dance (Remember The Days, They Should Know, Do Me Wrong) e reggae (Movin in Cicles). Ci sono cose belle (perché importanti, perché riuscitissime) e cose davvero brutte, messa comunque in conto la ripetitività dei pezzi più puristi. Basilare però per capire il grime.(6.5/10) Gabriele Marino Stone Roses (The) - Stone Roses (SonyBMG, Dicembre 2009) G enere : pop Nulla accade per caso, nemmeno l’episodio più sensazionale. Nella musica, poi, men che meno. Eppure, l’opera prima degli Stone Roses fu salutata come la salvezza del rock. Un evento sensazionale. In realtà, messo da parte un clamore di stampo(a) per lo più britannico, Ian Brown, John Squire, Mani e Reni dalla loro ebbero il modo di imporsi senza inventare nulla. Tamponarono laddove necessario, ovvero nella crepa post Smiths-iana, capitalizzando in termini messianici lo zeitgeist dell’epoca. Nella metà degli ’80, con la fine della new wave, dagli Stati Uniti alla Bretagna si propagò un ritorno al passato rimosso, ai tempi, dall’immaginario collettivo: i Byrds. Da un lato il Paisley Underground, dall’altro gli Smiths; e nel mentre, ancora dal Regno Unito, band a loro modo rapite dalla Quinta Dimensione come Jesus & Mary Chain e My Bloody Valentine muovevano i primi passi, seguite dalla cricca C86. Si era, dunque, in pieno revival sixties. Si respirava un’aria diversa.Tanto è vero che Londra, sospinta dall’avvento dell’ecstacy, intuendo nella club culture ibizenca una via traversa all’hippysmo d’antan, inaugurava la nuova estate dell’amore. Nella grigia Manchester si provava altrettanto con l’Haçienda. C’era, però, uno spauracchio da fronteggiare, cioè il mal de vivre che da Ian Curtis arriva a Morrissey. Tuttavia, proprio nel locale di Tony Wilson fiorirono gli Happy Mondays, cinque reietti capaci di suonare come dei B.T. Express strafatti (di ecstacy, naturalmente) e punk. Prodomi di Madchester. I Roses ebbero pochi (ma rilevanti) contatti con tale crossover, visto che Squire elargiva jingle-jangle d’altri tempi e Brown esalava assunti da nuovo Dio in terra. Solo che alla pari di tanti coetanei, frequentando la nuova movida mancuniaia, ragionavano con l’intento di far festa: hippy fuori tempo massimo credibili e restaurati nel milieu in atto. Musicalmente, rimandando a Byrds (ops!) e Rolling Stones con qualche puntata nel folk, figurano tipo Smiths svampiti. Differisce l’urgenza. She Bangs The Drums (le regole del futuro guitar pop), Made Of Stone (Stones e Byrds compressi in meno di cinque minuti), Elizabeth My Dear (breve pillola à la Simon & Garfunkel), I Wanna Be Adored (il proclama) sono i numeri di un debutto assai classico. Ma si cela, subdolo, del groove. Il bello infatti è nel finale: I Am The Resurrection (beh, mica un titolo qualunque…) chiosa d’un funk ossuto. Di quelle jam infinite. Come infatti, nel 1990, in formato singolo esce Fool's Gold: l’evoluzione della specie. Hendrix al Paradise Garage, in sintesi. Con Pills 'n' Thrills and Bellyaches dei Mondays, rock e dance in un colpo solo. Madchester, per i libri di storia. Accadeva vent’anni fa. Oggi, celebrandone la ricorrenza, ci ritroviamo tre diverse ristampe di Stone Roses: Special (il debutto con in più Fool's Gold), Legacy (oltre al debutto, l’inedito Pearl Bastard, un cd intitolato The Lost Demos e un dvd live del 1989) e Collectors Edition (dionisiaco cofanetto di 3 vinili, 3 cd, un dvd, una penna Usb, un libro e sei disegni ad opera di Squire, l’artista del gruppo artefice dell’artwork originale). Il successivo raduno di Spike Island, malamente gestito (c’era pure Frankie Knuckles), da intuizione vincente si rivelò un disastro. Second Coming ne fu la conseguenza. Ad ogni modo, in Stone Roses vi troverete la spocchia degli Oasis e le pose dei Blur. Il brit-pop come lo abbiamo conosciuto. Passò da qui, la risurrezione.(8/10) Gianni Avella (GI)Ant Steps #33 classic album rev Tina Brooks P.I.L. True Blue (Blue Note, Luglio 1960) Metal Box (Virgin, Ottobre 1979) In Giappone ci sono individui o intere famiglie che scompaiono. Letteralmente. La sera ci sono, il mattino dopo non ci sono più. La causa principale va individuata nei debiti, altre volte in questioni d'onore. Va da sé che spesso le due cose coincidono. Persone che scompaiono, anzi: evaporano. Azzerano la propria esistenza per avviarne una altrove, su altre e spesso più modeste basi. Li chiamano johatsu, gli "evaporati", appunto. Anche nel jazz le evaporazioni sono frequenti. Gente che scompare. Musicalmente, ovvio. Ma un po' anche a se stessi. In se stessi. Da se stessi. Ad esempio Tina Brooks.Tra gli altri. Si fece luce durante i ruggenti fifties, Harold Floyd detto "Tina" per la sua magrezza (e perciò apostrofato "tiny", o "teeny", smilzo, sottile), nato a Fayetteville nel North Carolina nel 1932 ed emigrato in quel di New York nel '44, nel pieno della febbre be-bop. Imbracciato il sax tenore, si barcamenò tra le istanze di senatori come Lester Young e Charlie Parker e le nuove soluzioni proposte da rampanti come Sonny Rollins e Hank Mobley, maturando in questo solco sospeso tra estro tradizionale e swingate più dure (con licenza di sperimentare) uno stile che non mancherà di convicere Alfred Lion, il quale lo recluterà nel già lussurioso roster Blue Note. Correva l'anno 1957. Di lì a poco verranno le incisioni col chitarrista Kenny Burrell (Blue Lights) e soprattutto con l'organista Jimmy Smith (House Party, The Sermon! e Cool Blues), quattro titoli nel solo 1958, anno che lo vide altresì incidere l'opera prima come leader Minor Move, che però inspiegabilmente non ha visto la luce che nel 1980, in una stampa giapponese. Un disco evaporato, un johatsu che ha trovato nella terra del sol levante un modo per esistere. Per fortuna, considerata la qualità della proposta (calde trame hard-bop) e il personale coinvolto (vi bastino i nomi di Lee Morgan e Art Blakey). Tina non si lasciò scoraggiare, anzi. Iniziò a lavorare con Freddie Redd e Jackie McLean, quindi piazzò la prestazione indimenticabile nello stupendo Open Sesame del nuovo fenomeno della tromba Freddie Hubbard. Pochi giorni dopo fu la volta della sua seconda prova come leader, e stavolta la Blue Note non 100 rearview mirror si tirò indietro. True Blue vide un caricatissimo Hubbard ricambiare il favore, più una sezione ritmica di tutto rispetto come Duke Jordan (piano),Art Taylor (batteria) e Sam Jones (contrabbbasso). Dei sei pezzi in scaletta, cinque sono firmati da Tina stesso. Splendidi, dalla felata e bluesy Good Old Soul all'eleganza cool in fregola latin tinge di Miss Hazel, passando dalla rumba languida e urbana di Theme For Doris al be-bop sbuffante di Up Tight's Creek, fino ad una title track che smaltisce mambo con beffarda ostinazione e fatalismo implacabile. Hubbard fa frullare la tromba come un friguello elettrificato, con la febbrile (in)compostezza che ben sappiamo. Al contrario, Tina calca ogni nota come dovesse spalmarla sulla tela, imprimerla a fondo, impregnare la trama. La sua agilità è un prodigio perché contrasta con questo senso plastico, di stasi timbrica. I rispettivi assolo dei due primattori si marcano, si guatano, si sfiorano armonici, rivelano una natura stranamente aliena e complementare. In Nothing Ever Changes My Love For You, traccia conclusiva a firma Jack Segal e Marvin Fisher, mettono in scena un cuore diviso e incrinato, cerchio fatuo di pulsioni swing e latine in cui ha buon gioco anche il piano di Jordan, spedito sulle tracce solenni e trepide del Duke per antonomasia (Ellington, of course). In poche parole: questo disco è un capolavoro. Che tuttavia arrivava in un periodo particolarmente fecondo per il jazz, impollinato solo pochi mesi prima dal monstre davisiano Kind Of Blue e in procinto di squadernare energie sempre più ardite e diverse. In questo scenario formidabile, Tina Brooks l'introverso non trovò e non ebbe posto. Nell'ottobre inciderà un ancora superbo Back To The Tracks, seguito da un piuttosto sfocato The Waiting Game. Quindi, l'evaporazione. In una nuvola tossica e (perciò) problematica che gli consentì fantomatiche esibizioni nei club newyorkesi, spesso assieme a band dedite a sonorità latine ed errebì. Morì dimenticato il 13 agosto del '74 per insufficienza renale. L'ultima evaporazione. Stefano Solventi Un putiferio. I Sex Pistols sbracano, Sid Vicious che tira le cuoia in quel di New York, il filmmaker Julien Temple che dà in pasto ai fan del punk La grande truffa del rock'n'roll. E Johnny Rotten nel bel mezzo, che tutto osserva. Uno, Johnny, che mica si fa pregare troppo. E infatti, morti i Pistols, subito mette su una cosa tutta sua, e mostra di avere un paio di coglioni grossi così: chi aveva, anche solo per un attimo pensato, fosse tutta una "grande truffa" (la sua), vada a farsi fottere. E' il 1978. La Virgin, vampirizzata e manipolata dal Nostro - ormai ribattezzatosi col suo vero nome: John (Joseph) Lydon - sputa in faccia al punk. In faccia al mondo. Critica, pubblico, decisi, indecisi. Tutti, ma proprio tutti... Fuck You! First Issue era stato un album drogato, biascicato, suonato per non suonare bene. Tanti lo avevano schifato, alcuni lo compresero; ora però si attendeva una mossa numero due degna di cotanto esordio. Ed eccola la n°2. Sempre su Virgin, appena un anno dopo. Non gli bastava un singolo vinile a John? Quattro facciate di quella robaccia allucinante doveva propinarci? Meglio non farsi scrupoli del genere, perché il disco (allora) in uscita della nuova creatura di Lydon - i Public Image Ltd - è addirittura un doppio. O meglio, un triplo. Metal box, infatti, nell'edizione originale (indovinate un po' perché si chiama così...) è composto di tre dischi a 12"; Second Edition, invece, nella ristampa, distribuita in America a 1980 fatto, risulta un classico double album. E adesso passiamo in rivista il molosso dei PiL (uno dei massimi della new wave tutta!). Si parte con Memories, canzone scelta anche come singolo.Top 40. Anzi, neanche quello. Un disco che ha bucato l'occasione giusta? Macché. State a sentire: nonostante tutti i 12 pezzi dell'album siano (in sostanza) un 'buona la prima', il disco inanella numeri di lusso uno dietro l'altro. Tipo? Tipo Albatross, ad esempio, 10 minuti in cui il basso del sommo Wobble irrompe sulla voce catatonica di Lydon e sulla tramatura della batteria stracca eppure trascinante. Insomma: i tipi si strafanno di droghe e mettono su dischi reggae di tutti i tipi stravaccati nel salotto di Gunter Grove. E si sente! Memories è già più allegrotta. Un up-tempo, ma sempre in salsa dub. La techno con qualche annetto di anticipo? Forse. Tim Walker lavora alla batteria su basi disco sciattissime e ci tira fuori cupezze new wave che sono pura avanguardia. E meglio lo si capisce in una Swan Lake. Altro che Tchaikovsky. Il dub di Wobble è tetragono e paradossalmente mobilissimo. La chitarra affilata e free. La voce di Lydon un urlo soffocato, un canto soffocante. Apice della claustrofobia-camuffata-rock del disco è Poptones, che promette il contrario di quel che il titolo dice: la perfetta canzone dei P.I.L. Canzoni-suite, che potrebbero incastrarsi ad anello le une alle altre, fagocitando le une le parti delle altre. E davvero non cambierebbe un cazzo: tutto rollerebbe a meraviglia. E quindi Metal Box/Second Edition è proprio questo: un disco epocale. Sega in due la new wave di fine '70 e a calci in culo la fa volare nei rave anni '90. Occhio: siamo nel 2009 e Lydon ha annunciato la reunion dei P.I.L. Ma non quelli della formazione aurea: mancano all'appello Wobble e Levene. In compenso ci sono Lu Edmonds e Bruce Smith, già al fianco di Lydon nei dischi dei PiL dei tardi '80. Con in più un signore che di nome fa Scott Firth e che ha suonato con Steve Winwood tanto quanto con le Spice Girls. E non aggiungiamo altro... Massimo Padalino rearview mirror 101 3-D parte seconda Gli anni ’50 Mostri e alieni dallo spazio profondo (e altre cose fantastiche). Seconda parte di uno speciale dedicato alla bidimensionalità. - Costanza Salvi 102 la sera della prima Nella serata della festa del Ringraziamento, anno 1952, si tenne la prima del film Bwana Devil con una folla urlante, dotata di occhialini, che in sala si accucciava sulle poltrone per ‘evitare’ la pioggia di lance e l’attacco dei leoni affamati. Il 3D era finalmente arrivato ad Hollywood. Perché arriva in quel momento? Che tipo di spettacolo offre? Che rapporto c’è fra Hollywood e il 3-D? Rispondere alla prima domanda è davvero facile: l’intera macchina hollywoodiana si era messa in moto per combattere il potere della televisione. Col 3-D Hollywood cercava di accostare lo spettacolo cinematografico ad una nuova prerogativa che avrebbe tirato fuori le persone dai loro comodi salotti. Secondo alcune fonti centinaia di cinema avevano chiuso i battenti e gli studios avevano tagliato drasticamente la produzione. Molte star si affrancavano dalle strette dipendenze delle majors per stipulare accordi a produzione; alcuni attori si ritirarono, altri passarono ad altre forme di spettacolo. Nelle pellicole di quegli anni il soprannaturale e la paura dell’ignoto furono utilizzati come uno strumento di grande appeal per attirare un pubblico di teenager senza troppe pretese. Non è un caso che gli anni 50 siano accostati, nella nostra mente, proprio al genere fantascientifico. Del resto lo stesso decennio storico coincide, sempre nel nostro immaginario, con l’apice del cinema in 3.D. Ma fermarci alla sola minaccia della televisione non ci farebbe capire adeguatamente il rapporto 3-D/ Hollywood. Secondo R. H. Hayes l’idea del 3D come un evento strettamente hollywoodiano non è del tutto esatta. A suo avviso questa novità non poteva costituire una posta in gioco abbastanza allettante per Hollywood se prima un qualche interesse commerciale non si fosse rivelato. La diffusione in massa della fotografia stereo aiutò molto a formare nel pubblico un gusto e a convincere che si potesse creare una domanda di quel tipo di prodotti anche al cinema. Era, poi, necessario che persone intraprendenti (curioso che questo - un uomo e il suo sogno - sia uno dei plot più amati proprio dalla fabbrica del cinema) con buon naso per gli affari spianassero la strada ai pezzi grossi del mercato, puntando tutto su una buona dose di fortuna. Fino a quel momento il 3-D sarebbe stato considerato a Hollywood più come problema tecnologico che come valore commerciale. Inoltre un altro fattore fu decisivo per Hollywood: la concorrenza con altre società che operavano nel settore globalmente e localmente, soprattutto in termini di sviluppo tecnologico. In sostanza si creò una storia simile a quella, successiva, della Space Race, la rivalità tra Usa e Urss a proposito dello Sputnik. Una società inglese, la Stereo Techniques Ltd., aveva avuto molto successo in Inghilterra e in Canada con un sistema chiamato British Telecinema, creato da Raymond Spottiswoode. Secondo Hayes fu proprio la concorrenza internazionale aizzata da questo sistema a convogliare l’attenzione sul 3-D. Così, anche in Usa, un’equipe d’esperti sviluppò un dispositivo chiamato Natural Vision durante l’estate del 1951. Il sistema, tecnologicamente inferiore a quello inglese, fu visionato da molti studios ma nessuno ne volle acquistare i diritti d’utilizzo, forse per le suddette ragioni. Era necessario che quello spirito libero e intraprendente menzionato più su indicasse la strada alle majors: un produttore radiofonico e occasionale moviemaker, Arch Oboler, cominciò ad interessarsi alla cosa. Questo personaggio, non troppo lontano dalle ‘parti’ di Ed Wood - convinto di poter riportare in auge il 3-D dopo l’andamento a singhiozzo dei decenni precedenti - prese accordi con la Natural Vision Corporation per l’utilizzo del dispositivo. Il film, Bwana Devil, venne fatto sotto regia e apporto finanziario dello stesso Oboler; il soggetto raccontava di un paio di leoni feroci che in Africa avevano sbranato gli operai impegnati nella costruzione di una ferrovia trans-africana. Era una sorta di reminder per il pubblico che già conosceva le strane storie che Oboler raccontava alla radio durante il suo programma Lights Out; lui sosteneva che il soggetto fosse basato su una storia che aveva sentito durante un suo safari negli anni 40; la stessa storia è alla base anche di Spiriti nelle tenebre (The Ghost and the Darkness) con Michael Douglas e Val Kilmer. In origine - il 30 novembre del 1952 - il film di Oboler uscì col titolo The Lions of Gulu. Il film Bwana Devil, nonostante il 3-D fosse stato ampiamente pubblicizzato, faceva un uso piuttosto blando della tridimensionalità ed era, a dir la verità, piuttosto scarso ma la risposta del pubblico fu entusiasmante. Nonostante la pessima critica, il pubblico continuò per settimane a far la coda per vederlo, tanto da smuovere anche l’interesse della United Artists che, a partire dal marzo del 1953, cominciò a distribuirlo sul territorio. Il fatto creò una reazione a catena causata, senza orma di dubbio, dall’enorme competizione fra gli studios. A dicembre del 1952 Variety già chiamava l’industria del 3-D “the next big thing” e fonti interne riportavano un dato che metteva tutti i capi della produzione all’erta: le majors la sera della prima 103 stavano lavorando, ciascuna al proprio interno, con equipe alle strette dipendenze, sul sistema 3-D. Se fino a poco tempo prima il Cinerama era ancora in lizza per far scatenare il suo potenziale risolutivo nella lotta contro la tv, dopo il successo di Bwana Devil, tutte le carte del 3-D ritornavano in gioco. Ricordiamo che il Cinerama era una creazione di Fred Waller, che consentiva di proiettare il film su uno schermo enorme e curvo attraverso tre proiettori che davano l’idea della tridimensionalità ma che, di fatto, non la utilizzavano (offrivano una sorta di illusione di profondità). L’invenzione fu presentata nel 1939 alla New York World’s Fair e più volte riproposta ma il costo per installare un simile schermo era improponibile per un esercente di un cinema medio. Warner Brothers era stato il primo studio ad aver introdotto il sonoro nel 1929 e voleva mantenere questo primato anche nel 3-D: Jack Warner - le cui capacità persuasive passarono alla storia - fu alquanto abile nelle trattative con la Natural Vision. Poco dopo anche la Columbia prese accordi per girare alcuni film in 3-D. La MGM costruì la sua unità 3-D battezzandola Metrovision Tri-Dee e definendola la migliore di tutte. In realtà le unità tecnologiche utilizzate per il 3-D più o meno si equivalevano, ma ciascuno studio aveva i propri tecnici e deteneva una sorta di copyright sui propri dispositivi. La RKO, per esempio, lavorava con un sistema chiamato Future Dimension, basato su di un’unica camera (invece di una twin camera) più leggera e piccola. La Paramount, invece, produsse il Paravision, una versione della Natural Vision brevettata dai propri tecnici. Ovviamente qui si parla solo di dispositivi per il 3-D ma non dobbiamo dimenticare che per ogni altra innovazione tecnica valeva lo stesso discorso di copyright e rivalità. Per tecnica intendiamo il widescreen (Variscope di MGM, VistaScope di Columbia, ScenicScope di RKO, Wide-Vision di Universal, PanoramicScreen di Paramount, CinemaScope di 20th C.F.) ma anche lo stereosound. Per esempio la Warner aveva brevettato un sistema molto sofisticato, WarnerPhonic, che consentiva di dare un’illusione di profondità anche attraverso il suono. Ritornando ai film di questo breve ma intenso periodo, di fatto, siamo costretti a dire che non furono molti quelli davvero memorabili. Molti si possono ricordare per ragioni non diverse dall’uso estensivo dei cosiddetti trucchetti della terza dimensione. L’utilizzo a tappeto del lancio di oggetti acuminati, 104 la sera della prima pistole puntate contro il pubblico, incidenti stradali che lo ‘colpivano’ erano a volte usati con troppa disinvoltura. Ma questo non toglie che si girarono anche buoni film. Uno dei migliori prodotti di questo periodo fu La maschera di Cera (House of Wax, 1953) di Andre de Toth. De Toth aveva già girato buoni film per la Warner e da tempo si stava interessando al 3-D. Le parole usate per terminare l’accordo furono, nel tipico stile di Jack Warner: “Quello che puoi ottenere è 50 giorni, un milione di dollari e un quarto degli incassi”, a dimostrazione del fatto che niente è sicuro e certo nel mondo del cinema. Il soggetto era basato sull’omonimo (in italiano) film di Michael Curtiz (Mistery of the Wax Museum) del 1933, in stile espressionista, uno dei più noti horror di quel decennio particolarmente favorevole a questo genere. Il soggetto macabro - uno scultore, rimasto vittima di un incendio nel suo museo delle cere, inventa uno strano metodo di lavoro - era tratto dalla pièce di Charles Belden, The Waxworks. Andre de Toth decise di girare il remake di questo film in 3-D, contando sulla collaborazione di un corposo cast, a partire da Vincent Price che, con La maschera di cera, cominciò la sua ‘carriera’ nell’horror. Il set fu disegnato in modo semplice, con l’obiettivo di fornire la base migliore per l’effettistica. La scena dell’incendio fu girata in un unico piano-sequenza, con tre mdp Natural Vision montate su enormi dollies, mentre l’intero set era invaso dalle fiamme. Il make-up di Price richiedeva un lavoro di tre ore ed era estremamente scomodo, ma portava la firma di Gordon Bau, sotto contratto con la Warner, uno dei più esperti del settore. Durante la prima settimana a New York il film fece 123.000 $ e, in seguito, fu programmato a Los Angeles in una maratona che durò 24 ore. Sarebbe interessante confrontare questo film con un altro, L’uomo nell’ombra (Man in the Dark, Columbia), la cui proiezione coincise con quella di La maschera di cera ma che ottenne molto meno successo. Si potrebbe, così, dimostrare che la qualità del soggetto e della creazione registica non potevano essere sottovalutate rispetto alla sola effettistica e che già il pubblico aveva sviluppato un certo senso critico riguardo al 3-D. Siamo sicuri di poter dire che i migliori film in 3D degli anni 50 siano stati film horror e di fs. Pensiamo, per esempio, a Il mostro della laguna nera (Creature from the Black Lagoon, 1954) o a Destinazione terra (It Came from Outer Space, 1953). Non che venissero girati in 3-D solo pellicole di questi due generi: molti studios, infatti, vedendo lo straor- dinario successo di Bwana Devil, si buttarono nel business senza fare troppi calcoli teorici. Furono convertiti in 3-D o direttamente girati in stereovision molti film d’animazione come Melody, un cartoon molto stilizzato, primo di quella serie della Disney che si intitola Adventures in Music; saghe storiche come Forte t (Fort Ti) della Columbia e drammi in costume come Sangaree della Paramount, western come Hondo con John Wayne (Warner) e musical come Baciami Kate! (Kiss Me Kate, 1953, MGM), comici come Money from Home (I figli del secolo, Paramount) con la coppia Martin/Lewis, di guerra come Cease Fire! (Paramount), un serioso docudramma in b/n sulla guerra in Corea. Ma ci furono anche documentari scientifici, didattici, musicali, sportivi e commerciali. Di certo, per comprendere la relazione fra fanta/horror e 3-D, non ci vuole molto acume: la percezione di profondità e d’immersione è un valore aggiunto rispetto alla condizione emotiva di uno spettatore seduto in sala, al buio, in attesa che qualcosa di estremamente minaccioso, cattivo, mostruoso, raccapricciante, orrendo si manifesti in qualche modo. La sensazione prodotta dal film è parecchio esaltata quando i segni visivi e acustici prodotti dal ‘mostro’ non rimangono appiattiti sulla bidimensionalità ma vengono proiettati in modo estensivo. Jack Arnold, regista di Destinazione Terra, spiegò, durante un’intervista, di credere nella visione stereoscopica solo nel caso in cui fosse motivata dalla storia. Nella scena iniziale dell’atterraggio della navicella spaziale in Destinazione Terra le rocce avrebbero dovuto ‘bombardare’ il pubblico solo in quanto era richiesto dal plot. Addirittura Arnold ricorda che alla prima del film al Pantages Theater di Los Angeles una catapulta piena di rocce di polistirolo fu installata sull’arco di proscenio per scattare proprio durante quella scena! Eppure il film è ricordato più per aver mostrato l’incredibile forza metamorfica degli alieni prima del mitico L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel e in pieno clima paranoico/maccartista. la sera della prima 105 Il fatto è che, nonostante tutte le trovate possibili e immaginabili (nel western L’indiana bianca di Gordon Douglas, il regista si inventò una gag in cui un soldato sputa tabacco da masticare contro la macchina da presa per allontanare un serpente a sonagli!) siamo costretti a dire che il 3-D - almeno nei suoi anni ‘maggiori’ - rimane un fatto di tecnica mai di ‘grammatica’ del linguaggio cinematografico. Non riesce a trasformare il linguaggio e a rendersi, in un certo senso, necessario affinché il senso possa manifestarsi. Non basta il fatto di porre gli oggetti sullo stesso asse di lunghezza focale per poter parlare di nuova grammatica: è solo una questione di incremento delle occasioni di percezione della profondità. In sostanza le stesse inquadrature, girate ‘flat’, farebbero magari un po’ meno paura, creerebbero meno eccitazione ma il loro senso rimarrebbe lo stesso. Questo spiegherebbe anche come mai film western o drammatici o, comunque, quelli più squisitamente narrativi, furono i peggiori film in 3-D girati in quel periodo. Inoltre i film che, in seguito, furono celebrati ed esaltati - alcuni anche diventando dei veri e propri cult come i due citati più su - lo sarebbero stati anche se girati senza visione 106 la sera della prima stereoscopica. A dimostrazione che, forse, la guerra tra cinema e tv poteva essere battuta solo attraverso altre strade. In fondo, a partire dal mitico treno dei Lumiére, il rapporto fra immagine e percezione sensoriale negli anni non è mai variato. Questo, ovviamente, non vuol dire che non potessero nascere dei tentativi di ‘sfondare’ in qualche modo questa barriera e cercare una percezione eccessiva: più grande (widescreen), più volumetrica (Cinerama o 3D), odorosa (Smell-O-Vision). Ma sicuramente queste percezioni eccessive avrebbero avuto meno possibilità di creare una vera e propria necessità linguistica o reale desiderio nel pubblico al di là della sola infatuazione. Gli anni 50 non sono stati solo gli anni di McCarthy e della caccia alle streghe, in senso strettamente politico identificati in un profondo anticomunismo, ma rappresentano anche un preciso clima sociale e culturale. Sono anche anni d’evasioni e scappatoie culturali rispetto ad un periodo di profondo malessere psicologico: la cattiva coscienza di Hiroshima, la nevrosi della bomba atomica, la paura degli UFO. “Sono gli anni di una fantascienza profondamente infantile, fatta di avventure spaziali su astronavi di cartone” (La Polla). Non ci può essere definizione più chiara e precisa di un’epoca che, cinematograficamente, è stata anche giocosa, intraprendente, giovane, a volte originale e bizzarra (come dimenticare la Smell-OVision?). È ancora La Polla: “Sembra un ritorno al cinema delle origini, un rilancio della natura baracconesca della messa in scena” (Franco La Polla, Stili americani, Bononia University Press, pag.127/128). Una delle componenti forse più intriganti di questo periodo è la sua natura adolescenziale non solo perché il cinema si rivolge esplicitamente agli adolescenti ma anche perché ringiovanisce la sua componente primaria, registi e attori. I divi, per esempio, hanno le facce di ragazzi come James Dean e Marlon Brando. Inoltre c’è più spazio per gli intraprendenti, che sperimentano su set ricostruiti in miniatura, con materiali improbabili e che nell’horror e nella fs trovano perfetto campo di esercitazione. Come dimenticare Ed Wood, prototipo di tutti quei giovani registi alle prime armi, coinvolti dal lato manuale, operativo, squisitamente pratico del cinema; affascinati tutti dai trucchi - una sorta di antecedente degli effetti speciali - soprattutto quelli basati sulla manipolazione del set (i trucchi del profilmico) molto più economici in termini di sforzo cognitivo di quelli, più complicati e costosi, basati sull’utilizzo della sola macchina da presa o della pellicola. L’evoluzione tecnologica ha riguardato più i trucchi prettamente cinematografici (mdp, pellicola, digitale) che i trucchi del profilmico, che non sono cambiati di molto. Il modo in cui si manipola la realtà materiale è rimasto più o meno uguale mentre invece sono di molto cambiate le potenzialità tecnologiche. Pensiamo, per esempio, a flou, accelerato, ralenti, tendine, iris, mascherine, dissolvenze, sovrimpressione…interventi che negli anni 10/20 erano piuttosto complicati ma che ora apparirebbero dilettantistici. Una specie di ‘archeologia’ dell’effetto speciale poi ‘naturalizzata’ come codice linguistico: per esempio il ralenti al cinema coincide col sogno o con la memoria e non ci sembra più un ‘effetto speciale’. Anche dal punto di vista produttivo “i piccoli indipendenti come Roger Corman e Willliam Castle capiscono molto meglio degli Zanuck e dei Selznick quel che stava accadendo e varano pellicole di poco prezzo ma di grande impatto sensazionalistico (talune di esse, almeno) sulle platee di adolescenti che ormai hanno preso il posto dei padri e dei nonni” (La Polla). In effetti il fatto che proprio in questi anni si assista ad un revival del mostro sulla scena, dopo i grandi horror degli anni 30, è indicativo di una scelta di agire in favore della popolazione giovanile del pubblico del cinema. Il mostro degli horror di questi anni interpreta pienamente le angosce e i patimenti dell’adolescenza, il senso di diversità e solitudine di quell’età: la ritualità della vita sociale, il problema dell’aggregazione e le sue disfunzioni. I problemi della gioventù saltano agli occhi proprio a cavallo fra i ‘50 e i ‘60 con tutta una serie di studi di psicologia adolescenziale e sociologia che utilizzano anche i film come loro appiglio teorico. Thomas Doherty ha sviluppato un’interessante idea riguardo al rapporto quasi biologico fra adolescenti e mostri. In Teenagers & Teenpics.The Juvenilization of American Movies in the 1950s dice: “Avendo migliori ragioni della maggior parte delle persone per sentire un’affinità con gli esseri umani malformati e ipertiroidei, gli adolescenti furono fedeli adepti e simpatetici osservatori dell’istanza di coloro che erano ormonalmente svantaggiati; il loro stesso stato biologico deve essere sembrato ugualmente capriccioso e incontrollabile”. In fondo questo aspetto metaforico del mostro è stato portato avanti anche da film successivi come Carrie e, per certi versi, anche da Nightmare che ripropongono quello stesso disagio adolescenziale in vesti rinnovate. Il discorso potrebbe andare avanti ma ci basta qui aver stabilito questo sicuro legame tra un genere cinematografico e l’età media del pubblico. Nonostante film mediocri, il 3-D continuò ad esse- re un fattore particolarmente attraente almeno fino al 1954. È il 1953 il suo anno migliore: il pubblico poteva scegliere ogni sera tra almeno cinque film in stereovision e la Warner annunciò che tutte le sue maggiori produzioni nel futuro sarebbero state tridimensionali. Nel 54, invece, la produzione diminuì lentamente anche come conseguenza dell’introduzione di una nuova ‘next big thing’ ovvero il CinemaScope; nel 1955 un solo film fu realizzato in 3D, La vendetta del mostro (Revenge of the Creature), che aveva lo scopo di rinnovare il successo di uno dei più amati e ben riusciti film in stereovision, Il mostro della laguna nera. Il bilancio finale di questo periodo comprende un numero molto alto di produzioni nei tre anni clou, con pochi film veramente buoni, alcuni ricordati per essere i peggiori, moltissimi dimenticati. A onor del vero il peggiore di tutti i tempi fu proprio un fanta/horror, Robot Monster (1953) uno dei meno costosi, fotografia amatoriale, suono scadente e recitazione approssimativa. Per protagonista un insolito alieno dall’improbabile costume da gorilla e per casco una sorta di vaschetta dei pesci rovesciata completa di antenne radio (!). È indubbio che l’introduzione e il lancio del CinemaScope fu uno degli ostacoli più forti da affrontare nella storia dell’evoluzione tecnologica del 3-D. Fu 20th Century-Fox a lanciare il primo film che utilizzava questa tecnica, La tunica (The Robe). Il direttore delle ricerche della 20th C.F., Earl Sponable, aveva acquistato i diritti sul brevetto della lente anamorfica; questa lente consentiva di espandere in larghezza il frame della pellicola senza provocarne una deformazione. In questo modo si poteva avere un effetto simile a quello del Cinerama (dotato di tre proiettori e schermo curvato) con un costo dimezzato (un solo proiettore e una pellicola da 35 mm). Inoltre l’effetto complessivo era, in qualche modo, simile a quello prodotto dalla visione stereoscopica perché simulava, di fatto, una sorta di tridimensionalità. La 20th C.F. buttò molta carne al fuoco riguardo al CinemaScope ma si tenne, comunque, anche la carta del 3-D per giocarla durante i mesi estivi, poco prima dell’uscita di La tunica, con il film Inferno. Tutti stavano col fiato sospeso aspettando la risposta del pubblico che quell’estate poteva optare per grandi produzioni come Gli uomini preferiscono le bionde, Band Wagon e La vergine sotto il tetto. La stampa cominciava a ridimensionare le parole d’entusiasmo riguardo al 3-D e gli studios rispecchiarono questa deviazione e così sembrò fare anche il pubblico. Invece La tunica, uscito nel settembre del 1953, rila sera della prima 107 scosse davvero molto successo. Come in una specie di calamita, in modo quasi automatico, molti direttori della produzione a Hollywood iniziarono ad essere attirati dal CinemaScope. Incerti riguardo al futuro, i reparti-produzione della MGM decisero di testare il 3-D per il nuovo musical Baciami Kate!: il film era il loro asso nella manica dal momento che la MGM era sempre stata associata a grandi film musicali pieni di fascino e di magia. Sei città avrebbero funzionato da ‘cavie’: tre proiettandolo in 3-D, tre in versione piatta. Il risultato fu nettamente a favore della tridimensionalità, così si decise una distribuzione in stereovision, nonostante le polemiche che iniziavano a montare. Infatti, oltre alla ‘concorrenza’ con il CinemaScope, il 3D doveva affrontare un altro problema perché stava diventando uno dei maggiori terreni di scontro fra studios ed esercenti. Era questione dei costi incredibili che quest’ultimi segnalavano riguardo alla conversione dei cinematografi verso il 3-D. Gli schermi dovevano essere più grandi e supportare una nuova tecnologia di proiezione ma, soprattutto, erano lenti, proiettori e sistema del suono a dover essere ria- dattati; fatti che si aggiungevano agli eventuali costi di noleggio, all’aumento delle percentuali sul box office e agli svantaggiosi rapporti contrattuali sul booking del film. La proiezione, inoltre, necessitava di una figura aggiuntiva a quella del proiezionista con il compito di curare l’allineamento e la sincronizzazione delle due pellicole. Sale di piccole e medie città furono costrette a chiudere. L’introduzione di un sistema ‘single strip’ - ovvero costituito dalla stampa di una sola pellicola che combinava i due frame presi dalle due mdp, proiettandoli poi con una luce polarizzata che li sovrapponeva - invece della doppia pellicola ha semplificato la proiezione ma senza modificare di troppo il problema degli esercenti. Gli studios, del resto, non godevano di una condizione migliore quanto a gravità dei costi degli strumenti utilizzati contro la televisione: suono stereo, technicolor, cinemascope e 3-D erano tutti sistemi alquanto costosi in termini di personale e di tecnologie. Gli studios ritenevano che i film che utilizzavano queste tecnologie, costati in media il doppio o il triplo di un film ‘standard’, dovessero costare agli esercenti la stessa percentuale. Esattamente come accade ancor oggi, tutto si ripercuoteva sul prezzo del biglietto allontanando ulteriormente la gente dal cinema. Hollywood, inoltre, contava moltissimo sulle sale delle piccole città perché consentivano il passaggio di un film anche dopo molti mesi dalla sua uscita (un po’ come oggi accade con la tv, pay-tv e home-video). Senza il passaggio nelle sale delle piccole città un film medio non poteva neanche coprire le spese della produzione mentre i film di serie B o le seconde visioni, che rimanevano settimane nelle sale minori, tenevano a galla le majors oberate dalle grandi produzioni. Gli studios arrivarono, così, a concedere agevolazioni sugli occhiali e sul noleggio dei materiali ma i sindacati (che in America sono molteplici e riguardano ogni singola categoria) richiedevano l’assunzione di personale aggiuntivo e chiarezza nei contratti. Il risultato di questo pasticcio si ripercuoteva sulla qualità della visione: luce scarsa, asincrono e problemi di proiezione erano fin troppo denunciati. Un effetto speciale 3D low-budget, per esempio, consisteva nel riprendere l’azione in un set costruito appositamente, con una mdp stereo mentre lo sfondo era proiettato in 2D su uno schermo retroilluminato. L’effetto finale in un film come Lo straniero ha sempre una pistola è curioso perché sembra che le rocce siano completamente immobilizzate su di uno sfondo mobile. Il CinemaScope, invece, andava molto meglio al botteghino: era grande, luminoso, poco costoso. Chiunque era in grado di capire che sarebbe stato il modo migliore per andare avanti, il modo, se non altro, più pratico. I critici, intanto, disinteressati ai problemi finanziari, continuarono a demolire la presunta qualità del 3-D dimostrando un certo fanatismo per quei vecchi tempi in cui c’era solo il bianco e nero, il formato 1.33:1 e il suono mono. Per reazione Hollywood aumentò la pubblicità che sbandierava l’alta qualità del 3-D invece di risolvere i problemi di proiezione che gravavano solo sulla testa degli esercenti. La cattiva stampa finì col stravolgere anche il CinemaScope presentato come se fosse un ‘3-D senza occhiali’. Comunque sia, le cose, di fatto, andarono male per il 3-D: fu capace di un solo colpo di coda prima dell’oblio con il film di Alfred Hitchcock, prodot- to dalla Warner, Delitto perfetto (Dial M for Murder). Riguardo all’atteggiamento di Hitchcock sul film non si è troppo sicuri; qualcuno ritiene che si disinteressasse completamente della tridimensionalità, altri che, come per altre tecnologie, fosse interessato a sfruttare al massimo la nuova invenzione. Scelse, per esempio, di riprendere gli oggetti in primo piano, disponendoli in sequenza sull’asse della visione (utilizzando la tecnica delle proporzioni giganti per mantenere tutto a fuoco). Molti di questi trucchetti avrebbero potuto essere apprezzati solo in 3-D ma i cinema che lo proiettarono in versione stereo furono numericamente inferiori a quelli che lo proiettarono ‘flat’. Durante il secondo revival del 3-D, nel 1984, il film fu rieditato in una nuova e migliore versione stereo, che permise a molte più persone, trent’anni dopo, di vederlo nella sua veste ‘originaria’. Negli anni successivi (‘60/’70) il 3-D sarebbe stato tenuto in vita solo grazie a produzioni indipendenti e ad un particolare genere, quello erotico. Ma può essere indicativo ricordare che anche negli anni 50 la produzione aveva preso quella strada. In particolare un film della Columbia, Pioggia (Miss Sadie Thompson), fece abbastanza scalpore. L’ufficio censure a Memphis lo definì “the dirtiest movie we have ever seen: rotten, lewd, immoral…” e infatti venne vietato in città. Ma la gente trovava incredibilmente affascinante essere avvolta dal fumo di sigaretta soffiato da Rita Hayworth, le sue grazie ostentate e protese in avanti; le location in Hawai e l’eccellente fotografia fecero il resto, creando un grosso successo di pubblico. Anche la RKO, almeno finché fu legata ad Howard Hughes, si lanciò in produzioni in 3-D giustificate dalla starlet di turno, a cui Hughes prometteva mari e monti. Passò alla storia, per esempio, il programma pubblicitario di La linea francese che faceva riferimento sia alla tridimensionalità che al già reso famoso (Il mio corpo ti scalderà) seno di Jane Russell. Sorpresa finale è un numero ‘skin flick’ (soft porno) girato da Francis Ford Coppola per il film Bellboy and the Playgirls. Ma questo fa già parte della successiva fase della nostra piccola storia del cinema in 3D. Riferimenti bibliografici •R. H. Hayes, 3-D Movies: A History and Filmography of Stereoscopic Cinema, McFarland and Company, Jefferson, 1989. •Hal Morgan e Dan Symmes, Amazing 3-D, Little Brown, Boston, 1982. •Le citazioni di Franco La Polla sono tratte da Stili americani, Bononia University Press, 2003. 108 la sera della prima la sera della prima 109 Up P ete D octer /B ob P eterson (USA, 2009) La prima parte di Up ha davvero il coraggio della poesia. Una lirica a metà strada tra il futurista e il nostalgico. Prima di tutto ci si vede specchiati in uno schermo: noi al cinema con gli occhialoni per il 3-D e lui, ragazzino sognatore, ugualmente al cinema e con occhialoni da nerd. Oddio sono io! Lo seguo mentre se ne sta nel suo modesto e bucolico quartiere di provincia, usa il cinema come luogo di sconfinamento e con la mente va all’avventura, posti irraggiungibili, lontani. C’è un eroe, ovviamente, che sullo schermo agisce per lui. Carl, il ragazzino, lo vede in un documentario cinematografico in b/n, di quelli che andavano tanto di moda, sull’aviazione, in quel periodo in cui la visione dall’alto sembrava la cosa più fantasmagorica e affascinante ci potesse essere al mondo. Incontra Ellie e c’è un altro ‘riconoscimento’: sulla poetica americana del soul mate, soprattutto in termini di serialità, si potrebbero spendere interi saggi tanto è ricca e densa di suggestioni. Così ecco un altro meccanismo di proiezione che funziona perfettamente: loro sono, appunto, soul mate ma noi, in sala, non rimaniamo solo testimoni ma diretti destinatari di una piena identificazione. L’operazione strategica riesce benissimo, tanto quanto una strizzatina d’occhio in una direzione di reciprocità; il vortice di immagini e colori della prima mezz’ora è straordinario. I segni della confidenza, della specularità fra i due ragazzini sono perfetti: si incontrano, si appoggiano l’un l’altro nei momenti di difficoltà, si sposano e vivono e, intanto, sognano. Questo processo di identificazione e riconoscimento dell’inizio è funzionale alla parte successiva della storia: quando Carl, il ragazzino, diventerà Carl burbero e vecchio, uomo inutile se non dannoso, quei primi minuti di identificazione si riveleranno fondamentali. Dal momento del matrimonio in poi il racconto è pieno di ellissi e ciò che viene mostrato ha già la forma del ricordo: singoli frame sugli avvenimenti e le peripezie della quotidianità, interpolati dall’immagine iterata della rottura del salvadanaio. Come da canone le immagini sono fané, circondate dall’opacità della memoria. E la vita scorre via mentre il sogno (bisogni, desideri, aspirazioni…) rimane irrealizzato. Il risveglio nella quotidianità di questo vecchietto intrappolato nel passato è impossibile: qui ricorda Clint Eastwood, seduto nel suo portico in Gran Torino, anche lui immobilizzato dentro la memoria di una realtà ormai andata mentre un’altra che non gli appartiene 110 la sera della prima sta avanzando. Il ragazzetto gli viene in soccorso pur non sapendolo - nel solo modo, cioè, in cui lo può fare un bambino, appunto, ingenuamente - e lo fa impersonando lo stesso potere salvifico che molte altre volte nel cinema abbiamo visto rappresentato da figure angeliche e naif. Quante suggestioni crea il miracolo del volo della casa? Ne Il mago di Oz la casa se ne vola via con lo stesso obiettivo di fuga che redime da una vita di mancanze, disequilibrata. Ma a molti ha fatto pensare a Hayao Miyazaki. Di fronte alla speculazione edilizia un gesto del genere - far librare una casa con miliardi di palloncini colorati - è non solo un gesto poetico ma politico (Dolinar in ‘Film Tv’): fa persino venire in mente - concedetemi questo volo di idee libere - un’insostenibile leggerezza dell’essere (la casa, in fondo, è libertà ma anche peso). E allora ecco che si ritorna allo straccione futurista WALL-E, altra figura altrettanto poetica e politica, che dell’anticonsumismo fa un vero e proprio stile di vita. Alla Pixar sono bravissimi a creare personaggi del genere: non solo possono farlo grazie alla produzione digitale delle immagini - che non li costringe al realismo e non li sottopone alle bizze della realtà - ma sanno anche farlo per il semplice motivo che hanno creato una vera e propria poetica che li precede. I personaggi e le storie della Pixar sono riconoscibili e questa riconoscibilità è la chiave di volta che trasforma un semplice buon prodotto in un marchio. Operazione commerciale finchè si vuole ma, in fondo, il cinema è un’industria no? Per me UP poteva anche finire qui, nel momento in cui la casa prende il volo ma, ovviamente, si tratta di un prodotto per un pubblico ben preciso: è lì, infatti, che inizia l’avventura per i bambini. Da quel momento il film ha momenti divertenti, sfrutta il famoso lancio-di-oggetti-modello-3-D, ha cani che parlano, una ‘sagoma’ di uccello che viene battezzato ‘struzzo in technicolor’ e un classico cattivone, come nel più classico e rodato dei modelli. È strano: come mai alla Pixar fanno dei meravigliosi primi quarti d’ora silenziosi? È una firma, sicuramente. Ma, forse potrebbe essere qualcosa di più: la riscoperta di un cinema delle pure immagini, in qualche modo anche diverso da quello della tradizione americana. É un modo di pensare alle immagini che ricorda, in parte, il cinema orientale, fatto solo di suggestioni visive ed emozioni silenziose; con in più una cura dell’immagine incredibile: provate anche solo a guardare la trama dei tessuti, un ordito perfetto fatto di ombre, luce e colore. Costanza Salvi Parnassus - L’uomo che voleva ingannare il diavolo T erry G illiam (C anada , F rancia , 2009) Partiamo da due presupposti. Il film è stato un discreto successo nonostante la data incerta d’uscita e il basso numero di copie distribuite. Con un incasso di € 2.419.207,25387.945 e 387.945 presenze il film di Terry Gilliam entra in classifica nazionale al secondo posto, per poi balzare in testa davanti ad Up (Pete Docter e Bob Paterson, 2009) della Pixar. Secondo punto da cui dobbiamo partire è che tolto qualche cinefilo - in via d’estinzione e già pochi, ancora meno quando si tratta di andare al cinema - la maggior parte del pubblico è rimasta irretita grazie al nome di Heath Ledger. Requiem. la sera della prima 111 Perché alla fine c’è sempre quel qualcosa di morboso. Come quando tra amici si rivede il Corvo (Alex Proyas, 1994) e c’è sempre qualcuno che segnala il momento in cui il protagonista diviene un ammasso di pixel in computer grafica. Ovviamente ogni volta indicando un momento differente. Solo per questo il titolo potrebbe essere cambiato in pornassus, perché di vojagerismo morboso di tratta. Il nodo centrale è noto a tutti: Johnny Depp, Jude Law, Colin Farrell vengono usati per sostituire Heath Ledger post mortem. L’espediente dello specchio equiparabile ad un calcio d’angolo, a suo modo riuscito. Gol con colpo di testa. O di (ghino di) Tacco, perché poi nelle varie conferenze stampa qualche furbetteria il buon vecchio visionario dei Monty Python se l’è concessa, oppure lasciata sfuggire in buona fede. Ora, sulla riuscita dell’espediente ci sono due scuole di pensiero. Chi vede nella realizzazione una forzatura. Chi, come me, ritiene che tutto sommato la trasformazione dell’ennesimo Dorian Gray sia riuscita, senza molte smagliature al racconto. Anzi, probabilmente se non si sapesse la tragica necessità alla base, qualcuno riuscirebbe persino a reclamarne la genialità. Se proprio bisogna cercare un limite, e non occorre essere puntigliosi e certo112 la sera della prima sini, lo si deve fare nella costruzione dei personaggi, piatti, e in una storia faustiana che di nuovo non aggiunge nulla. Ma niente proprio. Ma del resto Gilliam, come il suo buon illusionista racconta da anni la stessa storia. E lo fa meravigliosamente. Parnassus (Christopher Plummer) sembra essere più un clochard ubriacone, il capo di una carovana dimezzata di Freaks, un uomo incline a vizi come alcool e gioco d’azzardo. Il ritratto del perfetto gentleman inglese, insomma. Tony è la versione anglosassone di Calvi il banchiere di Dio, con tanto di cappio al collo e ponte dei frati a seguito, ed è troppo viscido per creare una minima identificazione. Quello di Gilliam è un film di ricostruzione. Quella digitale con cui sono ricostruite le visionarie e funamboliche peripezie oniriche dei personaggi. Il livello realizzativo è ottimo, l’impatto visivo anche, tolta l’agghiacciante immagine del cobra tentatore. Quella proprio no. Non siamo ai livelli visionari di Brazil (1985), ma del resto la lezione del Tim Burton di La fabbrica di cioccolato (2005) sembra aver lasciato un segno indelebile nel cinema fantastico. Non nel profilo commerciabile del regista inglese, però, che rimane ancora ancorato ad un ritmo scivoloso e sincopato a volte fastidioso e difficilmente digeribile dal pubblico medio da multisala e non. Ma Gilliam ha dalla sua la capacità di contrapporre squallore reale ed escapismo virtuale, ed è lì che il lato poetico trova il maggior vigore. Una discesa lisergica nella tana del Bianconiglio in cui vengono messi a nudo i lati nascosti della psiche umana. Si pensi alla maschera, cortina sintetica tra il Tony di Depp e quello di Ledger. Ricostruzione del volto del compianto Ledger attraverso altri feticci. Ma soprattutto è la ricostruzione della biografia di Gilliam, il vero Parnassus, che con un espediente riesce a vincere la morte altrui e la propria, a livello professionale. Una lenta eutanasia. Il vecchio trasandato che ha il potere di dar forma ai sogni della mente, ma che non viene considerato dal pubblico sembra essere davvero l’autobiografia del regista. Dai fasti dei Monty Python ai problemi di Lost in La Mancha (2002). Dalla terribile porcheria su I fratelli Grimm e l’incantevole strega (2005) all’incompreso e mal distribuito Tideland (2005). Gilliam come Parnassus fa poesia, è l’ultimo grande Orfeo. Ma è troppo poco glam in un mondo in cui a spuntarla sono i diavoli (un insuperabile Tom Waits) dandy, da bombetta, sigaro e guanto in pelle. Hollywood per l’appunto. Al posto dell’acqua di colonia, in diffusione c’è probabilmente un oppiaceo. Il suo è un racconto eccezionale, ironico e amaro allo stesso tempo, un canovaccio di manipolazioni d’immagini e volti confuso e scombinato. Un’ottima sbronza. Per questo gli si può perdonare il cerchio alla testa di qualche raccordo confuso, di quell’idea aleggiante di eterno divenire che non troverà mai sosta e che lo porta da anni a trovare la forma compiuta del suo film forse più bello e meno riuscito, Le avventure del Barone di Münchausen (1988). Come il racconto del monaco Parnassus, uguale ed infinito, ma allo stesso tempo troppo borderline ed alternativo per essere accettato come tale. Forse per questo debole, come la trama del film. Ma come il mondo, anche il film può continuare. È il cinema di Melies che si riprende la rivincita su quello dei Lumiere, il trucco e l’artificio sul racconto. Un canovaccio da teatro delle meraviglie in cui il fratello Grimm per eccellenza dialoga con la sua musa-strega, il cinema, fino a rimanerne imbrigliato in un nomadismo psichico di cui da carnefice diviene vittima. Il deserto del quotidiano e della solitudine in cui si ritrova un cencioso e sconfitto mago, salvato solo dall’istrionico nano, l’eterno bambino. La beffa di una realtà che si svela attraverso l’ennesima vetrata. Quella che separa illusionista e figlia (Lily Cole), ormai in un altro mondo, quello moderno, a suo modo fatto di vetrine e illusioni. Non necessariamente quello vero o quello buono. Nonostante il cashmere tenga più caldo di un vecchio pastrano, i sogni della testa di Parnassus li si poteva toccare con mano. Luca Colnaghi This Is It K enny O rtega (USA, 2009) Il re è morto, viva il re! Michael Jackson se n'è andato, forse, un giorno dell'estate scorsa e già tutti sapevano che sarebbe uscito questo film. Al di là delle aspettative, più o meno giustificate, il film di Kenny Ortega è un horror inutile. Nato come documentario backstage di quello che doveva essere il grande ultimo ritorno di Jacko sul palcoscenico, pensato come idea natalizia dai signori del marketing musicale contraddistinti da modi simili a quelli degli squadroni della morte nicaraguegni, il film “si arricchisce” del valore di testamento spirila sera della prima 113 tuale del più grande di tutti i tempi. Il fatto è che si tratta di un testamento disperato e silenziosamente urlato e non delle confessioni di una persona serena e pronta all'ultimo sipario. Nelle due ore di montato le canzoni, lo spirito di Jackson, fanno capolino tra le lacrime dei ballerini increduli per essere stati scelti, tra le perizie tecniche dei macchinisti ma si infrangono contro la tristezza di un uomo che quando se n'è andato non pesava più di cinquanta chili. La voce, dolorosamente potente e ormai elemosinata al corpo minato fa ancora emozionare, le mosse più famose ancora entusiasmano ma l'occhio non è ingannabile ed è evidente che, quasi alla Bob Dylan di Todd Haynes, il re del pop dica: Io non sono qui. O, meglio, non ci sono già più. Dopo ogni piroetta, alla fine di ogni passo, i grandi occhiali da sole che il protagonista indossa per tutto il film si fanno scudo contro il dolore. Al riposo dopo un acuto della sua voce angelica quegli stessi occhiali trattengono l'orrore. Dicono le cronache che il tour organizzato dall' AEG all'arena O2 di Londra dovesse comprendere originariamente un pugno di date poi estese a dieci e infine espanse alla titanica cifra di quaranta. Dicono le leggende, e quando si tratta di Jackson si sa che sono l'unica fonte di verità, che il re fosse ter114 la sera della prima rorizzato da questo impegno preso con i suddetti nicaraguegni e che dubitasse fortemente di riuscire a farcela, ma che fosse necessario firmare quel contratto. Che fosse l'ultima possibilità. Il film del furbo Ortega dimostra questo: prima dell'uomo viene il mito ma quest'ultimo necessita un appoggio biologico nella sua permanenza sulla Terra. Mancando l'appoggio biologico il mito si spegne a cinquant’anni, già tardi nella logica dell'immaginario collettivo, in una villa di Beverly Hills affittata a trentamila dollari al mese perché la casa dei sogni è all'asta. Sempre secondo le veritiere leggende, i debiti accumulati da Jackson durante il suo regno ammontavano a circa quattrocento milioni di dollari; tre giorni dopo la sua morte, grazie ai proventi delle vendite della sua arte, rieditata a tempi di record, tali debiti parvero scomparsi. Qui va cercata la motivazione di This Is It, nella più pura e semplice logica nicaraguegna della musica mainstream. Non c'è altro da riportare. Posso aggiungere che il film è anche ben montato e che ha un buon ritmo ma vorrei vedere come potesse essere diversamente, visto il fantastico beat onnipresente in ogni brano incluso e composto da quel genio assoluto di Michael Jackson. In sala viene voglia di ballare, quest'effetto è cercato e sostenuto di modo da non far notare i segni sul volto del protagonista, il suo spaesamento sul palcoscenico gigantesco e le sue richieste d'aiuto ai tecnici e a Ortega, regista dello spettacolo prima che del film, di accomodargli il volume nelle cuffie perché da solo non ce la fa più. Il re parla, ringrazia, dispensa consigli e indicazioni ai suoi giovani collaboratori che lo guardano rapiti, ripete estenuantemente “I love you”, “I love you all”. Ma è solo. Comunque. Aldo Romanelli Il nastro bianco M ichael H aneke (A ustria /G ermania /F rancia / I talia , 2009) Il regista di Niente da nascondere (Caché, 2005) continua a lavorare per sottrazione e pulizia formale lasciando allo spettatore la parte più difficile ed entusiasmante: significare quanto visto e sentito raccontare. Proprio così funziona quest'ultimo lavoro del maestro austriaco, Il nastro bianco (Das Weiße Band) Palma d'Oro a Cannes: attraverso un racconto, una brutta storia della buona notte rivolta a tutti noi, in una notte che è quella del buio del Mondo, dell'odio e della guerra. Michael Haneke racconta una storia contadina, una vicenda di strani fatti e vendette, un mito fondativo di violenza e repressione, di cattive educazioni e brutte abitudini nascoste, caché appunto, che portano i bambini protagonisti di questo film a diventare tutti i bambini oppressi del mondo e, quindi, le vittime dei regimi totalitari che di loro si nutriranno nel corso della Storia. Molestie, incidentivoluti, abusi, castrazioni morali. Questo è quanto i bambini del villaggio subiscono costantemente, senza possibilità di affrancamento, se non nelle sequenze finali, con l'episodio del pappagallino, simbolicamente prodromo di uno stravolgimento, vigilia di rivoluzioni future. Il regista viennese racconta l'ascesa del Nazismo in Germania partendo da vent'anni prima, dalla campagna tedesca bigotta e ignorante. L'educazione protestante, ma potrebbe essere quella cattolica o l'educazione integralista islamica, lede dall'interno la pianta della società, colpendo dapprima le foglie, più tenere e piene di vita, e sovverte la naturale successione delle fasi della vita. Molto chiaramente Haneke dice che la scelta dell'esempio tedesco è legata alla sua vicinanza geografico e storica a quest'area dell'Europa ma che è la volontà dell'esempio quanto imprime negli scuri 144' in 35 mm desaturati in fase di post-produzione tanto da creare un bianco e nero tanto espressivo da rimanere colorato. I movimenti di macchina semplici e classici, l'alternanza di campi e controcampi nello splendore di un montaggio lineare e puro dapprima mettono in difficoltà l'occhio e poi lo aiutano all'aumentare della luce. Ancora una volta il regista non cerca colpevoli materiali, come l'autore delle videocassette minatorie nel film del 2005 o i motivi della violenza illogica dei due protagonisti di Funny Games (1997). Ciò che sempre torna e stimola in Haneke è il sotteso percebile, il senso più profondo degli eventi che negli esempi raccontati ha la manifestazione più percepibile ed cangiante e visibile. Ad Haneke interessa l'oscuro che sta dietro le porte chiuse dallo spettatore, non quelle mostrate nel film. Le cause scatenanti. La deflagrazione dell'individuo, della società nella quale è inserito e della Storia che questa società costituisce e governa. Le parole del maestro di scuola aiutano lo spettatore in questo viaggio che procede come un incubo, per simboli. Questo è quanto di nuovo Michael Haneke qui introduce ma solo apparentemente si può parlare di una facilitazione, erroneamente considerarle un aiuto allo spettatore. In realtà fungono da ennesimo diversivo sottile attraverso il quale allon- tanare e rendere ancor più lontano l'incontro con il senso finale. Haneke qui trova un colpevole, forse, ai mali raccontati ma ciò avviene solo per sviare dall'accusa di colpevolezza i bambini. Tutto è solo rimandato a pochi anni dopo quando saranno loro, cresciuti castrati, a supportare l'ascesa del male e a diventare male. Aldo Romanelli la sera della prima 115 www.sentireascoltare.com