Testo di Alberto Campo “Don’t you wonder sometimes ‘bout sound and vision…” (David Bowie, 1977) Fin dal momento in cui definì se stessa come entità destinata al consumo di massa, la pop music manifestò una spontanea necessità iconografica. E se degli albori del fenomeno, situati per convenzione al cuore degli anni '50, in coincidenza con l’avvento del rock’n’roll, assumiamo come simbolo la figura di Elvis Presley, l’evidenza di quel “bisogno d’immagine” diviene inequivocabile. Non è possibile rievocarne il ricordo al netto della visibilità pubblica del personaggio, infatti. Elvis divenne un caso dopo l’ancheggiante apparizione televisiva all’Ed Sullivan Show, consacrò la seconda parte della carriera all’attività cinematografica e assurse infine al rango di icona senza tempo nella sequenza seriale in cui lo immortalò Andy Warhol. Il senso di quella prima stagione della pop music non è riducibile quindi a una semplice mutazione sonora rispetto al passato, essa rappresentò piuttosto un netto scarto sul piano della comunicazione. La marcia in più di cui il rock’n’roll fu dotato derivava anzitutto dal contesto in cui esso affiorò: una società dei consumi che tendeva a estendersi su scala planetaria grazie ai mezzi di comunicazione di massa, televisione in primis. Linguaggio musicale in origine grezzo ed elementare, il rock’n’roll dovette caricarsi necessariamente di contenuti supplementari per soddisfare le aspettative suscitate. Era per definizione “la musica dei giovani” ed essendo lo scenario di appartenenza in rapida evoluzione altrettanto velocemente esso riconfigurò la propria natura, assecondando e facendo proprio lo slancio utopistico dei movimenti giovanili che infiammarono l’America e l’Europa nella seconda metà degli anni '60. Una generazione votata al cambiamento che architettò un sistema di valori antagonista rispetto a quello che informava il cosiddetto establishment: una “controcultura” che aveva nella musica il suo elemento fondativo. E la musica stessa, di conseguenza, era chiamata a esprimere maggiori attributi di significato. A dimostrarlo basterebbe anche soltanto il cambiamento di supporto che intervenne allora in modo niente affatto casuale: la transizione dal 45 giri, con le sue due canzoni, al long playing, opera in sé narrativamente compiuta, vale a testimoniare le accresciute aspirazioni degli artisti rock e del loro pubblico. Il suono puro e semplice era così al centro di un sistema complesso che irradiava codici fatti di immagini, attitudini e stili. Così come la storia della pop music è inspiegabile in termini squisitamente musicologici, allo stesso modo la storia delle arti visive dal secondo dopoguerra in avanti non può essere raccontata in maniera esauriente senza riferirsi anche alla pop music. Ciò vale anzitutto sul piano strettamente cronologico: pur nascendo da moventi e in condizioni differenti, l’esplosione del rock’n’roll negli Stati Uniti e la formulazione dei canoni della pop art in Gran Bretagna accaddero pressoché simultaneamente, ponendo le basi per una futura e propizia osmosi creativa. E detto per inciso, è curioso che le elaborazioni successive di quei principi si svolsero a luoghi invertiti: oltremanica per il rock e oltreoceano per la pop art. Le nozioni espresse nel 1957 dall’artista inglese Richard Hamilton (futuro curatore del packaging per il White Album dei Beatles), frutto dell’esperienza collettiva compiuta negli anni precedenti dall’Indipendent Group all’ICA di Londra, l’idea cioè di “un’arte costruita per un pubblico di massa” e di una relativa valenza estetica, rimbalzarono sulla sponda opposta dell’Atlantico e vennero fatte proprie da Andy Warhol. Figura esemplare e snodo decisivo nella vicenda che stiamo tratteggiando per sommi capi, quest’ultimo. La sua percezione del consumo come gesto culturale, presagio dell’incipiente trionfo del capitalismo nella sfida tra modelli sociali simboleggiata dalla Guerra Fredda, rivoluzionò irreversibilmente le gerarchie del pensiero artistico, a cominciare dal collasso delle distinzioni fra cultura “alta” e “bassa” che lo portò ad affermare: “La nuova aristocrazia che dice agli artisti cosa vale e cosa no è la gente comune”. Dopo aver replicato in serie la figura di Presley e prima di coniare il logo che tuttora contraddistingue i Rolling Stones, Warhol compì il più audace esperimento di combinazione fra arte e musica reclutando a metà anni '60 nei ranghi della sua Factory newyorkese i Velvet Underground. Risultati dell’operazione furono il primo album del gruppo di Lou Reed e John Cale ma soprattutto l’Exploding Plastic Inevitabile, leggendario show che oggi chiameremmo “multimediale”. Fu la scintilla che mise definitivamente in corto circuito rock e arte, fomentando per induzione nella stessa New York l’esperienza del Mercer Arts Center, crocevia interdisciplinare in cui finirono per convergere personaggi provenienti tanto dai piani alti della produzione culturale (Laurie Anderson) quanto dal sottobosco metropolitano (i New York Dolls). E che si fosse attivato un canale di comunicazione privilegiato fra i due mondi lo dimostrò nella seconda parte degli anni Settanta la trasmigrazione sui palchi del rock di intelligenze forgiate nelle scuole d’arte: da Patti Smith ai Devo passando dai Talking Heads. La strettissima connessione fra art schools e scena rock, in cui sovente le prime fungono da serbatoio di risorse umane per la seconda, è ancora più visibile esaminando il caso britannico. Evidenziavano la relazione anni fa Simon Frith e Howard Horne nel saggio Art into Pop (Methuen, 1987), elencando quali e quanti protagonisti della musica locale provenissero dagli istituti d’arte. John Lennon, destinato a reimmergersi in quegli ambiti dopo il matrimonio con Yoko Ono (aderente al movimento Fluxus e fin dai primi anni Sessanta organizzatrice degli happening che in un certo senso anticiparono su scala ridotta le modalità rituali del festival rock). Keith Richards dei Rolling Stones e Jimmy Page dei Led Zeppelin. Freddie Mercury dei Queen (assoluti pionieri del videoclip ai tempi di Bohemiam Rhapsody). Brian Eno e Bryan Ferry (che al college aveva seguito i corsi di Richard Hamilton), insieme nei primissimi Roxy Music. Ma forse il personaggio che più di altri spiega nella propria biografia artistica la coesistenza delle due motivazioni è Pete Townshend dei Who, alla definizione dello stile dei quali contribuì inizialmente Peter Blake (noto inoltre agli appassionati di rock come autore della copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles), laddove il proverbiale vandalismo dei loro show dell’epoca - chitarre frantumate sul palco... - rimandava invece all’arte autodistruttiva di Gustav Metzger (anch’egli di scuola Fluxus). Fu tuttavia con l’eruzione del punk che la convergenza dei due vettori produsse la massima risultante. Le due bande più rappresentative della scena londinese, benchè in modi diversi, dovevano la propria identità alla scuole d’arte. Nel caso dei Clash poiché tre quarti del gruppo – Joe Strummer, Mick Jones e Paul Simonon - usciva da quel ciclo di studi, denunciando nella propria immagine pubblica l’ascendenza estetica esercitata da artisti quali Jackson Pollock e Robert Rauschenberg. In quello ancora più clamoroso dei Sex Pistols, viceversa, anziché il curriculum studentesco dei musicisti, valeva l’estrazione del manager (e addirittura “burattinaio”, secondo alcuni) Malcolm McLaren (diplomato alla scuola d’arte e seguace di Fluxus, Warhol e situazionisti) - e di chi – Jamie Reid - ne curava il corredo visuale, abrasivo quanto la musica. Un prodotto “pop” perfetto, ancorché in apparenza “sovversivo”. Grande opera d’arte sic et simpliciter, secondo Fred Vermorel, tra i massimi esegeti del fenomeno: “I Sex Pistols mi ricordano Guernica di Picasso, un’opera epocale, inestricabilmente avvinghiata al trambusto e alle polemiche che provocò. Bellezza strappata alla disperazione”, scriveva a cose fatte, nel 1981. La configurazione musica/moda/design che stava alla base dell’operazione Sex Pistols (il cui impeto rivoltoso era stato covato dentro la boutique di McLaren e Vivienne Westwood) altro non faceva che perfezionare un’alchimia sperimentata già nel decennio precedente, quando Londra “swingava” al ritmo delle canzoni dei Beatles, con i capelli dei ragazzi che si allungavanno e le gonne delle ragazze che si accorciavano, seguendo i dettami stabiliti da Mary Quant a Carnaby Street. Un intreccio non dipanabile fra impulsi creativi e interessi commerciali, che in epoca punk McLaren ebbe la sfacciataggine di dichiarare esplicitamente condensando l’avventura dei Sex Pistols nell’icastico slogan “La grande truffa del rock’n’roll”. Si avverava così la premonizione di Warhol a proposito delle finalità intrinsecamente mercantili dell’arte di fine Novecento, diretta conseguenza del crollo dei valori culturali tradizionali che aveva posto le premesse per l’affermazione della nozione stessa di postmodernismo. La definitiva beatificazione di quella visione “profana” dell’arte, in ambito musicale e non solo, è coincisa con l’avvento del videoclip (“unica originale forma d’arte televisiva”, secondo il massmediologo John Fiske) e la creazione del medium a esso deputato, MTV. Un metalinguaggio che a lungo andare, definendo nuovi standard della comunicazione, ha condizionato forme espressive limitrofe: dai telefilm alla pubblicità televisiva, arrivando a influenzare persino le produzioni cinematografiche. Non si spiegherebbe altrimenti l’ininterrotto via vai da un settore all’altro: registi di cinema prestati al videoclip (John Landis, Sam Peckinpah, Brian De Palma) e viceversa (Spike Jonze, Michel Gondry, Tarsem Singh). E puntualmente, quando ancora si era negli anni '80, il MOMA di New York decise con lungimiranza di creare un proprio archivio dedicato appunto ai videoclip. La medesima istituzione, del resto, aveva ospitato nel 1976 una mostra dei più significativi poster prodotti sulla West Coast durante l’epopea hippie. Segno che i fenomeni a vocazione musicale tendono – come dicevamo inizialmente - a sollecitare produzioni artistiche funzionali e complementari. Anzitutto copertine per i dischi: territorio di esercitazione creativa in cui, dagli anni Sessanta in poi, si sono forgiate intelligenze figurative di assoluto livello. Peter Saville per la Factory Records di Manchester (città di cui è stato nominato recentemente brand consultant). Neville Brody, illustratore per la Fetish Records e quindi direttore artistico del magazine The Face. E ancora: lo studio 23 Envelope, artefice degli inconfondibili packaging dei prodotti 4AD. Attraverso le copertine di quei dischi e di molti altri ancora è possibile rivisitare dunque la storia della pop music per immagini. Ma anche – come volevasi dimostrare - cogliere il modo in cui la pop music, richiedendo immagini, ha influenzato il corso dell’arte contemporanea.