IL MISTERO DEI VENETI

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IL MISTERO DEI VENETI
Per molti secoli, il Veneto rimase una “terra felice” dove la Vita scorreva serena
in armonia con la Natura e in pace con tutti.
I nostri Antenati, credevano talmente nella pace, che non c'era un vero esercito, anche
se conoscevano le armi e in qualche caso le avevano usate per difendersi contro i popoli
Barbari che periodicamente si affacciavano ai confini, attratti da queste terre fertili.
E' curioso come non ci siano documenti che parlano di una guerra persa con Roma.
L'Impero Romano, usò con i Veneti una tattica diversa : molti soldati delle Legioni
Romane, venivano premiati con un pezzo di terra, dove andare a vivere in Serenità la
vecchiaia. Per es. il FRIULI VENEZIA GIULIA, deriva questo ultimo nome dalla famiglia di
GIULIO CESARE che per meriti acquisiti sul campo (da generale, ha vinto tutte le guerre
fino a diventare Imperatore) ricevette in premio quella Regione.
Questi ex-legionari, venendo a risiedere in Veneto, furono conquistati dalla bellezza “serena” delle nostre donne e sposandosi, mettevano al mondo dei figli che di diritto erano
cittadini Romani. Così, piano piano, il Veneto divenne una Provincia dell'Impero Romano.
I Veneti, erano noti fin dall'antichità come valenti costruttori di navi e vivevano di pesca
ma erano anche abili allevatori di cavalli e ottimi agricoltori. Tali informazioni le potete
facilmente riscontrare in diversi testi storici che qui sintetizziamo.
1. Quando Enea decise di partire da Troia, (con lui c'era
anche Antenore, che poi fonderà Padova) si fece costruire le navi dagli ENETI un popolo confinante (abitavano nell'Asia Minore, nella Paflagonia) composto da gente
pacifica, (erano alleati di Troia, ma si tennero alla larga
dalla guerra con i Greci) descritta da Omero come "abili
costruttori di navi, che vivevano di pesca, ma anche
allevatori di cavalli e agricoltori provetti. "
2. Molti secoli dopo, in tutt'altra parte del
Mondo, nel suo libro di memorie “De bello
Gallico” Giulio Cesare scrive che per attaccare la Britannia via mare, si fa costruire le
navi da un popolo che abitava la Regione del
Nord della Gallia : anche loro si chiamavano
VENETI ed oltre a costruire navi e vivere di
pesca, erano bravi allevatori di cavalli ed
esperti coltivatori
3. La teoria recentemente più accreditata dagli Storici (Polacchi
e Sloveni) ritiene che questi due Popoli Veneti, provenissero in
origine (1200 a. C.) da un'unica Area, denominata Lusezia. che si
estendeva nella steppa dal Mar Baltico fino al Danubio. (l'attuale
Polonia e parte della Germania) Più o meno la stessa Area dalla quale molti secoli dopo arriveranno anche i Celti. Si ritiene, quindi,
che i nostri Antenati Veneti, avessero nelle vene sangue Celtico.
Forse è per questo motivo che, quando i Celti arrivarono nel
Veneto, non ci furono conflitti, ma si creò subito un'intesa e una
spartizione pacifica del Territorio, con i Veneti in pianura e i
Celti (Cimbri) sulle alture e montagne. (Alto-piano di Asiago).
Vogliamo segnalare che la Civiltà UNETICA ha dato vita alla Civiltà Lusaziana che si
diramò in Europa esportando l'amore per i commerci e l'agricoltura.
Ma vorremmo anche sottolineare la forte religiosità di questi nostri Antenati, che si
esplicava sopratutto nel Rito della “incinerazione dei defunti” raccogliendo le ceneri in
apposite urne, che venivano sepolte in vasti campi verdi o al limitare di un bosco.
Pertanto, i Veneti Antichi, sono i portatori della “Civiltà dei Campi di Urne” detti anche
“CAMPI SERENI” e come tali fondatori e progenitori dell'Uomo Europeo.
4. IL MITO E LA LEGGENDA : Infine, quando
si parla della mitica Atlantide, un continente leggendario che ancora oggi non si
sa bene dove fosse, ma che sembra sia
scomparso a causa di un sisma di potenza
inaudita. Varie fonti storiche descrivono i
suoi abitanti come : “abili costruttori di
navi e allevatori di cavalli che avevano
reso fertile la terra abitata.” Che sembra
proprio la descrizione di un altro ceppo dei
nostri Veneti.
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LE RADICI CELTICHE DEL TRENTINO, DEL VENETO E DEL FRIULI
Fino alla riforma amministrativa augustea che istituì la “Decima Regio, Venetia et Histria”, tutto il Triveneto era incluso nella Gallia cisalpina, e che ancora oggi i linguisti
considerano i dialetti istro-veneti come facenti parte del più vasto ceppo Gallo – italico,
segno indubbio di un’impronta celtica che si è mantenuta nel tempo. Sarebbe probabilmente stato opportuno dire qualche cosa di più sugli antichi Veneti e sui loro rapporti
con i Celti con i quali si sono variamente mescolati nel corso dei secoli. Se noi consideriamo l’Italia preromana, prescindendo dalle colonizzazioni greca e fenicia–punica, tralasciando i Sardi, popolazione rigorosamente insulare ed isolata, troviamo nella Penisola
cinque ceppi:
1) Italici propriamente detti, ossia il gruppo latino – tosco – umbro – sabellico (sabino e
sannita), 2) i Galli cisalpini, 3) gli Etruschi, 4) i Liguri che costituivano una popolazione
insediata non solo nella Liguria attuale e nel Piemonte meridionale, ma anche in vaste
aree della Provenza e (sembra) dell’Aquitania, 5) i Veneti.
*Riportiamo qui sotto il testo di alcune interessanti ricerche...
Celti e Veneti si sono variamente incontrati e mescolati sia sulla sponda atlantica della Gallia sia
nell’area compresa tra l’arco alpino, il Mincio ed il Po, erano fin dall’inizio con ogni probabilità
popolazioni molto affini, rimaste fedeli per così dire al “tipo base” delluomo indoeuropeo e che
non avevano difficoltà ad integrarsi, ma sulla presenza celtica in quella che fu la Venezia Giulia,
dalle foci dell'Isonzo al Carso triestino, ai territori passati alla Jugoslavia dopo il secondo conflitto mondiale, è oggi possibile dire qualcosa di più.
L’area carsica e delle Prealpi Giulie dall’Isontino fino all’Istria è caratterizzata dalla presenza di
alcune tipiche fortificazioni protostoriche fatte di muri a secco (simili a dei piccoli nuraghi) che
sono dette castellieri. Stando ad alcune ricerche, i castellieri sarebbero appunto di origine
celtica, e se questo è vero, allora la presenza celtica in regione non si limita come fin allora si è
ritenuto, alla sola area Carnica, ma si spinge ben addentro nel territorio considerato istroveneto. Sempre nel corso di queste ricerche, molto materiale di origine celtica è emerso nel sito
del santuario preromano di Zuglio, l’antica Julium Carnicum; si tratta prevalentemente dei resti
di armi, in particolare di lame di spada, che sembrano spezzate deliberatamente. Si ritiene che i
guerrieri sopravvissuti ad una campagna bellica usassero sacrificare agli dei la propria spada a
titolo di ex voto. Alcune delle spade ritrovate sono di fattura romana, e si pensa che venissero
offerte anche le spade di preda bellica, oppure che si trattasse di armi appartenute a Galli Carni
che militavano come mercenari nell’esercito romano.
Un altro aspetto importante messo in luce da queste ricerche è che la presenza della cultura
celtica nella regione è stata non solo più estesa nello spazio ma anche più persistente nel tempo
di quanto finora si pensasse: gli scavi condotti nelle necropoli della Carnia hanno permesso di
rivelare non solo la continuità degli insediamenti fra età antica ed Evo Medio, ma anche il persistere di una cultura celtica o gallo – romana fin addentro all’età medievale, rivelata dagli arredi
funebri, dalla foggia delle fibule, dalla foggia degli abiti che la posizione delle fibule sui corpi
lascia desumere, in sepolture che sono coeve degli insediamenti longobardi nella pianura.
Nel 1982 si scoprivano nella Val d’Assa, (che è in pratica uno stretto canalone fittamente
ricoperto di vegetazione che attraversa l’altopiano di Asiago) una serie di graffiti rupestri analoghi a quelli che costellano la ben più nota Val Camonica ed alcuni megaliti di aspetto affatto
simile ai menhir celtici. Questa scoperta permetterebbe di stabilire un collegamento del tutto
naturale e logico fra i Celti della pianura Padana ad occidente del Garda ed i Galli Carni insediati
in età preromana non solo nell’attuale Carnia (la parte montana del Friuli) ma anche nella
pianura veneto – friulana fino all’Adriatico.
Cominciamo con l’osservare che la penisola italiana, tutta la penisola italiana, è stata oggetto di
un intenso popolamento umano fino da età remotissime. Le popolazioni che rappresentano il
sostrato pre-indoeuropeo dell’Italia centro – settentrionale dimostrano una sostanziale continuità dal neolitico all’età storica che ci è testimoniata dalle culture terramaricola, villanoviana,
etrusca nelle quali è sempre riconoscibile lo stesso tipo antropologico: l’origine orientale degli
Etruschi, sebbene sembri trovare qualche appiglio nelle fonti classiche, è una fantasticheria da
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respingere nel limbo delle favole non meno di quella che vorrebbe i Romani discendenti di Troia.
Imparentati con gli Etruschi sono i Reti insediati sui due versanti del crinale alpino; sono da considerarsi con ogni probabilità un frammento di quello stesso mondo villanoviano – etrusco che le
invasioni venete liguri e celtiche hanno separato dai loro affini dislocati fra la pianura Padana,
l’Appennino e il mar Tirreno. In Veneto la presenza di insediamenti retici è attestata nell’altopiano di Asiago.
Un altro frammento dello stesso contesto villanoviano – etrusco – retico è rappresentato dai
Liburni, popolazione costiera dell’Istria, della Dalmazia, delle isole dell’Adriatico. Abilissimi
marinai e pirati, i Liburni causarono parecchi grattacapi a Roma quando cercò di sottometterli.
Proprio in base a questa non molto fortunata esperienza, i Romani adottarono il loro modello di
nave, la liburna dalla chiglia sottile, agile e manovriera che affiancò e quasi sostituì la trireme
derivata dalla triera greca. Come per tutte le popolazioni dell’antichità preromana, anche per i
Liburni si pone il medesimo interrogativo: fino a che punto la conquista romana ne ha cancellato
e fino a che punto ne ha soltanto nascosto l’identità. Di sicuro, gli Uscocchi, i temibili pirati medievali che operando dalle stesse zone, le Isole della Dalmazia, diedero dei seri problemi alla
repubblica di Venezia, ma erano temuti anche dall’impero Romano – germanico e dagli stessi
Ottomani (che pure erano gente che non scherzava!) sembrano in tutto e per tutto i Liburni redivivi. Su questo sostrato pre-indoeuropeo, successive migrazioni e invasioni portarono alla sovrapposizione di altri popoli: Paleoveneti, Veneti e Celti, popolazioni indoeuropee o probabilmente
indoeuropee. Per i Paleoveneti dobbiamo accontentarci di un “probabilmente”, poiché non ci
sono rimaste testimonianze della loro lingua; si tratta del resto di una popolazione straordinariamente mal denominata, in quanto il termine “Paleoveneti” suggerisce una fase più antica
della cultura veneta, (come si pensava un tempo) mentre sappiamo che non solo si trattava di
una popolazione distinta, ma che se è vero che in alcune aree i Veneti si sovrapposero a loro o li
sostituirono, in altre essi mantennero la loro cultura e la loro fisionomia fino alla dominazione
romana. Si tratta della popolazione portatrice della cultura Atestina, così detta perché individuata grazie a ritrovamenti avvenuti nella località di Este in provincia di Padova; forse sarebbe
meglio non chiamarli “Paleoveneti”, designarli come Atestini e basta. Scoperte recenti hanno
gettato un po’ più di luce su di loro: si pensa che essi siano giunti nell’area veneto – friulana
provenendo dall' Europa centrale: reperti dalle caratteristiche simili a quelle della cultura
Atestina (si tratta per lo più di spille e minuti oggetti di oreficeria), sono venuti recentemente alla
luce in Moravia e nella zona dei monti Tatra.
Oggi noi pensiamo ai Veneti come ad una realtà di dimensioni regionali, ma in origine quello
Veneto era uno dei rami principali della famiglia indoeuropea, come il celtico, il latino, il
germanico, lo slavo, l’iranico, l’indiano e via dicendo. Formatisi come entità etnico – linguistica
con ogni probabilità nell'Europa centrale, i Veneti nel corso delle loro migrazioni si scissero in tre
rami, migrando alcuni attraverso le Alpi nella parte orientale della pianura Padana, altri verso
occidente fino ad arrivare sull’estuario della Loira e sulle sponde dell'Atlantico; altri ancora si
sarebbero diretti verso oriente in direzione del Baltico, ed è questo substrato venetico che
spiegherebbe ad esempio la somiglianza di alcuno toponimi di quella che è oggi la Francia
occidentale con quelli che si ritrovano in ciò che attualmente è una parte del mondo slavo: ad
esempio Brest e Brest Litovsk nell’attuale Polonia.
Dei Veneti occidentali, o Vendi, parla diffusamente Giulio Cesare nel De Bello Gallico; costoro
erano insediati nella terra che ancora oggi porta il loro nome, la Vendee, che noi conosciamo come Vandea. Dei Veneti cisalpini, quelli che si insediarono nel Triveneto, Tito Livio ci riferisce che
già prima della conquista romana erano notevolmente civili, e probabilmente, assieme ai Greci
di Adria e di Spina, esercitarono un’influenza civilizzatrice sui Celti, poiché lo storico romano ci
testimonia che già prima della fondazione di Aquileia gli uni e gli altri non si distingue-vano che
per la lingua, essendo i costumi ed i modi di vita divenuti notevolmente affini. Alcuni toponimi
come Concordia (divenuta poi in età romana Concordia Sagittaria perché gli artigiani locali erano specializzati nella produzione di frecce), fanno pensare che si trattasse di insediamenti nei quali comunità di diversa origine, celtica e veneta convivevano pacificamente assieme. Affini ai Veneti ma
con caratteri che li distinguevano da questi, erano gli Istri che popolavano non solo l’Istria, regione passata alla Jugoslavia dopo la seconda guerra mondiale, ed oggi divisa fra Slovenia e
Croazia, ma anche il vallone di Muggia e Trieste. Il più antico insediamento nella città giuliana
sul “Caput Adriae” sembra essere stato un insediamento degli Istri, Il nome, Terges, “mercato”,
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(Terges-Tergestis = Trieste) è un etimo istroveneto. E’ verosimile che in questo luogo, che era la
propaggine più occidentale del territorio degli Istri, questi ultimi ed i Celti si incontrassero per
commerciare. Ad articolare ancora di più il quadro storico ed antropologico certamente
complesso che andiamo esaminando, non va neppure dimenticato il fatto che l’area veneta, caso
unico in tutta l’Italia settentrionale, conosce in età preromana anche insediamenti greci; su di
essa non lontano dal delta del Po sorgono le colonie greche di Adria (che ha dato il nome al mare
Adriatico) e di Spina, ed indubbiamente anche queste ultime hanno avuto un’importante
influenza culturale sulle popolazioni venete e celtiche ben prima dell’arrivo “civilizzatore” delle
legioni romane. I Celti si possono distinguere in Celti cisalpini e transalpini. Celti cisalpini erano i
Galli Carni, che alla Carnia, attualmente coincidente con la parte settentrionale montuosa del
Friuli, hanno dato il nome; tuttavia occorre rilevare che, stando alle fonti romane, quando fu
decisa nel 151 a. C. la fondazione della colonia di Aquileia per tenere sotto controllo i Celti
transalpini che avevano iniziato a discendere dal crinale delle Alpi, essa venne fondata “in
Carnia”, ossia nel territorio dei Galli Carni, che all’epoca evidentemente comprendeva anche la
pianura, coincidendo dunque approssimativa-mente con il Friuli attuale.
Occorre però ricordare che “cisalpino” e “transalpino” erano termini che per i Romani avevano
un significato non antropologico o culturale ma meramente geografico. In questo caso, significavano che i Galli Carni, a differenza dei Celti di recente immigrazione per tenere d’occhio i
quali fu fondata Aquileia, erano insediati nella loro terra da secoli; non se ne deve dedurre automaticamente che essi fossero affini più stretti dei Celti della valle Padana che di quelli che
vivevano immediatamente al di là dei valichi alpini. Diversi indizi in effetti collegano i Celti
carnici piuttosto alle popolazioni transalpine e danubiane che a quelle della valle Padana, a
cominciare dal tipo di colture cerealicole, essi sembrano in effetti rientrare più che nella cultura
di La Tene (la cultura “classica” dei Celti occidentali) in quella di Hallstatt, propria dei Celti
transalpini e danubiani, e questo non è, a conti fatti, per nulla sorprendente.
La località austriaca di Hallstatt fu per tutta l’età celtica, per quella romana e per buona parte
di quella medievale un centro economico di notevole importanza che fece indubbiamente sentire i suoi effetti anche al di qua delle Alpi, e sappiamo che all’importanza economica si accompagna spesso l’influenza culturale; questo perché, adiacente alla più grande miniera di salgemma
d’Europa, ancora oggi sfruttata, era un centro di primaria importanza nel commercio del sale,
che nell’economia aveva un peso paragonabile a quello che ne ha oggi il mercato petrolifero.
L’estrazione ed il commercio del sale dovevano avere un’importanza primaria per tutta quella
parte del Noricum – oggi Austria -; è quanto ci attestano toponimi come Salzburg, Salisburgo e
Obersalzberg. D’altra parte è del tutto verosimile che esistessero collegamenti anche con i Celti
della valle padana. Nel 1981, nella Val d’Assa, una stretta valle che taglia l’altopiano di Asiago in
direzione del lago di Garda sono stati scoperti graffiti molto simili a quelli della Val Camonica, e
negli immediati dintorni dei megaliti, alcuni menhir ed una grande ara sacrificale. Tuttora però
questi reperti non risulta siano stati adeguatamente studiati e descritti nella letteratura
scientifica.
Fin dove si estendesse in pianura la Carnia celtica oggi ristretta alla fascia montana, non è per
nulla facile da determinare, anche perché spesso si trattava di insediamenti che si affiancavano
ad altri contigui di Veneti ed Atestini senza dimostrare alcun barlume di quello spirito di “pulizia
etnica” che caratterizza la nostra civilizzata epoca; alcuni indizi in proposito sono tuttavia molto
interessanti. A Cividale, ad esempio, si trova l’ipogeo celtico, una caverna naturale ampliata
dalla mano dell’uomo che, sebbene la cosa non sia del tutto certa, si suppone fosse un luogo
impiegato per i riti d’iniziazione. Nel 1991, il prof. Maurizio Buora della Sovrintendenza Archeologica di Udine ha effettuato una campagna di scavi in due siti sulla riva del fiume Stella, due
formazioni note come Cjastion e Cjastelir che presentano somiglianze con i castellieri del Carso
triestino di cui in tempi recenti è stata riconosciuta l’origine celtica. I pochi manufatti rinvenuti,
soprattutto minuti frammenti di vasellame, sembrano tuttavia ricollegarsi piuttosto alla cultura
Atestina, l’origine celtica delle strutture appare ugualmente probabile; si trattava forse di strutture militari preposte al controllo di una via commerciale. I guerrieri celti ivi insediati non si sarebbero portati le stoviglie da casa, ma le avrebbero acquistate dalle popolazioni vicine.
Per nulla dire delle campagne di scavi ancora più recenti (2001) condotte a Zuglio (Julium Carnicum), antico santuario celtico che ha restituito una notevole copia di manufatti, e nelle necropoli della zona che hanno evidenziato, dai reperti rinvenuti e dalla foggia degli abiti dei defunti
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deducibile dalla posizione delle fibule sugli scheletri, il persistere nelle zone montane di una
cultura celtica o gallo – romana fino ai VII – VIII secolo, coeva degli insediamenti longobardi della
pianura, che allarga i limiti della celticità friulana non solo nello spazio ma anche nel tempo.
A questo quadro già molto articolato va aggiunto un ulteriore elemento messo in luce in tempi
recentissimi: il 15 aprile 2003 è stato presentato al pubblico il libro del professor Gino Bandelli
dell’Università degli Studi di Trieste: La necropoli di San Servolo, Veneti, Celti e Romani nel
territorio di Trieste. Lo studio condotto dall’archeologo triestino sui reperti ritrovati nelle
numerose inumazioni del sito, ha evidenziato non solo una sostanziale continuità fra l’epoca
anteriore e quella posteriore alla conquista romana, ma che nelle sepolture manufatti ed
elementi veneti, celtici ed istri s’intrecciano, a dimostrazione palese che Trieste era fin dalle
sue origini (che alcuni fanno risalire al 1000 a. C.), una città cosmopolita, una città – mercato
dove le diverse etnie s’incontravano, commerciavano, convivevano. Molte questioni rimangono
ovviamente aperte; indubbiamente le nostre conoscenze possono ancora progredire molto,
anche se è probabile che la risposta ad alcuni interrogativi non l’avremo mai. Forse la questione
che ha più potere di intrigare e di arrovellare, è che cosa ne sia mai stato dei Celti cisalpini con
la conquista romana, se possiamo davvero figurarcela come una globalizzazione ante litteram,
un rullo compressore che inesorabilmente schiaccia ed amalgama tutte le identità preesistenti.
Quel che è certo, è che con la conquista romana della Gallia cisalpina cessa la cultura materiale
che noi possiamo riconoscere per celtica. Questo non significa che la popolazione celtica sia
scomparsa ma, romanizzandosi, è diventata per noi invisibile. Come ha scritto Fabio Prenc in
Kurm: "I Celti ci saranno stati certamente, anche [in età romana], ma il fatto che si vestissero
da Romani, mangiassero da Romani, vivessero insomma come Romani, ci impedisce di riconoscere il loro esser Celti". La linguistica e la toponomastica tuttavia ci testimoniano una sopravvivenza di questa celticità sotto la vernice della romanizzazione molto al di là di quanto non
suffraghino i soli dati archeologici. Possiamo anzi chiederci come mai parole per indicare oggetti
di uso quanto mai comune presenti nell’italiano di oggi non derivino dal latino ma dal celtico:
cavallo da capal (e non da equus), carro da kar, capanna da caban, come evidenzia, sempre su
Kurm il saggio di Ermanno Dentesano. Eppure, a pensarci bene, non c’è proprio di che stupirsene. L’italiano moderno deriva non dal latino classico ma dal vernaculum, la lingua di uso comune
impiegata dal popolino; in particolare la lingua che si parlava con gli schiavi (o parlata dagli schiavi) addetti alle mansioni di servitori di casa (vernae), fra questi ultimi la componente celtica doveva essere piuttosto ben rappresentata. Occorre forse ricordare che Giulio Cesare condusse la
conquista delle Gallie come una sorta di guerra privata, contro la volontà del Senato, precisamente allo scopo di procurarsi un gran numero di schiavi da immettere sul mercato romano? Che
gli schiavi erano allora il motore dell’economia, una sorta di petrolio umano, e che in seguito
alle conquiste di Cesare molte migliaia di Galli furono effettivamente venduti come schiavi a
Roma? Che fine hanno fatto? Con il trapasso dall’antichità al medio evo e dall’economia servile a
quella feudale, le differenze fra i coloni, i contadini liberi che vedono man mano ridotti i loro
diritti, e i servi, gli schiavi che vedono alleviata la loro condizione (nell’Età di Mezzo la parola
perde il significato di schiavo per assumere genericamente quello di servitore) si fanno progressivamente più esigue e spariscono, e le due classi si fondono.
Gli Italiani di oggi hanno forse più sangue celtico di quanto non s’immaginano
Link di ricerca Bibliografia. vai su :
http://www.celticworld.it/sh_wiki.php?act=sh_art&iart=1088
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LE INVASIONI BARBARICHE E LE ORIGINI DI VENEZIA
I primi attacchi registrati dagli storici sono ad opera dei Quadi e dei Marcomanni(166/168
d.C.), che, provenienti dalla frontiera danubiana, distrussero Oderzo. I Romani impiantarono sulle Alpi Giulie già dal terzo secolo un possente sistema difensivo (i claustra Alpium
Iuliarium citati da Ammiano Marcellino), appoggiato ai centri fortificati di Aquileia e Iulia
Concordia.
Le difese furono tuttavia superate nel V secolo: i Visigoti guidati da Alarico penetrarono
in due riprese (401 e 408 d.C.) lungo la via Annia e nel 452 gli Unni di Attila conquistarono
Aquileia, Concordia e Altino. In queste occasioni è probabile che le popolazioni dei territori saccheggiati si siano rifugiate temporaneamente nella zona lagunare, per far quindi
ritorno alle proprie case una volta passato il pericolo. Nelle aree lagunari sorgevano
all'epoca solo piccoli insediamenti, che si sostentavano con la pesca e lo sfruttamento
delle saline.
Dopo sessant'anni di dominio goto, l'intera Venetia fu conquistata dal generale Narsete
all'Impero bizantino nel 555 d.C. Poco dopo, come racconta Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum, nel 568 i Longobardi guidati da Alboino, si impadronirono di
Forum Iulii e delle zone interne, lasciando ai Bizantini i centri verso la costa, a cui si
aggiungevano Oderzo e la via del Po (Padova, Monselice, Mantova e Cremona): l'invasione
fu forse frutto di un accordo, attraverso il quale la Venetia marittima, (Laguna e Delta del
Po) sottoposta all'esarcato di Ravenna, veniva ormai separata dalla Venetia dell'interno
(terraferma), la futura Austria longobarda.
Una delle conseguenze della nuova invasione fu il trasferimento delle autorità civili e
religiose, che furono molto probabilmente seguite da parte notevole degli abitanti, dai
centri dell'interno verso la costa, dove già nel secolo precedente si erano andati rafforzando e sviluppando gli scali di Chioggia, l'antica Malamocco (distrutta per una catastrofe
naturale agli inizi del XII secolo e ricostruita quindi nella sede attuale), Equilio, Torcello e
Caorle : il patriarca di Aquileia, Paolino, si trasferì a Grado, che ospitava già un castrum
e due chiese. Il processo di separazione tra regioni costiere e interno fu forse accentuato da una serie di alluvioni (Paolo Diacono descrive come "diluvio" quella del 589) che mutarono l'assetto idrografico.
Nel settimo secolo il dominio longobardo si espanse fino alla via Annia: nel 639 d.C. fu
conquistata Oderzo (poi distrutta nel 669) e i Bizantini spostarono gli organi amministrativi sull'isola di Melidissa, chiamata in seguito Heraclia in onore dell'imperatore Eraclio.
La divisione tra i domini bizantini e quelli longobardi venne sancita agli inizi del secolo,
anche da una nuova suddivisione ecclesiastica : il patriarca di Aquileia, ormai aveva
stabilito la sua Sede a Grado, dove aveva trasferito le insegne del potere pastorale e le
reliquie dei santi e dei martiri fondatori della prima comunità cristiana veneta.
Un anno storico per Venezia fu l’828 d.C. anno in cui i Veneziani trasferiscono il corpo
dell’Evangelista Marco nella cappella del Palazzo ducale, già sorto nell’isola di Rialto.
Secondo la leggenda, due mercanti, Tribuno e Rustico, capitarono in Alessandria d’Egitto
nel momento in cui il Califfo faceva saccheggiare la chiesa cristiana dove era conservato
il corpo di San Marco (martirizzato nel '68 d.C.). Temendo che il sacro corpo venisse profanato, i due mercanti lo trafugarono, trasportandolo sulla loro nave, in un cassone di
legno ricoperto di quarti di maiale. I veneziani gli diedero poi onorata sepoltura nella
prima basilica di San Marco e lo elessero loro patrono. Questo evento accrebbe il
prestigio di Venezia, non solo come capitale ducale, ma anche come sede religiosa e
comportò in seguito il trasferimento della sede patriarcale.
Se volete approfondire vedi link: http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_di_Venezia
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