Sotto
le stelle
del Cinema
SABATO 23 LUGLIO
PIAZZA MAGGIORE, ORE 22.00
Bologna
dal 20 giugno al 30 luglio
BOLOGNA
Serata Kollywood
Piazza Maggiore, ore 22.00
DAL 20 GIUGNO
AL 30 LUGLIO 2011 Raavanan
(India/2010)
Regia: Mani Ratnam. Sceneggiatura: Mani Ratnam, Vijay Krishna
Acharya, Suhasini. Fotografia: Santosh Sivan, Manikandan (I).
Montaggio: Sreekar Prasad. Scenografia: Samir Chanda. Costumi:
Sabyasachi. Musica: A.R. Rahman. Interpreti e personaggi: ‘Chiyaan’
Vikram (Veeraiya) Aishwarya Rai (Ragini Subramaniam), Prithviraj
(Dev Prakash Subramaniam), Karthik (Gyanaprakasam), Prabhu
(Singarasan), Priyamani (Vennila). Produzione: Mani Ratnam, Sharada
Trilok per Madras Talkies. Durata: 137’
Introduce Gianni Sofri
Questo film è un film tamil, vale a dire prodotto in uno stato del
Sud dell’India, il Tamil Nadu. Si chiama Raavanan. Ne esiste anche
una versione in hindi, che si chiama Raavan. Raavanan in lingua tamil,
Raavan in hindi corrispondono al nome di uno dei protagonisti del
poema epico Ramayana, un re che è anche il ‘cattivo’ della storia.
Nelle traduzioni inglesi questo personaggio è chiamato Ravana,
e con questo nome è passato anche nelle altre lingue europee.
(Attenzione: le due versioni del film non sono soltanto l’una il
doppiaggio dell’altra, come potremmo immaginare, ma proprio
due film diversi; basti pensare che un attore molto famoso in India
– soprattutto in quella del Sud – , Vikram, si alterna nei due film
nelle due parti principali).
Nella cultura indiana antica ci sono due grandi poemi, il Mahabharata
e il Ramayana. Il primo, probabilmente più antico (ma di poco, e
comunque la cosa è discussa) è considerato, con i suoi 200.000
versi, la più grande opera letteraria dell’umanità, per lo meno dal
punto di vista delle dimensioni. È un’opera piena di racconti, miti,
personaggi, ma anche con una forte impronta filosofica e giuridicoprescrittiva. Il Ramayana, a differenza del Mahabharata, che ebbe
tanti autori sconosciuti distribuiti in un arco di secoli, è invece l’opera
di un autore, Valmiki, vissuto probabilmente intorno al IV secolo
a.C. Ho detto ‘probabilmente’ perché anche su questo, e cioè sulla
vita di Valmiki, si discute molto, fino ad arrivare, da parte di alcuni
studiosi, a negare addirittura la sua esistenza. Inoltre, anche nel caso
del Ramayana ci sono dei canti aggiunti posteriormente (spesso
non compresi nelle edizioni correnti). È certo, comunque, che il
Ramayana è un poema più compatto e, soprattutto, mosso più da
un’ambizione poetica (si potrebbe ricordare il nostro “l’arte per
l’arte”) che non dall’ispirazione filosofico-religiosa del Mahabharata.
Ciò non toglie che il Ramayana, con il suo continuo sovrapporre e
intrecciare le vicende di dei e uomini (e donne, naturalmente), di
demoni e animali, di uomini-dei e animali-dei, sia impregnato in ogni
sua pagina della peculiare religiosità dell’induismo: al punto di essere
divenuto nel tempo anche un manuale usato nei riti (una specie di
libro di preghiere, diremmo noi); e soprattutto, di essersi affermato
come uno dei più popolari (se non il più popolare) tra i racconti di
cui è fatta la mitologia indiana.
Se posso fare un esempio, che viene dalla mia personale
esperienza, mi capitò anni fa di incontrarmi con un episodio della
vita di Gandhi. Il quale, trovandosi a Londra nel 1909, ed essendo
incuriosito dai nazionalisti estremisti indiani, andò un giorno a una
riunione organizzata da un loro comitato, alla quale partecipava
anche un certo Savarkar, che secondo molti studiosi sarebbe stato,
quasi quattro decenni dopo, il mandante dell’omicidio dello stesso
Gandhi. La cosa curiosa dell’incontro di cui dicevo è questa, che
Gandhi tenne un discorso ricordando come proprio quel giorno,
con la festa indiana di Dussera, si celebrasse la vittoria di Rama, il dio-eroe,
settima incarnazione di Visnù, sul cattivo re Ravana. Rama era molto amato da
Gandhi, che sarebbe morto con il suo nome sulle labbra. La sua, egli disse, era
stata la vittoria della verità, del coraggio pacifico, della vita virtuosa, sulla falsità e
sul male. Ma prima del suo successo Rama aveva dovuto sopportare l’esilio per
quattordici anni; altri personaggi del Ramayana, compagni di Rama, tra cui Sita, la
sua sposa virtuosa e fedele, erano passati attraverso immani sofferenze. Savarkar
rispose parlando anch’egli del Ramayana, ma per sottolineare che Rama aveva
potuto imporre il suo regno solo dopo aver ucciso Ravana, simbolo della tirannia
e dell’oppressione. Che due rivali politici, sostenitori rispettivamente della nonviolenza e della violenza, si affrontassero in quella serata londinese attraverso
citazioni del Ramayana, si deve in primo luogo al fatto che si erano accorti,
probabilmente, che alla riunione era presente anche un agente di polizia (che
fece poi, infatti, il suo regolare rapporto). Ma soprattutto, entrambi sapevano
con certezza che le loro allusioni al poema non avrebbero messo in difficoltà
nessuno dei settanta indiani presenti, per cui era assolutamente normale
intendersi su problemi politici dell’India del loro tempo attraverso leggende
riferite a due millenni prima o anche più.
Avendo raccontato questo episodio, mi basteranno poche parole per dire
di cosa parla il Ramayana. Esso ha per protagonista Rama, un principe, figlio
ed erede del sovrano di un regno nell’Uttar Pradesh, con capitale la città di
Ayodhya, di cui si è molto parlato negli ultimi decenni per violenti scontri tra indù
e musulmani. Intrighi di corte provocano un lungo esilio di Rama verso il Sud
(secondo alcuni interpreti, l’intero poema rappresenterebbe simbolicamente
la storia della discesa verso sud dell’induismo), accompagnato da uno dei suoi
fratelli e dalla fedele moglie Sita. Nel corso delle sue peregrinazioni Rama, che
è un po’ il simbolo del grande guerriero, si trova a combattere contro eserciti
nemici, ma soprattutto quello guidato dal re Ravana. Quest’ultimo è una sorta
di anti-dio, demone e capo di demoni, dalle capacità sovrannaturali. Con uno
stratagemma rapisce Sita e riesce a tenerla a lungo prigioniera a Lanka (forse lo
Sri Lanka), attentando, ma invano, alla sua virtù. Alla fine Rama ottiene la vittoria,
e uccide il cattivo Ravana, grazie all’aiuto di un esercito di scimmie, capeggiato
dal dio scimmia Hanuman, anch’esso dotato di particolari virtù, soprattutto
acrobatiche (con un solo balzo riesce a passare dall’Himalaya a Lanka: guardate
con attenzione il film anche da questo punto di vista). La sconfitta e l’uccisione
di Ravana si accompagnano, naturalmente, alla liberazione della povera Sita. Ma
la storia non finisce qui, perché l’ottimo Rama vuole essere sicuro della fedeltà e
castità di Sita nel periodo in cui, sia pure da prigioniera, ha vissuto insieme a un
altro uomo. La faccenda si mette male, non solo perché rientra nella categoria
‘la mia parola contro la tua’, ma anche perché una grande prudenza è dettata a
Rama dalle usanze e credenze dell’epoca. Sita decide di difendersi attraverso la
prova del fuoco: entra tra le fiamme di una pira, ma ne esce indenne, e questo
prova la sua fedeltà e permette il suo trionfale ritorno in Ayodhya accanto al
suo sposo divenuto ormai re. Secondo alcuni interpreti, in questo poema Sita
rappresenta le ragioni dei sentimenti personali, dell’amore, della famiglia; e la
fedeltà assoluta ad essi. Rama rappresenterebbe, invece, il primato del dharma, e
cioè del dovere etico che si collega al suo ruolo di guerriero.
Un’ultima cosa riguardo al poema. Il Ramayana ha avuto molte traduzioni dal
sanscrito (sua lingua originaria) in altre lingue indiane, e anche molte rielaborazioni
letterarie di poeti e scrittori. Fra le traduzioni è soprattutto ricordata quella tamil
redatta nell’XI secolo d.C. da un poeta di nome Kamban, che si allontana di poco
dal testo di Valmiki. Uno dei più grandi scrittori indiani dello scorso secolo, R.K.
Narayan, ha scritto una bellissima sintesi del Ramayana nella versione di Kamban,
pubblicata in italiano da Guanda. Chiunque volesse accostarsi con poca fatica a
questo grande poema, può farlo attraverso questo libro.
Noi siamo abituati a pensare a due grandi centri del cinema indiano, Calcutta per
il cinema di qualità, quello dei grandi festival per intenderci, e Mumbai (Bombay),
cioè Bollywood, per i grandi filmoni commerciali. In realtà, questa differenza si è
venuta attenuando, e per esempio Bollywood produce anche film che hanno
un grande successo di critica. Inoltre ci sono altre cinematografie indiane. Quella
del Tamil Nadu, lo stato di Chennai (Madras) è talmente cresciuta da essere
ormai la seconda per fatturato dopo Bollywood, e da meritarsi a sua volta il
nome di Kollywood, sintesi di Hollywood e dell’iniziale K della località in cui
si sono sviluppati i suoi studios. Non potrei mai parlare in poche parole della
cinematografia tamil, perché sarebbe come parlare in poche parole della nostra,
e cioè di una cinematografia che va da Fellini ai Vanzina. Inoltre, non ne so
abbastanza. So però che è una cinematografia molto impegnata politicamente,
tanto che buona parte dei presidenti del Tamil Nadu, a partire dalla seconda
metà degli anni Sessanta, sono stati famosi attori, e anche produttori e registi sono
entrati nel parlamento o nel governo. L’ideologia di fondo cui questo mondo
politico-intellettuale si ispira potrebbe essere definita progressista-nazionalista.
Soprattutto, essa rivendica l’autonomia e i diritti della cultura dravidica del Sud
contro lo strapotere hindu-arya del Nord, visto spesso come una sorta di
colonizzazione. Da qui, una certa simpatia tamil, nella lettura del Ramayana, per il
re Ravana, visto come un precursore della lotta contro il Nord.
(l’attore è Vikram, vero nome John Kennedy Vinod Raj) ha atteggiamento e
comportamenti da Robin Hood indiano. Il secondo protagonista maschile è Dev
(Prithviraj Sukumaran), un ispettore di polizia che è arrivato in città con l’esplicito
compito di dare la caccia al bandito Veera. Protagonista femminile è la bellissima
moglie di Dev, Ragini (Ayshwarya Rai). All’inizio si entra subito nel vivo con una
violenta azione che segnerà tutta la vicenda successiva: Ragini viene rapita da
Veera, il quale la terrà prigioniera per quattordici giorni (e quattordici erano gli
anni dell’esilio di Rama nel Ramayana). Comincia, da allora, l’inseguimento di Dev
a Veera, una vera e propria caccia all’uomo spietata e ossessiva tale da far pensare
che al primo posto nei pensieri dell’ispettore ci sia non tanto il ritrovamento
dell’amata, quanto la cattura o l’uccisione del nemico. Si susseguono quindi scene
di reciproca grande violenza. Poco per volta, da un certo punto in poi, si comincia
a capire, attraverso una serie di flashback, quali siano le ragioni che hanno spinto
Veera al rapimento. Contemporaneamente il film segue il rapporto che si crea
fra rapitore e rapita, rapporto inizialmente di reciproco odio, ma che si trasforma
in seguito in un nodo più complesso di sentimenti, di attrazione e repulsione, di
violenza e di rispetto. La guerra fra i due uomini continua senza interruzioni e
senza pietà fino a uno scontro finale molto spettacolare, ricco di tensione e di
colpi di scena.
Anche il regista del nostro film, Mani Ratnam, che è nato nel 1956 e ha diretto
poco meno di una trentina di titoli, oltre a essere uno dei protagonisti di
questa cinematografia, si è spesso dedicato a temi politicamente impegnati: per
esempio, all’assurdità dell’odio e della violenza che impediscono a popoli diversi
di coesistere in pace, come nello Sri Lanka, o nella stessa India dei conflitti tra
indù e musulmani. Anche quando sembra accettare le regole di Bollywood, dai
balletti alla musica (di straordinaria bellezza in questo film), Ratnam li piega fino
a farne strumenti di un cinema d’autore, potente e visionario, innovatore nel
linguaggio come nelle idee. Nel 2010 ha vinto a Venezia il premio speciale Glory
to the Filmmaker proprio con Raavanan. Lo aveva girato in varie località del
Sud (Kerala, Karnataka, Tamil Nadu), ma anche del Nord dell’India, scelte per la
bellezza di paesaggi verdeggianti, ricchi di foreste e di acque.
Due sole osservazioni ancora. La prima è che il rapporto tra Veera e il suo
drappello di fedeli da un lato e i marginali della foresta dall’altro (che ha indotto
molti, ben prima di me, a citare Robin Hood), può ricordare anche il movimento
naxalita, attivo in tanta parte dell’India povera e rurale degli emarginati, portatore
di esigenze di giustizia ma anche di grande violenza (un po’ alla Khmer rossi, per
intenderci). La seconda è che l’attenzione ai mille trabocchetti che questo film
riserva allo spettatore che voglia cogliere analogie, citazioni, contraddizioni tra
un grande poema e un film di oggi non deve però far perdere il puro piacere
di uno spettacolo (più che mai nel secondo tempo) intenso, acrobatico, privo
di tregue e ricco di sorprese e di colore. Per non dire dell’ottima recitazione di
due dei tre protagonisti.
(Gianni Sofri)
Una delle recensioni di questo film si intitola “Un moderno Ramayana di grande
suggestione”. Giudicate voi. Ci sono moltissimi personaggi, ma tre protagonisti
che spiccano su tutti gli altri. Uno è Veera, un fuorilegge che è però rispettato
e stimato da una comunità della foresta che è anche il suo campo base e
presso la quale si nasconde. Nei confronti di questa comunità di marginali,Veera
precede (ore 21.40)
Per riconoscere la nostra città: le fotografie di Aldo Ferrari