complicanze dopo trapianto di fegato

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Clinica di Chirurgia dei Trapianti – Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti – Ancona
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COMPLICANZE DOPO TRAPIANTO DI FEGATO
Le complicanze dopo trapianto possono essere classificate in epato-biliari o
extraepatiche. Tra le prime vengono considerate l’insufficienza funzionale primaria, il
rigetto acuto e cronico, le trombosi vascolari, le epatiti, le deiscenze e le stenosi
dell’anastomosi biliare, la recidiva della malattia originale.
COMPLICANZE EPATO-BILIARI
Insufficienza funzionale primaria (Primary non Function)
Si tratta della mancata ripresa immediata della funzione del fegato trapiantato. È una
condizione ad eziologia multifattoriale, che compare nei primi 2-3 giorni dopo il trapianto.
Le reali cause non sono state accertate; le possibile cause possono essere una
malconservazione del fegato, un tempo di ischemia eccessivo, o fattori legati al donatore
stesso, quali una sua instabilità emodinamica precedente al prelievo dell’organo, l'età
avanzata, la marcata steatosi epatica. In casi rarissimi la causa è legata ad un cosiddetto
rigetto iperacuto, fenomeno immunologico di rigetto umorale del fegato, cioè da anticorpi
preformati.
Ad una marcata elevazione iniziale delle transaminasi, si associano indici più marcati di
disfunzione epatica: aumento progressivo della bilirubina, mancata ripresa della
coagulazione (PT,PTT), ipoglicemia, acidosi metabolica, insufficienza renale e coma
epatico ingravescente. L’unico trattamento possibile è il ritrapianto.
Rigetto acuto
Si tratta di un rigetto cellulare. È dovuto ad una reattività dei linfociti T4 (helper) verso
alcuni determinanti antigenici epatici in sede portale e biliare. È la più frequente causa della
disfunzione dell’organo trapiantato. In media il primo rigetto acuto avviene verso l’ottava
giornata postoperatoria con febbre, malessere, depressione,
vaghi dolori addominali, artralgie e mialgie. L’eventuale bile
del drenaggio di Kehr può apparire acquosa e scarsa. Gli
esami ematochimici indicano sovente, oltre ad una
leucocitosi, un danno sia colestatico sia epatocellulare e della
coagulazione (aumento del tempo di protrombina e del tempo
di tromboplastina parziale). La diagnosi si basa
sull’alterazione dei risultati di laboratorio, associata ai segni
clinici sopra riferiti e soprattutto ai risultati istologici di una
biopsia epatica che deve essere prontamente eseguita. Tra gli esami strumentali, una
eventuale colangiografia transkehr permette di escludere un ostacolo biliare mentre un eco
Doppler esclude una eventuale trombosi delll’arteria epatica o della vena porta. La diagnosi
differenziale viene posta con i danni ischemici (trombosi dell’arteria epatica), epatiti,
colangiti, tossicità da farmaci. La terapia è legata alla somministrazione – in diversi schemi
– di steroidi, quindi all’uso di anticorpi poli o monoclonali (OKT3) ed infine al ritrapianto.
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Rigetto cronico
È caratterizzato da una arteriopatia obliterativa interessante le arteriole, con cellule di
aspetto schiumoso (foamy cells), ossia con macrofagi in sede intimale, soprattutto nei grandi
vasi con tendenza all’invasione delle pareti vascolari. Si ha
inoltre diminuzione o scomparsa dei dotti biliari (vanishing
bile duct syndrome) con una progressiva distruzione dei dotti
biliari interlobulari, fino alla loro completa scomparsa.
L’incidenza sarebbe del 3-17% dei trapianti epatici. Una
relazione evolutiva, fra rigetto acuto e cronico, non è certa; si
ritiene che, mentre la forma acuta sia legata ad una reattività
immunologica prevalentemente cellulare, quella cronica sia
mediata da una reazione umorale. Clinicamente – nel 76% dei
casi – il rigetto cronico appare tardivamente, dopo tre mesi circa dal trapianto, con segni di
deterioramento progressivo del fegato, cioè con un innalzamento progressivo soprattutto
della bilirubinemia, della g-GT e della fosfatasi alcalina. La diagnosi è istologica. Il
trattamento è basato sul potenziamento della terapia immunosoppressiva e solo in caso di
fallimento si deve prospettare un ritrapianto.
Trombosi vascolare
È una grave complicanza che colpisce generalmente l’arteria epatica, ma può
interessare – più raramente – anche la vena porta o la vena cava. Negli adulti trapiantati con
fegati interi l’incidenza è riportata tra il 2 ed il 7%. L’incidenza è in parte legata al diametro
dei vasi arteriosi che vengono anastomizzati, alla tecnica impiegata (microchirurgica o no),
all’esperienza degli operatori, ed aumenta comunque con l’impiego di fegati parziali.
Occorre sospettare l'insorgenza di una trombosi della arteria epatica in caso di rialzo degli
indici di citolisi epatica (AST/ALT).
La trombosi dell’arteria epatica si può presentare in diversi momenti:
• Uno “precoce”, segno di un infarto massivo, caratterizzato da febbre alta, epatomegalia,
aumento delle transaminasi e della bilirubina, coagulopatia, ipoglicemia.
• Un altro “tardivo” e subdolo, con un quadro settico (batteriemie o ascessi epatici) o di
complicanze biliari (stenosi della via biliare principale o intraepatiche, deiscenze).
• Un terzo asintomatico, con una insorgenza graduale che favorisce la formazione di circoli
collaterali arteriosi.
La diagnosi viene posta attraverso l'esecuzione di un eco-doppler epatico,
eventualmente confermato da una angiografia del tripode celiaco. La terapia, nei casi gravi e
precoci, consiste in un tentativo di rivascolarizzazione per via angiografica ed in caso di
fallimento dal riconfezionamento chirugico dell’anastomosi, ma il trattamento risolutivo è
più spesso il ritrapianto.
Complicanze biliari
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Complicanze biliari, come le deiscenze e le stenosi dell’anastomosi biliare, erano
molto frequenti nei primi trapianti di fegato. Con il miglioramento delle tecniche
chirurgiche l’incidenza di deiscenze e stenosi è andata parzialmente decrescendo, ma
attualmente, considerando anche l’uso più frequente di fegati parziali, l’icidenza varia
ancora tra il 10 ed il 50%. Le cause di insuccesso venivano attribuite per lo più a problemi
tecnici di ricostruzione biliare. In realtà l’anastomosi biliare e la via biliare in generale sono
molto sensibili ad insulti di tipo ischemico: questi possono risultare a loro volta da diverse
cause: trombosi dell’arteria epatica; esagerata sua dissezione nel corso dell’intervento;
anomalie vascolari; rigetto cronico. Oggi le anastomosi biliari più usate sono la coledococoledocostomia Termino-Terminale, e la coledoco-digiunostomia su ansa esclusa alla Roux.
Clinicamente il quadro di stenosi biliare è associato a quello di colangite: ittero,
febbre, aumento delle transaminasi e della fosfatasi alcalina. Le deiscenze anastomotiche e
le fistole della via biliare possono dare luogo a coleperitoneo con sepsi gravi, anche mortali.
A volte invece, anche in seguito ad una precoce rimozione del tubo di Kehr, si assiste
all’instaurarsi di fistole biliari esterne, generalmente ad evoluzione benigna. Il trattamento
di una stenosi è in relazione alla sua entità e al tipo di derivazione biliare effettuato. In certi
casi può essere effettuata una dilatazione tramite catetere percutaneo transepatico o nel
corso di ERCP; in altri è necessaria invece una revisione chirurgica come una
trasformazione di una coledoco-coledocostomia in coledocodigiunostomia. Qualora si
presentino deiscenze biliari, con peritonite diffusa, è imperativo un intervento chirurgico di
riconfezionamento della anastomosi, mentre, in presenza di peritoniti saccate, può esistere
l’indicazione per un drenaggio ecoguidato. Nel caso di deiscenze anastomotiche non
trattabili e causa di sepsi può essere necessario un ritrapianto.
Recidiva della patologia di base
Il problema interessa soprattutto le epatopatie correlate a virus B e C, le forme
neoplastiche e in modo variabile altre patologie quali la cirrosi biliare primaria. Il rischio di
recidiva epatica da virus B è maggiore nelle cirrosi piuttosto che nelle forme fulminanti,
maggiore nelle forme con dato sierologico pretrapianto di HBV-DNA positività (la
positività serologica per HBVDNA è espressione di replicazione virale), minore nelle forme
HBV-DNA negativi, HBeAg positivi e nelle forme HBV-DNA negativi, HBeAg negativi.
Oggigiorno però lo sviluppo di farmaci antivirali quali la lamivudina, il famciclovir e
l’adefovir ha consentito una drastica diminuzione di tali recidive. La profilassi della
reinfezione virale da virus B del fegato di pazienti trapiantati si basa sulle immunoglobuline
specifiche o sul trattamento con lamivudina, o su un trattamento combinato con
immunoglobuline e lamivudina.
Le recidive di epatopatie C-relate risultano molto più frequenti. Infatti le cirrosi HCV
relate rappresentano la principale indicazione al trapianto, nel mondo occidentale. Oltre il
95% dei pazienti viremici prima del trapianto lo rimangono successivamente al trapianto. Il
virus può avere effetti istologici variabili sul fegato trapiantato, dando luogo più spesso ad
una blanda epatopatia. In realtà solo il 5% dei pazienti sviluppa nuovamente una cirrosi, ma
una percentuale variabile di pazienti sviluppa una epatopatia colestatica entro un anno dal
trapianto. Il controllo dei pazienti HCV+ sottoposti a trapianto è comunque un problema.
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Per queste forme non esiste la possibilità di una immunoprofilassi come per le epatopatie
HBV. Attualmente il trattamento dei pazienti con epatopatia HCV dopo il trapianto si basa
sulla terapia combinata con interferone alfa e ribavirina.
Recidiva di epatocarcinoma
Il trapianto di fegato non elimina la possibilità di una recidiva di epatocarcinoma.
L'esperienza degli ultimi 20 anni di trapiantologia epatica ha ben descritto che solo in casi di
epatocarcinoma su cirrosi entro i criteri di Milano (un solo nodulo entro 5 cm di diametro o
al massimo 3 noduli il maggiore dei quali entro 3 cm di diametro) consente di ottenere basse
incidenze di recidiva di epatocarcinoma dopo trapianto di fegato. In caso di recidiva
tumorale dopo trapianto, la sopravvivenza è stimabile sul 5%.
Complicanze extraepatiche
Infezioni sistemiche
Le complicanze infettive rappresentano la principale causa di morte dei pazienti
sottoposti a trapianto di fegato. Le infezioni batteriche rappresentano il 60-80% dei casi, le
virali il 20-40%, le fungine il 5-15% e a quelle da protozoi il 10%. La cause principali che
comportano incidenze così elevate sono legate allo stato di immunosoppressione del
paziente sottoposto a trapianto a causa dello stress chirurgico e soprattutto dalla terapia
immunosoppressiva impiegata per evitare il rigetto acuto e cronico. Il periodo critico per la
comparsa delle infezioni gravi riguarda i primi due mesi dopo il trapianto, durante i quali si
verificano il 70% delle infezioni gravi ed il 93% di quelle fungine e virali. Tra le prime,
particolarmente temibili sono quelle da Aspergillus, tra le seconde quelle da
citomegalovirus.
Epatiti
Un’epatite dopo trapianto può essere dovuta a diversi virus: escludendo quelle da
virus epatitico B – con possibile sovrainfezione da virus δ – e da virus dell’epatite C, le più
frequenti sono quelle da citomegalovirus (CMV), da virus di Epstein-Barr (EBV), e quindi
da virus della varicella (VZV), da herpesvirus (HSV) e da adenovirus.
• L’infezione da citomegalovirus (CMV) è la più frequente infezione virale dopo un
trapianto. In assenza di una profilassi, in alcuni casi la sua incidenza può giungere al 50%.
Si può manifestare, – dopo circa un mese dal trapianto – oltre che con febbre e leucopenia,
con una localizzazione digestiva o, nel 10% dei casi, con un’epatite, o con una polmonite
interstiziale. La sua caratteristica istologica, è rappresentata da corpi inclusi (non sempre
comunque presenti) intranucleari nelle cellule colpite.
Attualmente gli esami più rapidi consistono nella evidenziazione delle cellule colpite
al microscopio a fluorescenza, basato sulla presenza di proteine virali precoci quali il P65;
sul dosaggio della antigenemia per CMV nel sangue (ricerca del pp65); o sulla ricerca del
DNA del CMV tramite l’uso di tecniche di amplificazione genomica. La profilassi e la
terapia si basano su farmaci quali l’aciclovir e soprattutto il ganciclovir.
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Malattie linfoproliferative
Scopo della terapia immunosoppressiva è l’induzione di una sufficiente depressione
della risposta immunitaria all’organo trapiantato, preservando però una possibilità di
risposta verso le infezioni opportunistiche: tra queste assume una particolare importanza
quella da virus di Epstein-Barr. Tale infezione, con la replicazione del virus nei linfociti B,
può, dopo alcuni mesi dal trapianto, decorrere asintomatica, altre volte causare una
condizione linfoproliferativa potenzialmente mortale, chiamata PTLD (Post-transplant
Lymphoproliferative Disorder). Questa si può manifestare come una iperplasia linfoide
come la mononucleosi, o una iperplasia linfoide atipica, sino ad una forma infiltrativa di
linfoma a cellule B, poli- o monoclonale. Il rischio di sviluppare queste forme è maggiore
nei pazienti sottoposti a forte immunosoppressione o nelle infezioni primarie. Negli adulti il
rischio di PTLD al massimo sembra essere dell’1,5%. Il trattamento consiste nella netta
riduzione o nella sospensione della terapia antirigetto, insieme ad una terapia antivirale con
ganciclovir o acyclovir. Di recente introduzione è anche l’impiego di anticorpi monoclonali
anticellule CD20 (rituximab). In alcuni casi resistenti viene impiegata la chemioterapia.
Complicanze varie
Diverse altre complicanze possono sopravvenire dopo trapianto di fegato quali:
• Complicanze polmonari (78-86% dei casi), quali versamenti pleurici, atelettasie,
polmoniti: responsabili del 5% dei decessi dopo trapianto ortotopico
• Complicanze renali, con quadri di insufficienza di diversa entità: responsabili del 2% di
mortalità
• Complicanze neurologiche (23%), con episodi tipo “grande male”: con una mortalità del
2%
• Complicanze emorragiche postoperatorie, motivo di una percentuale di reinterventi
chirurgici del 18%
• Complicanze cardio-circolatorie, quali ipertensione arteriosa e successive emorragie
cerebrali
• Complicanze gastro-enteriche, come emorragie enteriche, perforazioni coliche, ulcere
peptiche, sanguinamenti dall’anastomosi dell’ansa alla Roux.
• Infezioni della ferita chirugica
• Laparoceli (ernia sulla incisione chirurgica)
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