* * * Triangolo semiotico: uno schema che cerca di cogliere le relazioni fra Linguaggio e Realtà. De Saussure non approfondisce lo statuto del Signifié (di ciò a cui rimanda il Signifiant), che sta ad indicare tanto il “contenuto concettuale” evocato dalle parole, quanto la “realtà oggettiva” che queste sarebbero in grado di designare. Il riferimento denotativo ha qui un ruolo accessorio, funzionale alla relazione Signifiant / Signifié. Il termine “Referente” è stato introdotto da quanti intendevano distinguere tra quelle due valenze del Signifié. Alla base di tale impostazione, la grande eredità socraticoplatonica che distingue tra una realtà stabile e univocamente definibile (il concetto, l’Idea), ed un mondo mutevole che si lascia cogliere solo in parte dal linguaggio. L’esigenza aristotelica di riportare l’Immutabile al Concreto (cioè all’individuato) conserva peraltro la distinzione tra la forma (il che-cos’-è dell’ente) ed il suo esistere fattuale. Vi sono enti eterni e necessari, sostanze consistenti nella loro pura forma, e sostanze che esistono di fatto, ma la cui esistenza non coincide con la forma. Quando la filosofia moderna pone l’accento sulla priorità e centralità del Soggetto nella fondazione del sapere, si apre il problema della rispondenza fra la dimensione fenomenica (il cogito cartesiano) e la “realtà in sé” in essa rappresentata. Ciò non relega ancora l’essenza delle cose nella sola sfera soggettiva (Cartesio, ad esempio, chiama – aristotelicamente – “formale” proprio la realtà che oltrepassa la sfera del cogito), ma è stato fatto un passo decisivo verso quella riduzione della realtà a pensiero che, già anticipata da Berkeley, viene a compimento con l’idealismo. Nietzsche e – soprattutto – Gentile s’incaricano poi di togliere alla realtà-pensiero ogni residuo di eternità metafisica: l’essere coincide ormai col divenire. Entra così in crisi la funzione del “Referente”, inteso come realtà “oggettiva”, del tutto solida cui, da ultimo, rimanderebbero parole e concetti. Se ogni “fatto” è un’interpretazione, appare sempre più difficile, e in definitiva illusorio, distinguere tra “senso” e “significato”: il “dualismo” platonico s’incrina verso il recupero dell’identità tra l’esistente e la sua essenza – ma non come riconoscimento dell’eternità di ogni ente, bensì, all’opposto, come riduzione dell’essenza alla precarietà dell’esistere. Leopardi è senz’altro il terzo nome da fare in proposito: il più antiplatonico tra gli eredi di Platone. La “perfezione assoluta” che egli attribuisce a tutte le cose significa appunto la riduzione al loro nudo esistere, senza più alcuna essenza ulteriore a cui esse potrebbero collegarsi. Ma la radicalità del pensiero leopardiano mette poi in crisi la stessa struttura del Segno: la relazione signifiant – signifié, il lato del triangolo che sembrava, almeno quello, salvarsi dalla problematicità da cui appariva ormai affetto tutto il resto: La lingua cammina sempre, perch’ella segue le cose le quali sono instabilissime e variabilissime … Le idee e i pensieri per se stessi non si fanno vedere né conoscere … Il linguaggio non è la veste, ma il corpo de’ pensieri … Non si pensa se non parlando. Zibaldone, 3. Dicembre 1821 Leopardi: il grande (e di solito misconosciuto) precursore della “svolta linguistica”.