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Volume 3
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Tomo 1
Filosofia dell’Ottocento
Versione 2.0/2015
In copertina:
Edvard Munch, L’urlo, Galleria Nazionale di Oslo, 1893
Questo volume è stato redatto nell’ambito di un progetto dell’editore Garamond, che tuttavia non ha inteso
portarlo avanti, dopo il Volume 1, e non ha firmato con l’autore alcun contratto per i Volumi 2 e 3.
Essi sono comunque entrambi dotati di codice ISBN
Seconda edizione riveduta e corretta
© Angelo Conforti, 2015
www.angeloconforti.it
Cod. ISBN Volume 3 (consta di due tomi indivisibili)
978-88-96819-25-8
Percorsi della filosofia
Indice
INDICE GENERALE
SEZIONE 1 – LA CRISI DELLA METAFISICA ..................................................................................................... 4
UNITÀ DIDATTICA 1. LA CRITICA DELLA RAGIONE DIALETTICA ................................................................... 5
CAPITOLO 1. ROMANTICISMO E ANTIRAZIONALISMO ............................................................................... 5
PARAGRAFO 1. TRA ILLUMINISMO E ROMANTICISMO IN FRANCIA .......................................................................5
PARAGRAFO 2. TRA ILLUMINISMO E ROMANTICISMO IN ITALIA ............................................................................9
PARAGRAFO 3. GIACOMO LEOPARDI ...........................................................................................................................12
PARAGRAFO 4. SVILUPPI DEL ROMANTICISMO IN GERMANIA .............................................................................14
CAPITOLO 2. ARTHUR SCHOPENHAUER ..................................................................................................... 17
PARAGRAFO 1. RITORNO AL DUALISMO .....................................................................................................................17
PARAGRAFO 2. IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE ........................................................................................18
PARAGRAFO 3. IL MONDO COME VOLONTÀ ...............................................................................................................19
PARAGRAFO 4. IL «PANTEISMO» DELLA VOLONTÀ ..................................................................................................22
PARAGRAFO 5. IL CONFLITTO DELLA VOLONTÀ CON SE STESSA E L’UNIVERSALE INFELICITÀ ...............23
PARAGRAFO 6. LA LIBERAZIONE PARZIALE DALLA VOLONTÀ: ARTE E MORALE ...........................................24
PARAGRAFO 7. LA LIBERAZIONE TOTALE DALLA VOLONTÀ: LA «NOLUNTAS» ...............................................25
CAPITOLO 3. SØREN KIERKEGAARD ............................................................................................................. 27
PARAGRAFO 1. IL SINGOLO, L’ESISTENZA E LA POSSIBILITÀ ...............................................................................27
PARAGRAFO 2. LA POSSIBILITÀ E L’ANGOSCIA ........................................................................................................29
PARAGRAFO 3. L’ESISTENZA: STADIO ESTETICO E STADIO ETICO ....................................................................30
PARAGRAFO 4. LA DISPERAZIONE ................................................................................................................................32
PARAGRAFO 5. LO STADIO RELIGIOSO .......................................................................................................................33
UNITÀ DIDATTICA 2. IL POSITIVISMO ................................................................................................................. 36
CAPITOLO 1. AUGUSTE COMTE E IL POSITIVISMO ................................................................................... 36
PARAGRAFO 1. I PROGRESSI TECNICO-SCIENTIFICI E IL POSITIVISMO............................................................36
PARAGRAFO 2. COMTE: FILOSOFIA DELLA SCIENZA E FILOSOFIA DELLA STORIA........................................37
PARAGRAFO 3. COMTE: LA LEGGE DEI TRE STATI ..................................................................................................38
PARAGRAFO 4. COMTE: LA CLASSIFICAZIONE DELLE SCIENZE ..........................................................................40
PARAGRAFO 5. COMTE: IL PROGRAMMA DEL POSITIVISMO .................................................................................41
PARAGRAFO 6. COMTE: LA FILOSOFIA POSITIVA .....................................................................................................42
SEZIONE 2 – IL TRAMONTO DELLA MODERNITÀ ........................................................................................117
UNITÀ DIDATTICA 1. NIETZSCHE ....................................................................................................................... 118
CAPITOLO 1. IL NICHILISMO ........................................................................................................................... 118
PARAGRAFO 1. LA NASCITA DELLA TRAGEDIA .......................................................................................................118
PARAGRAFO 2. LA DECADENZA DELL’OCCIDENTE ................................................................................................121
UNITÀ DIDATTICA 2. LA RIVOLUZIONE DELLA PSICOANALISI ................................................................... 145
CAPITOLO 1. SIGMUND FREUD: LA NASCITA DELLA PSICOANALISI ................................................. 145
PARAGRAFO 1. LA NASCITA DELLA PSICOANALISI ................................................................................................145
PARAGRAFO 2. SESSUALITÀ E STRUTTURA DELLA PERSONALITÀ ..................................................................150
PARAGRAFO 3. PSICOLOGIA DEL PROFONDO E ANTROPOLOGIA ....................................................................155
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Percorsi della filosofia
Sezione 1
Sezione 1 – La crisi della metafisica
L’Ottocento è il secolo della crisi definitiva della metafisica tradizionale, preparata dal
criticismo di Kant e avviata dall’idealismo. Le grandi trasformazioni poste in atto durante
l’età moderna stanno giungendo a compimento mediante il progresso scientifico e tecnico,
ma anche attraverso la nuova mentalità laica che si è rafforzata. Si affacciano con
prepotenza nuovi temi e nuove modalità di approccio ai problemi che avranno grande
influsso sul pensiero filosofico e sulla cultura della contemporaneità.

La critica della ragione dialettica

Il Posivismo

Il dibattito post-hegeliano e Marx

Lo Spiritualismo e Bergson
Paul Gaugin, Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, olio su tela, 141 x 376 cm.,
Museum of Fine Arts, Boston, 1897
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 1
UNITÀ DIDATTICA 1. LA CRITICA DELLA RAGIONE
DIALETTICA
CAPITOLO 1. ROMANTICISMO E ANTIRAZIONALISMO
L’Idealismo non rappresenta l’unica espressione filosofica di quel complesso movimento culturale che fu il
Romanticismo. Al contrario, vi furono dissensi molto profondi, non solo in ambienti culturali come quello
francese, in cui la cultura illuministica era molto radicata, o come quello italiano, dove il Romanticismo si
sviluppò in modo peculiare e la filosofia idealistica ebbe una limitata diffusione, ma anche in Germania, dove
invece il successo dell’idealismo e, in particolare, del sistema di Hegel, produsse una sorta di egemonia
filosofica. Tratto caratteristico di questi oppositori fu la critica della ragione dialettica1, accusata di imporre
alla realtà uno schema logico rigido e quasi meccanico.
PARAGRAFO 1. TRA ILLUMINISMO E ROMANTICISMO IN FRANCIA
Nella Francia del primo Ottocento i continuatori dell’Illuminismo si chiamarono, a volte spregiativamente 2, ideologi,
mentre il Romanticismo si caratterizzò, in chiave antilluministica, come tradizionalismo.
L’«ideologia»: Destutt de Tracy. In realtà l’ideologia si presentava come «la scienza dell’origine e dello
sviluppo delle idee», in linea con il sensismo di Condillac ( Volume 2, Sezione 2, Unità 6, Capitolo 2, Paragrafo 5),
per il quale le conoscenze e le capacità mentali, come quelle di riflettere, confrontare, classificare, giudicare, ricordare,
sono il frutto delle sensazioni ricevute dall’esperienza.
Gli ideologi costituivano la «Société d’Auteuil», poiché si riunivano nel quartiere omonimo a Parigi, presso il salotto di
Madame Helvétius (la vedova del filosofo).
Il più importante ed influente esponente della corrente fu senza dubbio Antoine Louis Claude Destutt de Tracy (1754 –
1836), che approfondì le ricerche di Condillac, riconducendo alla sensibilità tutte le operazioni mentali umane,
comprese l’etica e la politica.
Nei cinque volumi della sua opera Elementi di ideologia (1801-1815) illustra ampiamente la funzione di questa nuova
scienza che si sviluppa nella logica, che stabilisce le regole di combinazione delle idee, e la grammatica, che studia le
regole del linguaggio attraverso cui le idee si esprimono.
Il tradizionalismo. Il Romanticismo francese si caratterizzò soprattutto come ritorno a quella tradizione che
l’Illuminismo e la Rivoluzione avevano profondamento messo in discussione e radicalmente stravolto. Così l’Età
napoleonica e la Restaurazione furono l’espressione del tradizionalismo religioso e politico, dell’esaltazione del
cattolicesimo e della monarchia.
François Auguste René de Chateaubriand (1768-1848) nel Genio del Cristianesimo (1802) propugna il ritorno ai valori
del Medioevo, di una società unificata dalla religione e gerarchizzata.
Il rivoluzionario Louis de Bonald (1754-1840), membro dell’Assemblea nazionale, rifiutò gli sviluppi successivi della
Rivoluzione e si spostò sempre più a destra divenendo deputato ultramonarchico dopo la Restaurazione. La monarchia,
in cui il potere del sovrano discende direttamente da Dio, è la miglior forma di assetto politico che garantisce la più
perfetta organizzazione della società: essa così compone una sorta di trinità (re, nobili, popolo). Interessante la
considerazione che Bonald svolge sul linguaggio, che non può essere un’invenzione umana ma un dono di Dio.
L’uomo, infatti, può pensare soltanto mediante segni e, dunque, il pensiero presuppone la preesistenza del linguaggio,
«Critica della ragione dialettica» è il titolo di un’opera pubblicata nel Novecento, ma ci sembra la
formula giusta per raccogliere dottrine filosofiche che contestano, sia pure in modi diversi, la validità del
panlogismo hegeliano ( Volume 2, Sezione 3, Unità 2).
2
Napoleone Bonaparte, primo console ormai avviato alla restaurazione dell’Impero, poiché li temeva
in quanto portatori dei più autentici ideali dell’Età dei Lumi, accusava questi intellettuali laici e riformisti di
essere dei puri teorici, astratti e ininfluenti.
1
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 1
che è una capacità innata: essa include l’idea innata dell’essere, che è l’idea su cui si fondano tutte le altre e non è altro
che l’idea di Dio (spunto che influenzò notevolmente il filosofo italiano Gioberti  Paragrafo 2).
Fautore del ritorno al Medioevo e della restaurazione della teocrazia cattolica fu Joseph Marie de Maistre (1753-1821).
Più moderato Hugues Félicité Robert de La Mennais, noto come Lamennais (1782-1854), che approdò ad una forma di
cattolicesimo liberale simile a quella che si diffuse in Italia, soprattutto ad opera di Manzoni, Rosmini e Gioberti, di cui
parliamo più avanti.
Benjamin Constant: l’eredità della Rivoluzione. Un’interpretazione completamente diversa dell’Illuminismo,
della Rivoluzione e dello spirito del Romanticismo la troviamo in uno dei più importanti esponenti del dibattito politico
del primo Ottocento, Henri-Benjamin Constant de Rebecque (1767–1830;
nell’immagine il suo ritratto), nobile, intellettuale e uomo politico francese di origine
svizzera.
Formatosi soprattutto in Inghilterra e in Germania ebbe modo di conoscere direttamente
le autentiche fonti del liberalismo e della cultura romantica. Molto importante fu anche
la sua relazione, intima e intellettuale, con Madame de Stael (1766-1817), la vera
fautrice della diffusione del Romanticismo in Francia e in Italia.
La grande importanza dei suoi studi risiede nella centralità da lui assegnata ad uno dei
valori fondamentali della Rivoluzione, quello della libertà, divenuta ormai un principio
irrinunciabile della società moderna:
«Che il potere dunque si rassegni; noi abbiamo bisogno della libertà, e l’avremo» (B. Constant, La libertà degli
antichi comprata a quella dei moderni, 1819).
Occorre però distinguere due tipi di libertà:
 quella degli antichi:
«Essa consisteva nell’esercitare collettivamente, ma direttamente molte funzioni della sovranità […]. Era
questo ciò che gli antichi intendevano per libertà; ma essi ammettevano contemporaneamente che questa
libertà collettiva era compatibile con l’asservimento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme. […]
Tutte le azioni private sono sottomesse ad una sorveglianza severa. Niente è concesso all’indipendenza
individuale, né per quanto riguarda le opinioni personali, né in materia di attività economica […]»
(ibidem);
 quella dei moderni:
«È, per ognuno di loro, il diritto di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere né arrestato, né
tenuto in carcere, né condannato a morte, né maltrattato in alcun altro modo, a causa della volontà arbitraria
di uno o più individui. È per ognuno il diritto di esprimere la propria opinione, di scegliere il proprio lavoro
e di esercitarlo; di disporre della sua proprietà e persino di abusarne, di andare e venire senza chiedere
permessi, e senza render conto delle sue intenzioni e dei suoi passi. È, per ognuno, il diritto di unirsi con
altri individui, sia per ragione dei propri interessi, sia per professare il culto che egli e i suoi associati
preferiscono, sia semplicemente per occupare il proprio tempo nel modo più conforme alle proprie
inclinazioni e fantasie. E infine è il diritto, per ognuno, di esercitare la propria influenza
sull’amministrazione del governo, sia concorrendo alla nomina di tutti o di alcuni dei funzionari, sia con
rimostranze, petizioni, domande, che l’autorità è in qualche modo obbligata a prendere in considerazione»
(ibidem).
Segue da quanto sopra che Constant distingue (introducendo temi centrali nel dibattito politico successivo):
 il cittadino (citoyen) antico dal borghese (bourgeois) moderno;
 la democrazia diretta antica dalla democrazia rappresentativa moderna, che la «felice rivoluzione, […] felice,
malgrado i suoi eccessi» (ibidem) ha avuto il merito di attuare;
 le piccole dimensioni delle antiche repubbliche (che rendevano possibile l’esercizio diretto della sovranità da
parte del popolo) dalle grandi dimensioni degli stati moderni che rendono necessario introdurre un sistema
rappresentativo;
 la necessità antica di delegare le attività produttive a servi o schiavi, affinché i cittadini liberi potessero
dedicarsi interamente alla vita politica, dalle caratteristiche della società borghese e commerciale moderna in
cui la schiavitù è stata abolita e il lavoro è un diritto e un modo di coltivare i propri interessi economici (e non
solo);
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 1

la libertà politica antica, in cui venivano sacrificate certe libertà individuali, dalla libertà civile moderna, che
ha bisogno di una nuova forma di libertà politica.
L’errore di alcuni settori della Rivoluzione 3 è consistito nell’illudersi di poter ripristinare la libertà antica, la libertà del
citoyen, mentre i buoni risultati che la Rivoluzione ha lasciato in eredità al periodo successivo sono relativi proprio alla
necessità di tutelare la libertà del bourgeois.
L’errore dei critici della Rivoluzione consiste nel ritenere che si debba restaurare una forma ormai anacronistica di
potere assoluto, abolendo tutte le forme di libertà.
In entrambi i casi si tratta di errori che derivano dalla confusione tra i due tipi di libertà, quella antica ormai non più
proponibile, e quella moderna, ormai irrinunciabile.
La nuova forma di assetto politico richiede comunque anch’essa una forma di partecipazione alla vita politica, sia pure
diversa da quella delle antiche repubbliche. Essa consiste nell’esercizio di un continuo controllo, di «una sorveglianza
attiva e costante sui loro rappresentanti» e include «il diritto di metterli da parte se hanno deluso le loro speranze e di
revocare loro i poteri di cui avessero abusato» (ibidem).
Bisogna dunque evitare il pericolo che si annida in questa nuova forma di libertà, cioè il possibile disinteresse per la vita
politica:
«Il pericolo della libertà moderna è che, assorti nel godimento della nostra indipendenza privata e nel perseguire i
nostri interessi privati, rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere politico» (ibidem).
Alexis de Tocqueville: i problemi della democrazia. Molto rilevante fu anche l’apporto al dibattito politico del
nobile francese Alexis Henri Charles de Clérel de Tocqueville (1805–1859; nell’immagine
il suo ritratto, opera di Théodore Chassériau). La sua opera più importante è La
democrazia in America, in due parti (1835 e 1840), un’attenta e rigorosa riflessione sulle
caratteristiche del nuovo sistema politico, scritta dopo un viaggio negli Stati Uniti.
Al centro del suo interesse ci sono i due grandi princìpi proclamati anche dalla Rivoluzione
francese, libertà e uguaglianza, e il modo con cui possono attuarsi senza trovarsi in
reciproco conflitto in un assetto politico del tutto inedito nell’età moderna nel vecchio
continente, la democrazia appunto.
Nonostante le sue origini aristocratiche e la provenienza da una famiglia favorevole al
principio di legittimità, sulla base del quale la Restaurazione rimise sui loro troni i sovrani
delle dinastie dell’ancien régime, ebbe una formazione illuministica e condivise la filosofia
della storia e del progresso storico e sociale che aveva animato anche il processo
rivoluzionario. Era pertanto convinto che la tendenza dell’umanità al proprio continuo perfezionamento avrebbe
condotto all’affermarsi di sistemi politici democratici, fondati sull’uguaglianza formale di tutti i cittadini,
sull’abolizione di qualsiasi privilegio e sulla possibilità per gli individui di affermarsi e migliorare le proprie condizioni
economiche e sociali facendo leva sulle proprie capacità.
« Il graduale sviluppo dell’uguaglianza delle condizioni è […] un fatto provvidenziale; e ne ha tutti i caratteri
essenziali: è universale, duraturo, si sottrae ogni giorno alla potenza dell’uomo; tutti gli avvenimenti, come anche
tutti gli uomini, ne favoriscono lo sviluppo. Sarebbe quindi saggio credere che un movimento sociale, che ha così
lontane origini, potrà essere arrestato dagli sforzi di una generazione? C’è forse qualcuno che può pensare che la
democrazia, dopo aver distrutto il feudalesimo e vinto i Re, indietreggerà poi davanti ai borghesi e ai ricchi? È
possibile che si arresti proprio ora che è divenuta tanto forte e i suoi avversari tanto deboli?» (Tocqueville, La
democrazia in America, Introduzione, 1835).
Tuttavia egli vede il rischio di una degenerazione dispotica della democrazia, quando il principio di uguaglianza
formale prevale su quello della libertà individuale, com’è accaduto in Francia dopo la Rivoluzione, con l’avvento di
Napoleone e il primato dell’amministrazione e del centralismo burocratico.
Osserva un autorevole studioso come Michele Ciliberto nel suo saggio La democrazia dispotica (2011):
«[…] quello che infatti cresce e si sviluppa è un “potere” sociale che assume, direttamente, il controllo di tutti,
togliendo autonomia e responsabilità ai singoli individui, i quali a loro volta delegano a questo potere la gestione
della loro vita, rinunciando alla libertà».
3
Il riferimento polemico è indirizzato alla dottrina della democrazia diretta di Rousseau ( Volume 2,
Sezione 2, Unità 6, Capitolo 3, Paragrafo 4) e dei suoi seguaci.
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 1
Certo, il dispotismo democratico è ben diverso da quello antico, è una tirannia di nuova specie, che si esercita sulla
mente, si impadronisce dell’anima dell’individuo e lo trasforma in un servo passivo del potere centrale, privandolo di
ogni autonomia. È una tirannia dolce, previdente, mite che si combina molto bene con certe forme esteriori della libertà
e cresce all’ombra della sovranità popolare, in un perverso compromesso con la delega del potere centralizzato e quasi
onnipotente:
«[…] vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che non fanno che ruotare su se stessi […] Al di sopra
di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che s’incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di
vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. Assomiglierebbe all’autorità paterna,
se, come questa, avesse lo scopo di preparare l’uomo all’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo
irrevocabilmente all’infanzia […]. È così che giorno per giorno esso rende sempre meno utile e sempre più raro
l’uso del libero arbitrio. […] Spegne, poco alla volta, il loro spirito e fiacca il loro animo. […] Inutilmente
incaricherete questi medesimi cittadini, che avete reso così dipendenti dal potere centrale, di scegliere di quando in
quando i rappresentanti di tale potere; questo uso così importante, ma così breve e così raro, del loro libero arbitrio
non impedirà che essi perdano a poco la facoltà di pensare, di sentire e d’agire da soli, e cadano così gradualmente
al di sotto del livello umano» (Tocqueville, La democrazia in America, 1840).
Per Tocqueville, dunque, il rituale delle libere elezioni e del suffragio universale, se diventa l’unica forma della
partecipazione al potere, lascia i cittadini chiusi nel loro individualismo (la libertà del bourgeois di cui parlava Constant,
che già metteva in guardia verso il disinteresse nei confronti della politica) e trasforma la sovranità popolare in una
menzogna e in un’illusione.
È un rischio che Tocqueville rileva nelle democrazie europee tendenti a questa forma di dispotismo, ma in America le
cose funzionano diversamente: gli americani sono riusciti a diventare uguali conservando la libertà e non sono caduti
sotto un potere dispotico.
Tre sono i fattori che hanno permesso di ottenere questo risultato:
1. l’eguaglianza delle condizioni si realizza negli Stati Uniti sotto forma di un’intensa mobilità sociale che non ha
nulla di simile nell’Europa dei ceti. Scrive Ciliberto:
«Democrazia, cioè eguaglianza delle condizioni, significa, in sostanza, mobilità sociale e politica; in
America chiunque può salire o scendere nella scala sociale; arricchirsi o impoverirsi; non ci sono gerarchie
rigde, fisse, come accadeva nei secoli aristocratici; tutti hanno uguali opportunità; e tutto è
permanentemente in movimento» (Ciliberto, cit.);
2. c’è una forte centralizzazione politica, «ma non esiste affatto accentramento amministrativo; vi si trova appena
la traccia di una gerarchia» (Tocqueville, cit.).
3. al contrario, il decentramento amministrativo è molto accentuato e nell’amministrazione comunale la
partecipazione di tutti i cittadini è diretta e, si può dire, obbligatoria:
«Nel Comune, come dappertutto, il popolo è la fonte dei poteri sociali, ma in nessun altro luogo esercita la
sua funzione così direttamente. […] Nella Nuova Inghilterra la maggioranza agisce per mezzo di
rappresentanti, quando si devono trattare gli affari generali dello Stato. È necessario che sia così; ma nel
Comune, dove l’azione legislativa e di governo è a diretto contatto dei governati, il sistema rappresentativo
non è ammesso. […] ogni cittadino è costretto, sotto pena d’ammenda, ad accettare queste diverse funzioni
[del Comune]; del resto sono per la maggior parte retribuite, affinché i cittadini poveri possano consacrarvi
il loro tempo senza riceverne danno» (ibidem).
Negli Stati Uniti, dunque, libertà e uguaglianza si sono ben intrecciate grazie a questa sorta di compromesso tra
democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Per usare il linguaggio di Constant, il citoyen e il bourgeois coesistono
nella stessa persona. L’individualismo del bourgeois europeo, che si chiude in se stesso, nella cura dei propri affari, e
lascia sussistere il potere dispotico del centralismo burocratico, nell’America della partecipazione attiva
all’amministrazione non potrebbe attecchire.
Tuttavia, la democrazia americana corre un altro rischio, quello che Tocqueville chiama la «tirannide della
maggioranza».
«[Il popolo] nomina chi fa la legge e chi la esegue; lui stesso forma le giurie che puniscono le infrazioni alla legge.
Non soltanto le istituzioni sono democratiche nel loro principio, ma anche in tutti i loro sviluppi: così il popolo
nomina direttamente i suoi rappresentanti, e li sceglie in genere ogni anno, per tenerli nella più assoluta dipendenza.
È, dunque, realmente il popolo che comanda e, benché la forma di governo sia rappresentativa, è ovvio che le
opinioni, i pregiudizi, gli interessi e anche le passioni non possono trovare ostacoli duraturi che impediscano loro di
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 1
manifestarsi nella direzione quotidiana della società. Negli Stati Uniti, come in ogni paese dove regna il popolo, è la
maggioranza che governa in suo nome. […] negli Stati Uniti, una volta che un partito è diventato dominante, tutto il
potere pubblico passa nelle sue mani; i suoi uomini occupano tutti gli impieghi pubblici e dispongono di tutte le
forze organizzate. Gli uomini più eminenti del partito d’opposizione, non potendo varcare la barriera che li separa
dal potere, debbono potersi organizzare al di fuori; bisogna che la minoranza opponga tutta la sua forza morale al
potere materiale che l’opprime» (ibidem).
Tocqueville individua allora nella libertà d’associazione e nella possibilità che le associazioni divengano delle forme di
partecipazione attiva alla vita politica, attraverso l’azione degli uni sugli altri e il reciproco contributo al rinnovamento
delle idee e delle coscienze, l’unico valido contraltare ad una possibile forma di dispotismo democratico:
«[…] ai nostri giorni la libertà d’associazione è diventata una garanzia necessaria contro la tirannide della
maggioranza.» (ibidem).
PARAGRAFO 2. TRA ILLUMINISMO E ROMANTICISMO IN ITALIA
La cultura italiana dell’Ottocento è debitrice più degli influssi dell’Illuminismo che del Romanticismo. Non soltanto gli
idealisti ma lo stesso Kant sono pressoché ignoti o conosciuti in modo non molto approfondito.
La matrice filosofica più diffusa è quella del sensismo di Condillac ( Volume 2, Sezione 2, Unità 6, Capitolo 2,
Paragrafo 5), integrato in parte dal contributo degli ideologi.
Sensismo e liberalismo: Gioia e Romagnosi. Il piacentino Melchiorre Gioia o Gioja (1767–1829), fu ordinato
sacerdote dopo gli studi presso il celebre Collegio Alberoni della sua città natale. In seguito svestì l’abito talare per
dedicarsi al giornalismo, soprattutto in una chiave patriottica che ne fa uno dei precursori del Risorgimento. Le sue idee
repubblicane, liberali e democratiche lo condussero in carcere, già nel 1797, poi nel 1820 con Pellico e Maroncelli, e lo
resero definitivamente inviso al governo austriaco della Restaurazione. Era stato anche storiografo ufficiale della
Repubblica Cisalpina e, successivamente, direttore dell’ufficio di Statistica. Fu proprio in questa disciplina che si
applicò particolarmente, fornendo un importante contributo non soltanto di ricerche, ma anche teorico con la sua opera
Filosofia della statistica (1826). Nel contesto dell’empirismo e del sensismo cui si ispirava, la statistica rivestiva una
fondamentale funzione nella classificazione e nella quantificazione dei dati empirici. Questa impostazione
«matematica» delle questioni filosofiche lo avvicinarono, in campo etico, al nascente utilitarismo inglese ( Unità 2,
Capitolo 2, Paragrafo 2).
In parte analoga la vicenda del suo conterraneo (nato a Salsomaggiore) Gian Domenico Romagnosi (1761–1835), a sua
volta studente al Collegio Alberoni di Piacenza, coinvolto nel processo Pellico-Maroncelli e destituito, ad opera del
governo austriaco, dall’insegnamento del diritto all’Università di Pavia, ottenuto nel 1802 sotto Napoleone.
Di formazione sensista e illuminista, sostenne il principio di compotenza causale, secondo il quale la mente umana non
è totalmente passiva rispetto alle sensazioni, ma svolge una funzione attiva di riflessione e di riorganizzazione dei
contenuti empirici. La conoscenza deriva dunque da una sorta di sintesi tra un elemento a priori rispetto alla sensazione
attuale e il dato dell’esperienza. Tuttavia questa specie di categorie, che Romagnosi chiama logie, non sono forme
innate, ma derivano esse stesse dall’esperienza e sono, dunque, a posteriori rispetto alle sensazioni passate.
Il suo maggior interesse lo dedicò alla fondazione di una nuova scienza del diritto pubblico, penale e amministrativo,
mirando all’unificazione delle scienze giuridiche, politiche e morali in quella che egli chiamò la filosofia civile,
finalizzata a svelare le leggi generali dei processi di incivilimento che caratterizzano la storia dell’umanità.
Pasquale Galluppi: l’origine delle idee. Pur avendo contribuito in parte alla diffusione in Italia del pensiero di
Kant, Pasquale Galluppi (1770-1846) ripropone una rielaborazione dell’empismo di Locke. Infatti, se ci si pone il
problema dell’origine delle idee, il primo dato intuitivo è costituito dalla coscienza, che testimonia l’esistenza dell’io.
Proseguendo l’analisi delle idee derivanti dalle sensazioni, si arriva ad affermare l’esistenza del mondo esterno. Infine,
l’esperienza stessa testimonia che si debba risalire a posteriori ad una causa di tutto ciò che diviene, cioè Dio.
Dalla generalizzazione dell’esperienza derivano le idee più complesse, in cui consiste la conoscenza. Esse sono il frutto
di una sintesi reale, cioè di una ricomposizione delle sensazioni sulla base dell’unità che esse mostravano
oggettivamente nell’esperienza stessa. Nulla di più lontano dalla rivoluzione copernicana di Kant, che comunque, per
Galluppi, è soltanto un ideologo, cioè uno studioso dell’origine delle idee.
Antonio Rosmini: l’origine delle idee. Si muove all’interno dello stesso orizzonte, ancora in parte condizionato
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 1
da un residuo di dualismo gnoseologico, comune ai sensisti e agli ideologi, non ancora criticamente discusso né
tantomeno superato, come accadeva invece al coevo idealismo, anche la filosofia di Antonio Rosmini Serbati (17971855), nato nel Trentino ancora austro-ungarico, laureato in teologia a Padova, sacerdote dal 1821, cattolico liberale
amico del Manzoni con cui intrattenne sempre una solida amicizia.
Nell’opera Nuovo saggio sull’origine delle idee (1830) Rosmini pone l’idea innata dell’essere come fondamento di
ogni altra conoscenza. In sostanza si tratta di attualizzare il concetto agostiniano di illuminazione ( Volume 1) al
contesto del dibattito gnosologico dell’età moderna, in funzione della restaurazione dei valori della tradizione cattolica,
cautamente aggiornati alle problematiche tipiche della modernità.
In effetti, l’idea innata dell’essere ideale o possibile, inteso come qualità comune di tutto ciò che esiste, è originaria,
precede qualsiasi sensazione, compresa la sensazione della propria esistenza individuale, e coincide con il lume della
ragione che Dio stesso infonde nell’anima umana.
A priori rispetto al costituirsi della stessa soggettività e di qualsivoglia dato sensibile che provenga da oggetti esterni,
l’idea dell’essere è la forma stessa dell’anima razionale, è universale, in quanto appartiene alla razionalità umana in
quanto tale, ed è oggettiva, in quanto, a differenza delle forme a priori kantiane, ha il suo fondamento nell’essere in sé,
nello stesso Dio trascendente.
Essa dovrebbe avere, dunque, diversi vantaggi: semplificare il quadro delle idee platoniche che costituiscono, insieme
alla filosofia agostiniana, la più tradizionale ispirazione degli innatisti, superare il dualismo gnoseologico che
condiziona l’empirismo e il sensismo, rifiutare la soggettività trascendentale kantiana e individuare un fondamento
oggettivo della conoscenza, risolvere nel modo più semplice e lineare i problemi posti dagli ideologi.
Essendo l’essere ideale soltanto una forma a priori, la conoscenza dell’essere realmente esistente nella sua molteplicità e
determinatezza è il frutto di una sintesi (in parte simile a quella kantiana) tra l’idea innata dell’essere possibile e le
sensazioni particolari, il molteplice empirico. Da tale sintesi, detta percezione intellettiva, derivano tutte le altre idee
determinate (le tradizionali idee platoniche), i concetti e i giudizi, i princìpi della logica (identità e non contraddizione),
della conoscenza empirica e scientifica (tempo, spazio, movimento, causalità).
L’idea dell’io e la coscienza di sé, anche come soggetto unitario di tutte le sensazioni, che altrimenti mancherebbero di
un supporto, per costituirsi presuppongono un’altra forma a priori, innata, derivata dall’idea dell’essere possibile e in
essa già compresa, che è il sentimento fondamentale corporeo, una sorta di percezione, interna all’anima, di esistere in
connessione con un corpo finito e soggetto al divenire.
Anche la dimostrazione dell’esistenza di Dio, già presupposta all’inizio nella teoria dell’illuminazione, che però qui
risente di un’impostazione dualista sul piano gnoseologico, Rosmini la integra, in seguito alle critiche di Gioberti (
vedi oltre), nella Teosofia (pubblicata postuma). Dato che l’essere ideale è una possibilità infinita e l’essere reale,
determinato e molteplice, ne è l’attuazione concreta, la prima ed originaria attuazione concreta dell’essere ideale infinito
è proprio l’essere infinito realmente esistente, cioè Dio.
Da Dio derivano poi, tramite la creazione, tutte le altre attuazioni, cioè gli enti reali determinati che rispecchiano le idee
o essenze (in senso platoniche).
Rosmini e Kant. L’influsso di Kant è piuttosto evidente. L’idea dell’essere non è un contenuto della conoscenza,
come nel platonismo e anche nell’agostinismo, ma è una forma; più precisamente è la forma universale a priori della
ragione umana. Non ci sarebbe nulla di scandaloso se anche Rosmini usasse il termine trascendentale per definire il suo
lume della ragione.
Tuttavia, una differenza fondamentale sta nel fatto che in Kant le forme a priori della sensibilità (spazio e tempo) e
dell’intelletto (categorie) sono le condizioni di possibilità della conoscenza universale e necessaria del molteplice
empirico (cioè ha un valore gnoseologico), mentre in Rosmini il lume della ragione è l’intuizione immediata della
possibilità di esistenza del molteplice empirico, del suo appartenere all’essere (vorrebbe avere un valore ontologico).
Altra differenza: la gnoseologia kantiana mira a dare un fondamento alla conoscenza scientifica, escludendo la
metafisica dall’orizzonte delle conoscenze fondate empiricamente; Rosmini, invece, presuppone una metafisica,
fondando su Dio, senza peraltro dimostrarne ancora l’esistenza, l’oggettività dell’intuizione originaria dell’essere.
Antonio Rosmini: morale, diritto, politica. Anche la dottrina morale di Rosmini, in parte simile a quella di Kant,
si ispira piuttosto a quella di Agostino. Infatti, l’imperativo morale fondamentale consiste nel seguire il lume della
ragione, che tuttavia non è autonoma e legislatrice come in Kant, ma eteronoma e suddita della legge morale, frutto
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 1
dell’illuminazione divina. Il dovere morale consiste nell’amore dell’essere, sulla base dell’ordine gerarchico stabilito
da Dio e oggettivamente riconoscibile nei gradi di perfezione dei molteplici enti.
In particolare, mentre le cose hanno un valore di mezzi, le persone hanno un valore di fine e ciascuna ha un proprio fine,
cosicché l’agire morale deve rispettare il fine proprio delle persone stesse: «L’oggetto della virtù è dunque sempre la
dignità della persona» (A. Rosmini, Filosofia della politica, 1839).
Questa dignità della persona è anche all’origine dell’umana socievolezza. Pertanto, «ogni società umana non è che
l’unione di più persone fatta ad intendimento di procacciarsi un vantaggio comune; le persone dunque in questa unione
tengono tutte insieme la parte di fine, e a tutte ugualmente si riferisce il vantaggio che aspettasi di trarre
dall’associazione» (ibidem).
Ancor più fortemente debitrice della cultura illuministica è la sua dottrina del diritto e della politica, che ricalca in
sostanza la teoria dei diritti naturali, libertà e proprietà in particolare, e dello Stato liberale, che deve limitarsi a tutelare
i diritti stessi, senza pretendere di intervenire nei rapporti sociali e, soprattutto, nei rapporti economici. Da qui la sua
polemica contro le dottrine socialiste e comuniste (con l’opuscolo Il socialismo e il comunismo del 1848), che con la
pretesa di realizzare la società perfetta e l’uguaglianza sostanziale dei cittadini, impossibile su questa terra, violano il
diritto alla libertà e alla proprietà. Da qui anche la sua adesione al neoguelfismo e all’idea di una monarchia
costituzionale moderata, nonché la sua contrarietà al suffragio universale (Approfondimenti).
Vincenzo Gioberti: l’ontologismo. L’altro importante sostenitore del ritorno alla tradizione cattolica fu Vincenzo
Gioberti (1801-1852), sacerdote, esule in Belgio dopo un arresto per la sua giovanile adesione alle idee di Mazzini,
deputato e anche capo del governo del regno di Sardegna nel 1848, importante esponente del Risorgimento italiano.
Pur condividendo con Rosmini l’esigenza di fare della filosofia l’espressione in termini razionali dei contenuti della
religione cattolica, Gioberti ne critica quello che chiama il suo psicologismo (cioè la sua difficoltà ad uscire
dall’impostazione dualista), a cui oppone il proprio ontologismo.
Per Gioberti al principio è l’Idea che è immediatamente intuita dalla mente umana ad opera di una rivelazione divina.
L’Idea non è però un contenuto mentale innato, ma è l’Essere reale stesso, assolutamente inteso: insomma, è Dio stesso.
Gioberti lo chiama anche l’Ente e pone a fondamento di tutta la sua filosofia la formula ideale: «L’Ente è
necessariamente».
Pertanto l’Ente è la Totalità assoluta di tutte le possibili determinazioni dell’essere. Come nel coevo pensiero hegeliano
l’Idea è l’assoluto che contiene già in sé tutte le determinazioni, ma Gioberti rifiuta l’identificazione idealistica tra
pensiero ed essere e la particolare forma di panteismo che ne deriva. Per lui il riferimento è piuttosto costituito dal
platonismo e dal neoplatonismo riletti in chiave cristiana.
Dall’Ente dunque deriva il molteplice, generato dall’atto creativo di Dio. La parola esistere (ex-sistere) indica appunto
ciò che deriva da qualcos’altro, ciò che sussiste al di fuori (ex) della propria origine. Perciò la formula ideale si
completa in questo modo: «L’Ente crea l’esistente».
Nel solco della tradizione neoplatonico-agostiniana, cui Gioberti si ispira, l’ultima parte della formula ideale riassume il
percorso esistenziale e morale della libertà umana che aspira a ricongiungersi con Dio: «L’esistente ritorna all’Ente». Il
male consiste nell’allontanarsi da Dio, il bene nell’avvicinarsi alla sua perfezione, cui tendono tutte le creature ma che
l’uomo sceglie liberamente.
La differenza tra la triade dialettica di Gioberti (Idea-Dio, creazione, redenzione) e quella hegeliana (Idea, Natura,
Spirito) consiste soltanto nel netto rifiuto dell’immanentismo da parte del filosofo italiano, che per il resto sembra
essere influenzato dal massimo rappresentante dell’idealismo.
Gioberti stesso sottolinea il suo intento di ribadire il principio di trascendenza e di rifarsi più alla dialettica realista di
Platone che a quella idealista di Hegel, istituendo un parallelismo tra la mimesi e la creazione, da una parte, e la metessi
e la redenzione, dall’altra. La mimesi, infatti, è la metafora della creazione a propria immagine e somiglianza operata da
Dio. La metessi rappresenta l’azione umana che si rende progressivamente partecipe della perfezione divina con
l’attività spirituale e morale.
Vincenzo Gioberti: il neoguelfismo. La formula ideale spiega anche le idee politiche di Gioberti, che diede un
importante contributo al dibattito risorgimentale italiano, soprattutto con il saggio Del primato morale e civile degli
italiani (1843). Il sovrano crea il popolo e il popolo diventa sovrano è, in estrema sintesi, la sua concezione del
progresso storico-politico che rifugge sia dal dispotismo (in cui la sovranità si chiude in se stessa e non coinvolge nel
governo il popolo, come se, sul piano ontologico, Dio non creasse nulla) sia dalla sovranità popolare in cui si presume
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 1
che il governo possa scaturire dal popolo (come se le creature potessero autocrearsi). La situazione migliore è quella di
una monarchia costituzionale che allarghi gradualmente la partecipazione alle responsabilità di governo alle varie classi
sociali, con particolare riguardo per la borghesia, al cui possibile protagonismo nella rinascita dell’Italia guardavano
tutti i cattolici liberali del tempo, da Manzoni a Rosmini.
Nella convinzione che l’Italia, sede della Chiesa cattolica, garante della tradizione, custode della civiltà, vera interprete
della formula ideale, godesse di un primato morale e civile, elaborò il progetto di unificazione politica della penisola
attraverso la realizzazione pacifica di una confederazione degli Stati allora esistenti la cui guida fosse affidata al Papa.
In questo consiste la dottrina del neoguelfismo che, per breve tempo, sembrò potersi realizzare nel 1848, ma che ben
presto mostrò la sua illusorietà dopo il cosiddetto «voltafaccia» del Papa Pio IX, il presunto «Papa liberale».
PARAGRAFO 3. GIACOMO LEOPARDI
A Giacomo Leopardi (1798-1837), uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, viene ormai sempre più riconosciuta una
statura di filosofo di notevole importanza, trasfigurata nella sua opera poetica ed esplicitata soprattutto nelle Operette
morali (1827) e nei Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, opera nota anche come lo Zibaldone di pensieri
(1831-1835).
Lo studioso che maggiomente ha messo in rilievo la profondità teorica del suo pensiero è senza dubbio il filosofo
italiano Emanuele Severino, in particolare nella sua opera Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi
(1990).
La complessa formazione filosofica di Leopardi può facilmente essere ricondotta ad antecedenti immediati piuttosto
precisi. La sua riflessione coinvolge l’intero percorso del pensiero filosofico, dai presocratici ai suoi contemporanei.
Molto rilevante è la sua analisi della parabola tracciata dal pensiero moderno e da alcune sue tappe significative, in
particolare:
 il meccanicismo cartesiano;
 l’empirismo di Locke;
 il sensismo illuministico;
 il materialismo illuministico (D’Holbach, De La Mettrie ed Helvétius).
Leopardi dimostra di saper cogliere, di quella parabola, la vera essenza nascosta, oltrepassando ogni interpretazione che
la stessa filosofia moderna ha dato di se stessa. Anzi, si può dire che essa appare incapace di cogliere l’autentico
significato di ciò che ha portato alla luce. Nel pensiero di Descartes, Bacon, Galilei, Locke e Newton, Leopardi scorge
quella verità autentica che questo stesso pensiero, riflettendo su di sè, non riesce a vedere: scorge l’affermazione della
nullità di tutte le cose. Per Leopardi la filosofia moderna rappresenta il superamento definitivo della filosofia
tradizionale, cioè di ogni illusione metafisica, e, soprattutto con Locke, è la rigorosa negazione del modo in cui l’idea
dell’eterno e dell’infinito si presenta nell’innatismo platonico.
L’infinito e il nulla. Uno dei più importanti argomenti di riflessione di Leopardi è costituito da tre aspetti
caratteristici dell’anima umana che verranno poi più ampiamente ripresi e sviluppati:
 il sentimento della nullità di tutte le cose;
 l’insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo;
 la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo.
Essi vengono fatti derivare da una tendenza che è «ingenita e congenita con l’esistenza». Si tratta del desiderio del
piacere (e della felicità, che è tutt’uno con esso). Questa tendenza non ha limiti ed è perciò un desiderio infinito a causa
della natura delle cose, che «porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto», perciò non può
avere fine in questo o quel piacere che non può essere infinito (nessun piacere è immenso, ogni piacere è circoscritto).
Inoltre, indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire
le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono e che è capace di produrre la speranza, le illusioni, la
possibilità del piacere infinito.
In ultima analisi tale tendenza è fatta derivare dall’amor proprio, introducendo un tema che verrà più ampiamente
trattato oltre.
Approfondendo l’analisi della facoltà immaginativa o immaginazione, Leopardi mostra la relazione di questa facoltà
umana con la tendenza al piacere infinito:
«[…] l’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va
errando in uno spazio immaginario» (G. Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura).
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 1
Poi più precisamente chiarisce che la facoltà immaginativa stessa (come la facoltà conoscitiva) non è capace
dell’infinito ma dell’indefinito, e che l’anima confonde l’indefinito con l’infinito, ma propriamente non comprende nè
concepisce nessuna infinità.
Ciò riguarda non soltanto lo spazio, ma anche il tempo; viene anche concisamente ma efficacemente speigata la
dinamica psichica che dall’indefinito genera l’erronea idea dell’infinito:
«L’antico non è eterno, quindi non è infinito, ma il concepire che fa l’anima uno spazio di molti secoli, produce una
sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato, dove l’anima si perde, e sebbene sa che vi sono confini, non
li discerne» (ibidem).
Da ciò deriva che:
 niente nella natura annunzia l’infinito, l’esistenza di alcuna cosa infinita:
«L’infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra
superbia» (ibidem);
 l’infinito è un’idea, un sogno, non una realtà:
«Niuna prova abbiamo noi dell’esistenza di esso, neppur per analogia. Si potrebbe disputare se l’infinito sia
possibile e se questa idea non sia contradditoria in se stessa.» (ibidem).
La conclusione definitiva e radicale è l’identificazione dell’infinito con il nulla, alla quale approda necessariamente la
rigorosa interpretazione dell’arco della filosofia moderna:
«Certo secondo le leggi dell'esistenza che noi possiamo conoscere, cioè quelle dedotte dalle cose esistenti che noi
conosciamo, o sappiamo che realmente esistono, l'infinito cioè una cosa senza limiti, non può esistere, non sarebbe
cosa ecc. Pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell'essere, il niente, possa essere senza limiti, e
che l'infinito venga in sostanza a esser lo stesso che il nulla. Pare soprattutto che l'individualità dell'esistenza importi
naturalmente una qualsivoglia circoscrizione, di modo che l'infinito non ammetta individualità e questi due termini
sieno contraddittorii; quindi non si possa supporre un ente individuo che non abbia limiti » (ibidem).
Paradossalmente, se un Dio esistesse, sarebbe anch’esso limitato e determinato, soggetto al divenire, cioè alla nascita e
alla morte.
Leopardi dunque ricostruisce nella sua più autentica essenza e nella sua rigorosa consequenzialità logica la verità del
pensiero moderno: materialismo (tutte le cose che esistono sono materiali), meccanicismo (l’universo è un ciclo
continuo di produzione e distruzione di tutte le cose, senza riguardo alle sorti degli individui), nichilismo (ontologia del
nulla: tutte le cose emergono dal nulla e nel nulla precipitano).
La profondità della sua interpretazione storico/filosofica è tale da anticipare, con ben maggiore radicalità, le analisi
critiche che, rispetto ai concetti di assoluto, infinito ed eterno, sono state in seguito condotte prima in parte da Kant (
Volume 2, Sezione 2, Unità 8, Capitolo 1, Paragrafo 7), poi da Hegel ( Volume 2, Sezione 3, Unità 2, Capitolo 1) e
successivamente, nell’ambito della sinistra hegeliana, da Feuerbach ( Unità 3, Capitolo 1, Paragrafo 2), Stirner (
Unità 3, Capitolo 1, Paragrafo 3) e Marx ( Unità 3, Capitolo 2), e infine da Nietzsche ( Sezione 2, Unità 1, Capitolo
2).
L’intelletto e la ragione. L’altro fondamentale tema che Leopardi sviluppa mette in discussione con ancor
maggiore radicalità non soltanto la contraddizione della condizione umana e l’impossibilità di qualsiasi illusione
metafisica e religiosa, di qualsiasi credenza in una dimensione trascendente e ultraterrena, ma anche le contraddizioni
irrisolvibili in cui incappa, nei suoi stessi fondamenti logici, la razionalità umana, pur nella sua grandezza e nobiltà.
Quest’ultimo aspetto è tratto da uno spunto di Pascal ( Volume 2, Sezione 2, Unità 3, Capitolo 1, Paragrafo 5), ma è
totalmente spogliato della dimensione religiosa caratteristica del pensatore francese. L’uomo del Leopardi è quasi un
nulla nello sterminato e incomprensibile universo post-newtoniano e non vi è alcun Dio che possa riscattarlo:
«Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e potenza dell’umano intelletto, nè l’altezza e nobiltà dell’uomo,
che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza (infinitesima parte
di un globo ch’è minima parte d’uno degli innumerevoli sistemi che compongono l’universo). In questa
considerazione si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova
come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior
prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente che può abbracciare e
contenere col pensiero questa immensità dell’esistenza e delle cose» (ibidem).
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 1
D’altra parte, la ragione umana non è in grado di spiegare logicamente il potere del nulla su tutte le cose, di giustificare
l’inevitabile ontologia nichilista che si desume dagli sviluppi della filosofia moderna e dalla distruzione definitiva della
metafisica antica:
« Non si può meglio spiegare l'orribile mistero delle cose e della esistenza universale [...] che dicendo essere
insufficienti ed anche falsi, non solo la estensione, la portata e le forze, ma i principii stessi fondamentali della
nostra ragione. Per esempio quel principio, estirpato il quale cade ogni nostro discorso e ragionamento ed ogni
nostra proposizione, e la facoltà istessa di poterne fare e concepire dei veri, dico quel principio. Non può una cosa
insieme essere e non essere, pare assolutamente falso quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in
natura. L'essere effettivamente, e il non potere in alcun modo esser felice, e ciò per impotenza innata e inseparabile
dall'esistenza, anzi pure il non poter non essere infelice, sono due verità tanto ben dimostrate e certe intorno
all'uomo e ad ogni vivente, quanto possa esserlo verità alcuna secondo i nostri principii e la nostra esperienza. Or
l'essere, unito all'infelicità, ed unitovi necessariamente e per propria essenza, è cosa contraria dirittamente a se
stessa, alla perfezione e al fine proprio che è la sola felicità, dannoso a se stesso e suo proprio inimico. Dunque
l'essere dei viventi è in contraddizione naturale essenziale e necessaria con se medesimo. La qual contraddizione
apparisce ancora nella essenziale imperfezione dell'esistenza (imperfezione dimostrata dalla necessità di essere
infelice, e compresa in lei); cioè nell'essere, ed essere per necessità imperfettamente, cioè con esistenza non vera e
propria. [...] Intanto l'infelicità necessaria de' viventi è certa. E però secondo tutti i principii della ragione ed
esperienza nostra, è meglio assoluto ai viventi il non essere che l'essere. Ma questo ancora come si può
comprendere? che il nulla e ciò che non è, sia meglio di qualche cosa?» (ibidem).
La causa dell’infelicità è certamente l’amor proprio: se non vi fosse amor proprio non vi sarebbe infelicità, e d’altra
parte neppure la ricerca della felicità potrebbe prodursi senza amor proprio. Ma se questa è una contraddizione della
natura umana, che altri filosofi successivi non hanno mancato di sottolineare 4, vi sono, nella natura delle cose, molte
altre contraddizioni:
«Del resto nella natura delle cose si scuoprono mille contraddizioni in mille generi e di mille qualità dimostrate con
tutti i lumi e l’esattezza la più geometrica della metafisica e della logica, evidenti quanto la verità della proposizione
non può una cosa a un tempo essere e non essere. Onde bisogna rinunciare a credere o all’evidenza (le
contraddizioni dell’esistenza e della natura) o alla verità del principio di non contraddizione. In entrambi i modi
rinunzieremo alla nostra ragione» (ibidem).
Dunque, non soltanto la metafisica tradizionale (e con essa qualsiasi illusione religiosa), ma la stessa logica, sul cui
fondamento si sono sviluppate tutte le dottrine elaborate nella storia della cultura occidentale, è smascherata
implacabilmente nella sua illusorietà.
La riflessione leopardiana tocca qui la maggiore profondità e radicalità, portandosi molto oltre i limiti della critica che
in quegli stessi anni Hegel ( Volume 2, Sezione 3, Unità 2, Capitolo 2, Paragrafo 2) veniva conducendo al principio
fondamentale della ragione, il principio di non contraddizione. Per Hegel e per la sinistra hegeliana la natura delle cose
è contrassegnata dalla contraddizione, ma essa costituisce il motore dialettico del progresso, del realizzarsi
dell’Assoluto nella storia. Al contrario, per Leopardi la contraddizione non ha un valore dialettico ma ontologico e
logico: è dunque insuperabile e getta la sua luce negativa non soltanto sulla condizione dei moderni (il cosiddetto
pessimismo storico), ma anche su quella di tutte le cose che esistono (il cosiddetto pessimismo cosmico, che
propriamente è un nichilismo). Il pessimismo agonistico della Ginestra, l’appello ormai finale alla «social catena», è
soltanto un’affermazione di orgogliosa dignità umana, che ben poco può contro il nulla che avanza.
Per concludere, Leopardi si presenta, con la sua lucidità e il suo rigore, come il primo ed il più spregiudicato dei filosofi
contemporanei: sessant’anni prima di Nietzsche, egli vede con chiarezza totale il nichilismo dell’uomo europeo, la
morte di Dio e la fede religiosa come menzogna, come maschera che nasconde il vuoto assoluto.
PARAGRAFO 4. SVILUPPI DEL ROMANTICISMO IN GERMANIA
Anche in Germania, culla del Romanticismo e della sua più importante espressione filosofica, l’Idealismo, alcuni
pensatori rifiutarono l’identificazione tra essere e pensiero, nonché l’assolutizzazione della soggettività umana, che ne
costituivano le caratteristiche dominanti. Il riferimento più immediato per questi anti-idealisti è costituito dal pensiero di
Vanno richiamati soprattutto Schopenhauer ( Capitolo 2, Paragrafo 3), con l’irrealizzabile tendenza
all’infinito della volontà di vita, e Freud ( Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1), che sottolinea la virtuale
immortalità della libido e del principio di piacere, destinati a scontrarsi con il principio di realtà.
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 1
Kant, ma si tratta di un Kant riletto e reinterpretato nelle più svariate maniere, valorizzandone e talora distorcendone un
aspetto e trascurandone altri.
Il realismo di Herbart. Johann Friedrich Herbart (1776–1841), docente a Königsberg sulla cattedra che era stata
di Kant, poi a Gottingen, dopo essere stato un allievo di Fichte, divenne uno dei più importanti oppositori dell’idealismo
e, nel nome di Kant, elaborò una forma di realismo che trasse ispirazione anche da Leibniz.
Infatti, il noumeno kantiano viene descritto da Herbart sul modello delle monadi leibniziane ( Volume 2), come enti
atomici, non estesi, non divisibili, immutabili, posti fuori dal tempo, privi di relazioni reciproche, cioè esistenti in sé, in
forma assoluta. A differenza di Kant, dunque, Herbart attribuisce alla metafisica una funzione positiva, che consiste,
appunto, nel presupporre la configurazione effettiva della realtà e della sua essenza, che pure resta inconoscibile.
Tuttavia, soltanto la metafisica può spiegare le contraddizioni dell’esperienza che la dialettica hegeliana, con la sua
assolutizzazione del divenire, non è in grado di giustificare.
Ciò che è conoscibile, cioè la dimensione fenomenica, è soltanto l’apparenza della realtà immutabile. Ciò che
conosciamo sono le apparenti relazioni che gli enti reali stabiliscono reciprocamente nello spazio, nel tempo e secondo
le diverse categorie. Tali relazioni hanno per la conoscenza umana un valore oggettivo, in quanto esse si mostrano
universalmente e necessariamente nell’ambito di una sorta di soggettività trascendentale. Tuttavia, anticipando una
concezione che sarà svolta da Schopenhauer ( Capitolo 2), il fenomeno è soltanto una rappresentazione della mente
umana, una «veduta accidentale».
Herbart procede poi all’inclusione dell’etica nell’estetica, intesa questa come teoria della valutazione, preposta alla
formulazione di giudizi di valore sul bello e sul bene, ispirati ad un sentimento. Si tratta, comunque, di un sentimento,
sia estetico sia etico, che ha valore assoluto, nonché carattere universale e necessario, e che produce nelle persone una
tendenza spontanea alla disapprovazione o all’approvazione di ciò che è bello e di ciò che è buono. Per quanto riguarda
in particolare l’etica il giudizio di valore deve essere mediato da cinque fondamentali concetti-modello, che sono idee
pratiche in cui il giudizio stesso si articola: la libertà interiore, la perfezione, la benevolenza, il diritto, l’equità.
Herbart fu anche un importante pedagogista, favorevole alla progettazione individualizzata del programma educativo
per ottenere la piena capacità di formulare giudizi di valore sulla base delle idee pratiche ( Approfondimenti).
L’«antropologia psichica» di Fries. Jacob Friedrich Fries (1773–1843), docente ad Heidelberg e a Jena, ha
trasformato la filosofia trascendentale kantiana in una psicologia empirica delle forme di conoscenza e del loro
sviluppo, conoscibili attraverso l’introspezione. La rivoluzione copernicana di Kant viene del tutto disconosciuta,
sottoponendo ciò che per il filosofo di Königsberg era a priori rispetto all’esperienza in un oggetto di studio a posteriori
dell’esperienza interiore del soggetto.
Il suo liberalismo politico lo mise in cattiva luce presso il governo prussiano e gli costò la cattedra.
Trendelenburg. Friedrich Adolf Trendelenburg (1802–1872), pur criticando la dialettica hegeliana e riscoprendo
Kant, non intende rinunciare all’identità tra pensiero ed essere tipica dell’idealismo. Bisogna però osservare che la sua
dottrina si pone al di qua del percorso di superamento del dualismo gnoseologico moderno che si è attuato nel passaggio
dal criticismo all’idealismo. In effetti, il suo punto di riferimento realistico e pre-moderno è costituito piuttosto dal
pensiero di Aristotele, in cui l’identità tra essere e pensiero è posta immediatamente, quindi senza le mediazioni che la
storia della filosofia ha posto in atto.
Alla luce di questo ritorno all’antico realismo, la sua critica alla dialettica hegeliana si articola sulla distinzione tra
contraddizione logica e contrarietà reale. Secondo Trendelenburg la contraddizione dialettica hegeliana pecca di
astrattismo, ha un valore puramente logico e pertanto non sarebbe in grado di spiegare la realtà. Ad essa va contrapposta
la categoria a priori del movimento costruttivo, che è in grado di spiegare su basi empiriche, logiche e metafisiche tutta
la realtà, mediante categorie reali.
Anche la sua interpretazione di Kant è condotta alla luce di un’identificazione realistica tra logica e ontologia, dal
momento che le categorie sono innanzitutto strutture della realtà e, perciò, anche della conoscenza, che della realtà è il
riflesso immediato. Le categorie, pertanto, sono prodotte a priori dal pensiero, ma in concordanza con la realtà, sicché
esse sono insieme soggettive e oggettive.
Tra le categorie reali rientra anche quella di finalità, il che consente a Trendelenburg di trasformare il finalismo
«metodologico» di Kant in una vera e propria metafisica: l’universo può essere spiegato soltanto alla luce di una
concezione organica o teleologica, che interpreta le parti in relazione con il tutto e coglie nelle cause efficienti i mezzi
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 1
per l’attuazione dei fini ideali. Anche l’etica, il diritto e la politica possono essere spiegate sviluppando il finalismo in
termini sociali e morali.
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 2
CAPITOLO 2. ARTHUR SCHOPENHAUER
Contro la ragione dialettica hegeliana, Schopenhauer promuove il ritorno al dualismo di Kant, sia pure
interpretato in modo originale, con riferimenti a Platone e alla sapienza induista/buddhista. All’ottimismo di
Hegel, Schopenhauer contrappone un radicale pessimismo. Ciò che domina le sorti degli individui, delle
società e della storia è una forza oscura, cieca e irrazionale, che produce soltanto l’egoica incessante ricerca
di un piacere irrealizzabile e, soprattutto, noia, dolore e aggressività reciproca tra tutti i viventi. Non ci si può
opporre a tale forza, se non cercando di annullarla in se stessi, con una scelta di vita ascetica.
PARAGRAFO 1. RITORNO AL DUALISMO
Schopenhauer (nell’immagine il suo ritratto, fonte www.wikipedia.it) si oppone con decisione all’idealismo, in
particolare alla ragione dialettica hegeliana che pretende di ricomporre tutta la realtà in una sintesi assoluta. Egli ritiene
irrinunciabile il doppio dualismo, soprattutto quello gnoseologico5, che ha caratterizzato tutta la filosofia moderna.
Perciò il superamento di tale dualismo, operato dagli idealisti ( Volume 2, Sezione 3, Unità 1), lo denuncia come una
vera impostura, come un sofisma.
Si rifà esplicitamente a Kant il cui pensiero egli definisce «come la più importante apparizione che sia avvenuta da due
secoli nella filosofia».
Bisogna subito dire che la sua interpretazione del criticismo kantiano è decisamente personale: infatti, lo considera
come una forma perfetta di quel dualismo che, a suo parere, caratterizza tutte le grandi filosofie, in particolare quella di
Platone, cui riserva analogo trattamento interpretativo. Inoltre, uno dei capisaldi
del suo pensiero è costituito dalla sapienza orientale degli antichi testi sacri
induisti6, dove egli trova prefigurati gli stessi temi che hanno fatto grandi il
maestro ateniese e il filosofo di Königsberg.
«La filosofia di Kant è dunque la sola, di cui assolutamente si suppone una
conoscenza a fondo per ciò che qui verrà esposto. Ma se per di più il lettore
s’è ancora intrattenuto alla scuola del divino Platone, tanto meglio ne
riuscirà preparato e disposto ad udirmi. Se poi anche è diventato partecipe
del benefizio dei Veda, l’accesso ai quali, apertoci mediante le Upanishad, è
ai miei occhi il maggior privilegio che questo ancor giovine secolo può
vantare sul precedente, in quanto io ritengo che l’influsso della letteratura
sanscrita non sarà meno profondo che il rinascimento della cultura greca nel
secolo XV, se adunque, io dico, il lettore ha già ricevuto e accolto con animo
ben disposto anche la consacrazione dell’antichissima saggezza indiana,
allora è nel miglior modo preparato a udire ciò che io ho da esporgli. La materia non sembrerà allora a lui, come a
qualche altro, straniera o addirittura ostica; perché io, se non suonasse troppo superbo, vorrei affermare che ciascuna
delle singole sentenze staccate, le quali costituiscono le Upanishad, si lascia dedurre, come conclusione, dal pensiero
ch’io devo comunicare; sebbene questo pensiero viceversa non si possa in alcun modo trovare colà» (A.
Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, «Proemio alla prima edizione», vol. I).
5
Il suo più specifico riferimento si trova soprattutto nel dualismo di Descartes, che intende restaurare,
sia pure rovesciandone significato e intenzioni.
6
I testi sacri dell’induismo sono i Veda, un corpus di scritti composti in un periodo di tempo superiore
ai 1.500 anni, di cui fanno parte le più recenti Upanishad, alle quali Schopenhauer fa talora riferimento
specifico.
17
Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 2
PARAGRAFO 2. IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE
Schopenhauer forza notevolmente il pensiero di Kant (che aveva posto le basi per il superamento del dualismo
gnoseologico  Volume 2, Sezione 2, Unità 8, Capitolo 1) e trasforma la contrapposizione tra fenomeno e noumeno in
una profonda dicotomia tra rappresentazione
ARTHUR SCHOPENHAUER. VITA E OPERE
illusoria e vera realtà.
Arthur Schopenhauer nasce a Danzica il 22 Febbraio
Sappiamo già che per Kant invece anche il
1788, figlio di un ricco mercante, appartenente a una
fenomeno è vera realtà oggettiva, quindi
delle famiglie più antiche ed in vista della città. Nel
l’operazione
di
Schopenhauer
consiste
1793 la «città libera» Danzica entra nello stato
nell’interpretare il criticismo come se fosse la forma
prussiano e la famiglia si trasferisce ad Amburgo.
più perfetta di dualismo, ovvero l’«idealismo»
Arthur segue il padre in numerosi viaggi in Europa,
presupposto da quasi tutti i moderni: cioè, come se il
studia le lingue e letterature francese e inglese.
fenomeno fosse soltanto l’idea all’interno della
Compie studi commerciali e svolge l’attività del padre
mente, della quale non si può sapere se corrisponda
dopo il suicidio di questi. Frequenta gli ambienti
o meno alla realtà esterna alla mente ( Volume 2,
romantici e conosce tra gli altri Goethe. Compie studi
Sezione 2, Unità 1, Capitolo 1). Vediamo come :
umanistici, scientifici e medici, poi si innamora della
«“Il mondo è la mia rappresentazione”: – questa
filosofia e ottiene la laurea in absentia, spedendo
è una verità che vale in rapporto a ciascun essere
all’Università di Jena il trattato Sulla quadruplice
vivente e conoscente, sebbene l’uomo soltanto
radice del principio di ragione sufficiente, composto
sia capace di accoglierla nella riflessa, astratta
nel 1814. In questo periodo si avvicina alla lettura dei
coscienza: e s’egli veramente fa questo, con ciò è
testi sacri dell’Induismo. Continua a studiare
penetrata in lui la meditazione filosofica.
intensamente la filosofia antica e moderna, mentre
Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch’egli
termina la sua più importante opera, Il mondo come
non conosce né il sole né la terra, ma appena un
volontà e rappresentazione, nel 1818.
occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale
Viaggia a lungo in Italia, finché il fallimento della
sente una terra; che il mondo da cui è circondato
banca che amministrava la sua quota di eredità
non esiste se non come rappresentazione, vale a
paterna lo costringe ad accettare una cattedra di
dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro,
filosofia a Berlino, nella stessa Università del suo
a colui che rappresenta, il quale è lui stesso. Se
acerrimo rivale Hegel.
mai una verità può venire enunciata a priori è
Nel 1839 il suo saggio Sulla libertà del volere umano
appunto questa: essendo l’espressione di quella
ottiene un importante riconoscimento. Il successo
forma d’ogni possibile e immaginabile
editoriale, mancato in precedenza, arriva nel 1851
esperienza, la quale è più universale che tutte le
con la pubblicazione dei Parerga e Paralipomena.
altre forme, più che tempo, spazio e causalità;
Tra le sue letture predilette le Operette morali e i
poi che tutte queste presuppongono appunto
Pensieri di Leopardi, che ha scoperto viaggiando in
quella. [...] Tutto quanto è compreso e può esser
Italia. Muore il 21 Settembre 1860. Viene sepolto
compreso nel mondo, deve inevitabilmente aver
cinque giorni dopo nel cimitero di Francoforte, alla
per condizione il soggetto, ed esiste solo per il
presenza di pochi fedelissimi. Sulla pietra sepolcrale
soggetto. Il mondo è rappresentazione» (op.cit.,
nessuna epigrafe, solo il suo nome.
vol. I, libro I, § 1).
La
stessa
sorte
toccata
alla
coppia
fenomeno/noumeno kantiana viene riservata da
Schopenhauer alla coppia opinione/scienza di
Platone ( Volume 1, Sezione 1, Unità 3, Capitolo
2), al rapporto tra le ombre e gli oggetti del celebre mito della caverna. Più ampiamente, i suoi punti di riferimento
nell’ambito del pensiero occidentale (che includono altresì Eraclito e Spinoza) vengono letti alla luce della sapienza
vedica induista:
«La sostanza di questa opinione è antica: Eraclito lamentava con essa l’eterno fluire delle cose; Platone ne disdegnò
l’oggetto come un perenne divenire, che non è mai essere; Spinoza chiamò le cose puri accidenti dell’unica
sostanza, che sola esiste e permane; Kant contrappose ciò che conosciamo in tal modo, come pura apparenza, alla
cosa in sé; e infine l’antichissima sapienza indiana dice: “È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 2
mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al
sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche
assomiglia alla corda gettata a terra, che egli prende per un serpente”» (op. cit., vol. I, libro I, § 3).
Induismo, Platone e Kant. Il velo di Maya, la simbolica immagine delle Upanishad, è dunque la realtà apparente
della comune percezione umana, illusoria e ingannevole: tutte le conoscenze sono ombre illusorie, che nascondono la
vera realtà.
Schopenhauer ha avuto il merito di far conoscere in Occidente un’antica sapienza rimasta nel complesso ignota, ma la
sua assimilazione della dottrina induista sia al mito platonico della caverna che al criticismo kantiano è alquanto
arbitraria. Non bisogna, infatti, dimenticare che:
1. Platone è un realista, quindi le ombre della caverna non sono rappresentazioni mentali, ma gli aspetti esteriori
degli oggetti reali, le cui essenze sono conoscibili dall’intelletto;
2. Kant ha superato l’«idealismo» presupposto dei moderni, in quanto il fenomeno è l’oggetto reale esterno alla
mente, oggetto che ad essa si manifesta nell’ambito della soggettività trascendentale, oggetto che è conoscibile
scientificamente ad opera dell’intelletto.
Il superamento della scienza e della filosofia moderne. Non a caso, Schopenhauer non si limita a criticare la
ragione dialettica e sintetica idealistico-hegeliana, finisce per criticare lo stesso intelletto scientifico kantiano: anche i
concetti sono conoscenze illusorie, anche le leggi universali e necessarie della natura sono rappresentazioni soggettive.
Il mondo, infatti, anche dal punto di vista dell’intelletto e della ragione, non soltanto dei sensi, è la «mia»
rappresentazione, poiché la realtà che percepiamo e conosciamo è filtrata e deformata dalle forme a priori che
caratterizzano le nostre facoltà conoscitive. Ma se, per Kant, tali forme a priori garantivano proprio l’oggettività
trascendentale, necessaria ed universale, delle leggi di natura, per Schopenhauer esse sono soltanto modalità
psicologiche e quasi fisiologiche tipiche di soggetti (gli umani) che nel percepire e conoscere gli oggetti li trasformano
in contenuti mentali soggettivi.
E così, se lo spazio e il tempo sono le forme della sensazione con le quali deformiamo l’esperienza fisica, soltanto la
causalità basta a spiegare la costruzione soggettiva dei concetti dell’intelletto.
La causalità da sola basta, infatti, a spiegare tutta la realtà, secondo quanto già aveva teorizzato Schopenhauer nel suo
primo scritto Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente ( Approfondimenti).
Schopenhauer sembra voler tornare alle più remote origini della modernità scientifica, prima di Descartes, agli idola
tribus di Bacon (la realtà deformata dalla mente umana  Volume 2, Sezione 1, Unità 3, Capitolo 1, Paragrafo 3), ma il
suo intento è completamente diverso. La sua denuncia dell’illusorietà di tutte le conoscenze sensibili e razionali umane
non approda a nulla di tutto ciò che ha caratterizzato il pensiero moderno: né il meccanicismo, né il probabilismo
empiristico moderatamente scettico. Egli sorpassa, invece, la modernità in una direzione che già in parte balenava nel
pensiero romantico e nell’idealimo di Schelling ( Volume 2, Sezione 3, Unità 1), ma che nel suo pensiero conduce a
un totale capovolgimento dei rapporti tra spirito e natura, mente e corpo, apparenza e realtà, rappresentazione e cosa in
sé.
PARAGRAFO 3. IL MONDO COME VOLONTÀ
Nel pensiero di Kant la cosa in sé resta inconoscibile. Al contrario, per Schopenhauer la via d’accesso alla vera realtà è
a disposizione dell’individuo che, da un lato, conosce se stesso come fenomeno del mondo, in quanto il suo stesso corpo
è un oggetto che ricade nell’ambito di spazio, tempo e causalità, e tuttavia, d’altro canto, esperimenta il proprio corpo
come se stesso, come il proprio stesso essere, come cosa in sé.
Il corpo come via d’accesso alla cosa in sé. L’individuo in quanto corpo si sente vivere, sente agire in sé la
forza degli istinti, degli impulsi, dei desideri, delle emozioni, delle passioni. Sperimentando in sé la forza vitale, la
volontà di vita (che in quegli impulsi e desideri si esprime direttamente), l’individuo squarcia il «velo di Maya» e
scopre la realtà in sé: il mondo come volontà:
«In verità, il senso tanto cercato di questo mondo, che mi sta davanti come mia rappresentazione […] non si
potrebbe assolutamente mai raggiungere, se l’indagatore medesimo non fosse nient’altro che il puro soggetto
conoscente (alata testa d’angelo senza corpo). Ma egli ha in quel mondo le proprie radici, vi si trova come
individuo: ossia il suo conoscere, che è condizione dell’esistenza del mondo intero in quanto rappresentazione,
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 2
avviene in tutto e per tutto mediante un corpo […]. Codesto corpo è per il puro soggetto conoscente, in quanto tale,
una rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fra oggetti: i suoi movimenti, le sue azioni non sono da lui, sotto
questo rispetto, conosciute altrimenti che le modificazioni di tutti gli altri oggetti intuitivi; e gli sarebbero
egualmente estranee ed incomprensibili se il loro senso non gli fosse per avventura svelato in qualche modo affatto
diverso […]. Ma le cose non stanno così: al soggetto conoscente, che appare come individuo, è data la parola
dell’enigma; e questa parola è volontà. Questa, e questa sola, gli dà la chiave per spiegare il suo proprio fenomeno,
gli manifesta il senso, gli mostra l’intimo congegno del suo essere, del suo agire, dei suoi movimenti. Al soggetto
della conoscenza, il quale per la sua identità col proprio corpo ci si presenta come individuo, questo corpo è dato in
due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione nell’intuizione dell’intelletto, come oggetto fra oggetti, e
sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt’altro modo; ossia come quell’alcunché
direttamente conosciuto, da ciascuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è
immediatamente e ineluttabilmente anche un moto del suo corpo: egli non può volere davvero l’atto, senz’accorgersi
insieme ch’esso appare come movimento del corpo. […] L’azione del corpo non è altro, che l’atto del volere
oggettivato, ossia penetrato nell’intuizione» (op. cit., vol. I, libro II, § 18).
Il corpo «vissuto» non è rappresentazione, non è percepito nello spazio e nel tempo, non obbedisce alla legge di
causalità, ma è tutt’uno col soggetto individuale.
Tabella riassuntiva. Descartes, Kant, Schopenhauer: il dualismo gnoseologico.
Temi
Descartes
Kant
Schopenhauer
Oggetto di
conoscenza
Idea
(rappresentazione
mentale)
Fenomeno (oggetto reale in
quanto si manifesta nella
cornice delle forme a priori,
conoscibile dall’intelletto
scientifico)
Fenomeno (rappresentazione
mentale in cui la realtà
oggettiva esterna alla mente è
filtrata e deformata dalle facoltà
conoscitive a priori)
Cosa in sé
Materia estesa
riconducibile alle leggi
matematico-meccaniche
Noumeno (totalità
incondizionate, inconoscibili
per la ragione umana: Dio,
mondo e anima)
Noumeno (volontà cieca,
irrazionale e inconscia,
conoscibile per esperienza
corporea diretta)
Dualismo
La realtà in sé non è
oggetto di conoscenza
immediata, ma è
accessibile per via
dimostrativa
L’unica realtà conoscibile è il
fenomeno (superamento del
dualismo)
La realtà in sé non è oggetto di
conoscenza per la sensazione
e l’intelletto, ma è accessibile
per esperienza fisica (nel
singolo individuo) e per
analogia
Il corpo come oggettivazione della volontà. Il corpo è la volontà che si oggettiva: tutti gli organi del corpo
sono volontà nella varietà delle sue manifestazioni: la fame, la sete, il sonno, il sesso sono tutte manifestazioni della
volontà che si oggettivano negli organi del corpo: il «mio» corpo non è altro che la «mia» volontà divenuta visibile.
Dunque, scoperta la «mia» essenza che è volontà, non mi sarà difficile ora scoprire l’intima essenza dell’intera natura.
Per analogia, tutti i fenomeni dell’universo che sono rappresentazioni per la sensazione e l’intelletto, si rivelano ora,
squarciato il velo, per quel che sono: pura volontà. Tutti i corpi dell’universo, del mondo inorganico e di quello
organico, minerali, vegetali, animali, esseri umani sono oggettivazioni della volontà. Tutte le forze che agiscono in
natura, biologiche, chimiche, elettromagnetiche, e la stessa forza di gravità, altro non sono che manifestazioni dell’unica
forza: la Volontà, forza suprema, assoluta, che è tutto e in tutto.
Si tratta di una forza cieca, inconscia e irrazionale, desiderio puro e infinito, che vuole soltanto se stesso e vuole
perpetuarsi senza limiti, in tutte le forme, compresa quella del pensiero e della volontà individuale umana, che crediamo
essere libera, mentre è assolutamente determinata.
20
Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 2
Nel bellissimo brano che riportiamo echeggiano anche quegli spunti pre-evoluzionistici che già caratterizzavano la
filosofia della natura di Schelling ( Volume 2, Sezione 3, Unità 1, Capitolo 3, Paragrafo 2):
«Attraverso tutte queste considerazioni, chi può aver raggiunto anche in abstracto […] la conoscenza che ciascuno
ha direttamente in concreto, ossia come sentimento: che cioè l’essenza in sé del nostro proprio fenomeno […] è la
nostra volontà; [...] chi, io dico, è arrivato con me a codesta persuasione, troverà che questa è per lui come la chiave
per conoscere l’intima essenza della natura intera, applicandola anche a quei fenomeni, che non gli son dati, come i
suoi propri, in conoscenza immediata oltre che mediata, ma solo in quest’ultima, quindi solo unilateralmente, come
semplice rappresentazione.
Non soltanto in quei fenomeni che sono affatto simili al suo proprio – negli uomini e negli animali – egli dovrà
riconoscere, come più intima essenza, quella medesima volontà; ma la riflessione prolungata lo condurrà a
conoscere anche la forza che ferve e vegeta nella pianta, e quella per cui si forma il cristallo, e quella che volge la
bussola al polo, e quella che scocca nel contatto di due metalli eterogenei, e quella che si rivela nelle affinità elettive
della materia, come ripulsione ed attrazione, separazione e combinazione; e da ultimo perfino la gravità, che in ogni
materia sì potentemente agisce e attrae la pietra alla terra, come la terra verso il sole – tutte queste forze in apparenza
diverse conoscerà nell’intima essenza come un’unica forza, come quella forza a lui più profondamente e meglio nota
d’ogni altra cosa, che là, dove più chiaramente si produce, prende nome di volontà. Solo quest’impiego della
riflessione non ci fa più arrestare al fenomeno, bensì ci conduce fino alla cosa in sé. Fenomeno è rappresentazione, e
non più: ogni rappresentazione, di qualsivoglia specie, ogni oggetto è fenomeno. Cosa in sé invece è solamente la
volontà: ella, come tale, non è affatto rappresentazione, bensì qualcosa toto genere differente da questa: ogni
rappresentazione, ogni oggetto, è fenomeno, estrinsecazione visibile, obiettità di lei. Ella è l’intimo essere, il
nocciolo di ogni singolo, ed egualmente del tutto: ella si manifesta in ogni cieca forza naturale; ella anche si
manifesta nella meditata condotta dell’uomo. La gran differenza, che separa la forza cieca dalla meditata condotta,
tocca il grado della manifestazione, non l’essenza della volontà che si manifesta» (op. cit., vol. I, libro II, § 21.
La mente, il corpo e l’inconscio. Nella parte finale del brano l’analisi di Schopenhauer raggiunge livelli notevoli
di profondità nell’anticipazione di temi che saranno tipici della psicologia dell’inconscio, o psicoanalisi ( Sezione 2,
Unità 2). Egli, infatti, osserva che tipico degli esseri razionali è credere di volere e decidere liberamente delle proprie
azioni e persino del progetto della propria stessa esistenza. In realtà tutto è deciso dalla Volontà, cioè da istinti, impulsi,
interessi, attitudini, emozioni, passioni. La ragione è soltanto razionalizzazione, giustificazione a posteriori del proprio
comportamento strutturalmente cieco irrazionale e inconscio. La ragione finisce per essere, dunque, il più perfezionato
strumento di attuazione di sé in cui si è «evoluta» la volontà.
La rielaborazione del dualismo ontologico moderno e di quel residuo di esso che permane in Fichte raggiunge un
completo rovesciamento, che avrà un’importanza notevole nel pensiero successivo: ciò che è vivo, ciò che è in atto è
quella natura fisica che era stata ridotta a puro meccanismo (Descartes) o a passivo ostacolo per l’azione dell’Io
assoluto (Fichte); intelletto e ragione, e lo stesso «io», non sono altro che parvenze illusorie, senza realtà e senza vita:
sono il «prodotto» del corpo/volontà.
Si può dunque osservare quanto segue:
1. Il dualismo moderno mente/corpo viene risolto nell’unità psichica del corpo/volontà che si esprime anche
attraverso le funzioni cosiddette superiori, quelle spirituali.
2. Si afferma la tendenza, che troveremo in altri filosofi successivi, a far derivare gli ordini superiori della realtà
da quelli inferiori (la mente dal corpo, lo spirito dalla natura, ecc.).
3. La filosofia moderna aveva già studiato l’inconscio, ma soltanto Leibniz ( Volume 2, Sezione 2, Unità 5,
Capitolo 1, Paragrafo 6) l’aveva concepito come forza, analizzandone le dinamiche e le influenze su
comportamenti e personalità. Tra i filosofi successivi, il solo Schelling ( Volume 2, Sezione 3, Unità 1,
Capitolo 3) si era ricollegato alla visione energetico-vitalistica leibniziana e aveva posto l’inconscio e la
coscienza razionale quasi sullo stesso piano nel determinare la realtà. Schopenhauer è il primo a dare
all’inconscio un valore assoluto, a considerarlo l’unica vera realtà, riservando alla coscienza razionale il ruolo
di superficiale epifenomeno e di inconsapevole mezzo per l’attuazione dei desideri inconsci. È una rivoluzione
di straordinaria importanza per lo sviluppo del pensiero successivo.
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 2
Tabella riassuntiva. Fichte e Schopenhauer: il dualismo ontologico.
Temi
Fichte
Schopenhauer
Spirito (sensibilità,
intelletto, ragione)
Io, atto puro, infinito e assoluto
(mente razionale)
Strutture nervose, cerebrali e psicologiche che
permettono la rappresentazione illusoria di oggetti
nello spazio, nel tempo e secondo la causalità

esse sono «prodotte» da

Natura
Non-Io, polo passivo dell’azione
infinita dell’Io (corpo, impulsi,
passioni)
Volontà (corpo, impulsi, passioni), desiderio
infinito, unico assoluto e indivisibile, attività infinita,
vera realtà
PARAGRAFO 4. IL «PANTEISMO» DELLA VOLONTÀ
La Volontà è una sorta di «divinità» tutta naturale e terrena, energia pura che si dispiega illimitatamente senza alcuno
scopo se non se stessa. È una, indivisibile e assoluta, non è soggetta al principium individuationis, che riguarda soltanto
le sue manifestazioni fenomeniche, ma si ramifica da un solo ceppo in tutte le specie e tutti gli individui dell’universo,
restando intera in ognuno di essi, totalmente immanente (panteismo della Volontà).
«Sappiamo che la pluralità in genere è necessariamente determinata da tempo e spazio, e può esser pensata solo in
questi, che noi per tal rispetto chiamiamo principium individuationis. Ma tempo e spazio abbiamo conosciuti come
forme del principio di ragione, nel qual principio si esprime tutta la nostra conoscenza a priori. E questa, come
abbiamo più sopra spiegato, appunto in quanto tale, si riferisce solo alla conoscibilità delle cose, non alle cose
stesse; ossia è solamente la nostra forma di conoscenza, non proprietà della cosa in sé. La cosa in sé, in quanto tale,
è libera da ogni forma della conoscenza, anche da quella più generale dell’essere oggetto per il soggetto; ossia è
qualcosa d’affatto diverso dalla rappresentazione. Ora, se la cosa in sé, com’io credo d’aver sufficientemente
provato e reso chiaro, è la Volontà, questa, considerata in quanto tale e isolata dal suo fenomeno, sta dunque fuori
del tempo e dello spazio, e non conosce quindi alcuna pluralità: essa è una. Non tuttavia, secondo ho già detto,
com’è uno un individuo o un concetto: bensì come alcunché, a cui sia estranea la condizione della pluralità
possibile, il principium individuationis. La pluralità delle cose nello spazio e nel tempo, che insieme formano la sua
obiettità, non tocca perciò la Volontà; e questa rimane, senza riguardo a quelli, indivisibile. [...] La Volontà si palesa
tutta e con egual forza in una quercia, come in milioni di querce. Il loro numero, la loro moltiplicazione nello spazio
e nel tempo, non ha significato alcuno rispetto a lei, ma solo rispetto alla pluralità degli individui conoscenti nello
spazio e nel tempo, ed appunto perciò moltiplicati e dispersi, ma la cui pluralità alla sua volta riguarda solo il
fenomeno della Volontà, non la Volontà medesima» (op. cit., vol. I, libro II, § 25).
Le idee o essenze. Ognuno dei gradi in cui la Volontà si manifesta corrisponde ad un’idea, o essenza, nel senso
platonico, cioè ad una forma permanente della forza cieca e assoluta che governa il mondo (nulla a che vedere con
l’idea / contenuto mentale della filosofia moderna):
«Sarà perciò materia d’ampia trattazione nel libro seguente un argomento, che già dev’essere qui affacciato con
forza ad ogni scolaro di Platone: che cioè questi differenti gradi d’obiettivazione del volere – i quali, espressi in
individui innumerevoli, stanno come gl’irraggiungibili modelli di questi; o come le forme eterne delle cose, senza
rientrar nel tempo e nello spazio, che sono il medium degli individui: stanno fermi, a nessun mutamento soggetti,
sempre esistenti, mai divenuti, mentre gl’individui nascono e periscono, sempre diventano e non mai sono – che,
dicevo, questi gradi d’oggettivazione della volontà altro non siano, se non le idee di Platone. […] Per idea intendo
adunque ogni determinato ed immobile grado di obiettivazione della volontà, in quanto esso è cosa in sé, e sta
quindi fuor della pluralità. Codesti gradi stanno ai singoli oggetti, come le loro forme eterne, o i loro modelli» (op.
cit., vol. I, libro II, § 25).
Quello di Schopenhauer è dunque un ritorno alla metafisica, che Kant aveva escluso dal proprio orizzonte teoretico. Si
tratta, comunque, di una metafisica laica, totalmente diversa da quella tradizionale, in quanto assolutizza la natura, la
22
Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 2
infinizza, ma la descrive come qualcosa che esiste di fatto, che non ha in sé né causalità né finalità, se non se stessa (
Approfondimenti). La sua infinitizzazione della natura risente delle concezioni romantiche, ma anche in questo caso le
differenze sono profonde e pressochè opposte: infatti, la tensione all’infinito che caratterizza tutti gli esseri, lo Streben
romantico, è per Schopenhauer uno sforzo vano e autolesionistico.
PARAGRAFO 5. IL CONFLITTO DELLA VOLONTÀ CON SE STESSA E L’UNIVERSALE
INFELICITÀ
Pessimismo cosmico. La Volontà, desiderio infinito e inappagabile, essendo tutta intera in ognuno dei suoi
fenomeni, è in costante conflitto con se stessa: tutti gli esseri, tutte le specie e tutti gli individui sono in lotta tra loro per
affermare la propria volontà, strappandosi a vicenda lo spazio, il tempo e la materia stessa di cui vivono. La natura è
guerra di tutti contro tutti e nella specie umana, che ha trionfato su tutte le altre, ogni uomo è lupo per l’altro uomo,
come già aveva visto Hobbes ( Volume2, Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1, Paragrafo 5):
«Così vediamo dappertutto nella natura contesa, battaglia, e alternanze di vittorie; ed in ciò appunto conosceremo
più chiaramente d’ora innanzi l’essenziale dissidio della verità da se medesima. Ogni grado nell’obiettivazione della
materia contende all’altro la materia, lo spazio, il tempo. Senza tregua deve la permanente materia mutar di forma,
mentre, seguendo il filo conduttore della causalità, fenomeni meccanici, fisici, chimici, organici, facendo
avidamente ressa per venire alla luce, si strappano l’un l’altro la materia stessa poiché ciascuno vuol rendere
manifesta la propria idea. Nella natura intera si continua questa lotta; anzi, solo per essa la natura sussiste [...]
essendo appunto questa lotta la rivelazione del dissidio essenziale tra la volontà e se stessa. Questa lotta universale
raggiunge la più chiara evidenza nel mondo animale, che ha per proprio nutrimento il mondo vegetale; […] In tal
modo la volontà di vivere divora perennemente se stessa, ed in diversi aspetti si nutre di sé, finché da ultimo la
specie umana, avendo trionfato di tutte le altre, ritiene la natura creata per proprio uso. E nondimeno questa stessa
specie umana, come vedremo nel quarto libro, rivela ancora con terribile evidenza in se medesima quella lotta, quel
dissidio della volontà; e diventa homo homini lupus» (op. cit., vol. I, libro II, § 27).
L’intero universo è continuo conflitto, contraddizione che non può trovare alcuna sintesi e genera infelicità per tutti gli
esseri. È il cosiddetto pessimismo cosmico, che ha molti punti di contatto con quello leopardiano ( Capitolo 1,
Paragrafo 2), anche se l’approdo dei due pensatori è notevolmente diverso.
Pendolo tra noia e dolore. In questo contesto, la condizione umana appare particolarmente misera, poiché
l’infinità e l’assolutezza del desiderio non può trovare appagamento in alcun oggetto finito e relativo; inoltre il desiderio
è di per sé bisogno, mancanza e dunque sofferenza:
«Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine l’appagamento;
tuttavia per un desiderio, che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre, la brama dura a
lungo, le esigenze vanno all’infinito, l’appagamento è breve e misurato con mano avara. Anzi, la stessa
soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo […]. Nessun oggetto
del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole, che più non muti: bensì rassomiglia soltanto
all’elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento» (op, cit.,
vol. II, libro III, § 38).
Il piacere è solo interruzione di uno stato costante di dolore, è solo negazione della sofferenza:
«Qualsiasi soddisfacimento, o ciò che in genere suol chiamarsi felicità, è propriamente e sostanzialmente sempre
negativo, e mai positivo. Non è una sensazione di gioia spontanea, e di per sé entrata in noi, ma sempre bisogna che
sia l’appagamento d’un desiderio. Imperocché desiderio, ossia mancanza, è la condizione preliminare d’ogni
piacere. Ma con l’appagamento cessa il desiderio, e quindi anche il piacere» (op. cit., vol. II, libro IV, § 58).
E comunque al piacere presto succede la noia, quel sottile senso di insoddisfazione che segue ad una gratificazione
(tema pascaliano  Volume 2, Sezione 2, Unità 3 ,Capitolo 1, ripreso anche da Leopardi):
«E la noia è tutt’altro che un male di poco conto: ché finisce con l’imprimere vera disperazione sul volto. […] Come
il bisogno è il perpetuo flagello del popolo, così è flagello la noia per le classi elevate. Nella vita borghese è
rappresentata dalla domenica, come il bisogno dai sei giorni di lavoro» (op. cit., vol. II, libro IV, § 57).
Sotto l’aspetto spirituale la vita di tutti gli esseri umani «oscilla quindi come un pendolo, […], tra il dolore e la noia, che
sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi».
Sotto l’aspetto fisico «è chiaro che, come il nostro camminare si sa essere nient’altro che un costantemente trattenuto
cadere, così la vita del nostro corpo è un costantemente trattenuto morire, una morte sempre rinviata», inutilmente
23
Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 2
rinviata, poiché «alla fine la morte deve vincere: perché a lei apparteniamo già pel fatto d’essere nati, ed ella non fa che
giocare alcun tempo con la sua preda, prima d’inghiottirla. Frattanto continuiamo la nostra vita con grande interesse e
gran cura, fin quando è possibile, come si gonfia più a lungo e più voluminosamente che si può una bolla di sapone, pur
con la ferma certezza che scoppierà» (ibidem).
Pessimismo storico. Quanto alla storia, essa non è altro che il regno del caos più totale, dove l’irrazionalità delle
manifestazioni della volontà umana si manifesta in modo evidente. Siamo all’opposto del panlogismo hegeliano (
Volume 2, Sezione 3, Unità 2, Capitolo 2):
«Ciascuno, che si sia svegliato dai primi sogni di giovinezza, e abbia osservato la propria e l’altrui esperienza, e
guardato intorno nella vita, nella storia del passato e del tempo suo, come infine nelle opere dei grandi poeti, troverà
per risultanza, quando un pregiudizio incancellabilmente impresso non paralizzi il suo giudizio, che quest’umano
mondo è il regno del caso e dell’errore, i quali senza pietà vi imperano, nelle grandi come nelle piccole cose; e
accanto a quelli agitano inoltre follia e malvagità la sferza. Di là deriva, che ogni cosa buona si faccia strada solo a
fatica, e alcunché di nobile e di saggio ben raramente venga alla luce, raggiungendo efficacia o attenzione; mentre
l’assurdo e lo stolto nel dominio del pensiero, il triviale e lo scipito nel dominio dell’arte, il malvagio e l’insidioso
nel dominio delle azioni, soli tengono il campo appena turbati da brevi interruzioni. E viceversa l’eccellenza in ogni
genere è sempre un’eccezione, un caso tra milioni; sì che, quando s’è manifestata in un’opera durevole, questa, dopo
esser sopravvissuta al rancore dei suo contemporanei, rimane isolata, e la si conserva come un aerolito, caduto da un
ordine di cose diverso da quello che qui regna. […] Donde ha preso Dante la materia del suo inferno, se non da
questo nostro mondo reale? E nondimeno n’è venuto un inferno bell’e buono. Quando invece gli toccò di descrivere
il cielo e le sue gioie, si trovò davanti a una difficoltà insuperabile: appunto perché il nostro mondo non offre
materiale per un’impresa siffatta. Perciò non gli rimase se non trasmetterci, in luogo delle gioie paradisiache, gli
ammaestramenti, che a lui furono colà impartiti dal suo antenato, dalla sua Beatrice, e da differenti santi. Da ciò
apparisce abbastanza chiaro, di qual natura sia questo mondo» (op. cit., vol. II. Libro IV, § 59).
PARAGRAFO 6. LA LIBERAZIONE PARZIALE DALLA VOLONTÀ: ARTE E MORALE
La liberazione dal dolore che contrassegna la condizione umana e universale può passare soltanto attraverso la
negazione, parziale o totale, della Volontà, del bisogno e del desiderio. Schopenhauer elabora così una sorta di vera e
propria terapia psicologica, composta di tre gradi: arte, morale e noluntas.
Ma questa triade non ha nulla a che vedere con le triadi dialettiche hegeliane: tra i diversi livelli della liberazione non vi
è alcun nesso dialettico, né legame necessario di continuità ( Approfondimenti).
L’arte. La prima possibilità di liberazione è costituita dall’arte, in cui l’individuo diviene puro soggetto che
contempla, in modo disinteressato e non utilitaristico, le essenze (o idee) della Volontà, che l’arte rappresenta. Occorre
abbandonare le illusioni della ragione astratta e lasciarsi prendere dall’intuizione pura dell’oggetto, divenire tutt’uno
con esso, sciogliendo i legami con il proprio egoico bisogno e desiderio, perdere la propria soggettività individuale
divenendo soggetto puro di contemplazione dell’oggetto (paesaggio, albero, roccia, edificio, ecc.); e questo a sua volta
non è più la singola cosa (non più quel paesaggio, quell’albero, quella roccia, quell’edificio, ecc.) ma si trasforma, per il
nostro occhio che è puro sguardo, nell’idea, nell’essenza pura, nell’oggettivazione della volontà in quel grado
dell’essere. Così l’esperienza estetica annulla, almeno per il tempo intenso della contemplazione, ogni legame con la
Volontà e con i suoi fenomeni.
«Il passaggio dalla volgar conoscenza di singoli oggetti alla conoscenza dell’idea […] avviene [nell’intuizione
estetica] d’un subito, pel fatto che la conoscenza si scioglie dal servigio della volontà, e appunto perciò il soggetto
cessa di essere semplicemente individuale, diventando soggetto puro della conoscenza, privo di volontà. [...] se non
lasciamo che il pensare astratto, i concetti della ragione s’impadroniscano della coscienza, bensì viceversa tutta la
forza dello spirito nostro diamo all’intuizione, in questa ci sprofondiamo, e la coscienza intera lasciamo riempire
dalla tranquilla contemplazione dell’oggetto naturale che ci sta innanzi, sia esso un paesaggio, un albero, una roccia,
un edifizio o quel che si voglia, allor che [...] ci si perde appieno in quell’oggetto, ossia si dimentica il proprio
individuo, la propria volontà, e si rimane nient’altro che soggetto puro, chiaro specchio dell’oggetto, come se
l’oggetto solo esistesse, senza che alcuno fosse là a percepirlo, né più è possibile separare colui che intuisce
dall’intuizione stessa, poiché sono diventati tutt’uno essendo l’intera coscienza riempita e presa da una sola
immagine d’intuizione; allora quel che viene così conosciuto non è più la singola cosa come tale, ma è l’idea,
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 2
l’eterna forma, la diretta oggettità della volontà in quel grado. E perciò appunto non è più individuo quegli che è
assorto in tale intuizione, poiché proprio l’individualità vi s’è perduta. Egli è invece puro soggetto della conoscenza,
fuori della volontà, del dolore, del tempo» (op. cit., vol. II, libro III, § 34).
Tra tutte le arti un posto di rilievo spetta alla tragedia, che rappresenta nel modo più efficace il dolore storico e
cosmico, ponendosi come uno dei culmini della funzione liberatoria, catartica, purificatrice dell’esperienza estetica (
Approfondimenti).
La musica. Altro culmine è la musica, pura volontà oggettivata e rappresentata, linguaggio della volontà stessa,
desiderio, emozione, passione, direttamente espresse, non attraverso la mediazione delle idee o essenze, di cui
costituisce invece l’equivalente estetico:
«La musica è dell’intera volontà oggettivazione e immagine, tanto diretta com’è il mondo; o anzi come sono le idee:
il cui fenomeno moltiplicato costituisce il mondo dei singoli oggetti. La musica non è quindi affatto, come le altre
arti, l’immagine delle idee, bensì immagine della volontà stessa, della quale sono oggettità anche le idee. Perciò
l’effetto della musica è tanto più potente e insinuante di quel delle altre arti: imperocché queste ci danno appena il
riflesso, mentre quella esprime l’essenza. [… ] Ella narra la storia della volontà illuminata dalla riflessione, volontà
che si manifesta nel reale con la serie degli atti suoi, ma dice di più, narra della volontà la storia più segreta, ne
dipinge ogni emozione, ogni tendenza, ogni moto […]. Perciò fu sempre detto esser la musica il linguaggio del
sentimento e della passione, come le parole sono il linguaggio della ragione» (ibidem, § 52).
Se si potesse prolungare all’infinito l’esperienza della contemplazione estetica, essa basterebbe a liberarci dalla volontà
e dal dolore, ma purtroppo si tratta di esperienza effimera, proprio perché intensa: prolungarla significherebbe diluirla e
farle perdere la sua forza.
Queste teorie estetiche di Schopenhauer, che rielaborano e portano a compimento spunti presenti già nell’estetica del
Settecento, nella kantiana Critica del giudizio e nell’idealismo di Schelling, ebbero grande influenza lungo il corso
dell’Ottocento e oltre ( Approfondimenti).
La morale. Il secondo percorso che può integrare il primo, o svolgersi in modo del tutto autonomo da esso, è
costituito dalla morale, che si incarna nelle due forme della giustizia e della pietà.
1. Praticare la giustizia non ha un valore positivo. Non ci si illuda di poter cambiare il mondo, neppure
minimamente. Si tratta soltanto di assumere un atteggiamento negativo: cioè di rifiutare l’ingiustizia, evitare di
compiere verso gli altri quegli atti di cui non vorremmo essere vittima noi stessi. È una forma di altruismo che
evita di provocare dolore ai nostri simili e ci distoglie in parte dai nostri bisogni. Non deriva da un kantiano
imperativo categorico razionale ( Volume 2, Sezione 2, Unità 8, Capitolo 2), che non potrebbe mai
contrastare la Volontà di cui è espressione, bensì da un sentimento di partecipazione al comune destino di tutti
gli esseri.
2. Tale sentimento è la pietà, la quale è innanzitutto compassione, cum-patire, cioè partecipazione al dolore
dell’umanità e dell’universo. È l’unica possibile forma d’amore, l’unica forma di altruismo parzialmente
costruttivo (invece, l’amore legato alla sessualità è una delle più potenti manifestazioni della Volontà). Anche
in questo caso, si tratta comunque soprattutto di negare e superare l’individualismo attraverso l’assunzione del
dolore di altri, non di fare del bene. La pietà non elimina il dolore altrui, ma fa uscire l’individuo da se stesso,
dall’orizzonte angusto dei propri bisogni e desideri.
PARAGRAFO 7. LA LIBERAZIONE TOTALE DALLA VOLONTÀ: LA «NOLUNTAS»
Il grado più alto della liberazione è la noluntas, cioè l’annullamento totale della volontà, di tutti i desideri e bisogni che
non siano strettamente indispensabili alla vita fisica.
Il rifiuto del suicidio. La morte sarebbe la liberazione definitiva, ma non potrebbe esserlo il suicidio. Esso, infatti,
costituisce il rifiuto di una particolare forma di vita, di una determinata manifestazione oggettiva della Volontà, non
l’annullamento della Volontà stessa.
La noluntas invece richiede un percorso simile a quello dell’ascetismo cristiano, induista o buddhista, la rinuncia, il
sacrificio, la riduzione dei bisogni.
La castità. Il primo grado è la castità assoluta per interrompere il ciclo delle generazioni. Il rifiuto dell’eros, della
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 2
sessualità e del matrimonio sono fondamentali aspetti della lotta al desiderio. L’amore sessuale è un’illusione, favole le
parole che si dicono gli innamorati: l’eros è lo strumento raffininatissimo della perpetuazione della Volontà, l’amore
romantico è soltanto desiderio sessuale mascherato, il cui scopo naturale è la procreazione ( Approfondimenti).
L’ascesi e il nulla. Poi vengono altri gradi dell’ascesi: la povertà, per assuefarsi a non dipendere più dalle cose ,
dagli oggetti del desiderio. E ancora il digiuno, la rinuncia ai piaceri, la riduzione progressiva dei bisogni, la ricerca
dello spiacevole e del doloroso.
Il punto d’arrivo è lo stato di grazia dei santi cristiani, che culmina nell’estasi, la fusione con Dio; o il nirvana
buddhista ( Approfondimenti), lo spegnimento totale del desiderio, l’annullamento del bisogno e del dolore,
l’indifferenza per la vita. Non è il nulla assoluto, è il nihil relativum che annienta la Volontà , la forza cieca che domina
tutte le manifestazioni fenomeniche dell’essere.
Bisogna dire che annullando la Volontà, anche tutti i suoi fenomeni sono annullati, anche le rappresentazioni illusorie in
cui si manifesta scompaiono. Non c’è più il vano affannarsi di tutte le cose per ottenere qualcosa che non placa mai il
bisogno. Non più minerali, vegetali, animali. Non più spazio, tempo e causalità. Scompaiono anche il soggetto e
l’oggetto.
Che cosa resta per chi raggiunge questo stato? La pacificazione, la serenità d’animo, la calma e la quiete. Non se ne può
dare una descrizione filosofica, si può solo viverla come un’esperienza diretta. Si può, tuttavia, farsene un’idea
guardando le espressioni di beatitudine dipinte sui volti dei santi, come li hanno rappresentati i grandi artisti. Per loro
che hanno raggiunto la noluntas, quel che noi persone comuni consideriamo tanto reale, questo immenso universo
fisico, per loro proprio tutto questo è nulla.
L’ultimo brano di Schopenhauer è di un’intensità tale che vale davvero la pena di essere letto:
«Se si volesse tuttavia insistere nel pretendere in qualche modo una cognizione positiva di ciò, che la filosofia può
esprimere solo negativamente, come negazione della volontà, non potremmo far altro che richiamarci allo stato di
cui fecero esperienza tutti coloro, i quali pervennero alla completa negazione della volontà; stato al quale si son dati
i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione con Dio, e così via. Ma tale stato non può chiamarsi cognizione
vera e propria, perché non ha più la forma del soggetto e dell’oggetto, e inoltre è accessibile solo all’esperienza
diretta, né può essere comunicato altrui.
Noi, che restiamo fermi sul terreno della filosofia, dobbiamo qui contentarci della conoscenza negativa, paghi d’aver
raggiunto il limite estremo della positiva. Avendo riconosciuto nella volontà l’essenza in sé del mondo, e in tutti i
fenomeni del mondo null’altro che l’oggettità di lei; avendo quest’oggettità perseguito dall’inconsapevole impulso
delle oscure forze naturali fino alle più lucide azioni umane, non vogliamo affatto sfuggire alla conseguenza: che
con la libera negazione, con la soppressione della volontà, vengono anche soppressi tutti quei fenomeni e quel
perenne premere e spingere senza mèta e senza posa, per tutti i gradi dell’oggettità, nel quale e mediante il quale il
mondo consiste; soppressa la varietà delle forme succedentisi di grado in grado, soppresso, con la volontà, tutto
intero il suo fenomeno; poi finalmente anche le forme universali di quello, tempo e spazio; e da ultimo ancora la più
semplice forma fondamentale di esso, soggetto e oggetto. Non più volontà: non più rappresentazione, non più
mondo.
Davanti a noi non resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella contro codesto dissolvimento nel nulla, la nostra
natura, è anch’essa nient’altro che la volontà di vivere. Volontà di vivere siamo noi stessi, volontà di vivere è il
nostro mondo. L’aver noi tanto orrore del nulla, non è se non un’altra manifestazione del come avidamente
vogliamo la vita, e niente siamo se non questa volontà, e niente conosciamo se non lei. Ma rivolgiamo lo sguardo
dalla nostra personale miseria e dal chiuso orizzonte verso coloro, che superarono il mondo; coloro, in cui la
volontà, giunta alla piena conoscenza di sé, se medesima ritrovò in tutte le cose e quindi liberamente si rinnegò;
coloro, che attendono di vedere svanire ancor solamente l’ultima traccia della volontà col corpo, cui ella dà vita.
Allora, in luogo dell’incessante, agitato impulso; in luogo del perenne passar dal desiderio al timore e dalla gioia al
dolore; in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, ond’è formato il sogno di vita d’ogni uomo ancor
volente: ci appare quella pace che sta più in alto di tutta la ragione, quell’assoluta quiete dell’animo pari alla calma
del mare, quel profondo riposo, incrollabile fiducia e letizia, il cui semplice riflesso nel volto, come l’hanno
rappresentato Raffaello e Correggio, è un completo e certo Vangelo.
[...] [Q]uel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà
ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo
nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla» (op. cit., vol. II, libro IV, § 71).
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 3
CAPITOLO 3. SØREN KIERKEGAARD
Dalla ragione dialettica hegeliana, in cui tutte le contraddizioni vengono superate da una sintesi superiore
prende le distanze anche Kierkegaard, precursore dell’Esistenzialismo. Il filosofo danese rimprovera
all’idealismo di essersi occupato soltanto dell’universale e dell’essenza, trasformandole in assoluti, mentre il
compito della filosofia è di occuparsi dell’esistenza individuale. Dal punto di vista dell’umanità, tutto si spiega
e si giustifica, ma le vere contraddizioni riguardano le possibilità e le scelte dei singoli, che hanno bisogno di
un autentico Assoluto, cui si accede, oltre la razionalità, soltanto con la fede.
PARAGRAFO 1. IL SINGOLO, L’ESISTENZA E LA POSSIBILITÀ
Se le teorie di Schopenhauer si imposero tardivamente nell’Ottocento, per il dominio incontrastato della filosofia
hegeliana, quelle di Kierkegaard (nell’immagine il suo ritratto, opera del 1840 di Niels Christian Kierkegaard,
conservato alla Royal Library of Denmark, tra i Kierkegaard
Manuscripts) rimasero quasi completamente sconosciute fino ai primi
decenni del Novecento, quando conobbero una potente rinascita.
Molti dei temi del filosofo danese, pensatore profondamente religioso,
sono assimilabili alla filosofia di Pascal ( Volume 2, Sezione 2, Unità
3, Capitolo 1), ma assumono un particolare rilievo per la decisa
contrapposizione alla ragione dialettica hegeliana.
Kierkegaard non intende confutare Hegel nel merito delle sue dottrine,
che anzi considera perfette nel loro rigore sistematico. Ma esse
riguardano soltanto l’umanità storica, assunta come universale e
identificata con l’assoluto. Non si occupano affatto degli individui, dei
loro problemi, delle loro esistenze oncrete, delle loro scelte contingenti.
Qualunque scelta compia un individuo, dal punto di vista della storia
dell’umanità, essa risulta irrilevante e insignificante, dato che qualunque
tesi trova sempre la propria antitesi e tutte le contraddizioni si
ricomporranno in una sintesi. Hegel, infatti, studia l’essenza umana e si
disinteressa dell’esistenza dei singoli individui.
Il guaio è che la realtà è costituita proprio di individui singoli, con le loro
esistenze contingenti, con le loro scelte importanti, che pesano sul loro
destino personale.
La filosofia come scienza suprema, come sapere assoluto non ha nulla da
dire sul singolo e sulla sua esistenza, poiché studia la necessità della storia ma ignora le possibilità che si presentano
all’individuo e che gli chiedono una scelta consapevole e responsabile.
Kierkegaard intende rovescire il punto di vista e oltrepassare questo tipo di filosofia della ragione dialettica, in cui tutto
è universalità, essenza e necessità per interrogarsi sulla singolarità, l’esistenza e la possibilità. Queste sono le tre nuove
categorie filosofiche.
«“Il Singolo” è la categoria attraverso la quale devono passare – dal punto di vista religioso – il tempo, la storia,
l’umanità. […] se io dovessi domandare un epitaffio per la mia tomba, non chiederei che «Quel Singolo» – anche se
ora questa categoria non è capìta. Lo sarà in seguito. Con questa categoria «il Singolo», quando qui tutto era sistema
su sistema, io presi polemicamente di mira il sistema, ed ora di sistema non si parla più. A questa categoria è legata
assolutamente la mia possibile importanza storica. I miei scritti saranno forse presto dimenticati, come quelli di
molti altri. Ma se questa categoria era giusta, se questa categoria era al suo posto, se io qui ho colpito nel segno, se
ho capito bene che questo era il mio compito, tutt’altro che allegro e comodo e incoraggiante: se mi sarà concesso
questo, anche a prezzo di inenarrabili sofferenze interiori, anche a prezzo di indicibili sacrifici esteriori: allora io
rimango, e i miei scritti con me» (S. Kierkegaard, Diario, 1327).
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 3
SØREN KIERKEGAARD. VITA E OPERE
Søren Aabye Kierkegaard (Copenaghen, 5 Maggio 1813 – Copenaghen, 11 Novembre 1855). Nato dal
ricco commerciante Michael Pedersen e dalla sua seconda moglie Ane Lund, visse la quasi totalità
della sua esistenza a Copenaghen. Fu l’ultimo di sette fratelli, cinque dei quali morirono quando lui era
ancora ventenne. Egli fu educato dal padre anziano in un’atmosfera di severa religiosità. Arrivò,
addirittura, a pensarsi soggetto a una maledizione divina, per una imprecisata grave colpa, rimasta
sempre oscura, commessa, in passato, da suo padre. Infatti, la morte prematura della moglie e di
cinque dei suoi sette figli, avevano convinto il padre di Kierkegaard. che egli aveva attirato su di sé l’ira
divina.
Studiò Teologia nell’Università della sua città natale, con la prospettiva, poi non realizzata, di diventare
pastore protestante. Nel 1840, dopo aver sostenuto un esame di Teologia che lo abilitava alla carriera
ecclesiastica, aveva compiuto un viaggio nello Jutland, per rimettersi da una grave forma di
esaurimento nervoso; al ritorno, si fidanzò con la diciottenne Regine Olsen (da lui descritta con toni
angelicati), ma, dopo circa un anno, ruppe il fidanzamento. Forse era attratto da una vocazione di
consacrazione religiosa, o forse non voleva ingannare la ragazza, avendo il timore ossessivo che la
maledizione divina potesse gravare anche sulla famiglia che egli avrebbe formato insieme a lei. Regina
Olsen si disse pronta a tutto pur di sposarlo, ma egli fece il possibile per apparirle disgustoso, in modo
che cadesse su di lui la colpa della rottura del fidanzamento, che, peraltro, gli procurò rimpianto per
tutta la vita.
Nel 1841 ascoltò Schelling a Berlino, rimanendone, dapprima, entusiasta, poi deluso. Lo stesso anno si
laureò in Filosofia, con una tesi intitolata Sul concetto di ironia in costante riferimento a Socrate.
Condusse un’esistenza appartata, anche a causa del suo temperamento scontroso e poco socievole.
Gli unici fatti rilevanti della sua vita furono gli attacchi che gli vennero mossi dal giornale satirico Il
corsaro e la polemica contro l’opportunismo e il conformismo religioso, che egli condusse, nell’ultimo
anno della sua vita, in una serie di articoli pubblicati sul periodico Il momento. Su Il corsaro, apparve
più volte ritratto in maligne caricature e fu aspramente preso in giro. Il giornale sarà chiuso dal governo
e il direttore espulso dal paese per «indegnità morale», ma Kierkegaard rimase profondamente
amareggiato. Nella polemica che egli condusse contro il conformismo religioso, accusava la Chiesa
danese e, in particolare, il vescovo luterano Mynster e il suo successore «hegeliano» Martensen, di
essere mondani e di aver tradito gli insegnamenti originari di Cristo. Il 20 Ottobre 1855 si accasciò per
strada, forse colto da una paralisi: trasportato all’ospedale, morì l’11 Novembre, a soli quarantadue
anni.
Le sue principali opere (pubblicate con vari pseudonimi, come Constantin Constantius, Victor Eremita,
Johannes de Silentio, Anti-Climacus): Diario (Papirer, 1834-1855), Aut-aut (Enten-Eller, 1843), Diario
del seduttore (1841), Timore e tremore (1843), II concetto dell’angoscia (1844), La malattia mortale
(1849).
La dialettica dell’aut-aut. Queste nuove categorie rifiutano la dialettica dell’et-et, della ricomposizione tra scelte
contrapposte che, nella storia dell’umanità coesistono e realizzano addirittura una sintesi. Aprono invece la strada alla
dialettica dell’aut-aut, la dialettica cui si trova di fronte il singolo individuo, quella delle possibilità contrapposte che si
escludono a vicenda, tra le quali occorre, a volte drammaticamente, scegliere e che non si possono ricomporre in unità.
«Il compito del pensiero soggettivo è di comprendere se stesso nell’esistenza. Il pensiero astratto parla senza dubbio
della contraddizione e dell’urto immanente della contraddizione, benché esso, astraendo dall’esistenza e
dall’esistere, tolga la difficoltà e la contraddizione. Ma il pensatore soggettivo è un esistente, eppure è un pensante:
egli non astrae dall’esistenza e dalla sua contraddizione, ma ci si trova dentro, e tuttavia deve pensare. In tutto il suo
pensare egli deve pensare insieme di essere egli stesso un esistente. Ma allora egli avrà sempre a sua volta
abbastanza da pensare. Con la pura umanità si è presto alla fine e così anche con la storia universale, perché quelle
enormi porzioni come la Cina, la Persia, ecc., quel mostro affamato ch’è il processo cosmico-storico le ingoia come
fossero una bazzecola. […]
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 3
Se non si vuol credere che ci siano difficoltà a comprendere se stessi nell’esistenza mediante il pensiero, farei, per
mio conto, più che volentieri il tentativo seguente: che uno dei nostri pensatori sistematici s’impegni a spiegarmi
anche solo uno dei più semplici problemi dell’esistenza. Sono dispostissimo a concedere che sono indegno di
contare qualcosa in una raccolta di libri sistematici a petto di simili personaggi. Sono disposto a concedere che i
compiti del pensiero sistematico sono ben più grandi, e che simili pensatori stanno molto al di sopra di un pensatore
soggettivo: ma se le cose stanno veramente così, essi devono allora poter benissimo spiegare anche le cose semplici.
A differenza del pensiero astratto che mira a comprendere il concreto astrattamente, il pensatore soggettivo mira
invece a comprendere l’astratto concretamente. Il pensiero astratto astrae dagli uomini concreti un uomo puro; il
pensatore soggettivo comprende l’astratto essere uomo nel concreto, nell’essere questo singolo uomo esistente. […]
Che il linguaggio dell’astrazione non lasci veramente apparire la difficoltà dell’esistente e dell’esistenza, cercherò di
spiegarlo a proposito di una questione decisiva, di cui si è molto parlato e scritto. Com’è noto, la filosofia hegeliana
ha tolto il principio di contraddizione e più d’una volta Hegel stesso ha citato al suo severo tribunale quei pensatori
che rimanevano nella sfera dell’intelletto e della riflessione e che di conseguenza affermavano che c’è un aut-aut. Da
allora è diventato un gioco molto apprezzato che appena qualcuno fa allusione a un aut-aut, ecco arrivare
trotterellando a cavallo un hegeliano [...], che ottiene la vittoria e se ne ritorna di corsa a casa. [...].
Eppure sembra che alla base di questa battaglia e di questa vittoria ci sia un equivoco. Hegel ha perfettamente e
assolutamente ragione: dal punto di vista dell’eternità, sub specie aeterni, nel linguaggio dell’astrazione, nel puro
pensiero e nel puro essere, non c’è alcun aut-aut. Come diavolo potrebbe esserci, se per l’appunto l’astrazione
rimuove la contraddizione? Hegel e gli hegeliani dovrebbero piuttosto prendersi l’incomodo di spiegare cosa
significa questa commedia, l’introdurre nella logica la contraddizione, il movimento, il passaggio ecc. I difensori
dell’aut-aut hanno torto quando invadono il campo del pensiero puro e vogliono difendere in esso la propria causa.
[…]
D’altra parte Hegel ha anche completamente torto quando, dimenticando l’astrazione, la pianta in asso e si precipita
nell’esistenza per eliminarvi di prepotenza il doppio aut. Infatti è impossibile far questo nell’esistenza, perché allora
io sopprimo nello stesso tempo l’esistenza. [...] Si possono forse, all’interno del pensiero puro, fare molte obbiezioni
contro la concezione hegeliana, ma tutto questo lascia intatta l’essenza del problema. Ma per quanto io sia disposto,
come modesto lettore che non pretende affatto di far da giudice, ad ammirare la Logica di Hegel, per quanto sia
disposto a concedere che per me ci può essere molto da imparare se ci ritorno su ancora, tuttavia sarò altrettanto
fiero, tenace, ostinato e intrepido nel mio atto di accusa: che la filosofia hegeliana, evitando di determinare il suo
rapporto con l’esistente, ignorando l’etica, mette la confusione nell’esistenza» (S. Kierkegaard, Postilla conclusiva
non scientifica, vol. II).
PARAGRAFO 2. LA POSSIBILITÀ E L’ANGOSCIA
C’è un sentimento originario e fondamentale in cui l’esistenza si rivela come possibilità: essa è l’angoscia. Non si tratta
dell’angoscia come può venir comunemente intesa, che magari può esser detta meglio paura o ansia o preoccupazione.
Tutti questi sentimenti hanno un oggetto esterno: si ha paura, ansia o preoccupazione di o per qualcosa che può
accadere. Ma l’angoscia esistenziale non ha oggetto, è angoscia di sé in quanto possibilità infinita, sospesa tra il tutto e
il nulla, tra la gratificazione e il fallimento, tra la salvezza e la perdizione.7
Solo nell’angoscia ci è rivelata la sostanza autentica della possibilità, secondo la quale tutto davvero è possibile. Solo
l’uomo può provare angoscia, poiché solo l’uomo è sintesi tra corpo e anima spirituale ed è il solo esistente tra gli
esseri: ex-siste, cioè è posto fuori da ogni necessità storica, logica o metafisica. Esseri superiori o inferiori, angeli o
animali non vivono l’angoscia, gli uni perché puri spiriti, gli altri perché dotati di un’anima inferiore. Soltanto l’uomo è
libero di scegliere se stesso, di determinare da sé la propria sorte:
«In una favola del Grimm si racconta di un ragazzo che andò in cerca di avventure per imparare a sentire l’angoscia.
Lasciamo andare quell’avventuriere senza domandare in quale modo egli per la strada potesse imbattersi nel
terribile. Vorrei dire, però, che questo – cioè l’imparare a sentire l’angoscia – è un’avventura attraverso la quale
deve passare ogni uomo, affinché non vada in perdizione, o per non essere mai stato in angoscia o per essersi
7
Le ascendenze pascaliane ( Volume 2, Sezione 2, Unità 3, Capitolo 1, Paragrafo 4) sono molto
forti ed echeggiano in molti temi della filosofia di Kierkegaard. Del resto abbiamo richiamato a suo tempo
l’importanza di Pascal come lontano precursore dell’Esistenzialismo religioso.
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 3
immerso in essa; chi invece imparò a sentire l’angoscia nel modo giusto, ha imparato la cosa più alta. Se l’uomo
fosse un animale o un angelo, non potrebbe angosciarsi. Poiché è una sintesi [di anima e corpo] egli può angosciarsi,
e più profonda è l’angoscia più grande è l’uomo; non l’angoscia, come gli uomini l’intendono di solito, cioè
l’angoscia che riguarda l’esteriore, ciò che sta fuori dell’uomo, ma l’angoscia ch’egli stesso produce […] L’angoscia
è la possibilità della libertà; […] Colui ch’è formato dall’angoscia, è formato mediante possibilità; e soltanto chi è
formato dalla possibilità, è formato secondo la sua infinità. Perciò la possibilità è la più pesante di tutte le categorie.
[…] nella possibilità tutto è ugualmente possibile e chi fu realmente educato mediante la possibilità, ha compreso
tanto il lato terribile quanto quello piacevole. Se un tale esce dalla scuola delle possibilità sapendo, meglio che non
un bambino il suo ABC, ch’egli dalla vita non può pretendere assolutamente nulla e che il lato terribile, la
perdizione, l’annientamento, abita con ogni uomo a porta a porta, e se ha tratto profitto dall’esperienza che
l’angoscia, di cui egli si angosciava, lo assale nel momento seguente, allora darà alla realtà un’altra spiegazione;
esalterà la realtà, e anche quando essa pesa grave sopra di lui, si ricorderà ch’essa è molto più leggera di quanto non
fosse la possibilità» (S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia).
L’angoscia è come quella vertigine che ci coglie di fronte all’abisso, è quella sottile inquietudine con cui si percepisce
la responsabilità delle proprie scelte di fronte a se stessi, lo smarrimento che si prova nella consapevolezza che la scelta
è la decisione sul nostro destino:
«L’angoscia si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso, è preso dalla vertigine. Ma la
causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso: perché deve guardarvi. Così l’angoscia è la vertigine della libertà,
che sorge mentre lo spirito sta per porre la sintesi, e la libertà, guardando nella sua propria possibilità, afferra il
finito per fermarsi in esso. In questa vertigine la libertà cade» (ibidem).
PARAGRAFO 3. L’ESISTENZA: STADIO ESTETICO E STADIO ETICO
Se l’esistenza è scelta e le possibilità si presentano sotto infinite forme, tuttavia il problema fondamentale del singolo è
quello della scelta che dà senso a tutta l’esistenza, la scelta che determina un progetto di vita.
In questa prospettiva, Kierkegaard individua tre possibili scelte esistenziali, che chiama stadi dell’esistenza.
Si tratta di tre percorsi di vita che si trovano su livelli diversi, che corrispondono ai tre livelli della realtà, la dimensione
dell’individuale, dell’universale e dell’assoluto. I tre livelli non hanno alcuna connessione dialettica: cioè non vi è
progressione dall’uno all’altro, non vi è possibilità di sintesi.
In altre parole, gli stadi dell’esistenza sono tre percorsi divergenti, scelte di vita alternative l’una all’altra, separate da
una sorta di abisso, che è raffigurato nella dialettica dell’aut-aut.
Insomma, di fronte al problema dell’esistenza si deve scegliere ed ogni scelta è un’esclusione. Percorrere una delle
strade esclude le altre, senza che sia possibile alcuna comprensazione. Si può cambiare strada, modificare il proprio
progetto esistenziale, ma solo mediante un salto, non con passaggi graduali.
Lo stadio estetico. Il primo stadio è quello estetico e ne è simbolo concreto la figura del seduttore, che ha nel
Don Giovanni della letteratura e della musica la sua massima incarnazione 8. Dal punto di vista filosofico, il seduttore è
quell’individuo che vive sul piano della pura individualità. Ricerca soltanto il piacere nella sua forma più intensa e
raffinata: in qualche modo fa collezione di realtà individuali o particolari (persone da sedurre, momenti piacevoli da
vivere) ricercando la sensualità, la bellezza e l’eleganza. Non supera mai il livello della concretezza del presente, del
momento in cui consuma il massimo piacere possibile.
Non conosce altre dimensioni della realtà:
 quella universale della legge e dell’etica la ignora, poiché l’unica legge è il suo appagamento, non ricononosce
nemmeno regole sociali, poiché non vive in società veramente: si rapporta, infatti, soltanto a singoli individui,
che usa e consuma a proprio vantaggio;
 anche quella assoluta gli è totalmente estranea, poiché egli assolutizza, in modo peraltro inconsapevole,
soltanto i singoli momenti del proprio piacere.
Il seduttore, a rigore, non è davvero una persona, non costruisce la propria identità individuale: egli si frantuma in tante
differenti caratteristiche, variabili a seconda dei contesti in cui si immerge o degli individui che seduce: per riuscire
8
Kierkegaard sviluppa il tema dello stadio estetico in modo complesso e individua vari sottostadi che
sono simboleggiati da altri personaggi, come ad esempio, il Faust ( Approfondimenti).
30
Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 3
nell’impresa non può mai essere se stesso, ma deve costantemente moltiplicarsi per piacere agli altri e per raggiungere il
piacere, in cui perdersi volta per volta, senza poter costruire una continuità, senza neppure aver memoria di sé, della
propria storia. Il piacere deve essere vissuto nel singolo momento assolutizzato, non può avere storia e continuità, per
evitare la monotonia della ripetizione, che lo annullerebbe:
«La concezione estetica considera anche la personalità in relazione al mondo che la circonda, e l’espressione di
questo, riflettendosi nella personalità, è il godimento. Ma l’espressione estetica del godimento, nel suo rapporto
colla personalità, è lo stato d’animo. Nello stato d’animo infatti è presente la personalità, ma è presente vagamente.
Chi vive esteticamente infatti cerca per quanto è possibile di perdersi nello stato d’animo, cerca di avvolgersi
completamente in esso, fin che in lui non rimanga nulla che non ne possa venir assorbito, perché un simile residuo
ha sempre un effetto perturbatore, che distoglie dal godimento. Quanto più la personalità è vagamente presente nello
stato d’animo, tanto più l’individuo è nel momento, e questa è di nuovo l’espressione più adeguata per l’esistenza
estetica; essa è nel momento. Da ciò le enormi oscillazioni alle quali è esposto chi vive esteticamente. […] chi […]
vive esteticamente non ha affatto memoria per la sua vita» (S. Kierkegaard, Aut-aut).
Lo stadio estetico è fallimentare. Il tentativo di sfuggire alla ripetizione è di per sé rivelativo della minaccia costante
della noia, che è sempre in agguato e che il piacere, continuamente inseguito, tenta invano di scacciare. Ma, in quanto
non realizza alcun autentico progetto esistenziale, vivendo soltanto sul piano dell’immediata ricerca dell’appagamento,
il seduttore è, che lo sappia o no, vittima della disperazione, cioè di quel profondo senso di perdizione cui è destinato
chi non sceglie in modo consapevole di «diventare se stesso» ( Paragrafo 4)
La profondità delle considerazioni di Kierkegaard è tale da anticipare non soltanto la struttura del movimento culturale e
letterario dell’Estetismo, che si delineerà in Europa nella seconda metà dell’Ottocento, ma anche temi di sottile analisi
psicologica ed esistenziale che troveranno una grande sviluppo nel pensiero successivo.
Lo stadio etico. La seconda possibilità è quella dello stadio etico, che ha come simbolo concreto il marito, in
particolare il personaggio letterario del giudice Wilhelm.
Dal punto di vista filosofico, il marito sceglie la dimensione dell’universale: contrae matrimonio e con esso l’obbligo di
fedeltà coniugale, crea una famiglia, assume delle responsabilità verso i propri figli e nei confronti della società,
obbedisce alle leggi dello Stato. Così facendo, costruisce progressivamente la propria personalità unitaria, si determina
come un individuo che ha caratteristiche ben definite e riconoscibili. È il cittadino modello dell’eticità hegeliana, che
ripone il senso della propria esistenza nelle norme etico-sociali dello Spirito oggettivo.
«Chi ha scelto e trovato se stesso eticamente, ha determinato se stesso in tutta la sua concretezza. Egli allora ha se
stesso come un individuo con determinate doti, determinate passioni, determinate inclinazioni, determinate
abitudini, esposto a determinate influenze esteriori, sollecitato ora in un senso ora in un altro. Egli ha se stesso come
compito, e tale compito consiste soprattutto nell’ordinare, educare, temperare, infiammare, reprimere, in breve, nel
raggiungere nell’anima un equilibrio, un’armonia che è frutto delle virtù personali. Lo scopo della sua attività è qui
lui stesso, ma non seguendo il suo arbitrio, bensì come un compito che gli è stato posto, anche se è diventato suo
perché l’ha scelto. Ma benché egli stesso sia il proprio scopo, pure questo scopo è un altro: poiché quell’io che è lo
scopo, non è un io astratto che va bene dovunque e perciò in nessun luogo, ma un io concreto che sta in una viva
reciproca comunione con un determinato ambiente, con certe circostanze, con un determinato ordine di cose. Questo
io, che è lo scopo, non è soltanto un io personale, ma un io sociale e civile. Egli dunque ha se stesso come compito
per una attività, in virtù della quale egli, come personalità ben definita, interviene nelle circostanze della vita. In
questo senso il suo compito non è educare se stesso» (ibidem).
A differenza del seduttore, il marito compie una vera scelta, quella di essere se stesso grazie al suo adeguarsi
all’universale, mentre l’esteta si perde negli stati d’animo particolari (la sua è la scelta della non-scelta). Anche il marito
conosce gli stati d’animo, ma li considera attimi passeggeri, li domina e li supera nella continuità, nella memoria di sé,
nella storia di una personalità compiuta:
«Anche chi vive eticamente conosce gli stati d’animo, ma per lui essi non sono la cosa principale; poiché ha scelto
se stesso infinitamente, egli è in grado di controllarli. Quel di più che non vuole rientrare negli stati d’animo è
proprio quella continuità che per lui è il valore più alto. Chi vive eticamente ha, per ricordare una espressione
precedente, memoria per la sua vita, chi invece vive esteticamente non l’ha affatto. Chi vive eticamente non
distrugge lo stato d’animo, ma lo considera un attimo; questo attimo lo salva dal vivere nel momento, questo attimo
gli dà la padronanza sul piacere. […] Lo stato d’animo di chi vive esteticamente è sempre eccentrico, perché egli ha
il suo centro nella periferia. La personalità ha il suo centro in sé, e chi non possiede se stesso, è eccentrico. Lo stato
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 3
d’animo di chi vive eticamente è centralizzato, egli non è immerso nello stato d’animo e neppure coincide collo
stato d’animo; ma ha lo stato d’animo e lo ha in sé. Quello per cui egli lavora è la continuità, ed essa è sempre la
maestra degli stati d’animo. La sua vita non manca di stato d’animo, ha anzi uno stato d’animo totale, ma questo è
acquisito, è quello che si potrebbe chiamare un aequale temperamentum, […]» (ibidem).
Ma la scelta etica, da cui Kierkegaard fu sicuramente attratto, non basta, poiché l’individuo per diventare se stesso ha
bisogno dell’Assoluto. D’altra parte non si può assolutizzare l’universale, come ha cercato di fare Hegel. In altre parole,
non si può riporre il senso della propria esistenza nell’eticità, nel rispetto del dovere e della legge.
In agguato non c’è solo la noia, la monotonia della continuità e della ripetizione, c’è anche la consapevolezza della
propria inadeguatezza ad un compito così infinito, come quello di essere infinitamente se stesso, adeguandosi ad una
norma ideale e astratta. Egli è innanzitutto un esistente e l’ex-sistentia è in se stessa peccato, lo star fuori dall’Assoluto,
l’allontanarsi da Dio.
È proprio questo il peccato originale della condizione umana, che non può trovar pace in nessuna ambizione finita: non
nell’individuale o nel particolare, ma nemmeno nell’universale. Il senso del peccato rivela all’individuo che solo
nell’Assoluto può ritrovare la propria autentica pienezza, poiché l’individuo, nella sua finitudine, è bisogno e mancanza
dell’Assoluto.
C’è bisogno allora di un salto, di una conversione esistenziale per ricongiungersi con l’Assoluto. Sia il seduttore che il
marito, volendo, possono compiere questo salto al terzo stadio soltanto se si affacciano consapevolmente sull’abisso
dell’angoscia, riscoprendo le proprie possibilità, ma soprattutto se si affacciano sull’altro abisso, su cui sporge la
condizione umana: quello della disperazione.
PARAGRAFO 4. LA DISPERAZIONE
Il senso di fallimento della propria scelta esistenziale culmina con la disperazione, che Kierkegaard chiama la malattia
mortale. Essa non è però una malattia che conduce alla morte fisica, poiché non riguarda il corpo. è propriamente la
malattia in cui si sperimenta eternamente la morte dell’anima e alla quale non si può sfuggire morendo fisicamente,
poiché l’anima comunque non muore.
Se l’angoscia è il sentimento originario della libertà come possibilità, la disperazione è il sentimento della fine delle
possibilità, della fine di ogni speranza, il sentimento dell’eterna morte dell’anima che non può mai morire ed è costretta
a vivere in eterno la propria impossibile morte. Come l’angoscia, dunque, anche la disperazione non ha un oggetto
esterno, perché ci si dispera soltanto di se stessi, della propria sconfitta esistenziale. Ecco l’eloquente e intenso brano in
cui Kierkegaard con grande efficacia illustra il tema della malattia mortale:
«Questo concetto della malattia mortale dev’essere inteso in un modo particolare. Letteralmente, esso significa una
malattia la cui fine, il cui esito, è la morte. Così si dà ad una malattia con esito letale il significato di malattia
mortale. In questo senso la disperazione non si può chiamare malattia mortale. Ma, intesa cristianamente, la morte
stessa è un passaggio alla vita e pertanto, nel senso cristiano, nessuna malattia terrena, fisica, è mortale. Perché
certamente la morte è la fine della malattia, ma la morte non è la fine. Se si volesse parlare di una malattia mortale
nel senso più stretto questa dovrebbe essere una malattia in cui la fine sarebbe la morte, e la morte sarebbe la fine. E
questa è per l’appunto, la disperazione.
Ma in un altro senso la disperazione è la malattia mortale in un modo ancora più determinato. Perché non bisogna
pensare che, nel senso letterale, si muoia di questa malattia o che questa malattia finisca con la morte fisica. Al
contrario, il tormento della disperazione è proprio non poter morire. Perciò somiglia più allo stato del moribondo
quando si torce nella lotta con la morte e non può morire. Quindi cadere nella malattia mortale è non poter morire,
ma non come se ci fosse la speranza della vita, anzi, l’assenza di ogni speranza significa che qui non c’è nemmeno
l’ultima speranza, quella della morte. Quando il maggiore pericolo è la morte, si spera nella vita; ma quando si
conosce il pericolo ancora più terribile, si spera nella morte. Quando il pericolo è così grande che la morte è
divenuta la speranza, la disperazione è l’assenza della speranza di poter morire.
In quest’ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione tormentosa, quella
malattia nell’io di morire eternamente, di morire eppure di non morire, di morire la morte. Perché morire significa
che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere, provare vivendo il morire: e poter vivere in questo stato per
un solo momento vuol dire doverlo vivere in eterno. Se un uomo potesse morire di disperazione come si muore di
una malattia, l’eterno in lui, l’io, dovrebbe morire nello stesso senso in cui il corpo muore della malattia. Ma questo
è impossibile: il morire della disperazione si trasforma continuamente in un vivere. Il disperato non può morire;
32
Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 3
“come il pugnale non può uccidere i pensieri”, così la disperazione non può distruggere l’eterno, l’io che sta alla
base della disperazione, “il cui verme non muore, il cui fuoco non si spegne”.
Però la disperazione è un’autodistruzione, ma un’autodistruzione impotente che non è capace di fare ciò che essa
stessa vuole. Ciò che vuole è distruggere se stessa, il che non è capace di fare; o quest’impotenza è una nuova forma
di autodistruzione nella quale la disperazione si eleva a potenza. Questo è il dolore ardente, il bruciore gelido nella
disperazione, che rode e consuma, continuamente rivolto verso l’interno, e che si addentra sempre di più in
un’autodistruzione impotente. Lungi dall’essere un conforto per il disperato, il fatto che la disperazione non lo
distrugge è piuttosto il contrario; quel conforto è proprio il suo tormento, è ciò che mantiene in vita il dolore che
rode e la vita nel dolore; infatti, appunto per questo egli non si è disperato, ma si dispera: perché non può distruggere
se stesso, non può liberarsi di se stesso, non può annientarsi. Questa è la formula della potenziazione della
disperazione, il salire della febbre nella malattia dell’io.
Chi si dispera, si dispera per qualche cosa. Così sembra per un momento; ma è soltanto per un momento, perché nel
momento stesso si mostra la vera disperazione o la disperazione nella sua verità. Disperandosi per qualche cosa,
egli, in fondo, si disperava per se stesso e ora vuole liberarsi da se stesso» (S. Kierkegaard, La malattia mortale,
parte I).
PARAGRAFO 5. LO STADIO RELIGIOSO
La possibilità più autentica è lo stadio religioso, che ha in Abramo il suo simbolo più chiaro.
Dal punto di vista filosofico, la scelta religiosa è il ricongiungimento del singolo con il Tutto, del relativo con
l’Assoluto, del finito con l’Infinito (tema romantico  Volume 2, Sezione 3, Unità 1, Capitolo 1; che Kierkegaard
interpreta in modo del tutto originale  Approfondimenti).
Oltre l’individuale e l’universale. Lo scopo dell’individuo è quello di diventare se stesso, cioè di attuare la sintesi
finito/infinito, e ciò è possibile soltanto nel rapporto con il trascendente, con Dio, unica salvezza dalla disperazione:
«L’io è la sintesi cosciente dell’infinito e del finito, che si mette in rapporto con se stessa, il cui compito è divenire
se stessa, compito che non si può risolvere se non mediante un rapporto con Dio. Ma diventare se stesso vuol dire
farsi concreto. Farsi concreto, poi, non è né diventare finito né diventare infinito, perché ciò che deve farsi concreto
è una sintesi. Lo sviluppo, dunque, deve consistere nello staccarsi infinitamente da se stesso, rendendo infinito l’io e
nel ritornare infinitamente a se stesso, rendendolo finito. Se invece l’io non diventa se stesso, è disperato, sia che lo
sappia o no» (ibidem).
Abramo accetta di sacrificare il figlio Isacco poiché Dio glielo comanda. Il sacrificio del figlio è un atto contro natura e
contro l’etica, è un atto assurdo; tuttavia Abramo, che nutre un affetto profondo per il giovane figlio avuto in tarda età e
che ha sempre rispettato la legge, è disposto a compierlo, perché ha compreso l’essenza della religione autentica, che
oltrepassa le leggi naturali e quelle morali.
In tal modo il Singolo si congiunge con l’Assoluto e si pone al di sopra dell’individuale e dell’universale:
«Infatti la fede è questo paradosso che il Singolo è più alto del generale […]; il Singolo quindi, dopo essere stato nel
generale, ora come Singolo esso si isola come più alto del generale […] La fede è appunto questo paradosso, cioè
che il Singolo come Singolo è più alto del generale; esso è giustificato di fronte a questo, non subordinato ma
sopraordinato» (S. Kierkegaard, Timore e tremore).
La vita religiosa non consiste , infatti, nell’obbedienza a delle regole, nell’appartenenza ad una chiesa, nell’esecuzione
di rituali e culti (questi comportamneti rientrano piuttosto nella sfera etica). La vita religiosa consiste nell’apertura totale
a Dio, nella disponibilità piena ad accolgiere nella propria esistenza il Trascendente, nel rapporto assoluto, immediato e
diretto con l’Assoluto.
Essa è una conversione esistenziale che va rinnovata giorno per giorno, attimo per attimo, con quel processo che
Kierkegaard chiama la ripresa (l’opposto della ripetizione), dinamica che solo la scelta religiosa rende davvero
possibile.
Può essere messa in relazione anche con l’ironia socratica ( Approfondimenti), che consiste appunto nel riproporsi
costantemente la domanda fondamentale sul senso dell’esistenza.
Lo «scandalo» della fede. Lo stadio religioso è fede nel Cristianesimo, non quello delle Chiese ufficiali, bensì
quello interiore che echeggia nella parola di Dio e nel profondo dell’anima. La fede è un paradosso e uno scandalo per
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 3
la ragione: essa è fede nel Dio che si è fatto uomo, che ha congiunto il tempo e l’eternità come nessuna filosofia potrà
mai fare (ed è quel che ha cercato di fare Hegel, che ha divinizzato l’umanità storica). Tale congiungimento è invece
possibile non tanto nella storia, quanto nell’attimo in cui la fede rivive di continuo (nella ripresa) e nella
contemporaneità, in cui l’Uomo-Dio si reincarna costantemente.
«Come il concetto di “fede”, anche quello di “scandalo” è una categoria specificamente cristiana che si rapporta alla
fede. […] Lo scandalo si rapporta essenzialmente alla sintesi di Dio e uomo, ossia all’Uomo-Dio [in Cristo]. La
speculazione ha naturalmente creduto di poter “comprendere” l’Uomo-Dio: chiaro, perché la speculazione toglie
all’Uomo-Dio le determinazioni di temporalità, di contemporaneità, di realtà. […] No, la situazione consiste
nell’Uomo-Dio, la situazione è [credere] che l’uomo singolo che ti sta accanto è l’Uomo-Dio. Uomo-Dio non è
l’unità di Dio e dell’uomo; una simile terminologia è una profonda illusione ottica. Uomo-Dio è unità di Dio e di un
uomo singolo. Che il genere umano sia o debba essere affine a Dio, è vecchio paganesimo; ma che un uomo singolo
sia Dio, è cristianesimo, e questo singolo uomo è l’Uomo-Dio» (S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo).
La fede stessa è paradosso non solo nel suo contenuto, ma anche in se stessa: infatti, è una scelta che consiste soltanto
nel rendersi disponibili, poiché la fede vera può essere soltanto un dono di Dio, non un’opera umana.
Tabella riassuntiva. Hegel e Kierkegaard.
Hegel






Kierkegaard


Assolutizzazione del pensiero umano e
dell’umanità storica
Identificazione tra universale e Assoluto
Dialettica dell’et-et
L’essenza precede l’esistenza
Subordinazione dell’individuo alla totalità etica
Necessità logico/storica




Il pensiero è proprio di un individuo esistente
Distinzione tra piano dell’individuale,
dell’universale e dell’Assoluto
Dialettica dell’aut-aut
L’esistenza precede l’essenza
Superiorità del Singolo rispetto all’etica
Possibilità come categoria dell’esistenza
Tabella riassuntiva. Kierkegaard: i tre stadi
Stadio estetico



Seduttore (don Giovanni,
Faust, Johannes)
Rapporto con la
dimensione individuale o
particolare
Principio del piacere
Stadio etico



Marito (giudice Wilhelm)
Rapporto con la dimensione
universale
Principio del dovere e della
legge
34
Stadio religioso



Uomo religioso (Abramo)
Rapporto assoluto con
l’Assoluto
Principio dell’infinitizzazione
del finito
Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 1, Capitolo 3
HAI IMPARATO CHE ...
1. IL ROMANTICISMO
ALL’IDEALISMO.
ITALIANO
SI
OPPOSE
2. ANCHE NELLA CULTURA TEDESCA SI
SVILUPPÒ L’OPPOSIZONE ALLA RAGIONE
DIALETTICA HEGELIANA.
3. ARTHUR SCHOPENHAUER PROMOSSE IL
RITORNO AL DUALISMO, ISPIRANDOSI A
KANT, A PLATONE E ALL’INDUISMO.
4. INDIVIDUÒ IN UNA FORZA INCONSCIA,
ASSOLUTA E INDIVISIBILE (LA VOLONTÀ) IL
VERO PRINCIPIO DINAMICO DI TUTTO
L’UNIVERSO.
5. ANALIZZÒ L’INEVITABILE SOFFERENZA DI
TUTTI GLI ESSERI DERIVANTE DAL LORO
PERMANENTE RECIPROCO CONFLITTO E
DALL’INAPPAGABILITÀ
INFINITA
DEL
DESIDERIO.
6. INDICÒ NELL’ARTE, NELLA MORALE E
NELL’ANNULLAMENTO
ASCETICO
DEL
DESIDERIO
LE
POSSIBILI
STRADE
DI
LIBERAZIONE.
7. SØREN KIERKEGAARD FU IL PRECURSORE
DELL’ESISTENZIALISMO RELIGIOSO.
8. SVILUPPÒ LA SUA RIFLESSIONE SULLE
CATEGORIE
DELLA
SINGOLARITÀ,
DELL’ESISTENZA E DELLA POSSIBILITÀ.
9. ELABORÒ IL CONCETTO DELL’ANGOSCIA.
10. ESAMINÒ LE POSSIBILI SCELTE, O STADI,
DELL’ESISTENZA CHE APPRODANO ALLA
NOIA O ALLA DISPERAZIONE.
11. INDICÒ NELLO STADIO RELIGIOSO, NELLA
FEDE COME PARADOSSO E SCANDALO,
L’UNICA POSSIBILE SCELTA ESISTENZIALE
LIBERATORIA.
35
Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 2, Capitolo 1
UNITÀ DIDATTICA 2. IL POSITIVISMO
CAPITOLO 1. AUGUSTE COMTE E IL POSITIVISMO
I prodigiosi sviluppi della scienza e della tecnica sembravano poter realizzare concretamente quel progresso
che l’Illuminismo aveva auspicato. Sulla stessa linea si pone il Positivismo che teorizza l’importanza quasi
assoluta della conoscenza scientifica per la soluzione dei problemi dell’umanità. È una corrente filosofica e
culturale variegata e complessa, che ha avuto un’enorme importanza per tutto l’Ottocento e oltre,
influenzando l’arte e la letteratura. Auguste Comte, il suo teorico più rappresentativo nella prima fase, ha
subito la forte influenza della cultura romantica, ha elaborato una filosofia della storia fondata su leggi
necessarie e progettato una sistematica applicazione del metodo scientifico a tutta la realtà, compresa la
società umana.
PARAGRAFO 1. I PROGRESSI TECNICO-SCIENTIFICI E IL POSITIVISMO
L’Ottocento fu un secolo di grandi scoperte scientifiche, anche rivoluzionarie, e di stupefacenti progressi nel campo
delle tecnologie industriali che cambiarono radicalmente le condizioni di vita delle società europee (
Approfondimenti). La sorprendente capacità dell’industria di produrre ricchezza e benessere, soddisfacendo bisogni che
le epoche precedenti avevano avuto difficoltà ad appagare, non si accompagnava però ad una distribuzione omogenea
della ricchezza prodotta: al contrario, essa tendeva a concentrarsi nelle mani delle classi più agiate, gettando in una
miseria sempre maggiore vasti strati di popolazione. Questa constatazione indusse molti intellettuali a porsi il problema
di una riforma generale, sociale e politica, che sfruttasse il potenziale della conoscenza scientifica per scopi di
miglioramento complessivo della qualità della vita di tutte le classi sociali, soprattutto di quelle subalterne.
Henri de Saint-Simon. Il primo ad usare il termine «positivismo» per indicare una nuova concezione della storia
umana alla luce del progresso scientifico, tecnico e industriale fu Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon (1760
– 1825). La sua visione illuministico-romantica9 di uno sviluppo provvidenziale dell’umanità verso il proprio
perfezionamento, lo ha indotto a predire l’avvento di un’epoca positiva in cui scienziati e industriali (i nuovi poteri,
rispettivamente spirituale e temporale) avrebbero guidato le società verso la soluzione di tutti i problemi, soprattutto
quello di liberare tutti gli uomini dal bisogno materiale, senza distinzione di classi sociali. In questo senso l’età futura
realizzerebbe un nuovo Cristianesimo, simile a quello primitivo.
L’influenza del suo pensiero fu notevole, originando una corrente detta sansimonismo che ebbe larga diffusione. Essa si
esercitò a lungo su diversi fronti, a partire dal positivismo vero e proprio di cui fu massimo teorico Auguste Comte (
Capitolo 2). Inoltre le sue dottrine stimolarono molte iniziative nel campo dell’industria e del commercio. Basti pensare
che a realizzare il canale di Suez e quello di Panama fu il suo allievo Ferdinand de Lesseps (1805 – 1894).
Infine, furono suoi seguaci a sviluppare alcune intuizioni del maestro, dando origine alla prima forma di socialismo,
dottrina politica la cui diffusione nell’Ottocento e nel Novecento fu decisiva.
Il socialismo utopistico: Charles Fourier. Quello che venne poi definito socialismo utopistico ( Unità 3,
Capitolo 2, Paragrafo 5) si sviluppò a partire dalle esigenze di radicale riforma sociale messe in luce da Saint-Simon.
Uno dei suoi seguaci, Charles Fourier (1772 - 1837), si ricollegò ai progetti di società ideali tipici del Rinascimento (
Volume 2, Sezione 1, Unità 1, Capitolo 2, Paragrafo 5) progettando un nuovo assetto dell’organizzazione produttiva e
sociale che consentisse di realizzare l’uguaglianza sostanziale (socio-economica) che manca nei sistemi liberaldemocratici, in cui si attua soltanto l’uguaglianza giuridica e politica. La sua utopia prevede la realizzazione di
falansteri, unità abitative e produttive collettive, in cui vivono e lavorano le falangi, gruppi autosufficienti di circa 1800
individui. L’attuazione del progetto implica, dunque, una ristrutturazione completa architettonica e urbanistica delle
9
La sua filosofia della storia si rifà esplicitamente a quella di Condorcet ( Volume 2, Sezione 2,
Unità 6, Capitolo 2, Paragrafo 7) e ingloba elementi tipici della religiosità romantica.
36
Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 2, Capitolo 1
città e del loro rapporto con le campagne, dato che i falansteri dovrebbero essere circondati da campi coltivati e da
boschi.
L’industria e tutto il processo produttivo dovrebbero essere riorganizzati in nome del principio dell’attrazione
passionale, trasfigurazione nel mondo psichico umano della legge di gravitazione universale ( Volume 2, Sezione 2,
Unità 2, Capitolo 2). Nelle falangi il lavoro dovrebbe essere assegnato sulla base degli interessi e delle predilezioni
degli individui, cercando di armonizzarle e di variarle nel tempo, secondo una rotazione delle attività che eviti lo
spegnersi della passione. Interessanti anche le sue notazioni sulla libertà sessuale che dovrebbe regnare nei falansteri (
Approfondimenti).
Il socialismo utopistico: Pierre-Joseph Proudhon. Un grande successo e una notevole influenza sul
movimento operaio la ebbe Pierre-Joseph Proudhon (1809 – 1865) con la sua affermazione clamorosa «La proprietà è
un furto» (P.-J. Proudhon, Che cos’è la proprietà?, 1840), con cui metteva sotto accusa il sistema economico
capitalistico, l’iniqua appropriazione della ricchezza da parte della borghesia imprenditoriale, basata sullo sfruttamento
del lavoro di una classe sociale, quella operaia, ridotta invece in miseria.
In realtà egli difende la concezione liberale e borghese della proprietà come frutto del lavoro (cfr. Locke  Volume 2,
Sezione 2, Unità 4, Capitolo 1, Paragrafo 4) e delinea una dottrina politica che mescola socialismo e individualismo, per
ottenere quell’uguaglianza sostanziale che può derivare soltanto da una situazione di anarchia ( Glossario) positiva:
la funzione politica potrebbe essere sostituita da quella economica e ogni cittadino, libero proprietario, sarebbe
autocrate di se stesso, in un sistema di scambi equo perché regolato dall’effettiva parità di opportunità (
Approfondimenti).
PARAGRAFO 2. COMTE: FILOSOFIA DELLA SCIENZA E FILOSOFIA DELLA STORIA
L’attuazione del programma di Bacon ( Volume 2, Sezione 1, Unità 3, Capitolo 2) e dell’Enciclopédie ( Volume 2,
Sezione 2, Unità 6, Capitolo 1, Paragrafo 3) è lo scheletro del Positivismo di Auguste Comte, allievo di Saint-Simon e
teorico più rappresentativo di questa importantissima corrente filosofica, che ha
influenzato tutta la cultura della seconda metà dell’Ottocento, l’arte, la letteratura,
il modo di pensare comune e ha avuto effetti significativi anche per tutto il
Novecento.
Filosofia della scienza. Il Positivismo è innanzitutto una filosofia della
scienza, dato che assume il modello della scienza moderna, matematicosperimentale, come l’unica forma di conoscenza vera, che si occupa soltanto dei
fenomeni, cioè dei fatti dell’esperienza, sul fondamento della gnoseologia di Kant
( Volume 2, Sezione 2, Unità 8), e che, perciò, è effettivamente utile al
progresso dell’umanità.
Filosofia della storia. Ma il Positivismo è anche una filosofia della storia,
interpretata come un processo lineare e tendente all’infinito, scandito in tre grandi
fasi o epoche, dette stati, che coincidono con tre forme di conoscenza che
gradualmente si evolvono, quasi dialetticamente, per culminare nello stato
scientifico, detto positivo.
Il Positivismo, ha quindi, anche un cuore pre-romantico (parentele evidenti con la scienza della storia di Vico 
Volume 2, Sezione 2, Unità 5, Capitolo 2) e, soprattutto, romantico, che induce a pensarlo come il Romanticismo della
scienza.
Fondato su presupposti anti-metafisici, il Positivismo in generale, e quello di Comte in particolare, finirà per diventare
una sorta di metafisica, più o meno occulta, della scienza e persino una religione della scienza. La divinizzazione
dell’umanità cui approda Comte (nella foto) somiglia molto, benché da punti di vista diversi, a quella hegeliana (
Volume 2, Sezione 3, Unità 2): Positivismo e Idealismo, nelle profonde differenze, presentano molti parallelismi, che ne
37
Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 2, Capitolo 1
fanno gli ultimi grandi sistemi filosofici della modernità che sta giungendo lentamente al termine, due potenti
metafisiche laiche, ottimistiche, e storicistiche che aprono la strada ad un’epoca nuova10.
Il programma del Positivismo. Infine, il positivismo di Comte volle essere anche un programma per il
potenziamento della conoscenza scientifica, per la trasformazione di tutte le conoscenze in scienze positive, per la
fondazione di una nuova scienza, la sociologia, che ancora mancava all’«albero» delle scienze e di cui Comte è il
fondatore, per la rigenerazione dell’umanità su nuove basi, per il progresso tecnico e industriale su cui costruire il
benessere delle società.
PARAGRAFO 3. COMTE: LA LEGGE DEI TRE STATI
La storia dell’umanità, che ha un preciso parallelismo nella storia individuale, è passata, secondo Comte, attraverso tre
AUGUSTE COMTE. VITA E OPERE
Auguste Comte, nato a Montpellier nel 1798, compì i suoi studi all’Ecole polytecnique di Parigi e dal
1817 divenne segretario e allievo di Saint-Simon col quale collaborò per sette anni ed ebbe la
possibilità di studiare, formandosi una vasta cultura. Nel 1822 con la pubblicazione de Il piano dei lavori
scientifici necessari per riorganizzare la società i suoi rapporti col maestro e datore di lavoro si
incrinarono e due anni dopo si intterruppero definitivamente. Nel 1826 inizia un corso privato di filosofia,
sospeso per un disturbo depressivo per l’adulterio della moglie, l’ex prostituta Caroline Massin.
Nel 1830 uscì il primo volume del Corso di filosofia positiva, la cui pubblicazione in sei volumi fu
completata nel 1842. Sull’onda del successo della sua opera cercò di ottenere una cattedra di
matematica all’Ecole polytecnique, ma ebbe soltanto un incarico precario di ripetitore e di esaminatore.
Nel 1844, quando tenne il Discorso sullo spirito positivo, per le gelosie dei colleghi offesi dalle sue
critiche alle astrazioni matematiche, gli fu revocato ogni incarico alla scuola.
Conobbe allora gravi difficoltà economiche e riuscì a vivere a stento, grazie all’aiuto degli amici e degli
allievi. Dopo la separazione dalla moglie, conobbe Clothilde de Vaux, giovane sorella di un suo allievo,
di cui si innamorò. Ella morì pochi mesi dopo ma riuscì ad avere su di lui una grande influenza,
svolgendo una funzione analoga a quella di Beatrice per Dante. Il suo pensiero assunse accenti
sempre più mistico-religiosi che lo indussero a fondare, dopo la Società positivista (1848), la Chiesa
universale della religione dell’umanità (1849). Molti suoi discepoli si dissociarono via via da questa
svolta finale del suo pensiero. Pubblicò il Trattato di sociologia nel 1851 e l’anno dopo il Catechismo
positivista. Morì nel 1857, a causa di un’emorragia interna, lasciando incompiuta l’opera Sistema
soggettivo o sistema universale delle concezioni proprie dello stato normale dell’Umanità.
successivi stati della conoscenza, cioè tre diverse condizioni generali della mente umana che, sviluppando gradualmente
le proprie facoltà e capacità, dopo l’infanzia (lo stato teologico) e l’adolescenza (lo stato metafisico), ha raggiunto l’età
adulta (lo stato positivo, o scientifico):
«Per la natura dello spirito umano, ogni branca delle nostre conoscenze è necessariamente soggetta, nel suo
sviluppo, a passare successivamente per tre stati teorici diversi: lo stato teologico o fittizio; lo stato metafisico o
astratto; infine, lo stato scientifico o positivo» (A. Comte, Piano delle opere scientifiche necessarie per
riorganizzare la società).
Lo stato teologico. Rappresenta l’infanzia dell’umanità, in cui prevalgono la fantasia e l’immaginazione. La
natura è vista come un insieme di forze soprannaturali e divine e prevalgono su ogni altro atteggiamento l’animismo, la
magia, la superstizione e la religione, prima politesista, poi progressivamente monoteista 11:
10
Sono laicizzazioni e secolarizzazioni della filosofia della storia (e dell’escatologia) cristiana, lineare,
diretta alla realizzazione di un fine ultimo ( Approfondimenti).
38
Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 2, Capitolo 1
«Nel primo, idee soprannaturali servono ad unire il piccolo numero di osservazioni isolate delle quali allora si
compone la scienza. In altri termini, i fatti osservati sono spiegati, cioè visti a priori, come fatti inventati. Questo
stato è necessariamente quello di ogni scienza alle origini. Per imperfetta che sia, è la sola forma di legame possibile
in quest’epoca. Essa fornisce, di conseguenza, il solo strumento con il quale si possa ragionare sui fatti, sostenendo
l’attività dello spirito che ha bisogno oltre tutto di un punto di riferimento qualunque. In una parola, è indispensabile
a permettere di andare più lontano» (ibidem).
Lo stato metafisico. In questa seconda condizione storica di un’umanità adolescenziale, comincia a maturare un
approccio razionale alla natura, ma si tratta ancora di una ragione astratta, incapace di esaminare i fatti dell’esperienza
per quel che sono. Le forze soprannaturali del primo stato si dsono ora trasformate in essenze, in cause prime, in finalità
ultime. Si tratta di un importante fase di transizione, destinata a lasciare il posto a una razionalità più concreta:
«Il secondo stato è unicamente destinato a servire di mezzo di transizione dal primo al terzo. Il suo carattere è
bastardo, unisce i fatti con idee che non sono più del tutto soprannaturali e che non sono ancora interamente naturali.
In una parola, queste idee sono astrazioni personificate, nelle quali lo spirito può vedere a suo piacere o il nome
mistico di una causa soprannaturale o l’enunciato astratto di una semplice serie di fenomeni, secondo che sia più
vicino allo stato teologico o allo stato scientifico. Questo stato metafisico suppone che i fatti, divenuti più numerosi,
si sono nello stesso tempo avvicinati con analogie più estese» (ibidem).
Lo stato positivo. Quando la conoscenza umana raggiunge la sua piena maturità adulta la scienza positiva
fondata sul modello matematico e sul metodo scientifico moderno, messo a punto nei due secoli precedenti e che ha
dato, sta dando e potrà ancora dare enormi risultati nel campo del progresso tecnico, ma anche di quello civile e sociale,
migliorando la qualità della vita degli esseri umani.
«Il terzo stato è la forma definitiva di ogni scienza, quale che sia, essendo stati, i primi due, destinati solo a
prepararla gradualmente. Allora, i fatti sono uniti con idee o leggi generali di un ordine interamente positivo,
suggerite o confermate dai fatti stessi e che spesso, anche, non sono che semplici fatti abbastanza generali da
diventare princìpi. Si cerca di ridurli sempre al più piccolo numero possibile, ma senza istituire nessuna ipotesi che
non sia di natura tale da essere verificata un giorno con l’osservazione, e non considerandoli, in tutti i casi, che come
un mezzo di espressione generale dei fenomeni» (ibidem).
Che cosa significa propriamente il termine positivo? Comte lo chiarisce con una serie di opposizioni tra lo stato
scientifico e quelli precedenti. Positivo significa:
 Reale, in opposizione al chimerico, all’illusorio;
 Utile, in contrasto con l’inutile (tipico di una conoscenza volta alla «vana soddisfazione di una sterile
curiosità»; ricordiamo la svolta radicale della concezione della verità come utilità, operata dalla Rivoluzione
scientifica  Volume 2, Sezione 1, Unità 3, Capitolo 1);
 Certo, in opposizione all’indeciso;
 Preciso, in contrasto con il vago;
 Costruttivo, in opposizione al negativo/distruttivo;
 Relativo, invece di assoluto: le conoscenze scientifiche, infatti, studiano leggi della natura, cioè relazioni tra
fatti, e non pretendono di avere una concezione filosofica generale e dogmatica della realtà, come accade nello
stato teologico o metafisico.
Le epoche della storia. Alle tre condizioni della conoscenza umana corrispondono tre stati della civiltà, che
sono gli assetti sociali, politici ed economici che si accompagnano allo sviluppo delle conoscenze.
1. Epoca militare, in cui le relazioni umane sono fondate sulla guerra e la conquista; la produzione dei beni è
ridotta ala minimo indispensabile alla sopravvivenza della specie; i lavoratori sono sottoposti a schiavitù.
2. Epoca di transizione, in cui comincia ad imporsi la forza delle leggi; l’industria si espande, ma l’importanza del
sistema militare resta notevole, anche se ben presto la guerra e la conquista vengono concepiti principalmente
11
Il discredito in cui ormai è caduta la magia è sintomatico della profonda differenza che si è creata tra
l’approccio alla natura di tipo umanistico-rinascimentale (e antico) e quello della scienza moderna ora
egemone ( Volume 2, Sezione 1, Unità 3, Capitolo 1).
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Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 2, Capitolo 1
come mezzi per favorire l’espansione della produzione; la schiavitù gradualmente scompare, anche se i diritti
dei lavoratori non sono ancora del tutto conquistati.
3. Epoca industriale, che ha come unico fine la produzione, fondata sulla libera iniziativa economica; «il suo
punto di partenza data dall’introduzione delle scienze positive in Europa da parte degli Arabi, e dalla conquista
della libertà dei comuni, cioè dal secolo undecimo circa» (ibidem).
PARAGRAFO 4. COMTE: LA CLASSIFICAZIONE DELLE SCIENZE
Bisogna però precisare che i passaggi tra gli stati, cioè tra i livelli di sviluppo della conoscenza, non sono stati omogenei
e la nascita delle diverse scienze positive nella storia è avvenuta in tempi diversi.
La matematica. La prima forma di scienza positiva nata nella storia è senza dubbio la matematica, che fin
dall’antichità si è costituita, quando ancora tutte le altre conoscenze erano ancora imbevute di metafisica e di
spiritualismo, quando non addirittura di animismo e magia. Per tale motivo, la matematica può essere considerata più
che una scienza particolare, il fondamento e il modello di tutte le altre scienze positive.
Il problema di una nuova enciclopedia delle scienze. Il primo compito della filosofia positiva è quello di
classificare tutte le scienze, costruendo una nuova enciclopedia che tenga conto del loro «concatenamento logico e
naturale», quindi del processo storico che le ha generate.
La nuova scala enciclopedica ha, dunque, un alto grado di «conformità con la storia scientifica nel suo insieme; nel
senso che, nonostante la simultaneità effettiva e continua dello sviluppo delle diverse scienze, quelle classificate come
anteriori saranno infatti più antiche e sempre più avanzate, rispetto a quelle presentate come posteriori» (A. Comte,
Corso di filosofia positiva, lezione II).
Il criterio di classificazione. Il criterio che permette di ottenere «una classificazione naturale e positiva delle
scienze fondamentali» consiste nel «principio nella comparazione dei diversi ordini di fenomeni, di cui le scienze
scoprono le leggi» con il quale è possibile «determinare è la effettiva dipendenza dei vari studi scientifici» (ibidem).
Tale dipendenza sarà, pertanto, collegata a quella dei fenomeni studiati corrispondenti.
Considerando tutti i fenomeni osservabili, si vedrà «che è possibile classificarli in un piccolo numero di categorie
naturali, disposte in modo tale che lo studio razionale di ogni categoria sia fondato sulla conoscenza delle leggi
principali della categoria precedente, e divenga il fondamento dello studio della successiva» (ibidem).
Se ne può concludere che l’ordine logico delle scienze che corrisponde all’ordine naturale e storico del loro sviluppo «è
determinato dal grado di semplicità, o, ciò che è lo stesso, dal grado di generalità dei fenomeni dal quale risulta la
dipendenza successiva e conseguentemente, la facilità più o meno grande del loro studio» (ibidem):
«È chiaro a priori infatti, che i fenomeni più semplici, quelli che si complicano meno degli altri, sono
necessariamente anche i più generali; poiché ciò che si osserva nel maggior numero di casi è, proprio per questo,
sciolto, quanto più è possibile, dal nesso con le circostanze proprie a ogni caso separato. Dallo studio dei fenomeni
più generali, o più semplici, occorre dunque cominciare, procedendo successivamente fino ai fenomeni più
particolari o più complessi, se si vuole concepire la filosofia naturale in modo veramente metodico. Quest’ordine di
generalità o di semplicità, determinando necessariamente il concatenamento razionale delle varie scienze
fondamentali, tramite la successiva dipendenza dei loro fenomeni, fissa infatti così il loro grado di facilità» (ibidem).
La scala enciclopedica delle scienze. Così determinato il criterio generale di classificazione, la nuova scala
enciclopedica delle scienze si presenta in questo modo, sulla base della progressiva complessità dei fenomeni studiati,
passando dalle scienze che studiano i più semplici moti meccanici dei corpi per arrivare fino a quelle che studiano i più
complessi organismi viventi:
1. Astronomia;
2. Fisica;
3. Chimica;
4. Biologia.
40
Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 2, Capitolo 1
PARAGRAFO 5. COMTE: IL PROGRAMMA DEL POSITIVISMO
Tutte le scienze elencate sopra hanno già raggiunto lo stato positivo, anche se in tempi diversi, ma ci sono delle
conoscenze che non lo hanno ancora raggiunto, ostacolate ancora da pregiudizi teologici e metafisici. Il programma del
positivismo ha come obiettivo fondamentale quello di trasformare tutte le conoscenze in scienze positive, applicando il
modello matematico e il metodo sperimentale a tutti i fenomeni e facendo della scienza il modello universale del sapere.
Una finalità fondamentale della filosofia positiva è dunque quella di promuovere lo studio dei fenomeni più complessi
che esistano, cioè i fenomeni propriamente umani, utilizzando gli stessi metodi che si sono utilizzati con successo
riguardo a tutti gli altri fenomeni. La nuova scienza da fondare e da far progredire, sulla base di «una conoscenza
approfondita dei metodi positivi già sperimentati, riguardanti fenomeni meno complessi, e munita inoltre, della
conoscenza delle principali leggi dei fenomeni precedenti» (ibidem) sarà, dunque, la sociologia, la cui nascita come
scienza è un grande merito di Comte.
La sociologia, o «fisica sociale». La sociologia dovrà essere una fisica sociale, cioè uno studio dei
comportamenti umani, nelle loro relazioni sociali, attuato con gli stessi metodi sperimentali applicati alla fisica. Si tratta
di portare a compimento quell’operazione riduzionista che già era stata avviata in età moderna da filosofi come Hobbes
( Volume 2, Sezione 2, Unità 2. Capitolo 1), per esempio, arrivando a ridurre, appunto, anche lo studio dell’uomo,
pur nella sua maggiore complessità, di cui Comte è peraltro cosciente ( Approfondimenti), alle metodologie adottate
per tutti gli altri oggetti del mondo. Il rischio inevitabile è quello di assolutizzare un solo tipo di conoscenza, quello
della scienza sperimentale, e di trasformare la metodologia della scienza in una metafisica, talora occulta, di stampo
deterministico: il che significa l’assolutizzazione del principio di causalità, con tutti i problemi che ciò comporta e che
saranno discussi anche nell’ambito del Positivismo stesso ( Capitolo 2, Paragrafo 2).
La nuova scienza si può dividere in due diversi settori complementari:
 statica sociale, che avrà come oggetto lo studio dell’ordine sociale, cioè delle modalità attraverso le quali una
società si organizza e si struttura, raggiungendo un certo tipo di equilibrio;
 dinamica sociale, che avrà come oggetto lo studio del progresso, cioè delle modalità attraverso le quali una
società si evolve, modifica gradualmente i propri equilibri, raggiungendo livelli più elevati di ordine.
È evidente che i due settori di studio non sono separati, ma soltanto concettualmente distinti, così come non si possono
concepire isolatamente l’ordine e il progresso di una società: essi, infatti, sono connessi strettamente, poiché ciascun
ordine contiene già i presupposti del progresso e, a sua volta, quest’ultimo, è lo scopo costante e la manifestazione
evolutiva dell’ordine originario, che perfeziona senza sosta, in un processo infinito, in cui sono coinvolte le società e gli
individui12:
«Ma la conciliazione fondamentale tra l’ordine ed il progresso costituisce, in maniera ancora più irrefutabile, il
privilegio caratteristico del positivismo. Nessun’altra dottrina ha anche solo tentato questa indispensabile fusione,
che stabilisce spontaneamente, passando, con la sua scala enciclopedica, dai casi scientifici minori ai più elevati
argomenti politici. Mentalmente considerata, la riduce alla correlazione necessaria tra l’esistenza ed il movimento,
dapprima tentata per i più semplici fenomeni inorganici, poi completata nelle concezioni biologiche. Dopo questa
duplice preparazione, che procura a questa unione un’imponente autorità scientifica, stabilisce il suo carattere
definitivo, estendendolo alle sane speculazioni sociali, da cui risulta subito la sua efficacia pratica, inerente all’intera
sistemazione. L’ordine diventa, allora, la condizione permanente del progresso, mentre il progresso costituisce lo
scopo costante dell’ordine. Infine, con un esame più profondo, il positivismo fa consistere il progresso umano
direttamente, sempre, nel semplice sviluppo dell’ordine fondamentale, che contiene necessariamente il germe di tutti
i progressi possibili. La sana teoria della nostra natura, individuale o collettiva, dimostra che il corso delle nostre
trasformazioni, quali che siano, non può mai costituire se non una evoluzione, senza comportare nessuna creazione.
Questo principio generale è pienamente confermato da tutto l’esame storico, che svela sempre le radici precedenti di
ogni mutamento verificatosi, fino a mostrare il più grossolano stato primitivo come il progetto rudimentale di tutti i
perfezionamenti ulteriori.
Con questa identità fondamentale, il progresso diventa, a sua volta, la manifestazione dell’ordine. La sua analisi può,
dunque, caratterizzare sufficientemente la duplice nozione sulla quale si fondano contemporaneamente la scienza e
l’arte della socialità. Così fatta, questa valutazione diventa meglio comprensibile, soprattutto in un tempo in cui la
12
Anche sotto questo punto di vista i parallelismi con l’Idealismo sono piuttosto interessanti (
Approfondimenti).
41
Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 2, Capitolo 1
novità e l’importanza della teoria del progresso attirano maggiormente l’attenzione pubblica, che avverte, a suo
modo, l’immensa portata di questa concezione, come base necessaria di ogni sana dottrina morale e politica.
Sotto questo aspetto, il positivismo assegna come scopo costante a tutta la nostra esistenza, individuale e sociale, il
perfezionamento universale, prima della nostra condizione esteriore, poi soprattutto della nostra natura interiore» (A.
Comte, Discorso preliminare sull’insieme del positivismo, II parte).
La psicologia impossibile. La sociologia è esaustiva dello studio di tutti fenomeni umani, storico-sociali, ed
esclude la possibilità stessa di una psicologia, in quanto i moventi soggettivi dell’azione non possono essere oggetto di
osservazione empirica. Il soggetto umano non può sdoppiarsi e divenire anche oggetto. Ciò che è osservabile sono
invece i comportamenti oggettivi degli individui e le loro relazioni. D’altra parte, gli esseri umani, in quanto esseri
viventi e in quanto corpi fisici che si muovono nello spazio sono già oggetto di quasi tutte le altre scienze, la fisica, la
chimica e, soprattutto, la biologia, che studia anche la fisiologia umana.
Tuttavia, proprio sulla base di questo assunto «comportamentistico»13, dal tronco del Positivismo in seguito germoglierà
il ramo della psicologia come scienza sperimentale.
La sociocrazia. Con la fondazione della sociologia si risolvono anche i problemi etici e politici, poiché questa
nuova scienza permetterà di conoscere le leggi generali, universali e necessarie, delle società umane e di farle
progredire attraverso la scienza, la tecnica e l’industria, risolvendo tutti problemi comportamentali e relazionali delle
persone e garantendo a tutti il benessere materiale e spirituale.
Il futuro progressivo dell’umanità positiva non avrà più bisogno di politici, poiché si autogovernerà (sociocrazia)
mediante gli scienziati14. Essi dirigeranno i processi economici, di produzione e distribuzione della ricchezza,
nell’interesse generale, con la finalità dell’ordine e del progresso individuale e sociale. Non vi sarà più bisogno
nemmeno di sacerdoti né di filosofi, nel senso tradizionale della parola.
Nella fase finale del suo pensiero, Comte accentuerà l’aspetto mistico-religioso di questa sorta di profezia utopistica di
una società perfetta, considerando se stesso come una sorta di pontefice della nuova Umanità scientifica divinizzata.
PARAGRAFO 6. COMTE: LA FILOSOFIA POSITIVA
Resta da chiarire il ruolo della filosofia, anzi più esattamente della filosofia positiva.
Comte attribuisce al termine filosofia lo stesso significato che essa aveva per Aristotele, quando indicava «tutto il
sistema generale delle concezioni umane» (A. Comte, Corso di filosofia positiva, «Avvertenza dell’autore alla prima
edizione»). Aggiungendovi l’aggettivo positiva, si ottiene una definizione più calzante all’epoca moderna: essa, cioè,
«consiste nel considerare le teorie di qualsiasi ordine di idee, come aventi per oggetto il coordinamento dei fatti
osservati» (ibidem).
Mentre, insomma, la matematica funge da modello per tutte le scienze positive, la filosofia positiva svolge la funzione
di coordinamento tra di esse. Non è essa stessa una scienza, né una filosofia naturale nel senso che gli attribuiva
Newton, per il quale indicava «l’insieme delle diverse scienze di osservazione considerate fin nelle loro particolarità»
(ibidem). Essa risulta piuttosto essere «lo studio delle generalità delle diverse scienze, concepite come sottomesse ad un
unico metodo e formanti le diverse parti di un piano generale di ricerche» (ibidem).
La formazione degli scienziati. La filosofia positiva è pertanto fondamentale nella formazione di «una nuova
classe di scienziati, convenientemente preparata, [che] senza dedicarsi alle ricerche relative ad una particolare branca, si
occupi unicamente, partendo dal livello attuale delle scienze positive, di determinare esattamente il contenuto di ognuna
di esse, di scoprirne i reciproci rapporti, il concatenamento e riassuma nella misura del possibile i princìpi propri ad
13
In realtà il comportamentismo è una delle correnti della psicologia contemporanea, ma qui l’aggettivo
sta ad indicare il presupposto fondamentale dell’approccio scientista e riduzionista, che si fonda
sull’osservabilità dei fenomeni; in questo caso ciò che risulta osservabile sono proprio i comportamenti, in
senso lato.
14
L’idea che il miglior governo sia quello dei sapienti risale a Platone (Volume 1, Sezione 1, Unità 3,
Capitolo 2, Paragrafo 7), ma la formula comtiana risale piuttosto direttamente a Bacon ( Volume 2,
Sezione 1, Unità 3, Capitolo 2, Paragrafo 5).
42
Percorsi della filosofia
Sezione 1, Unità 2, Capitolo 1
ognuna, nel minor numero possibile di princìpi comuni, conformandosi sempre, alle massime fondamentali del metodo
positivo»(A. Comte, Corso di filosofia positiva, lezione I).
Contemporaneamente, un’altra categoria di scienziati specialisti delle varie scienze positive, «prima di dedicarsi alle
loro rispettive specializzazioni [dovranno essere] messi in grado, attraverso un’adeguata educazione sul livello
raggiunto dalle conoscenze positive, di usufruire subito dei lumi elargiti dagli scienziati dediti allo studio delle
generalità, e a rettificare reciprocamente i loro risultati, cosa alla quale già tendono visibilmente» (ibidem).
Soltanto dopo aver raggiunto queste due condizioni fondamentali, «la divisione scientifica del lavoro sarà spinta, senza
pericolo, fino all’estremo limite richiesto dai diversi ordini delle conoscenze» (ibidem).
La funzione permanente della filosofia positiva. Resta comunque sempre la necessità di continuare a far
lavorare una classe distinta di filosofi positivi, costantemente controllata da tutte le altre, con la «funzione permanente di
collegare ogni nuova scoperta con il sistema generale»:
«[Ciò] permetterebbe di non temere più che una attenzione troppo grande venga dedicata ai particolari e impedisca
una visione d’insieme. In una parola, l’organizzazione moderna del mondo della scienza avrà raggiunto la sua
pienezza e potrà svilupparsi indefinitamente, conservando sempre lo stesso carattere. Giunger, così, alla formazione
distinta di una sezione di studio delle generalità scientifiche del grande lavoro intellettuale, significa semplicemente
estendere l’applicazione dello stesso principio di divisione, che ha successivamente separato le diverse
specializzazioni; poiché fintanto che le diverse scienze positive erano poco sviluppate, i loro reciproci rapporti non
potevano esser tanto importanti da dar luogo, in modo permanente, ad una classe particolare di lavori e, nello stesso
tempo, questa esigenza era meno urgente. Ma oggi ognuna di queste scienze ha preso estensione sufficiente, per
richiedere che l’esame dei suoi reciproci rapporti dia luogo a lavori continui, i quali a loro volta diventano
indispensabili a prevenire la dispersione delle concezioni acquisite. Questo è il mio modo di concepire il posto della
filosofia positiva nel sistema generale delle scienze positive propriamente dette. Per lo meno questo è lo scopo di
questo corso» (ibidem).
L’influenza del Positivismo. Molti intellettuali, artisti e letterati, non soltanto in Francia, furono convinti della
validità delle idee e del programma positivista e vi collaborarono entusiasticamente, non solo in Francia, dove fu
importante la figura di Hyppolite Taine (1828 – 1893) che, proprio sulla scorta della dottrina di Comte, elaborò i
principi teorici fondamentali del naturalismo letterario, diffusosi in buona parte d’Europa in forme talora originali,
come accadde al verismo italiano ( Approfondimenti).
43
Percorsi della filosofia
Sezione 2
Sezione 2 – Il tramonto della modernità
L’età moderna si avvia ad un lento tramonto. Sono state poste le basi teoriche per una
crisi di tutti i valori che condurrà ad un lungo periodo di transizione. Già avviata da Marx,
l’opera di trasformazione dei paradigmi culturali viene radicalizzata da Nietzsche e Freud,
gli altri due «maestri del sospetto», che porranno le basi per un progressiva lettura della
contemporaneità in chiave di «postmodernità», non soltanto in senso storico e
cronologico.

Nietzsche

La rivoluzione della psicoanalisi

Oltre il Positivismo
[continua nel Tomo 2]
René Magritte, Golconde, olio su tela, 80,70 x 100,60, 1953.
.117
Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 1, Capitolo 1
UNITÀ DIDATTICA 1. NIETZSCHE
CAPITOLO 1. IL NICHILISMO
Con Nietzsche l’analisi dell’alienazione della civiltà occidentale raggiunge una consapevolezza talmente
lucida che soltanto Leopardi finora aveva mostrato. Lo studio della civiltà greca, da cui l’Occidente ha tratto
origine, mette in luce le radici della svolta nichilista su cui si fonda tutta la storia successiva dei popoli e degli
individui. La trasformazione della tragedia attica, il passaggio dal mito alla filosofia, il prevalere della
razionalità sulle passioni rappresentano i fattori genetici di una concezione metafisica e morale dell’esistenza
che ha prodotto un’umanità di schiavi.
PARAGRAFO 1. LA NASCITA DELLA TRAGEDIA
Friedrich Nietzsche (nell’immagine il suo ritratto eseguito da Eduard Munch nel 1906) segna una svolta decisiva nel
pensiero e nella civiltà occidentale, di cui ancor oggi in qualche modo si risentono gli effetti. Nella sua complessa e
geniale opera si ritrovano sintetizzati e rielaborati tutti i più importanti motivi di crisi della modernità e dell’intera
civiltà occidentale già presenti nella filosofia e nella cultura del suo tempo.
Nietzsche ha il merito fondamentale di averli sviluppati con originalità e incisività tali da farne i motivi fondanti di
un’età nuova, in cui hanno perso gran parte del loro significato tutti i valori della tradizione, metafisici, religiosi, morali,
ma anche scientifici e tecnici. La storia dell’Occidente è stata
mostrata da Nietzsche nella sua essenza profondamente alienante,
disumanizzante, distruttiva, e tutto il Novecento è stato
contrassegnato in modo indelebile dalla sua lucida e spietata
diagnosi di un’umanità in declino15.
Apollo e Dioniso. Nella sua prima importante opera, La
nascita della tragedia, Nietzsche risale alle origini dell’Occidente,
a quella civiltà greca che è stata la culla della civiltà europea.
Nella tragedia greca, di cui studia l’origine e lo sviluppo, Nietzsche
vede il manifestarsi dell’antica sapienza prefilosofica, incentrata
sui miti di Apollo e Dioniso ( Volume 1, Approfondimenti,
Percorso 1). Le due divinità rappresentano i simboli delle
componenti fondamentali della realtà e della personalità umana:
 Apollo, legato ai culti dell’oracolo di Delfi, dio del Sole, della conoscenza e della profezia, rappresenta la
razionalità, l’armonia, l’ordine e l’equilibrio;
 Dioniso, legato ai misteri di Eleusi, dio «terreno» dell’ebbrezza, dell’eros, dei cicli naturali (della vita e della
morte) rappresenta l’impulso primordiale e spontaneo, l’emozione, la passione, l’abbandono all’energia vitale.
Molto influenzato dalle dottrine di Schopenhauer, Nietzsche collega le due dimensioni psicologiche al dualismo del suo
ispiratore:
 lo spirito apollineo viene identificato con la rappresentazione, con l’illusione dell’individualità e con la
convinzione di poter dominare razionalmente la natura, ma in realtà è come un fragile battello su un mare in
tempesta;
 lo spirito dionisiaco viene assimilato alla volontà, alla cieca forza inconscia e irrazionale, all’energia
travolgente in cui l’individuo perde la propria soggettività e si sente tutt’uno con la natura:
15
Il Novecento, definito il «secolo breve» dallo storico Eric Hobsbawm (1917-2012) sotto il profilo
politico, può essere considerato un «secolo lunghissimo» se si guarda al tema della crisi dei valori assoluti,
avviata da Nietzsche, che ha inaugurato «l’epoca delle stelle danzanti e non più delle stelle fisse»: in
quest’ottica esso dura tuttora «e ancora ignoriamo quando e come potrà concludersi» (Eugenio Scalfari,
2005).
.118
Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 1, Capitolo 1
«E così potrebbe valere per Apollo, in un senso eccentrico, ciò che Schopenhauer dice dell’uomo irretito nel velo di
Maya (Mondo come volontà e rappresentazione, I): “Come sul mare in furia che, sconfinato da ogni parte, solleva e
sprofonda ululando montagne d’onde, un navigante siede su un battello, confidando nella debole imbarcazione; così
l’individuo sta placidamente in mezzo a un mondo di affanni, appoggiandosi e confidando nel principium
individuationis”. Si dovrebbe anzi dire di Apollo che l’incrollabile fiducia in quel principium e il placido acquietarsi
di colui che da esso è dominato, hanno trovato in lui la loro espressione più sublime, e si potrebbe definire lo stesso
Apollo come la magnifica immagine divina del principium individuationis, dai cui gesti e sguardi ci parla tutta la
gioia e la saggezza della “parvenza”, insieme alla sua bellezza. Nello stesso luogo Schopenhauer ci ha descritto
l’immenso orrore che afferra l’uomo, quando improvvisamente perde la fiducia nelle forme di conoscenza
dell’apparenza, in quanto il principio di ragione sembra soffrire un’eccezione in qualcuna delle sue configurazioni.
Se a questo orrore aggiungiamo l’estatico rapimento che, per la stessa violazione del principium individuationis, sale
dall’intima profondità dell’uomo, anzi della natura, riusciamo allora a gettare uno sguardo nell’essenza del
dionisiaco, a cui ci accostiamo di più ancora attraverso l’analogia con l’ebbrezza. O per l’influsso delle bevande
narcotiche, cantate da tutti gli uomini e dai popoli primitivi, o per il poderoso avvicinarsi della primavera, che
penetra gioiosamente tutta la natura, si destano quegli impulsi dionisiaci, nella cui esaltazione l’elemento soggettivo
svanisce in un completo oblio di sé. [...]
Ora lo schiavo è uomo libero, ora s’infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio o la
“moda sfacciata” hanno stabilito fra gli uomini. Ora, nel vangelo dell’armonia universale, ognuno si sente non solo
riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso, come se il velo di Maya fosse stato
strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla misteriosa unità originaria. Cantando e danzando, l’uomo si
manifesta come membro di una comunità superiore: ha disimparato a camminare e a parlare ed è sul punto di
volarsene in cielo danzando. Dai suoi gesti parla l’incantesimo. Come ora gli animali parlano, e la terra dà latte e
miele, così anche risuona in lui qualcosa di soprannaturale: egli sente se stesso come dio, egli si aggira ora in estasi e
in alto, così come in sogno vide aggirarsi gli dèi» (F. Nietzsche, La nascita della tragedia, § 1).
Nonostante i parallelismi, già la differenza rispetto al pessimismo di Schopenhauer si affaccia nell’ultima parte del
brano:
 da una parte, l’apollineo è fonte di schiavitù, di costrizione, di finzione: la razionalità tende a costruire schemi
rigidi che cercano invano di dominare la potenza della natura;
 ma, d’altro canto, la furia scatenata della volontà non è affatto distruttiva; al contrario sembra piuttosto
liberatoria: abbandonarsi alle passsioni sfrenate, conduce all’estasi dionisiaca, all’incantesimo, ai canti e alle
danze, al volo verso una dimensione superiore, che è quella stessa degli dèi.
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 1, Capitolo 1
FRIEDRICH NIETZCHE. VITA E OPERE
Friedrich Wilhelm Nietzsche (Röcken, 15 Ottobre 1844 – Weimar, 25 Agosto 1900), appartenente ad
una stirpe di pastori protestanti, inizia gli studi di Lettere classiche e Religione a Naumburg, dove la
famiglia risiede dopo la morte del padre. In famiglia apprende la musica e il canto; scrive alcune
composizioni musicali sia vocali che strumentali e compone poesie; legge Goethe, Hölderlin e Byron.
Già distintosi per le sue non comuni doti intellettuali, nel 1858 inizia a frequentare il ginnasio di Pforta e,
due anni dopo fonda l’associazione Germania, con la quale si propone di sviluppare i suoi interessi
letterari e musicali; per essa scrive alcuni saggi, ispirati ad Emerson. Nel 1864 entra nell’Università di
Bonn come studente di Teologia (per volere materno, ma regge per appena una sessione). Nel 1865, si
iscrive all’Università di Lipsia, per continuare a seguire le lezioni di Filologia classica di Friedrich Ritschl,
già suo insegnante a Bonn. Rimane affascinato da Platone e, soprattutto, da Emerson e Schopenhauer,
che influenzeranno tutta la sua produzione. Congedato anticipatamente, per un infortunio, dal servizio
militare e tornato a Lipsia, l’Università lo premia per un suo saggio sulle fonti di Diogene Laerzio e lo
assume come insegnante privato. L’8 Novembre conosce Richard Wagner. Il 13 Febbraio 1869 ottiene
la cattedra di Lingua e Letteratura greca dell’Università di Basilea (il più giovane e brillante insegnante
della scuola), tenendovi, il 28 Maggio, la prolusione sul tema Omero e la filologia classica, mentre
l’Università di Lipsia gli concede la laurea sulla base delle sue pubblicazioni nel Rheinisches Museum;
nella stessa Basilea conosce Jacob Burckhardt e, a 25 anni, chiede l’annullamento della sua
precedente cittadinanza prussiana. Dal 17 Maggio aveva cominciato a frequentare, nella villa di
Tribschen, sul lago dei Quattro Cantoni, Richard e Cosima Wagner, rimanendone fortemente colpito:
«Ciò che imparo laggiù, che vedo e ascolto e intendo, è indescrivibile. Schopenhauer, Goethe, Eschilo
e Pindaro vivono ancora». Afferma, dunque, che quelli furono, forse, i giorni più belli della sua vita.
Nel 1871 pubblica La nascita della tragedia che viene male accolto dai filologi per le sue posizioni in
contrasto con il pensiero accademico: è in questa situazione che N. sente di essere inattuale e scopre
l’incompatibilità tra il pensatore privato e il professore accademico. Fra il 1873 ed il 1876 scrive le
quattro Considerazioni Inattuali. Nella quarta, su Wagner, esplicita le sue riserve sul compositore e
inizia il dissidio con l’amico di un tempo. Nel 1878, N. inaugura la grande critica dei valori con l’opera
Umano, troppo umano, provocando reazioni negative da parte dei suoi amici.
A causa della malattia, ma, soprattutto, per dedicarsi con assiduità all’attività filosofica, a 34 anni,
abbandona l’insegnamento. Gli viene riconosciuta una modesta pensione che costituirà, d’ora in poi,
l’unico suo introito. Senza casa e senza patria, si sposta da un luogo all’altro, in Svizzera e in Italia. Nel
1882 incontra, a Roma, tramite la comune amica e nota scrittrice femminista Malwida von Meysenbug,
Lou Andreas von Salomé, una giovane studentessa russa in viaggio d’istruzione attraverso l’Europa. A
Maggio, durante una gita sul lago d’Orta, con questa ragazza ventunenne «intelligentissima», passa
alcune ore di intimità. In seguito, la Salomé non ricordò se avesse baciato N., del quale, comunque,
rifiutò una proposta di matrimonio, come, del resto, quella dell’amico di entrambi, Paul Rée, che le
aveva presentato Nietzsche e con il quale si era formato una sorta di rapporto triadico filosoficosentimentale. Le sue sofferenze continuano, mentre prosegue la sua opera di critica totale con le sue
più importanti opere, Aurora (1880), La gaia scienza (1882), Così parlò Zarathustra (i cui quattro libri
scrisse fra il 1883 e il 1885), Al di là del bene e del male (1886), Genealogia della morale (1887). Nel
1888, si trasferisce a Torino, che apprezza particolarmente,e dove scrive L’Anticristo (1888), Il
crepuscolo degli idoli (1888), Ecce Homo e la Volontà di potenza (pubblicati entrambi postumi). Nel
1889 avviene il famoso crollo mentale, le cui cause sono ancora indeterminate (  Approfondimenti). È
datata 3 Gennaio 1889 la prima crisi di follia in pubblico: mentre si trovava in piazza Carignano, nei
pressi della sua casa torinese, vedendo il cavallo adibito al traino di una carrozza fustigato a sangue dal
cocchiere, abbracciò l’animale e pianse; in seguito cadde a terra, urlando in preda a spasmi. Trasferito,
nel 1897, nella casa di Weimar vi muore di polmonite. La sorella aveva fondato il Nietzsche-Archiv, ma,
sposata con un filonazista antisemita, ha anche la grave responsabilità di aver messo il pensiero del
fratello al servizio del nazismo.
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 1, Capitolo 1
La tragedia attica. I due spiriti possono essere contrapposti, ma possono anche coesistere nella stessa personalità
o nella stessa società, completandosi a vicenda e dando luogo ad un’umanità che si esprime attraverso tutte le proprie
facoltà, vivendo un’esistenza piena.
Essa è tale soltanto se la razionalità, senza pretendere di assoggettare la natura, diviene consapevole della struttura del
divenire, che implica sia il dolore che il piacere, sia la vita che la morte, imparando così ad immergersi nel perenne e
imprevedibile fluire della volontà dionisiaca.
La grande tragedia greco-attica del V secolo a.C., con Eschilo e Sofocle, ha ben espresso questa compenetrazione dei
due spiriti, dando forma apollinea alle vicende degli eroi dionisiaci.
Per Nietzsche, come per Schopenhauer, tutto è governato dal cieco caso e la razionalità non può pretendere di
assoggettare la natura alla necessità logica.
Apollo, però, è anche il dio della poesia e, come nella tragedia attica, nata dallo spirito della musica, la sintesi di Apollo
e Dioniso potrebbe ancora far rinascere lo spirito tragico, come sembra accada soprattutto nell’opera dell’amico Richard
Wagner ( Approfondimenti).
Il dominio dell’apollineo e il nichilismo. Quella magica compenenetrazione dei due spiriti si è, infatti, perduta
nella storia dell’Occidente, già dagli sviluppi successivi della tragedia attica, con il realismo razionalistico di Euripide,
con i suoi personaggi anti-eroici. Parallelamente, l’antica sapienza greca, che aveva continuato a vivere nella filosofia
pre-socratica, si trasforma definitivamente, con Socrate, nella filosofia. L’apollineo inizia a prendere il sopravvento sul
dionisiaco, la razionalità pretende di dominare le passioni.
L’importanza di Socrate, in quella che Nietzsche considera la decadenza della civiltà occidentale, è di assoluto rilievo.
La speculazione socratica influenza gran parte del pensiero filosofico successivo e plasma la tendenza generale della
cultura antica e medioevale.
La decadenza dell’Occidente propriamente è nichilismo, cioè annientamento teorico-pratico della vita concreta e reale,
dell’energia primaria, degli impulsi fondamentali, delle emozioni e delle passioni.
Dal punto di vista teoretico la distruzione della vita deriva direttamente dalla negazione del divenire e della corporeità
(che soltanto Eraclito aveva saputo valorizzare). È la ragione, separata dal corpo e assolutizzata, che nella ricerca
socratica del concetto univerale e immutabile ritiene di poter trovare l’essere eterno, infinito e perfetto.
Il «rimedio». Dal punto di vista psicologico, si tratta di trovare un rimedio all’angoscia prodotta dal divenire, che
non è soltanto vita, piacere e gioia, ma è anche dolore e morte. Il rimedio è, appunto, l’immutabile che, nella sua
perfezione ed eternità, costituisce la salvezza dal divenire.
Nella successiva opera Il crepuscolo degli idoli, di straordinaria incisività nella sintesi dei capisaldi del suo pensiero,
Nietzsche illustra il «problema di Socrate»: trovare una soluzione alla vita intesa come malattia, al pericolo di
perdizione costituito dagli istinti e dagli impulsi vitali, all’imperfezione del divenire. La soluzione del problema è la
tirannia della ragione su cui si fonda la virtù, cioè la morale del perfezionamento, che ha come premio la salvezza
eterna.
Ecco la matrice del nichilismo: la vita non vale niente, la felicità è possibile soltanto mediante la progressiva
spiritualizzazione della propria condotta di vita, l’indipendenza dai bisogni materiali, la repressione degli impulsi vitali,
il dominio delle passioni. Si rinnega la vita vera per inseguire una vita migliore, immaginata come infinitamente felice,
eterna e perfetta.
PARAGRAFO 2. LA DECADENZA DELL’OCCIDENTE
La morale contronatura. È la morale contronatura che, istituita da Socrate, ispirerà tutte le epoche successive,
trovando la propria massima realizzazione teorico-pratica nel Cristianesimo, la morale del perfezionamento per
eccellenza, la morale del nichilismo assoluto, con la sua negazione del valore della vita terrena, con la sua proiezione di
tutto il valore nella vita ultraterrena:
«Consideriamo infine ancora quale ingenuità sia dire: “L’uomo dovrebbe essere così e così!”. La realtà ci mostra
una meravigliosa ricchezza di tipi, il rigoglio di un prodigo giostrare e alternarsi di forme: e un qualunque misero
fannullone di moralista vien fuori a dire: “No! l’uomo dovrebbe essere diverso”?... Egli sa perfino come dovrebbe
essere, questo bigotto malridotto. Ma anche quando si limita a rivolgersi all’individuo e a dirgli: “Tu dovresti essere
così e così!”, il moralista non cessa di rendersi ridicolo. L’individuo è una parte del fato, davanti e didietro, una
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 1, Capitolo 1
legge in più, una necessità in più per tutto ciò che accade e accadrà. Dirgli: “Cambia”, significa pretendere che tutto
cambi, addirittura anche all’indietro […] E in realtà ci furono moralisti coerenti: volevano l’uomo diverso, ossia
virtuoso, lo volevano a loro immagine, cioè come bigotto; e a tal fine negavano il mondo! Una non piccola follia!
Una forma non modesta di immodestia! La morale, in quanto condanna, è in sé, non per rispetti, riguardi, intenti
della vita, un errore specifico, di cui non bisogna avere pietà, un’idiosincrasia da degenerati, che ha arrecato danni
incalcolabili!» (F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, «Morale come contronatura», § 6).
La metafisica e la teologia. L’allievo prediletto di Socrate, Platone ( Volume 1, Sezione 1, Unità 3, Capitolo
2), aveva poi completato l’opera, dando a sua volta un’impronta decisiva alla decadenza, al nichilismo occidentale, con
l’invenzione della metafisica e del dualismo tra «mondo vero» e «mondo apparente»:
 il mondo apparente è la realtà sensibile, molteplice e diveniente;
 il mondo vero è l’idea immutabile, eterna e perfetta.
Quella di Platone è una forma di feticismo: considerando l’individuo non come un organismo che diviene, ma come
un’entità autonoma, dotata di volontà libera, costruisce l’idea dell’«io», come essere e come sostanza, poi proietta
questa concezione su tutta la realtà e genera il concetto di «cosa» e quello di essere come «causa».
Proseguendo su questa strada, il Cristianesimo trasforma la metafisica in teologia e produce il concetto di Dio come
Essere assoluto, Causa Prima, Perfezione, Verità, Bene: «la cosa ultima, più sottile, più vuota è posta come la prima,
causa sui, ens realissimum» (op. cit., «La “ragione” nella filosofia», § 4).
È un errore tipico di quasi tutti i filosofi: scambiare ciò che è primo con ciò che è ultimo, porre all’inizio ciò che viene
alla fine: i concetti supremi della metafisica (come l’Essere) sono in realtà «i più vuoti, generici, l’ultimo fumo della
realtà che evapora» (ibidem).
Il rimedio peggiore del male. Il nichilismo della metafisica e della religione occidentale ha prodotto un
rovesciamento devastante: ha creduto apparente l’unico mondo reale (dato che un’altra realtà, diversa da quella
terrena, è assolutamente indimostrabile) ed ha costruito un mondo reale, che ha i caratteri del nulla, di ciò che non
esiste, che è del tutto apparente, «frutto di un’illusione ottico-morale» (op. cit., «La “ragione” nella filosofia», § 6).
In questo senso il rimedio è peggiore del male: la presunta salvezza dall’angoscia del divenire non è soltanto una
gigantesca menzogna ma, ed è la conseguenza più grave, sottomette gli individui, i popoli e le nazioni al dominio di una
morale della colpa e del peccato, della rinuncia e del sacrificio, che annienta l’essenza stessa della vita. L’idea di Dio è
la più grande menzogna, il compendio di tutte le menzogne, ma è anche la più grande obiezione contro l’esistenza,
contro la creatività e l’energia vitale.
Il paradosso del nichilismo occidentale è questo: che per sfuggire alla morte, per proteggere la vita dai rischi del
divenire, per ottenere sicurezza e stabilità, certezze e punti di riferimento fissi, si è mutilata, alienata e distrutta proprio
quella vita che si voleva salvare.
La critica sviluppata da Nietzsche riecheggia quelle già svolte da Feuerbach ( Sezione 1, Unità 3, Capitolo 1,
Paragrafo 2), Stirner ( Sezione 1, Unità 3, Capitolo 1, Paragrafo 3) e Marx ( Sezione 1, Unità 3, Capitolo 2,
Paragrafo 3), ma si appresta a raggiungere una radicalità ben maggiore, con l’evolversi del suo pensiero.
La critica a Kant. Questa lunga storia di declino, che ha conosciuto ben poche eccezioni, nel Rinascimento
italiano, o in certe grandi figure del Proto-Romanticismo come Goethe, è giunta fino a Kant, ultimo grande epigono del
nichilismo metafisico (nega la metafisica come conoscenza, ma afferma l’esistenza della cosa in sé) e, soprattutto,
morale: è la terza delle grandi tappe della decadenza (platonismo antico, cristianesimo medioevale e dualismo
moderno):
«1. Il mondo vero, raggiungibile per il saggio, il pio, il virtuoso - egli vive in quel mondo, egli è quel mondo. (La
più antica forma dell’idea, relativamente intelligente, semplice, convincente. Parafrasi della proposizione “Io,
Platone, sono la verità”).
2. Il mondo vero, irraggiungibile per ora, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso (“al peccatore che fa
penitenza”). (Progresso dell’idea: diventa più sottile, più insidiosa, meno comprensibile - diventa donna, diventa
cristiana...).
3. Il mondo vero, irraggiungibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un
dovere, un imperativo. (Il vecchio sole, in fondo, ma attraverso la nebbia e lo scetticismo; l’idea divenuta sublime,
pallida, nordica, konigsberghese)» (op. cit., «Storia di un errore. Come il “mondo vero” finì per diventare favola»).
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 1, Capitolo 1
La critica dell’idealismo. Nietzsche (nell’immagine la sua firma autografa) fa i conti anche con l’idealismo di
Hegel con il quale è comunque in debito: dal superamento dialettico del dualismo e dall’ontologia del divenire ha
imparato parecchio. Ora però gli rimprovera duramente (come già avevano fatto Feuerbach –  Sezione 1, Unità 3,
Capitolo 1, Paragrafo 2 - e Marx -  Sezione 1, Unità 3, Capitolo 2,
Paragrafo 1) l’assolutizzazione della storia, estrema forma di metafisica e di
teologia che annienta la vita e rende impossibile, di fatto, il divenire, in
quanto concepito come un processo logicamente necessario, già tutto
contenuto nell’idea e avviato ad una sintesi che risolve tutte le contraddizioni:
«La storia, pensata come pura scienza e divenuta sovrana, sarebbe una specie di chiusura e liquidazione della vita
per l’umanità. […] La storia, in quanto sia al servizio della vita, è al servizio di una forza non storica, e perciò non
potrà né dovrà diventare mai, in questa subordinazione, pura scienza, come per esempio lo è la matematica. Ma la
questione fino a che grado la vita abbia bisogno in genere del servizio della storia, è una delle questioni e
preoccupazioni più alte riguardo alla salute di un uomo, di un popolo, di una cultura. Perché con un certo eccesso di
storia la vita si frantuma e degenera, e alla fine a sua volta, a causa di questa degenerazione, va perduta la storia
stessa.
[…] Credo che in questo secolo non ci sia stata nessuna deviazione o svolta pericolosa della cultura tedesca, che non
sia diventata più pericolosa ancora per l’enorme influenza, fino a questo momento ancora dilagante, di questa
filosofia, ossia della filosofia hegeliana. In verità, la credenza di essere un epigono di altri tempi è paralizzante e
deprimente: terribile e distruttivo deve però apparire il fatto che un bel giorno una tale credenza divinizzi con ardito
capovolgimento questo frutto tardivo come il vero senso e scopo di tutto quanto è precedentemente accaduto, il fatto
cioè che la sua sapiente miseria venga equiparata a un compimento della storia del mondo. Una tale maniera di
considerare ha abituato i Tedeschi a parlare del “processo del mondo” e a giustificare il proprio tempo come il
risultato necessario di questo processo del mondo; una tale maniera di considerare ha messo la storia al posto delle
altre forze spirituali, l’arte e la religione, come unicamente sovrana, in quanto essa è “il concetto che realizza se
stesso”, in quanto essa è “la dialettica degli spiriti dei popoli” e il “giudizio universale”» (F. Nietzsche,
Considerazioni inattuali, II, «Sull’utilità e il danno della storia per la vita»).
Alla vita, che è innovazione e creatività, è necessario invece soprattutto l’oblio ( Approfondimenti).
La critica a Schopenhauer. Ma ormai la revisione critica dell’Occidente investe persino l’anti-idealista
Schopenhauer, con la sua noluntas negatrice della vita, con il suo nichilismo ascetico, con la sua finta anti-metafisica,
distruttrice degli impulsi e delle passioni ( Sezione 1, Unità 1, Capitolo 2, Paragrafo 7).
Anche Wagner viene ormai ricusato, anche la sua è arte decadente ( Approfondimenti).
Ora Nietzsche guarda temporaneamente alla scienza come strumento critico nei confronti delle illusioni metafisicomorali.
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 1, Capitolo 1
Ritratto di Friedrich Nietzsche, 1882; opera del fotografo Gustav Schultze
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1
UNITÀ DIDATTICA 2. LA RIVOLUZIONE DELLA PSICOANALISI
CAPITOLO 1. SIGMUND FREUD: LA NASCITA DELLA PSICOANALISI
La psicologia e la psichiatria nate nell’ambito del pensiero scientista vengono completamente rivoluzionate
da Sigmund Freud, che dà origine ad una «scienza del soggetto», il cui valore antropologico, sociologico e
filosofico è di grande rilievo. Si tratta della psicoanalisi, nata come metodo di cura e poi divenuta una
psicologia del profondo e una filosofia della conoscenza integrale della psiche. Centrale nella psicoanalisi
non è la scoperta dell’inconscio, già studiato in precedenza, ma la metodologia per comprenderne le
dinamiche, in relazione alla struttura della personalità umana e dei suoi comportamenti.
PARAGRAFO 1. LA NASCITA DELLA PSICOANALISI
La rivoluzione culturale ed epistemologica avviata dalla psicoanalisi è il frutto di un processo in atto da tempo nella
filosofia occidentale, in cui l’importanza delle dinamiche inconsce per il costituirsi della personalità dell’uomo e dei
suoi comportamenti aveva raggiunto, soprattutto con Schopenhauer e Nietzsche, una
notevole profondità.
Il merito di Sigmund Freud (nell’immagine, la foto pubblicata sulla copertina della
rivista Life, nel 1938) fu quello di trasformare l’analisi dell’inconscio in una nuova
scienza, le cui caratteristiche non avevano pressoché nulla in comune con le scienze
della natura, quelle scienze positive che all’epoca erano in pieno sviluppo e che si
erano ormai estese anche al campo della psiche umana (con la nascita della psicologia
scientifica  Sezione 1, Unità 2, Capitolo 3, Paragrafo 4). Anche la psichiatria medica
era influenzata dalle dottrine positiviste e da concezioni meccaniciste.
La rivoluzione freudiana è ancor più significativa se si considera che egli era un
neurologo e un medico psichiatra, che fu pronto a percorrere nuove strade, quando
comprese che le terapie tradizionali non funzionavano e, soprattutto, che si fondavano
su un modello teorico riduttivo e inadeguato. Freud comprese che per studiare la psiche
umana occorreva superare il riduzionismo scientista, allora in auge, ed elaborare un
modello interpretativo della personalità umana più aperto e complesso. Fu proprio la pratica clinica e terapeutica ad
indurlo a tentare nuove strade e a formulare ipotesi che riuscì poi a verificare.
Il nuovo metodo lo esperimentò e lo mise a punto con la cura dell’isteria16, un particolare disturbo che affliggeva
soprattutto le signore della buona società ed era classificato nell’ambito delle nevrosi ( Glossario), con un termine
improprio che ne faceva risalire l’origine ad una malattia dell’organismo fisico, cioè del sistema nervoso.
Egli, invece, faceva parte di coloro che pensavano di poterli classificare come disturbi psichici, che potevano avere la
loro causa nei processi inconsci della personalità. Pertanto venivano curati con l’ipnosi17, che Freud imparò da Charcot
e utilizzò insieme a Breuer. Ben presto, insoddisfatto per i risultati, abbandonò l’ipnosi e praticò quella che può essere
definita una «terapia della parola».
16
L’isteria prende il nome dal termine greco hystéron, utero, poiché nell’antica Grecia si attribuivano
tali sintomi a disturbi dell’utero.
17
Tecnica usata per indurre uno stato di trance simile al sonno (in greco hypnos) e accedere a
contenuti inconsci.
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1
SIGMUND FREUD. VITA E OPERE
Sigismund Schlomo Freud (che nel 1877 abbreviò il suo nome in Sigmund), figlio di Jacob Freud e della
sua terza moglie Amalia Nathanson, nacque a Freiberg (Příbor) il 6 maggio 1856. Non ricevette dal
padre ebreo un’educazione tradizionalista, eppure già in giovanissima età si appassionò alla cultura e
alle scritture ebraiche, in particolare allo studio della Bibbia. Dopo gli studi in un ginnasio privato, si
laureò in medicina (1881) e dopo alcune esperienze di lavoro nel campo della zoologia e della neuro
istologia, presso l’Ospedale generale di Vienna si dedicò alla cura di pazienti affetti da turbe
neurologiche.
Nel 1885 ottenne la libera docenza e ciò gli assicurò facilitazioni nell’esercizio della professione medica.
La notorietà e la stima dei colleghi gli permise una facile carriera accademica, sino ad ottenere la
cattedra di professore ordinario. Nel biennio 1885-1886 iniziò gli studi sull’isteria e con una borsa di
studio si recò a Parigi, dove era attivo Jean-Martin Charcot. Questi, sia per i suoi metodi che per la sua
forte personalità, suscitò notevole impressione sul giovane Freud. Le modalità di cura dell’isteria
attraverso l’ipnosi, insegnatagli da Charcot, furono applicate da Freud dopo il rientro a Vienna, ma i
risultati furono deludenti.
Il 13 maggio 1886 sposò Martha Bernays. Un anno dopo (1887) nacque la prima figlia, Mathilde,
seguita da altri cinque figli, di cui l’ultima, Anna, diventò a sua volta un’importante psicoanalista.
Nel 1886 aveva iniziato l’attività privata aprendo uno studio a Vienna. Utilizzò diverse tecniche
terapeutiche, tra cui l’ipnosi. Una svolta importante nella sua attività fu favorita dalla collaborazione con
il fisiologo Josef Breuer che curava l’isteria attraverso l’ipnosi. Un significato rilevante ebbero le loro
discussioni e scoperte sui ricordi traumatici nel caso della paziente Anna O., descritto nel 1895 in Studi
sull’isteria.
Ma Freud stava prendendo le distanze da Breuer e metteva a punto il suo nuovo metodo catartico, la
psicoanalisi, di cui «il sogno dell’iniezione di Irma», nella notte tra il 23 e il 24 luglio 1895, fu uno degli
eventi inaugurali, secondo la ricostruzione che ne fa, nella sua opera fondamentale del 1900,
L’interpretazione dei sogni.
Nel 1907 iniziò la sua importante collaborazione con lo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung e due anni
dopo entrambi furono invitati negli Stati Uniti per una serie di conferenze.
Nel 1910, al Congresso di Norimberga (30-31 marzo) fu fondata l’Associazione Psicoanalitica
Internazionale, la cui presidenza, per volere di Freud, venne affidata a Jung, mentre un altro dei suoi
seguaci, Alfred Adler, fu incaricato di dirigere il giornale dell’associazione, la Rivista centrale di
psicoanalisi. Già allora circoli medici legati alla psicoanalisi erano presenti a Berlino, Vienna, Zurigo,
Budapest, Bruxelles, negli Stati Uniti, in Unione Sovietica, in Francia, in Italia e in Australia.
Tra le sue conoscenze, che hanno influito anche sullo sviluppo del suo pensiero, vanno citate Lou
Andreas von Salomé, che frequentava i più innovativi intellettuali europei, come Nietzsche, e Sabina
Spielrein, una paziente di Jung, che divenne in seguito a sua volta psicoanalista, e fu la prima a scrivere
sulla pulsione di morte (Freud la citò in una nota di Al di là del principio di piacere, 1920).
La presa del potere da parte di Hitler in Germania, nel 1933, fu l’inizio del periodo più problematico per
Freud, le cui opere furono inserite nella lista dei libri che dovevano essere bruciati. Nel 1938, dopo
l’annessione dell’Austria al Terzo Reich, Freud con la figlia Anna, scelse di riparare in esilio a Londra,
nel quartiere residenziale Hampstead, nella casa che, dopo la propria morte, Anna dispose che fosse
trasformata in museo.
Morì di una grave malattia Il 23 settembre 1939.
Altre sue importanti opere, oltre a quelle già citate: Psicopatologia della vita quotidiana (1901), Totem e
tabù (1913), Introduzione alla psicoanalisi (1915-1917), L’Io e l’Es (1923), L’avvenire di un’illusione
(1927), Il disagio della civiltà (1929).
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1
La scoperta della rimozione. In pratica, Freud cercava di mettere a proprio agio il paziente, facendogli assumere
una comoda posizione dorsale su un divano (nella foto, il celebre divano conservato al Freud Museum di Londra),
stando seduto alle sue spalle, nascosto alla sua vista. La
seduta terapeutica procedeva come un colloquio tra due
persone, una delle quali veniva invitata dal medico a
parlare dei propri sintomi, ma anche a lasciarsi andare
liberamente al flusso dei propri pensieri, dicendo tutto
quello che gli passasse per la mente, soprattutto le idee
apparentemente incoerenti o insensate.
Freud, infatti, ipotizzò che la libera associazione di idee
fosse un ottimo sistema per accedere alla parte inconscia
della psiche del paziente.
Così egli fece le prime scoperte fondamentali per
costruire il modello teorico capace di illuminare la
struttura della psiche umana.
Si rese ben presto conto che:
 nei racconti dei pazienti vi erano delle lacune,
delle dimenticanze, delle amnesie, delle interruzioni nella continuità logica o cronologica narrativa;
 il tentativo del medico di colmare le lacune, chiedendo uno sforzo supplementare al paziente, veniva in genere
respinto con una certa resistenza;
 quando affiorava un’idea improvvisa che poteva colmare la lacuna, il paziente provava un profondo disagio.
Freud chiamò rimozione il processo che genera nella psiche del paziente quelle amnesie, al cui affiorare oppone tanta
resistenza o prova un disagio così forte. Era una scoperta cruciale che così egli stesso racconta nella sua Autobiografia:
«Come mai i malati avevano dimenticato tante circostanze della loro vita vissuta, esterna e interna, ed erano poi
riusciti a ricordarle quando si era applicata al loro caso la tecnica da noi illustrata? A questi interrogativi l’esperienza
dava risposte esaurienti. Tutto ciò che era stato dimenticato corrispondeva, per un motivo o per l’altro, a qualcosa di
penoso, a qualcosa che per la personalità del soggetto, e per le sue esigenze, era temibile, doloroso o vergognoso. Mi
veniva spontanea la conclusione che proprio per questo tali cose erano state dimenticate, ossia non erano rimaste
coscienti. Per renderle nuovamente coscienti bisognava vincere nel paziente qualcosa che a ciò si opponeva, e per
ottenere tale risultato il medico doveva prodigarsi in un’opera di insistente convincimento. Lo sforzo richiesto al
medico era di entità variabile a seconda dei casi, e aumentava in proporzione diretta alle difficoltà che il malato
aveva a ricordare. Il dispendio di energia da parte del medico era palesemente ciò che dava la misura della resistenza
da parte del malato. Non c’era da fare altro che tradurre in parole ciò che io stesso avevo sperimentato: fu così che
venni in possesso della teoria della rimozione.
Il processo patogeno poté essere ricostruito a questo punto senza difficoltà. Per restare al caso più semplice,
ammettiamo che nella vita psichica si produca una certa tendenza alla quale altre tendenze più forti si oppongano:
stando alle nostre aspettative il conflitto psichico che in tal modo si è creato dovrebbe svolgersi in modo tale che le
due grandezze dinamiche – che per i nostri scopi chiameremo pulsione e resistenza – lottino per un po’ fra loro con
grandissima partecipazione della coscienza, fino a quando la pulsione sia ripudiata e alla tendenza che le
corrisponde sia sottratto l’investimento. Questa sarebbe l’evoluzione normale. Tuttavia, nella nevrosi, per motivi
ancora sconosciuti, il conflitto si era concluso in un modo diverso. L’Io si era per così dire ritratto al primo incontro
con il moto pulsionale sconveniente, gli aveva sbarrato l’accesso alla coscienza, nonché alla scarica motoria diretta;
nel contempo, però, il moto pulsionale aveva mantenuto intatto il proprio investimento energetico. È questo il
processo che chiamai rimozione: si tratta di una novità assoluta, non essendo mai stato scoperto da nessuno nulla di
simile nella vita psichica. Evidentemente era il meccanismo di difesa primario, paragonabile a un tentativo di fuga,
solo un antecedente di quella che in seguito sarebbe diventata la normale attività giudicante» (S. Freud,
Autobiografia).
È interessante osservare che, prendendo lo spunto da esperienze cliniche che si prefiggono scopi terapeutici ben precisi,
Freud è indotto a formulare una teoria generale sul funzionamento della psiche umana, con la quale spiegare anche le
alterazioni del comportamento e della personalità, le cosiddette nevrosi.
La sua ipotesi su una possibile situazione «normale» è la seguente:
 supponiamo che nella vita dell’individuo si manifesti una certa tendenza, a cui Freud dà il nome di pulsione:
per esempio, il desiderio di compiere un atto che è sconveniente, o esplicitamente proibito;
.147
Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1

a tale tendenza si può opporre il senso del dovere, che fa resistenza alla possibilità di metter in atto quel
comportamento desiderato;
 il conflitto psichico dovrebbe svolgersi alla luce della coscienza, sicché
o la lotta tra le due forze potrebbe concludersi con la rinuncia al comportamento desiderato,
o che dovrebbe perdere anche la sua carica di energia psichica («l’investimento»).
Ma l’esperienza clinica mostra, riguardo a questi ultimi punti, uno sviluppo completamente diverso nelle nevrosi:
 l’io conscio non partecipa al conflitto psichico, poiché alla pulsione viene impedito l’accesso alla coscienza
attraverso la rimozione: essa non è altro che il risultato di una forza che sospinge nell’inconscio la pulsione; in
conseguenza di ciò:
o anche il comportamento desiderato, ritenuto sconveniente, viene impedito da una forza inconscia che
si manifesta nella resistenza del soggetto al riemergere di certe idee o emozioni legate alla pulsione
rimossa; si tratta di un meccanismo di difesa, che tiene lontani dalla coscienza ricordi sgraditi e
dolorosi, perché legati a desideri irrealizzabili;
o nel contempo, tuttavia, la pulsione resta attiva, poiché conserva intatta tutta la sua carica di energia
(«l’investimento energetico»).
La manifestazione indiretta dell’inconscio. L’ultimo punto è molto importante: Freud, infatti, scopre che la
pulsione rimossa non soltanto non scompare, ma resta sempre attiva nell’inconscio. Ne segue che il conflitto psichico
non si conclude affatto ma, continuando, produce effetti di grande rilievo: le idee improvvise e incoerenti a cui il
paziente resiste e i suoi stessi comportamenti anomali (quelli che lo fanno ritenere «malato») sarebbero dei derivati
delle pulsioni rimosse, cioè modi con cui le pulsioni stesse (bisogni e desideri dotati di una carica energetica notevole)
trovano comunque soddisfazione, nonostante la coscienza non le riconosca come accettabili. Si tratta però di derivati
deformati dalla lotta con la resistenza che si oppone alle pulsioni. Si tratta, insomma, di forze psichiche deviate rispetto
al loro obiettivo originario e che trovano un appagamento indiretto:
«Dal primo atto della rimozione derivano alcune ulteriori conseguenze. Innanzi tutto l’Io era costretto a difendersi
dal costante, incombente assillo del moto rimosso con un dispendio permanente di energia, e cioè con un
controinvestimento, e nel far ciò s’impoveriva; d’altro lato il rimosso, che ora era inconscio, poteva scaricarsi e
ottenere soddisfacimenti sostitutivi per vie traverse, facendo in tal modo andare a vuoto gli intenti della rimozione
stessa. Nell’isteria di conversione questa strada indiretta portava all’innervazione somatica, l’impulso rimosso
irrompeva in un punto qualsivoglia [del corpo] dando luogo ai sintomi, che erano dunque risultati di compromesso e
soddisfacimenti sostitutivi, deformati però e deviati rispetto alle loro mete a causa della resistenza dell’Io» (ibidem).
Ora si tratta di metter a punto una metodologia di interpretazione che consenta di risalire dai sintomi al materiale
psichico originario, cioè di comprendere il significato delle associazioni libere e dei sintomi nevrotici, mettendo «a
nudo le rimozioni», riportando alla luce della coscienza ciò che è stato prima rimosso e poi deformato e deviato.
In tal modo Freud arriva a perfezionare il suo metodo di cura, che tende a far scomparire i sintomi o a renderli
inoffensivi per il paziente che abbia preso piena coscienza delle proprie pulsioni incosce rimosse, « sostituendole con
un’opera di valutazione da cui scaturisse o l’accettazione o la condanna di quel che a suo tempo era stato ripudiato»
(ibidem).
La «prima topica». Comunque, ora Freud dispone di un primo modello della psiche umana, la cosiddetta «prima
topica», cioè una teoria dei luoghi (dal greco tópos, luogo) psichici18, con cui distingue:
 io cosciente, che include l’intelletto, la volontà e la memoria:
o obbedisce al principio di realtà, che è un principio di adattamento alle condizioni di soddisfazione di
un desiderio o di un bisogno (in altre parole, si tende a volere soltanto ciò che si può realizzare);
 preconscio, zona di transizione, da cui ricordi dimenticati possono facilmente riaffiorare;
 inconscio, in cui sono contenute tutte le esperienze domenticate, i desideri irrealizzabili, le fantasie che
producono disagio:
o obbedisce al principio di piacere, che pretende l’appagamento immediato del bisogno o del desiderio.
18
La rappresentazione spaziale è la metafora di una realtà dinamica (si tratta di forze in conflitto).
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1
L’inconscio costituisce la parte preponderante dell’attività psichica rispetto ai sistemi comunicanti coscienza-preconscio
che si oppongono all’emergere dei contenuti rimossi.
Valido per interpretare la personalità e il comportamento dei nevrotici, questo schema che rappresenta in forma
simbolica spaziale i conflitti psichici, lo è altrettanto per capire in generale il funzionamento della psiche «normale» e
dei conflitti che vi si celano.
«Normalità» e «follia». Le sue scoperte stanno ponendo i presupposti per capire che la differenza tra un nevrotico
e un individuo cosiddetto normale si misura soltanto sulla base dell’intensità di certi fenomeni e non è una differenza di
qualità o di condizione. Anche l’autoanalisi che egli condusse a partire dal 1895 lo convinse della validità di questo
orientamento.
Dunque, la salute e la malattia, la normalità e i casi più estremi di squilibrio psichico, che possono condurre fino alla
follia, sono situati su di una linea a variabilità continua, che prevede tante gradazioni intermedie in rapporto alle quali
aumenta o diminuisce l’intensità dei fenomeni. In altre parole, il metodo psicoanalitico finirà col porre in discussione il
concetto stesso di malattia e, correlativamente, quello di normalità, in riferimento all’ambito della psiche umana.
Il grafico mostra la variazione continua di intensità tra la cosiddetta «normalità», l’area delle nevrosi e quella
dei fenomeni più gravi, detti «psicosi».
In effetti, ben presto Freud scopre che molte azioni compiute involontariamente dalle persone (tic, rituali, automatismi),
i comportamenti sbadati o distratti della vita quotidiana (lapsus verbali, dimenticanze, atti mancati) e, soprattutto, i
sogni, vanno considerati allo stesso modo delle libere associazioni o dei sintomi nevrotici, come manifestazioni
dell’inconscio.
I sogni, in particolare, costituiscono la «via regia» per accedere alle profondità più recondite della psiche umana.
L’interpretazione dei sogni. Il 1900 è l’anno cruciale: un secolo sta per chiudersi e Freud pubblica un’opera di
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Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1
importanza capitale, L’interpretazione dei sogni, destinata a segnare in profondità il secolo nuovo.
Fu un sogno fatto dallo stesso Freud, nella notte fra il 23 ed il 24 luglio del 1895, il celebre «sogno dell’iniezione di
Irma» ( Approfondimenti), a metterlo sulla strada giusta per comprendere che mediante l’attività onirica si realizzano
in modo indiretto e simbolico quei desideri che, non essendo appagabili nella realtà e magari nemmeno accettabili a
livello cosciente, sono stati rimossi.
Durante il sonno, il controllo della coscienza viene a mancare e ciò permette l’emergere del rimosso. Tuttavia, Freud si
rende conto che il sogno, pur essendo il linguaggio dell’inconscio, si esprime in maniera deformata e camuffata
mediante complesse simbologie ad opera del cosiddetto lavoro onirico. I meccanismi di difesa sono pur sempre
all’opera e una censura inconscia agisce sul linguaggio del sogno che, nel suo sviluppo «narrativo» e nella sua struttura,
funziona come una sorta di rebus, nel quale bisogna distinguere:
 il contenuto manifesto, costituito dalla «trama» del sogno;
 il contenuto latente, che racchiude il significato del sogno, interpretato il quale si è in grado di risalire ai
desideri rimossi che si sono espressi simbolicamente.
Le principali modalità del lavoro onirico ( Approfondimenti) sono le seguenti:
 lo spostamento, è una dinamica con la quale si trasferisce un carattere da un elemento del sogno ad un altro (ad
esempio, da una persona, che possiede un certo carattere nella realtà, ad un’altra persona a cui nel sogno viene
attribuito quello stesso carattere);
 la condensazione, consiste nel far convergere su un elemento onirico le caratteristiche di molteplici elementi
della realtà (ad esempio, un personaggio del sogno può riunire in sé le caratteristiche di più persone reali): essa
può costituirsi come risultato di una catena di spostamenti.
L’indagine sui sogni permette a Freud di stabilire che:
1. il materiale rielaborato dai sogni può essere attivato da esperienze realtivamente recenti, ma la gran parte di
esso risale a desideri rimossi fin dalla prima infanzia;
2. la parte più rilevante dei desideri rimossi fa riferimento alla sfera della sessualità.
Grazie a queste constatazioni, egli è in grado di perfezionare le sue teorie che si evolvono in rapporto alla pratica
clinica. Mette così a punto una teoria della sessualità, sulla cui base sviluppa una dottrina della formazione della
personalità dall’infanzia all’età adulta, che gli consente anche di costruire un nuovo modello topologico e strutturale
della psiche (la «seconda topica»), più complesso e articolato del precedente.
PARAGRAFO 2. SESSUALITÀ E STRUTTURA DELLA PERSONALITÀ
Le conclusioni a cui Freud sta arrivando sono sconvolgenti per la mentalità comune dell’epoca quanto lo erano stete le
teorie di Darwin sulla derivazione dell’uomo dalla scimmia. Lo psicoanalista viennese arriva, infatti, a caratterizzare
l’energia inconscia primaria da cui traggono origine tutti gli impulsi e desideri inconsci, che si manifestano nei sintomi
vari e nei sogni, come una pulsione sessuale e a sostenere che essa opera fin dai primi istanti di vita.
La «libido». Ad essa assegna il nome di libido (termine latino che indica il desiderio erotico):
«In biologia si esprime il fatto dei bisogni sessuali nell’uomo e nell’animale ponendo una “pulsione sessuale”. In ciò
si procede per analogia con la pulsione di assunzione del cibo, la fame. Al linguaggio popolare manca una
designazione che nel caso della pulsione sessuale corrisponda alla parola “fame”; la scienza adopera come tale la
parola “libido”» (S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, I).
Quella che Schopenhauer aveva chiamato volontà e Nietzsche volontà di potenza, per Freud è in quasi assoluta
prevalenza libido, cioè pulsione sessuale, e la sessualità assume, nella formazione della personalità umana un ruolo
fondamentale fin dalla primissima infanzia. Non a caso egli reagì con dispetto alle proteste che si levarono verso la sua
teoria della sessualità infantile:
«Abbiamo trovato deplorevole che si sia negata la pulsione sessuale all’età infantile e si siano descritte le
manifestazioni sessuali non di rado osservabili nel bambino come fenomeni contrari alla regola. Ci è parso invece
che il bambino porti con sé al mondo germi di attività sessuale e già nell’assunzione di cibo goda anche per un
soddisfacimento sessuale, che egli poi cerca sempre di nuovo di procurarsi nella ben nota attività della “suzione”»
(op. cit., «Riepilogo»).
La «sessualità perversa e polimorfa». Il concetto di sessualità nesso a punto da Freud è tuttavia ben diverso da
quello che si riferisce all’accoppiamanto tra maschio e femmina. Egli infatti definisce la sessualità che si presenta fin
dai momenti successivi alla nascita con i termini «perversa» e «polimorfa».
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1
Il termine perversione viene utilizzato da Freud senza alcun significato di condanna morale, che il termine potè
assumere in seguito. Esso indica semplicemente una ricerca del piacere erotico fine a se stessa e quindi deviata rispetto
alle finalità sessuali riproduttive (la cosiddetta genitalità) ritenute comunemente naturali.
Quanto al polimorfismo si riferisce al fatto che la ricerca del piacere si localizza,. nelle fasi dello sviluppo psicosessuale,
in diverse parti del corpo, chiamate zone erogene.
Fasi dello sviluppo psicosessuale. Freud ha distinto cinque fasi successive dello sviluppo della personalità
dalla nascita alla pubertà:
1. Fase orale, che può durare fino ai due anni circa: la libido si concentra nella zona orale, poiché è attraverso la
nutrizione che il bambino stabilisce la prima relazione col mondo e prova piacere a portarsi gli oggetti alla
bocca, che diviene così una zona erogena;
2. Fase anale, dura dal secondo fino al terzo anno circa di vita: la libido si sposta nella zona degli sfinteri e il
bambino trae godimento dalla capacità di controllarli autonomamente;
3. Fase fallica, si svolge tra il terzo e il quinto, o sesto, anno di età: la libido si localizza negli organi genitali, che
il bambino inizia ad esplorare scoprendo il piacere che ne ricava; in questa fase si forma il complessao di
Edipo, di grandeimportanza nello sviluppo successivo (ne parliamo più avanti);
4. Fase di latenza, dal quinto o sesto anno fino all’inizio della pubertà: l’energia sessuale sembra scomparire,
perché si indirizza soprattutto verso la socializzazione e la costruzione del gruppo di amici dello stesso sesso:
«In questo periodo non è che la produzione di eccitamento sessuale venga a mancare, essa invece continua
e fornisce una riserva di energia che in gran parte viene utilizzata per scopi diversi da quello sessuale, cioè
[…] per fornire le componenti sessuali dei sentimenti sociali […]» (S. Freud, Tre saggi sulla teoria
sessuale, «Riepilogo»).
5. Fase genitale, inizia con la pubertà e si protrae per tutta il resto della vita, consentendo all’individuo di
sviluppare relazioni significative con il sesso opposto, grazie al definitivo concentrarsi della libido nella zona
genitale.
Il complesso di Edipo. Una funzione fondamentale nello sviluppo la svolge il cosiddetto complesso di Edipo,
così chiamato dal mito greco di Edipo che, inconsapevolmente, uccide il proprio padre e sposa la propria madre. Il
termine complesso fu coniato dal collaboratore di Freud, Carl Gustav Jung ( Capitolo 2), per indicare un nodo di
contenuti psichici, desideri, immagini ed emozioni tra loro connessi.
Durante la fase fallica, il bambino instaura un legame particolare con la madre che desidera in modo esclusivo, sentendo
contemporaneamente il padre come un rivale nel possesso della madre. Lo stesso accade alla bambina che vorrebbe
l’affetto del padre solo per sé, considerando la madre un ostacolo per ottenerlo. L’ambivalenza del sentimento verso i
genitori, vissuta insonsciamente con un senso di colpa, si traduce metaforicamente nel desiderio di uccidere il padre e
sostituirsi a lui nell’amore della madre, oppure, nel caso opposto, di uccidere la madre per amore del padre:
«Già da piccolo, il figlio comincia a sviluppare un’affettuosità particolare per la madre, che considera come cosa
propria, e ad avvertire nel padre un rivale che gli contrasta questo possesso esclusivo, e, allo stesso modo, la
figlioletta vede nella madre una persona che disturba il suo affettuoso rapporto con il padre e che tiene un posto che
lei stessa potrebbe occupare molto bene.
Apprendiamo dall’osservazione quanto sia precoce l’età cui risalgono questi atteggiamenti. Li designiamo col nome
di «complesso edipico», perché la leggenda di Edipo realizza con un’attenuazione minima i due desideri estremi
risultanti dalla situazione: uccidere il padre e prendere in moglie la madre. Non intendo sostenere che il complesso
edipico esaurisca la relazione dei figli con i genitori; nulla di più facile che tale relazione sia molto più complicata.
Inoltre il complesso edipico può essere più o meno pronunciato e può addirittura essere rovesciato; ma è un fattore
che compare regolarmente e ha una grande importanza nella vita psichica infantile; è maggiore il pericolo di
sottovalutare il suo influsso e quello degli sviluppi che ne conseguono, che non di sopravvalutarlo.
[...] Non si può certo dire che il mondo sia stato riconoscente alla ricerca psicoanalitica per la scoperta del
complesso edipico. Al contrario, questa ha suscitato la più violenta opposizione degli adulti, e certuni che avevano
trascurato di partecipare al generale ripudio di questa relazione emotiva proscritta, o colpita da tabù, più tardi hanno
riparato alla propria colpa sottraendo al complesso il suo valore per mezzo delle loro interpretazioni distorte.
Secondo la mia immutata convinzione non c’è qui niente da smentire, niente da ammantare. C’è solo da
familiarizzarsi con un fatto, che la stessa leggenda greca ha riconosciuto come nostro ineluttabile destino» (S. Freud,
Introduzione alla psicoanalisi, lezione XIII).
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1
Il superamento del complesso di Edipo può avvenire attraverso l’identificazione con la figura del genitore dello stesso
sesso, che viene idealizzata, favorendo la maturazione del bambino, con il suo ingresso nella fase di latenza. Il mancato
superamento del complesso può rappresentare un grave ostacolo allo sviluppo dell’identità sessuale dell’individuo.
Tutte le prime fasi, comunque, possono subire dei rallentamenti o delle fissazioni, che costituiscono altrettanti intoppi
nella maturazione psicosessuale e possono impedire il raggiungimento della fase genitale. Si tratta, in generale, di una
problematica molto articolata, per conoscere la quale rinviamo agli  Approfondimenti.
La «seconda topica». Ma, nel frattempo, Freud aveva cominciato a rielaborare la struttura della psiche umana,
giungendo ad un nuovo modello teorico, che permetteva di chiarire meglio i conflitti interni alla personalità umana e di
illustrare quali forze si formano e si modificano, interagendo reciprocamente, nelle diverse fasi dello sviluppo psichico
dell’individuo.
È la seconda topica, in cui i rapporti spaziali simboleggiano una relazione dinamica, una lotta tra energie che si
scontrano violentemente.
A parte la coscienza e l’inconscio, che ora vengono designati rispettivamente con i nomi di «Io» ed «Es» (in tedesco il
pronome neutro di terza persona che corrisponde al latino «id»), la principale novità, la fondamentale scoperta che
consente di spiegare meglio tutta la complessa conflittualità psichica, è quella del «Super-Io». Quindi la nuova struttura
della psiche umana è la seguente:
 Io, la parte cosciente della personalità umana (intelletto, ragione, volontà, memoria) che è in relazione con il
mondo esterno e deve adeguarsi al principio di realtà;
 Super-Io, rappresenta la funzione di censura, in gran parte inconscia, che opera la rimozione nei confronti dei
contenuti inconsci cui si deve impedire di giungere alla coscienza:
o si forma nella psiche dell’individuo nel corso dei primi anni di vita, entro il compimento della fase
fallica;
o è strettamente connesso al complesso di Edipo;
o è il risultato dell’interiorizzazione dei precetti morali (divieti, proibizioni, tabù) imposti dai genitori
nella loro azione educativa più o meno rigida;
o si pone in contrasto con l’attività sessuale inconscia originaria;
o eredita il potere repressivo dei genitori, ne svolge le funzioni e ne usa gli stessi metodi, trasferiti
dall’esterno all’interno della psiche;
o il conflitto dell’individuo con i genitori reali si trasforma nel conflitto intra-psichico con la loro
immagine interiorizzata e spesso deformata dal Super-Io;
 Es, è il polo pulsionale della personalità, pura energia libidica, che obbedisce soltanto al principio del piacere;
dunque, è:
o l’espressione psichica dei bisogni corporei;
o pura energia tendente al proprio appagamento;
o una forza impersonale (da qui il pronome neutro);
o alogico: non vale il principio di non contraddizione, né alcuna altra legge razionale;
o amorale (le norme morali vengono introiettate soltanto tramite il Super-Io e non entrano a far parte
dell’Es);
o capace di immagazzinare un’enorme quantità di ricordi rimossi, risalenti anche alla primisima
infanzia;
o virtualmente immortale;
o estraneo alle strutture spazio-temporali: in particolare, per la libido il tempo non passa la sua energia
si mantiene inalterata a distanza di molti anni.
Ecco come lo stesso Freud espone il suo nuovo modello interpretativo:
«A parte il nuovo nome, non aspettatevi che abbia da comunicarvi molto di nuovo sull’Es. È la parte oscura,
inaccessibile della nostra personalità; il poco che ne sappiamo, l’abbiamo appreso dallo studio del lavoro onirico e
dalla formazione dei sintomi nevrotici; di questo poco, la maggior parte ha carattere negativo, si lascia descrivere
solo per contrapposizione all’Io. All’Es ci avviciniamo con paragoni: lo chiamiamo un caos, un crogiuolo di
eccitamenti ribollenti. Ce lo rappresentiamo come aperto all’estremità verso il somatico, da cui accoglie i bisogni
pulsionali, i quali trovano dunque nell’Es la loro espressione psichica, non sappiamo però in quale substrato.
Attingendo alle pulsioni, l’Es si riempie di energia, ma non possiede un’organizzazione, non esprime una volontà
unitaria, ma solo lo sforzo di ottenere soddisfacimento per i bisogni pulsionali nell’osservanza del principio di
piacere. Le leggi del pensiero logico non valgono per i processi dell’Es, soprattutto non vale il principio di
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1
formazioni di compromesso. Non vi è nulla nell’Es che si possa paragonare alla negazione, e si osserva pure con
sorpresa un’eccezione all’assioma dei filosofi che spazio e tempo sono forme necessarie dei nostri atti mentali.
Nulla si trova nell’Es che corrisponda all’idea di tempo, nessun riconoscimento di uno scorrere temporale e, cosa
notevolissima e che attende un’esatta valutazione filosofica, nessun’alterazione del processo psichico ad opera dello
scorrere del tempo. Impulsi di desiderio che non hanno mai varcato l’Es, ma anche impressioni che sono state
sprofondate nell’Es dalla rimozione, sono virtualmente immortali, si comportano dopo decenni come se fossero
appena accaduti. Solo quando sono divenuti coscienti mediante il lavoro analitico, essi possono esser riconosciuti
come passato, esser svalutati e privati del loro investimento energetico; anzi su ciò si fonda, e non in minima parte,
l’effetto terapeutico del trattamento analitico.
Ho costantemente l’impressione che da questo fatto accertato al di là di ogni dubbio dell’inalterabilità del rimosso
ad opera del tempo, noi abbiamo tratto troppo poco profitto per la nostra teoria. Eppure qui sembra aprirsi un varco
capace di farci accedere alle massime profondità. Purtroppo nemmeno io sono andato oltre su questo punto. Com’è
ovvio, l’Es non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità. Il fattore economico o, se volete,
quantitativo, strettamente connesso al principio di piacere, domina ivi tutti i processi. Investimenti pulsionali che
esigono la scarica: a parer nostro nell’Es non c’è altro. [...]
Il rapporto dell’Io con l’Es potrebbe essere paragonato a quello del cavaliere con il suo cavallo. Il cavallo dà
l’energia per la locomozione, il cavaliere ha il privilegio di determinare la meta, di dirigere il movimento del
poderoso animale. Ma tra l’Io e l’Es si verifica troppo spesso il caso, per nulla ideale, che il cavaliere si limiti a
guidare il destriero là dove quello ha scelto di andare. […]
[…] il Super-io affonda nell’Es; quale erede del complesso edipico ha infatti intime connessioni con lui; è più
distante dal sistema percettivo di quanto lo sia l’Io. L’Es ha contatti con il mondo esterno solo attraverso l’Io […]
Se pure tale coscienza [il Super-io] è qualcosa “in noi” non lo è fin dall’inizio. Essa si pone in diretto contrasto con
la vita sessuale, la quale esiste realmente fin dall’inizio della vita e non sopravviene solo più tardi. Per contro il
bambino piccolo è notoriamente amorale, non ha alcuna inibizione interiore contro i propri impulsi che anelano al
piacere. La funzione che più tardi assume il Super-io viene dapprima svolta da un potere esterno, dall’autorità dei
genitori. I genitori esercitano il loro influsso e governano il bambino mediante la concessione di prove d’amore e la
minaccia di castighi; questi ultimi dimostrano al bambino la perdita dell’amore e sono quindi temuti per se stessi.
Questa angoscia reale precorre la futura angoscia morale; finché essa domina, non c’è bisogno di parlare di Super-io
e di coscienza morale. Solo in seguito si sviluppa la situazione secondaria che noi siamo troppo disposti a ritenere
quella normale, in cui l’impedimento esterno viene interiorizzato e al posto dell’istanza parentale, subentra il Superio, il quale ora osserva, guida e minaccia l’Io, esattamente come facevano prima i genitori col bambino. Il Super-io,
che in tal modo assume il potere, la funzione e persino i metodi dell’istanza naturale non ne è però soltanto il
successore legale, ma realmente il legittimo erede» (S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, lezione XXXI).
Il grafico rappresenta la seconda topica: l’energia libidica dell’Es che cerca l’appagamento (freccia verde), la
rimozione e la censura operata dal Super-Io (freccia rossa), l’influenza del Super-Io sull’Io (freccia blu) e
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1
l’aggiramento della censura da parte dell’Es che, tramite sogni, lapsus, atti mancati e sintomi nevrotici si
manifesta simbolicamente all’Io (freccia gialla).
La funzione dell’Io. È interessante osservare che in questo modello la stragrande maggioranza delle attività
psichiche sono inconsce e sembra quasi che la formazione dell’Io derivi soltanto dallo scontro tra principio di realtà
(mondo esterno), principio del piacere (Es) e princìpi morali interiorizzati dal Super-Io: come già avevano visto
Schopenhauer ( Sezione 1, Unità 1, Capitolo 2, Paragrafo 3) e Nietzsche ( Unità 1, Capitolo 3, Paragrafo 3), le
funzioni superiori della personalità umana sembrano dipendere da quelle inferiori. In particolare, l’Io (che ora include
anche il preconscio della prima topica) più che essere il polo orientativo delle scelte e del comportamento, svolge
piuttosto una funzione di razionalizzazione, cioè quello di produrre le giustificazioni razionali di atti e tendenze soltanto
apparentemente decisi volontariamente (è il cavallo/Es che ha già deciso di andare dove il cavaliere/Io crede di
guidarlo).
È il capovolgimento completo dei presupposti teorici della filosofia moderna, che aveva posto la sostanza pensante al
centro delle ricerche filosofiche fino ad assolutizzarla con l’Idealismo. Ora, Schopenhauer, Nietzsche e Freud hanno
ridotto l’Io ad un pallido fantasma di se stesso. Bisogna però precisare, come vedremo più avanti, che per lo
psicoanalista viennese uno degli scopi del metodo è anche quello di ricostruire il ruolo dell’Io
Il determinismo psichico. Freud sembra propendere per una forma di determinismo psichico che assolve dalla
reponsabilità dei propri comportamenti gli esseri umani, che non conoscono neppure le forze pulsionali che agiscono in
loro e che soltanto il trattamento analitico può portare alla luce della coscienza, aiutando a padroneggiarle.
I conflitti psichici e lo sviluppo della personalità. Alla luce della seconda topica risulta chiaro che la
personalità umana è multipla (almeno triplice) e il suo sviluppo è il risultato di uno scontro titanico tra l’Es e la
censura/rimozione del Super-Io.
Sappiamo già che l’Es cerca comunque la propria soddisfazione e perciò ha la forza di aggirare la barriera rappresentata
dalla censura attraverso i sogni, tutti gli altri comportamenti sintomatici (come lapsus e atti mancati), più o meno
lievemente patologici, e gli stressi sintomi nevrotici ( Paragrafo 1).
Molto importante è la funzione svolta dal Super-Io, in rapporto all’Es, la sua possibilità di tener sotto controllo le
pulsioni. La relativa forza o debolezza, rigidità o flessibilità del Super-Io rispetto all’Es può dare luogo a vari tipi di
squilibri di personalità e di costruzione della propria identità sessuale da parte dell’individuo. Per capire la complessità
della situazione, bisogna tener conto del fatto che l’interiorizzazione del Super-Io coincide con la figura dell’autorità,
cioè del genitore che proibisce e detta le regole, il quale spesso è il genitore del sesso opposto (la madre per la figlia, il
padre per il figlio), che è anche il «rivale in amore» nel complesso edipico.
Personalità pervertite (con le modalità del sadismo o del masochismo) e criminali, forme molto gravi di patologia
psichica che rientrano nell’ambito delle psicosi, fino allo sdoppiamento di personalità (schizofrenia), dipendono in gran
parte da queste dinamiche ( Approfondimenti).
Altrettanto significativo è l’apporto del Super-Io per orientare l’energia sessuale, dall’adolescenza in poi, in attività
professionali e creative, socialmente utili. È il processo di sublimazione, in cui senza perdere la sua carica energetica la
libido viene spostata verso mète non sessuali. Quasi tutte le attività delle persone adulte che appartengono alle società
civili dipendono da questa dinamica psichica.
La «scienza del soggetto». A questo punto, il neurologo viennese che voleva curare l’isteria ha elaborato una
vera teoria generale della psiche umana, si è fatto filosofo ed ha inventato quasi dal nulla una nuova scienza, la scienza
del soggetto, che pone le basi per rovesciare il presupposto epistemologico delle scienze positive.
La psicologia scientifica, sorta in quegli stessi anni ( Unità 2, Capitolo 3, Paragrafo 4), cercava di applicare i metodi
delle scienze della natura anche alla psiche umana. Così facendo tendeva a trasformare il soggetto individuale in
oggetto di osservazione e di ricerca sperimentale, con lo scopo di arrivare per generalizzazione induttiva alle leggi
generali che regolano il funzionamento psichico.
La psicoanalisi di Freud muove in direzione opposta. Pur fondandosi sulla ricerca empirica per costruire modelli
generali di interpretazione dei fenomeni psichici mira a cogliere il soggetto individuale nella sua peculiarità. Invece di
generalizzare i comportamenti umani come si fa con i fenomeni della natura, si cerca di mettere a punto un metodo che
consenta l’accesso alle cause profonde dell’agire individuale, proprio nella loro individualità specifica. Non a caso, nel
.154
Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1
trattamento analitico l’analista svolge un ruolo maieutico19, mentre è l’analizzante ad indagare se stesso per svelare le
proprie rimozioni, conoscere meglio i propri conflitti psichici e, conoscendoli, tentare di riportarli in equilibrio. In
questo senso, la psicoanalisi intende realizzare lo scopo stesso di ogni indagine filosofica fin dalla più lontana antichità,
quella conoscenza di sé che già raccomandava l’iscrizione sul frontone del tempio di Apollo a Delfi (
Approfondimenti Volume 1, Percorso 1).
Bisogna tuttavia aggiungere che nel corso del trattamento analitico, l’analizzante proietta emozioni e sentimenti
concernenti il passato sulla persona dell’analista e li dirige nei suoi riguardi come se si trattasse di qualcun altro. È il
fondamentale fenomeno del transfert, che trasferisce sull’analista qualche immagine interiore di figure parentali (per
esempio, il padre) deformate dall’interiorizzazione operata a suo tempo. L’analista diventa così uno dei protagonisti
della situazione in cui si attualizza l’energia psichica rimossa dell’analizzante. L’analisi, cioè, non riguarda più un
problema passato, ma un conflitto reale e presente, proiettato sulla relazione analitica. La soluzione di questo conflitto
transferale è in pratica simultanea alla soluzione del conflitto rimosso ( Approfondimenti). Insomma, la conoscenza di
sé che si raggiunge col trattamento non è affatto un processo intellettuale, ma mette in gioco tutte le energie psichiche,
pulsionali e libidiche delle due persone coinvolte.
Nata per scopi principalmente terapeutici, la psicoanalisi si impone ormai come scienza del tutto nuova nell’oggetto e
nel metodo. Le questioni terapeutiche diventano quasi secondarie e derivate, mentre si apre una prospettiva inusitata per
le scienze umane del Novecento.
Lo stesso Freud ne appare consapevole fin dal 1915, quando scrive:
«Probabilmente il futuro stabilirà che l’importanza della psicoanalisi come scienza dell’inconscio oltrepassa di gran
lunga la sua importanza terapeutica» (S. Freud, Psicoanalisi).
Gli effetti terapeutici dell’analisi. La conoscenza delle dinamiche inconsce della propria personalità produce
comunque effetti terapeutici soprattutto nel rafforzamento dell’Io, che può assumere un maggiore ed effettivo potere,
con l’emergere del rimosso il quale, una volta divenuto cosciente, perde gran parte della propria energia, si inserisce
nell’ambito delle strutture percettive spazio-temporali dell’esistenza quotidiana, oltre che nel contesto delle categorie
logiche e morali, potendo così essere gestito dall’Io con maggiore consapevolezza ed efficacia. Per Freud, quasi
fichtianamente ( Volume 2, Sezione 3, Unità 1, Capitolo 2, Paragrafo 5), quel che si trova nell’Es dovrebbe diventare
patrimonio dell’Io cosciente («Dov’è l’Es deve esserci l’Io», S. Freud, L’Io e l’Es).
PARAGRAFO 3. PSICOLOGIA DEL PROFONDO E ANTROPOLOGIA
Ma non è ancora tutto. Freud è un ricercatore instancabile e oltre ad allargare gli orizzonti dei propri studi, rimette
continuamente in discussione risultati che sembrano già acquisiti.
Le origini della civiltà. Con un’opera del 1913, Totem e tabù, Freud si dedica a studi di antropologia e utilizza il
modello edipico per spiegare l’origine della società, della morale e della religione nelle tribù primitive totemiche. Tutti
questi istituti della civilizzazione umana sarebbero il frutto di un rapporto edipico primordiale, da cui sarebbe derivato il
totemismo (primitiva forma di religione) e il tabù (prima forma di regolamentazione morale e sociale).
L’uccisione del padre/capotribù da parte dell’orda dei figli è la conseguenza dell’odio nei confronti di un «possente
ostacolo al loro bisogno di potenza e alle loro pretese sessuali» (S. Freud, Totem e tabù). Ma essi «lo amavano e lo
ammiravano anche», con la tipica «ambivalenza del complesso paterno [che si riscontra] in ognuno dei nostri bambini e
dei nostri nevrotici» (ibidem).
«Dopo averlo soppresso, aver soddisfatto il loro odio e aver imposto il loro desiderio di identificazione con lui,
dovettero farsi sentire i moti di affetto nei suoi confronti fino a quel momento rimasti sopraffatti. Ciò accadde nella
forma del rimorso, sorse un senso di colpa che coincide in questo esempio con il rimorso collettivo. Morto, il padre
divenne più forte di quanto fosse stato da vivo, secondo un succedersi di eventi che ravvisiamo ancor oggi nel
destino degli uomini. Ciò che prima egli aveva impedito con la sua esistenza, i figli se lo proibirono ora
spontaneamente nella situazione psichica dell’“obbedienza posteriore”, che conosciamo così bene attraverso la
psicoanalisi. Revocarono il loro atto dichiarando proibita l’uccisione del sostituto paterno, il totem, e rinunciarono ai
suoi frutti, interdicendosi le donne che erano diventate disponibili. In questo modo, prendendo le mosse dal loro
filiale senso di colpa, crearono i due tabù fondamentali del totemismo, che proprio perciò dovevano coincidere con i
Nell’arte socratica del dialogo ( Volume 1, Sezione 1, Unità 2, Capitolo 2, Paragrafo 9) la maieutica
è l’assistenza discreta del maestro all’allievo che, indagando su se stesso, scopre nella propria anima le
«verità» più importanti per conoscersi meglio.
19
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1
due desideri rimossi del complesso edipico. Chi vi contravveniva si rendeva colpevole dei due soli delitti che
preoccupavano la società primitiva» (ibidem).
Eros e Thanatos. Molto importante è la revisione parziale della sua seconda topica, che Freud avvia dal 1920
con Al di là del principio del piacere e riprende nel 1929 con Il disagio della civiltà.
Si tratta di un ripensamento decisivo che rimette in questione l’intima essenza dell’Es e, di conseguenza, rivaluta la
funzione del Super-Io. Fin dall’inizio egli aveva concepito l’inconscio come un agglomerato di bisogni, impulsi e
desideri governato esclusivamente dal principio del piacere. Perciò aveva attribuito l’aggressività umana agli squilibri
conseguenti ai conflitti irrisolti tra la carica libidica dell’Es e la censura/rimozione del Super-Io: nei casi di sviluppo
psicosessuale non equilibrato potevano verificarsi casi di devianza delinquenziale, con lo scatenamento dell’energia
repressa in forma aggressiva.
Dopo il tragico spettacolo della prima guerra mondiale, il ripensamento di Freud è radicale, poiché si convince, anche a
seguito di alcune osservazioni cliniche, che nell’Es alberghino due pulsioni contrapposte, altrettanto originarie e
indipendenti: Eros, la pulsione di vita e di amore, e Thanatos (termine greco che significa morte), una pulsione
distruttiva che trova appagamento nell’aggressività, nella violenza, nella morte.
Rifacendosi in modo esplicito all’antico filosofo Empedocle ( Volume 1, Sezione 1, Unità 1, Capitolo 5, Paragrafo 2)
e ricalcandone il dualismo cosmico trasferito nella sfera psichica, Freud concepisce:
 l’Eros come una forza unificatrice, da cui dipende la formazione di organismi sempre più evoluti, di unioni
familiari e sociali, e la civilizzazione progressiva della specie umana;
 Thanatos come forza separatrice che pone gli esseri umani gli uni contro gli altri e distrugge la vita in tutte le
sue forme fino a ricondurla allo stato inorganico; essa è quindi una forza autodistruttiva, che si ritorce, ad
esempio con impulsi suicidi, anche contro chi ne è soggetto attivo.
Ne segue che l’intera storia della civiltà umana è soprattutto una lotta tra Eros e Thanatos.
«Pure rimaneva in me qualcosa come una convinzione, non ancora dimostrabile, che le pulsioni non potessero essere
tutte della medesima specie. Il passo seguente lo feci in Al di là del principio di piacere (1920), quando fermai
l’attenzione per la prima volta sulla coazione a ripetere20 e sul carattere conservativo della vita pulsionale. Partendo
da speculazioni sull’origine della vita e da paralleli biologici, trassi la conclusione che, oltre alla pulsione a
conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più vaste, dovesse esistere un’altra pulsione ad essa
opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primordiale inorganico. Dunque, oltre a Eros,
una pulsione di morte; la loro azione comune o contrastante avrebbe permesso di spiegare i fenomeni della vita. [...]
Il nome libido può ancora essere usato per le manifestazioni della forza dell’Eros, allo scopo di distinguerle
dall’energia della pulsione di morte. Dobbiamo confessare che ci è molto più difficile cogliere quest’ultima, in un
certo senso la indoviniamo soltanto nello sfondo, dietro l’Eros, e addirittura ci sfugge se non si svela
frammischiandosi ad esso. Nel sadismo, dove la pulsione di morte storce al suo significato la meta erotica pur
soddisfacendo completamente il desiderio sessuale, noi riusciamo a discernere nel modo più chiaro la sua natura e la
sua relazione con l’Eros. Ma anche dove essa fa la sua comparsa senza alcuna mira sessuale, anche nel più cieco
furore distruttivo, non si può misconoscere che al soddisfacimento della pulsione di morte si riallaccia un godimento
narcisistico elevatissimo, poiché essa offre all’Io l’appagamento dei suoi antichi desideri d’onnipotenza. Temperata
e imbrigliata, in certo qual modo inibita nella meta, la pulsione distruttiva diretta verso gli oggetti procura all’Io il
soddisfacimento dei suoi bisogni vitali e il dominio della natura. Poiché l’ipotesi della sua esistenza poggia
soprattutto su fondamenti teorici, è indiscutibile che essa non è del tutto al sicuro da obiezioni teoriche. Ma così ci
appare adesso, allo stato presente delle nostre conoscenze; la ricerca e la riflessione futura ci recheranno le
delucidazioni definitive.
Per tutto ciò che segue, mi atterrò dunque al convincimento che la tendenza aggressiva sia nell’uomo una
disposizione pulsionale originaria e indipendente; torno ora all’asserzione che la civiltà trova in essa il suo più grave
ostacolo. A un certo punto, nel corso di questa disamina, credemmo di capire che l’incivilimento fosse un processo
peculiare al quale l’umanità è sottoposta e a quest’idea restiamo fedeli. Aggiungiamo che si tratta di un processo al
servizio dell’Eros, che mira a raccogliere prima individui sporadici, poi famiglie, poi stirpi, popoli, nazioni, in una
grande unità: il genere umano. Perché ciò debba accadere non lo sappiamo; è appunto opera dell’Eros. Queste
moltitudini devono essere legate l’una all’altra libidicamente; la sola necessità, i vantaggi del lavoro in comune non
basterebbero a tenerle insieme. Ma a questo programma della civiltà si oppone la naturale pulsione aggressiva
20
La coazione a ripetere è il comportamento di chi compie costamente atti dolorosi e spiacevoli a
proprio danno ( Approfondimenti).
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1
dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno. Questa pulsione aggressiva è figlia e massima
rappresentante della pulsione di morte, che abbiamo trovato accanto all’Eros con il quale si spartisce il dominio del
mondo. Ed ora, mi sembra, il significato dell’evoluzione civile non è più oscuro. Indica la lotta tra Eros e Morte, tra
pulsione di vita e pulsione di distruzione, come si attua nella specie umana. Questa lotta è il contenuto essenziale
della vita e perciò l’evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana» (S. Freud,
Il disagio della civiltà).
Freud, Nietzsche e Schopenhauer. È interessante osservare che le sue teorie della repressione dell’Es fino al
1920 facevano credere a un Freud più vicino a Nietzsche ( Unità 1, Capitolo 3, Paragrafo 1) nel concepire le istanze
morali come gabbie costrittive dell’autentica natura umana e come impedimenti artificiali alla propria
autorealizzazione. Ora invece sembra avvicinarsi alle concezioni di Schopenhauer ( Sezione 1, Unità 1, Capitolo 2,
Paragrafo 5) che, rifacendosi a Hobbes ( Volume 2, Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1, Paragrafo 5), aveva visto
nell’uomo un «lupo» per l’altro uomo:
«[...] l’uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d’amore, capace al massimo di difendersi quando è attaccata; è
vero invece che occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività. Ne segue che egli
vede nel prossimo non soltanto un eventuale soccorritore e oggetto sessuale, ma anche un oggetto su cui può magari
sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il
suo consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo e ucciderlo. Homo
homini lupus: chi ha coraggio di contestare quest’affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia?
Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione, oppure si mette al servizio di qualche altro
scopo, che si sarebbe potuto raggiungere anche con mezzi meno brutali. In circostanze che le sono propizie, quando
le forze psichiche contrarie che ordinariamente la inibiscono cessano d’operare, essa si manifesta anche
spontaneamente e rivela nell’uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto per la propria specie»
(ibidem).
Il Super-Io sociale e la felicità umana. Questo parziale rovesciamento di prospettiva lo induce a prendere le
distanze da una ottimistica possibilità di liberare gli impulsi rimossi e repressi da una morale troppo rigida, auspicando
l’avvento nietzscheano di un’umanità pienamente appagata nella propria natura dionisiaca, con il dispiegamento della
volontà di potenza.
L’importanza del Super-Io viene decisamente rivalutata rispetto ad una visione che poteva essere interpretata sotto una
luce negativa, intendendo l’istanza morale come responsabile dell’infelicità umana. Ora Freud si convince del fatto che
le istituzioni sociali, civili, giuridiche e politiche siano una sorta di Super-Io sociale il cui contributo alla repressione
delle pulsioni aggressive è fondamentale. Il prezzo da pagare è il rischio di reprimere in parte anche le pulsioni vitali.
Ne deriva che, realisticamente, una parte della felicità, quella che deriva dal poter soddisfare tutte le proprie pulsioni,
deve essere barattata con la sicurezza, frutto della civilizzazione, di una società governata da regole, del rispetto
reciproco e della pace.
«Se la civiltà impone sacrifici tanto grandi non solo alla sessualità ma anche all’aggressività dell’uomo, allora
intendiamo meglio perché l’uomo stenti a trovare in essa la sua felicità. Di fatto l’uomo primordiale stava meglio,
poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era
molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza» (ibidem).
La complessità della psiche e gli sviluppi della psicoanalisi. Complessivamente, da queste ultime opere
emerge un quadro della personalità umana ancor più conflittuale di quanto si presentasse nella parte centrale della sua
attività teorica: ora le istanze in lotta sono aumentate di numero e di complessità, dato che al conflitto tra Es e Super-Io
si è aggiunto il conflitto, tutto interno all’Es, tra Eros e Thanatos. Si tratta di una concezione che produrrà molte
discussioni tra collaboratori e seguaci di Freud e, insieme ad altre questioni, contrassegnerà gli sviluppi successivi della
psicoanalisi per tutto il Novecento.
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Percorsi della filosofia
Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1
Il grafico mostra la complessa conflittualità intrapsichica tra Super-Io ed Es e, all’interno dell’Es, tra le
pulsioni opposte di Eros e Thanatos.
Tabella riassuntiva. Schopenhauer, Nietzsche, Freud 1 (prima del 1920), Freud 2 (dopo il 1920).
Energia primaria
inconscia e irrazionale
Schopenhauer
Volontà
(corpo/«psiche»)
Nietzsche
Volontà di potenza
(corpo/«psiche»)
Obiettivi dell’energia
primaria
«Principio di
piacere»
Potenziamento
delle facoltà vitali
umane
Principio di
piacere (pdp)
Funzione di censura
Nessuna censura
Morale, metafisica,
religione
Super-Io
Super-Io
Repressione
dell’energia
libidica
Repressione
dell’energia libidica
ma anche
dell’aggressività
Risultati dell’energia
primaria
Noia, dolore, homo
homini lupus
Morale del gregge
(pessimismo)
Funzione della
coscienza razionale
Freud 1
Libido (Es)
Freud 2
Eros
Thanatos(Es)
(Es)
Appagamento
pdp
dell’aggressività
Razionalizzazione e «maschera» sociale
Liberazione e
realizzazione
dell’uomo
Negazione e
annullamento della
volontà
(liberazione dalla
volontà)
Realizzazione
della volontà di
potenza e nascita
dell’oltreuomo
(ottimismo)
Psicoanalisi,
recupero del
rimosso e
«costruzione»
dell’Io
(ottimismo)
Parentele
con il secondo
Freud
con il primo Freud
con Nietzsche
.158
La felicità deve
essere barattata in
parte con la
sicurezza
(parziale
pessimismo)
avvicinamento a
Schopenhauer
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