3. Le neuroscienze C’è molto da imparare sul modo in cui funzionano le persone, i progressi compiuti negli ultimi dieci anno dalle neuroscienze hanno trasformato le teorie sul comportamento e l’apprendimento degli individui offrendoci preziosi contributi: a queste scoperte vorremmo dedicare questo capitolo così da affiancare alla base teorica del nostro modello anche una base scientifica. Stiamo ovviamente parlando di una scienza in continua evoluzione e per questo è giusto mettere in conto il fatto che “la verità” non sia ancora del tutto disponibile ma sicuramente possiamo dire di avere molte più informazioni del passato e che riferirci a queste nuove scoperte ci può aiutare a rinforzare i nostri ragionamenti sul cambiamento. Come possono dunque aiutarci le neuroscienze? Sicuramente possiamo iniziare ponendoci alcune domande su quelli che abbiamo visto essere i fattori discriminanti del processo di cambiamento ovvero: 1. Apprendimento: come fa il nostro cervello a processare gli stimoli e le informazioni? 2. Interazione: perché le emozioni sono contagiose e influenzano le persone? Le persone possono influenzare le emozioni? 58 Cosa sappiamo del cambiamento 3. Risultati: da cosa dipende la fiducia? Cosa serve per ottenere fiducia? Come apprendono le persone Le neuroscienze hanno dimostrato che il cervello umano si “cabla” letteralmente per rispondere in un determinato modo a determinati stimoli. Gli schemi del pensiero, dei sentimenti e delle azioni si formano molto velocemente perché si basano sull’esperienza pregressa di ciascuno di noi. A tanta velocità si oppone la lentezza e la difficoltà con cui il cervello sa invece cambiare e modificare questi schemi come dire: è facile farsi un’idea delle cose ma è difficile cambiare questa idea! È attraverso questi schemi che il nostro cervello vuole renderci la vita più semplice. Visto che gli schemi neurologici si formano in base all’esperienza di ciascun individuo ne consegue che anche la cultura organizzativa tende ad autorinforzare questi percepiti, come dire: se un certo modo di fare business ha sempre attenuto dei risultati sarà difficile che qualcuno avverta la necessità di metterlo in discussione. Ma, come abbiamo già detto approccio non ci favorisce di questi tempi, per restare a galla bisogna anticipare, cambiare e avere una visione prospettica (quasi preveggente) del futuro: oggi giorno la normalità e la routine sono disfunzionali nel business. Ne è un esempio la storia di W.L. Gore, l’azienda che fabbrica il materiale impermeabile Gore Tex molto diffuso nell’abbigliamento tecnico. L’azienda è stata fondata nel 1958 da Bill e Vieve Gore. Quando Bill lavorava presso la Dupont, realizzò che c’erano solo due posti in cui le persone erano propense a collaborare veramente: in condizioni di aggregazione sponta- Le neuroscienze 59 nea o in una trasferta in macchina. Tutte le altre situazioni erano afflitte dalla gerarchia e dalle regole! Bill volle così creare una nuova azienda con una nuova cultura: nessuna gerarchia ma solo lavoro di squadra. Ogni volta che un nuovo associato (non “impiegato”) si unisce all’azienda gli viene detto “Non abbiamo capi qui”. Inizialmente le persone credono che questo sia solo un eufemismo aziendale, e per un po’ continuano a chiedere “no, sul serio, chi è il mio capo?” fino a quando con l’andare del tempo le persone si abituano a non avere capi e gerarchie (Freedman, 2007b). Ora, superati i cinquant’anni di età e con vendite di oltre 1,8 miliardi di dollari, 45 impianti e nove anni in cima alla Fortune’s 100 Best Places to Work, l’esperimento sembra aver avuto successo. In termini di cambiamento, la cosa interessante del caso Gore è la dimostrazione di quanto uno schema sociale possa essere difficile da modificare. Anche in questo caso esiste una spiegazione infatti, la struttura concettuale ovvero il bisogno di creare sistemi di riferimento inizia a un livello neurologico quando le cellule del cervello si collegano formando sistemi interconnessi. Quei nuovi impiegati della Gore hanno un sistema di “capi” e “gerarchia” fortemente connesso con la nozione di lavoro. Gli schemi diventano una sorta di cornice attraverso cui essi vedono il mondo, e le loro menti si ristrutturano letteralmente in modo da dare un senso alla cornice. Questo tipo di apprendimento basato sulla riconnessione dei sistemi neurali è ciò che i neuroscienziati chiamano “plasticità”, il nostro cervello è modificabile, e l’esperienza diretta prolungata su un arco di tempo è un modo utilissimo per riprogrammare le sinapsi. Le connessioni nervose si sviluppano e cambiano in risposta agli stimoli dell’ambiente (Garlick, 2003). 60 Cosa sappiamo del cambiamento ! Il primo passo per cambiare i nostri schemi o quelli degli altri è riconoscerli, una volta riconosciuti possiamo costruire un contesto diverso. Attenzione però questo “nuovo mondo” deve essere coerente con i suoi postulati (niente capi vuol dire che nessuno può comportarsi come se lo fosse). All’interno del cervello Il cervello è costituito da miliardi di reti interconnesse, ognuna è depositaria di un mix dinamico di concetti associati a sentimenti. Le connessioni sono “plastiche”, il cervello si riorganizza costantemente in base al modo in cui viene usato. In un diecimilionesimo di secondo un neurone può cambiare la sua connessione. Neuroni che “bruciano assieme, si collegano tra loro” e quando associamo determinati concetti o sentimenti l’uno con l’altro, allora contribuiamo a rinforzare questa connessione. Questi collegamenti si formano attraverso centinaia di milioni di “micro-ponti” tra una rete e l’altra; più ponti ci sono, più forte sarà l’associazione. Il cambiamento implica spesso il “ricollegamento” di questi ponti, ed è questa una delle ragioni per cui ci vuole tempo per cambiare. Il cervello si modifica continuamente, in gran parte durante l’infanzia ma non solo. Per tutta la vita il cervello cambia quando impariamo e ci adattiamo a nuove situazioni. Questo fatto è chiamato “neuroplasticità”. Ne è un esempio estremo il fatto che quando si subisce un danno cerebrale ai centri del linguaggio in molti casi si riesce ad apprendere nuovamente a parlare (anche quando si è adulti e quindi i centri del linguaggio sono già ampiamente sviluppati). Un esempio più quotidiano è inve- Le neuroscienze 61 ce la velocità con cui qualcuno impara a utilizzare il suo nuovo telefonino. Per costruire questi nuovi ponti, per usare la plasticità, abbiamo bisogno di attenzione e concentrazione, prontezza, il giusto ambiente e quindi stimoli adatti. L’intelligenza è una conseguenza dello sviluppo di connessioni neuronali in risposta all’ambiente che ci circonda, e le differenze nell’intelligenza sono dovute ai diversi modi in cui si svolge questo processo di adattamento (Garlick, 2003). Un tempo i neuroscienziati pensavano che le persone nascessero con un numero fisso di neuroni (le cellule cerebrali), ma ora sappiamo che esse vengono prodotte durante tutto l’arco della nostra vita. Non sappiano esattamente come velocizzare questa produzione, ma l’attività fisica e mentale sembrano esserne la chiave. I muscoli del tuo corpo si atrofizzano se non vengono usati e si rinforzano con l’attività, il tuo cervello risponde allo stesso modo.1 Elenchiamo di seguito sei principi da tener bene in mente rispetto all’apprendimento e al cambiamento: 1. Il nostro cervello ama gli schemi, ci aiutano a essere più efficienti. Cambiare schemi richiede un “passo indietro” dalla routine. Il cambiamento può avvenire solo quando si presta attenzione e si è consapevoli dei propri schemi. 2. Il cambiamento iniziale è solo un risultato temporaneo. Per rinforzare l’apprendimento è necessario ripetere il nuovo comportamento così da rinforzare le connessioni tra i neuroni. Bisogna essere incrementali e ricordarsi che lo stress aumenta la possibilità di ritornare sulla vecchia strada. 3. Il cervello ha bisogno di esercizio per prosperare. Sia l’esercizio mentale (pensare, sentire) che quello fisico (ossigena- 62 Cosa sappiamo del cambiamento re) aiutano l’allenamento del nostro cervello. Anche il sonno e la dieta hanno un impatto enorme sul funzionamento del cervello. 4. La neuroplasticità è una strada a doppio senso. Possiamo imparare nuove abitudini più produttive ma possiamo anche impararne di negative e distruttive. Il cervello è accomodante e diventerà efficiente ed efficace con entrambi i tipi di abitudine. 5. Le emozioni guidano l’apprendimento perché hanno una funzione regolatrice, ovvero ci aiutano a focalizzarci su ciò che ci interessa, infatti, se una cosa ci interessa ce la ricorderemo. 6. Le emozioni sono motivanti. Quando avvertiamo di doverci impegnare ci concentriamo maggiormente. La scienza dell’apprendimento Sono molti i ricercatori che si dedicano alla comprensione delle modalità attraverso le quali il cervello processa le nuove informazioni. Marcus E. Raichle, per esempio, ha condotto uno studio in cui ha chiesto ad alcune persone di apprendere delle parole nuove e tornare a ripeterle dopo un po’ di tempo. Usando delle scansioni fMri e Pet, Raichle è stato in grado di evidenziare quali centri del cervello fossero effettivamente coinvolti nei due momenti: quello in cui si dovevano apprendere nuove informazioni e quello in cui le persone dovevano recuperare quelle informazioni. Siamo sempre stati portati a pensare che più ci esercitiamo in qualcosa e più questa nuova informazione verrà assimilata, ma questo non è del tutto esatto. Quando apprendiamo qualcosa di nuovo, alcune aree del cervello sono pesantemente coinvolte (incluse le aree “esecutive” della corteccia prefrontale che gestiscono i processi valutativi), ma succes- Le neuroscienze 63 sivamente l’informazione appresa viene trasmessa ad altre aree; questo vuol dire che mentre apprendiamo usiamo una certa parte del cervello ma dopo le informazioni vengono immagazzinate altrove ovvero in un’area che è attiva solitamente durante le attività quotidiane inconsce. Per apprendere qualcosa di nuovo è importante quindi metterci in uno stato d’animo adeguato, abbiamo bisogno di molta attenzione per apprendere e questo “bisogno cerebrale” non viene favorito dai ritmi che si respirano nelle nostre organizzazioni visto che ci troviamo molto spesso ad “aggiustare l’automobile mentre si sta viaggiando a cento all’ora”. Non basta la ripetizione, serve focalizzazione. Solitamente pensiamo che le nuove idee e le situazioni presenti siano filtrate attraverso il cervello e immagazzinate nella memoria, come in una videocamera. Ma in realtà si tratta di un processo a due vie: il cervello si aspetta che una nuova situazione sia simile a ciò che ha sperimentato già nel passato, perciò dalla nostra memoria partono segnali che arrivano alle zone cerebrali dedite all’elaborazione degli input sensoriali, preparandoci a riavvertire quelle sensazioni ricordate (Phelps e LeDoux, 2005). Il risultato è che il passato diventa parte del nostro filtro del presente e noi mescoliamo immaginazione, memoria ed esperienza nel presente. Regina Pally, ricercatrice della Ucla, studia il modo in cui il cervello reagisce ai trattamenti terapeutici. Una delle sue scoperte è di particolare importanza in termini di cambiamento. Abbiamo visto prima che il nostro cervello ama costruire e seguire schemi per aumentare l’efficienza. Il problema è che questi tendono a rinforzare il passato piuttosto che a prepararci per qualcosa di nuovo. Citando Pally (2007, p. 862): “In un certo senso, impariamo 64 Cosa sappiamo del cambiamento dal passato cosa aspettarci per il futuro e quindi viviamo il futuro che ci aspettiamo”. Quando ricreiamo l’esperienza passata nel nostro cervello, spiega Pally, crediamo che essa sia reale. Per la maggior parte delle aree del cervello, qualsiasi esperienza abbiamo è reale, come nel film Matrix: ciò che immaginiamo è la realtà in cui viviamo. Serve un grande sforzo fatto di prove e rivalutazioni per distinguere la nostra mappa della realtà da quelle altrui. La mappa di ciascuno, inoltre, è largamente influenzata dalle esperienze passate che si ripetono e si rinforzano continuamente. Ciò rende difficile adattarsi a nuove situazioni. Allora come possiamo cambiare questa mappa? Possiamo semplicemente “disimpararla”? Apparentemente no: piuttosto, sovrapponiamo nuova conoscenza alla vecchia mappa e sarà lei ad apportare le correzioni necessarie. È un processo che richiede un pensiero consapevole e concentrato (Phelps e LeDoux, 2005): “Quella strada è chiusa, vai da questa parte”. “Disimparare” porta alla nascita di nuove connessioni cerebrali nella corteccia prefrontale, le quali servono a inibire l’apprendimento originale (Nadel e Land, 2000). Un problema di questo sistema è che la vecchia mappa rimane dov’era, e solitamente la vecchia mappa è molto familiare! Quindi quando siamo stressati o affaticati potremmo dimenticarci di “leggere le correzioni” e seguire la vecchia mappa, anche se sappiamo essere sbagliata. Paradossalmente sono le emozioni ad aiutarci perché svolgono una funzione regolatrice ovvero ci aiutano a valutare le nostre scelte confrontandole con le nostre reazioni e quelle degli altri. Quando le persone si scollegano dalle proprie emozioni, il processo decisionale viene compromesso. Per esempio, in uno studio condotto su persone affette da disturbi alimentari, Anoressia Nervosa, si è scoperto che queste sono meno consa- Le neuroscienze 65 pevoli dei propri sentimenti (in effetti, sono più propense a mostrare segni di soppressione emotiva patologica chiamata alexithymia), e sono meno capaci di riconoscere le emozioni altrui (Treasure et al., 2005). Lo studio ha inoltre rilevato che il trattamento terapeutico risultava più efficace quando i pazienti erano in grado di “ridurre l’intensità” delle proprie emozioni; in altre parole, se i pazienti si sentivano ansiosi ignoravano i propri sentimenti, ma quando erano in grado di rilassarsi potevano beneficiare delle preziose informazioni e delle energie fornite dalle proprie emozioni. Come ci aiuta questo nel cambiamento? Se prestiamo attenzione alle nostre emozioni quando sono allo stadio iniziale di intensità otterremo un risultato migliore rispetto a chi attende la tempesta emotiva prima di ragionare di cambiamento. Ciò richiede una grande attenzione. Il risveglio emotivo, il sentire qualcosa, è lo strumento utilizzato dal cervello per segnalarci di stare attenti! L’ippocampo, l’area del cervello responsabile del controllo dell’attenzione, è particolarmente sensibile ai cambiamenti d’umore. Quando le nostre emozioni si attenuano fino a scomparire anche la soglia dell’attenzione si abbassa e svanisce. Anche in questo caso ci sono zone del nostro cervello deputate alla costruzione dell’attenzione, i formatori e gli insegnanti lo sanno bene almeno per esperienza che quando le persone si annoiano difficilmente apprendono (Weissman et al., 2006). L’implicazione di questa informazione per noi è importante perché in qualità di change agent dobbiamo sapere che: ! Creando e mantenendo il coinvolgimento emotivo aumentiamo nelle persone la capacità di prestare attenzione. 66 Cosa sappiamo del cambiamento Apprendere nuovi compiti e accettare nuove sfide è essenziale per attivare e utilizzare pienamente il nostro cervello. Ma troppe sfide creano angoscia, la quale spegne l’apprendimento. L’esercizio è essenziale – la ripetizione aiuta a rinforzare un nuovo modo di utilizzare il cervello rendendolo sempre più automatico a patto che permanga la focalizzazione. Interazione: come funziona il cervello Le emozioni sono contagiose. Infatti siamo “animali da branco” e per questo ci siamo adattati a essere altamente sensibili alle opportunità e alle minacce che riguardano il gruppo. Le emozioni formano un sistema di trasmissione quasi istantanea di informazioni. Le emozioni di una persona influenzeranno sempre gli altri, e le persone sono particolarmente inclini a farsi condizionare dai sentimenti di coloro che amano/ammirano e di coloro che hanno potere. Il cambiamento comporta spesso una variazione della cultura, le regole e i sentimenti, che guida il comportamento di un gruppo; per questo motivo è essenziale riconoscere e monitorare gli effetti del contagio emotivo. A loro volta, questi segnali emotivi interagiscono, cambiando il modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri. Una delle sfide più grandi nel cambiamento è la gestione delle nostre interpretazioni e convinzioni riguardo gli altri. Pensa a questa situazione: qualcuno esce da una stanza. Niente di sconvolgente, certo, ma se decidiamo che “è uscito dalla stanza perché ci sta ignorando” ci sentiamo non rispettati, o addirittura traditi, e il nostro termometro emotivo aumenta. Il punto è che pur non sapendo cosa sta provando l’altro tutti noi siamo portati a reagire come se lo sapessimo. Le neuroscienze 67 ! “Nell’interazione sociale reagiamo non al comportamento degli altri, ma all’interpretazione delle loro presunte intenzioni” (Pally, 2007, p. 872). Tutto questo accade pressoché inconsciamente e automaticamente. Abbiamo un tipo di cellule cerebrali, chiamate “neuroni specchio”, che sono particolarmente coinvolte nell’interazione con gli altri. Una funzione dei neuroni specchio è quella di monitorare il comportamento altrui, sono infatti collegati ai nostri centri motori (del comportamento), ma anche ai nostri centri emotivi. Questi neuroni seguono le azioni degli altri e il modo in cui ci sentiamo rispetto a esse. In un intrigante studio svolto da uno dei pionieri dei neuroni specchio Marco Iacoboni è stato usato l’fMri per tracciare le reazioni dei partecipanti alla visione di un video in cui qualcuno afferrava una tazza di caffè con intenzioni differenti (a volte per bere, a volte per pulirla). Iacoboni e il suo team sono stati in grado di osservare come il cervello riuscisse a predire e attribuire determinate intenzioni al protagonista del video. Questo era possibile perché chi osservava rispecchiava sé stesso nel protagonista interpretando quindi il comportamento in base a come si sarebbe comportato al suo posto (Iacoboni et al., 2005). Mappiamo nei nostri cervelli ciò che potrebbe succedere nella nostra mente, quindi diciamo “cosa farei io dopo e perché lo farei” e assumiamo che questo è ciò che farebbero gli altri per lo stesso motivo. Questo può creare una sorta di cecità sociale perché “presupponiamo” che gli altri sentano le stesse cose che sentiamo noi. Tutto questo ci suggerisce che in periodi di complessità (come nei cambiamenti organizzativi), 68 Cosa sappiamo del cambiamento dobbiamo stare attenti e interrogarci realmente sulle intenzioni altrui. Assodata l’importanza di queste due aree (neuroni specchio e contagio emotivo) ora le esploreremo più a fondo. Neuroni specchio Alcuni studi mostrano che gli individui ricevono, codificano e interpretano informazioni relative alla conoscenza e alle percezioni altrui. In quanto attori in un contesto sociale, noi esseri umani partecipiamo alle esperienze di coloro che ci circondano e usiamo le nostre interpretazioni per predire i comportamenti e le reazioni altrui rispetto a vari ambienti ed eventi. Molte teorie hanno cercato storicamente di spiegare l’abilità unica degli esseri umani di “mettersi nei panni” altrui. Negli anni, gli psicologi hanno mostrato che bambini di appena tre anni sono capaci di valutare accuratamente gli stati mentali e le prospettive di altre persone (Cole et al., 2005). Ciò significa che non solo i bambini sono consapevoli che la conoscenza degli altri possa differire dalla loro, ma sono anche capaci di osservare e valutare gli stati emotivi e mentali di coloro che li circondano. Più recentemente, lo sviluppo delle tecniche di osservazione a disposizione della neurologia ha consentito ai ricercatori di investigare più a fondo le ragioni biologiche di questi fatti. Una ricerca svolta inizialmente sui primati ha suggerito che le cellule nervose del cervello potrebbero giocare un ruolo chiave nell’attitudine umana a condividere esperienze ed emozioni. Il sistema I neuroni specchio furono scoperti negli anni novanta dai ricercatori dell’Università di Parma. Utilizzando originariamente Le neuroscienze 69 dei macachi, gli scienziati scoprirono accidentalmente che quando una scimmia osservava specifiche azioni fisiche (ad esempio afferrare, masticare e sputare) svolte da un compagno, determinate cellule nervose celebrali si attivavano come se fosse essa stessa a compiere le azioni (Gallese, 2007). Si ritiene che queste cellule nervose (chiamate neuroni specchio) rappresentino il collegamento biologico tra gli individui durante la comunicazione (Rizzolatti e Craighero, 2004). Nonostante la ricerca sui neuroni specchio sia molto giovane, molti autorevoli scienziati hanno suggerito che potrebbe esserci una base biologica della diffusione di emozioni tra gli individui (Gallese, 2006). Gallese sostiene che le emozioni di qualcun altro sono provate direttamente da un osservatore mediante attività neuronali simili; ciò significa che le persone possono capire e provare direttamente gli stati emotivi di qualcun altro poiché le loro cellule cerebrali reagirebbero in modi analoghi. ! Siamo biologicamente collegati tra di noi così da provare le stesse emozioni contemporaneamente. Inoltre, come ci si aspetterebbe, è stato osservato che l’attivazione delle aree specchio del cervello è legata all’abilità di cambiare prospettiva (Gazzola et al., 2006). In uno studio recente condotto in Olanda, sedici soggetti sono stati esposti ad alcuni suoni registrati che venivano poi associati a due azioni manuali. Nella seduta successiva, ai partecipanti veniva chiesto di compiere azioni simili a quelle richiamate dai suoni che avevano sentito precedentemente. I dati fMri dell’esperimento mostrarono non solo che specifiche aree dell’emisfero sinistro so- 70 Cosa sappiamo del cambiamento no attivate sia dal suono che dal compiere una specifica azione, ma anche che questo fenomeno si osserva maggiormente nei partecipanti che hanno un alto grado di empatia. Questi risultati spingono a chiedersi: l’abilità di qualcuno a rispondere ai segnali emotivi altrui è puramente biologica o può aumentare nel tempo? Fortunatamente, la ricerca suggerisce che non abbiamo restrizioni nelle abilità del nostro sistema neuronale a specchio, ma che una stimolazione ripetuta e persistente può generare una migliore capacità di percepire e provare le emozioni altrui (Gazzola et al., 2006). Questo vuol dire che: ! Non solo le persone ti osservano, ma i loro cervelli stanno letteralmente mappando le tue reazioni e probabilmente le replicheranno. Entrando semplicemente in una stanza, si influenza il cervello delle persone: siamo stati creati per connetterci. Questo sistema alimenta il trasferimento delle emozioni tra le persone, quello che gli scienziati chiamano “contagio emotivo”. Il contagio emotivo Si è visto che nelle interazioni quotidiane a casa, al lavoro e nella società in generale, le persone inviano inconsciamente messaggi su come si sentono e, allo stesso tempo, ricevono informazioni dagli altri. Siamo continuamente esposti al “contagio” e le ricerche hanno dimostrato che questi segnali emotivi non solo vengono percepiti ma influenzano l’umore di ciascuno di noi incidendo sui nostri comportamenti. Le neuroscienze 71 Studi sul comportamento e sull’umore umano hanno mostrato che i sentimenti si diffondono da una persona all’altra attraverso una vasta gamma di meccanismi. Per esempio, il modo in cui comunichiamo, le espressioni facciali, la postura o i nostri schemi comportamentali trasmettono costantemente informazioni emotive (Gallese, 2006; Neumann e Strack, 2000). È stato dimostrato, che lo stato d’animo può diffondersi attraverso caratteristiche comunicative come l’inflessione della voce. In un recente studio di Neumann e Strack (2000), ai partecipanti veniva chiesto di ascoltare un discorso emotivamente imparziale letto da un attore che usava un’inflessione di voce che di volta in volta differente (felice, triste, neutrale). Quando poi veniva loro chiesto di classificare le proprie emozioni, i partecipanti riportarono di aver provato emozioni in linea con quelle espresse dalla tonalità di voce dello speaker. Inoltre, i partecipanti hanno dichiarato di apprezzare meno lo speaker nei momenti in cui aveva una voce triste: F (2,26) = 11,08, p < 0,001. Queste informazioni portano a molte domande. Primo: gli esseri umani nascono con una sensibilità innata per le emozioni altrui? Alcuni scienziati direbbero di sì. È stato osservato che i neonati imitano fisicamente le espressioni facciali di chi li circonda. Anche se questo è stato interpretato da qualcuno come un’indicazione di sensibilità emotiva istintiva (Gallese, 2006), altri sostengono che la nostra sensibilità ai sentimenti degli altri si sviluppa e adatta nel tempo. Il contagio emotivo all’interno dei gruppi Nel 2002 Sigal Barsade della Yale University ha esaminato l’effetto del contagio emotivo all’interno dei gruppi. Nel suo espe- 72 Cosa sappiamo del cambiamento rimento, un attore addestrato era posto in contesti di gruppo con il compito di partecipare alle loro attività “recitando” un ruolo (collaborativo, motivante, pessimista eccetera). A ciascun gruppo era stato affidato il compito di definire un sistema di assegnazione dei bonus in denaro (avevano a disposizione un budget fisso che potevano spendere definendo i criteri in base alla performance delle persone). Al termine delle attività ai partecipanti è stato chiesto di compilare un’autovalutazione identificando lo stato d’animo provato in quel momento. I risultati dello studio evidenziano chiaramente che le emozioni dell’attore hanno influenzato inconsciamente anche il resto del team determinando un diverso comportamento nelle decisioni prese (questo valeva sia per gli stati d’animo “piacevoli” che per quelli “spiacevoli”) (Barsade, 2000). Analizzando invece un’altra dimensione del contagio emotivo ovvero quella svolta da chi occupa una posizione di potere e autorità si è arrivati a conclusioni che non sempre concordano tra loro. Può accadere che coloro che hanno autorità o sono particolarmente amati e rispettati esercitino un effetto maggiore, ma ciò che resta indiscusso è che un leader per definizione influenza il mood di un gruppo: In uno studio sull’influenza del contagio emotivo dei leader sul gruppo, l’umore piacevole influenzava il team sia a livello individuale che collettivo, altrettanto accadeva per l’umore spiacevole. Il mood positivo del leader era in grado di incidere anche nel tempo impattando significativamente sul coordinamento e sull’impegno del gruppo” (Sy, Côté, e Saavedra, 2005, come citato in Barsade e Gibson, 2007). Le neuroscienze 73 Gli effetti dell’umore Abbiamo detto che l’umore è contagioso, vediamo ora come questo contagio può impattare sulle performance di individui, gruppi e organizzazioni. Anche se diversi autori sono dell’opinione che stati d’animo piacevoli generano effetti positivi sulla performance, c’è da dire che anche un mood poco piacevole, in determinate situazione, può risultare assolutamente efficace sulla performance. Vediamolo meglio. Ripartendo dallo studio di Barsade discusso in precedenza, si osservò che quando “l’attore” recitava un ruolo non piacevole generava nel gruppo emozioni spiacevoli e il team diminuiva la sua efficacia, mentre quando l’attore generava un effetto piacevole il team cooperava di più, si generavano minori conflitti e le performance miglioravano. Allo stesso modo, in uno studio simile, Alice Isen (1993) osservò il lavoro di alcuni radiologi, trovando che mood positivi aumentavano la loro accuratezza. Uno stato d’animo piacevole ha un effetto a lungo raggio sulle performance lavorative, sulla supervisione, sul processo decisionale e anche sulla volontà dei membri del team ad agire per il bene dell’organizzazione. D’altro canto, in alcune situazioni un “cattivo umore” è più efficace. Per esempio, Elsbach e Barr (1999) hanno scoperto che le persone in uno stato d’animo spiacevole usano un approccio più strutturato nel processo decisionale. ! Lo stato d’animo modifica le performance, il giusto mood migliora i risultati di un gruppo mentre quello sbagliato li peggiora (tabella 3.1). 74 Cosa sappiamo del cambiamento Tabella 3.1 I costi e benefici degli stati d’animo piacevole o spiacevole (Elsbach e Barr, 1999) Umore Benefici Potenziali Piacevole Spiacevole Costi Potenziali Segnala situazioni positive presenti nella memoria (Isen et al. 1978) Promuove il problem solving creativo (Isen et al. 1987) Promuove una categorizzazione più flessibile degli elementi (Isen & Daubman, 1984) Promuove Efficienza nel decision making (isen & Means, 1983) Promuove precisione nei compiti interessanti (Isen et al, 1991) Mancanza di distrazioni e maggiore impegno nell'elaborazione dei messaggi (Bless et al., 1990) Minor propensione ad affidarsi a segnali periferici (Worth & Mackle, 1987) Motivazione ad impegnarsi in difficili analisi per cambiare la situazione e l'umore (Bless et al. 1990) Maggior propensione a usare un protocollo di decisione strutturato completamente e correttamente (studio in corso) Promuove l’avversione al rischio, una utilità soggettiva più negativa per le perdite (Isen et al. 1988) Promuove l’uso di processi decisionali più euristici e rapidi (Isen & Means, 1983) Difficoltà a distinguere argomentazioni forti e deboli (Smith & Shaffer, 1991) Persuasione da segnali periferici (es. etichetta “esperto”) (Mackie & Worth 1991) Più difficile usare un protocollo di decisione strutturato completamente e correttamente (studio in corso) Affidamento a regole decisionali ben conosciute (Mano 1992) Aumento del pessimismo (Wright & Bower 1992) Aumento del giudizio negativo sugli altri (Fiske & Taylor, 1984) Propensione al rischio quando i guadagni/perdite potenziali sono elevati (Dunegan et al. 1992) Abbiamo visto che le emozioni esercitano un ruolo determinante sulle persone aiutandole ad adattarsi a situazione sociali nuove, inoltre le emozioni provate da una persona influenzano quelle di un’altra. Proprio come all’interno di un branco le informazioni circa Le neuroscienze 75 i pericoli (arriva il predatore) o le opportunità (da quella parte c’è acqua) vengono trasmesse con una velocità impressionante, allo stesso modo le informazioni emotive circolano in maniera altrettanto sorprendente. Questo sistema aiuta un team a vedere i rischi o le opportunità legate a un cambiamento attraverso una comunicazione rapida ed efficace. Non possiamo più tirarci indietro, niente più alibi come: le persone sono strane! Ora sappiamo che i sentimenti di una persona influenzano gli altri e che questi sentimenti a loro volta influenzano le performance. Per questo è necessario porre attenzione a questi aspetti, sviluppare consapevolezza e farsi carico della loro gestione specialmente per chi occupa una posizione di leadership (educatori, manager genitori, politici, atleti). L’intelligenza emotiva permette alle persone di monitorare e gestire questo scambio, ed è per questo che allenandola potremo aumentare la capacità delle persone di interagire l’uno con l’altro. Risultati: le basi scientifiche della fiducia Se saremo bravi a gestire l’interazione emotiva ne otterremo in cambio un bene prezioso ovvero la fiducia. Ogni singolo giorno, in milioni di interazioni umane, la fiducia gioca un ruolo essenziale, il nostro mondo ruota intorno alla fiducia: abbiamo fiducia nel fatto che il semaforo sia rosso per gli altri quando è verde per noi, che riceveremo il nostro stipendio a fine mese, che il nostro dentista è sincero quando ci dice di doverci curare una carie, che le nostre banconote abbiano un valore. La fiducia è un rischio, come scrivono Hong & Bohnet 76 Cosa sappiamo del cambiamento (2007): “La fiducia è la volontà di rendersi vulnerabili agli altri”. Molti di noi sanno cosa voglia dire fidarsi o non fidarsi, ma è molto difficile misurare il grado di fiducia riposto in noi o negli altri. Se è difficile misurare ancor più difficile è spiegare le ragioni per cui proviamo fiducia. Studi recenti hanno cercato di svelare le variabili cognitive, comportamentali e fisiologiche che contribuiscono alla presenza o assenza di fiducia e di seguito ti proponiamo una breve sintesi. Cosa permette la creazione di fiducia C’è un elemento della fiducia che è culturale ovvero dipende dal contesto sociale in cui siamo nati e in cui abbiamo vissuto. Il ricercatore Paul Zak ha scoperto che i livelli di fiducia possono, infatti, variare nelle diverse nazioni. Lo stesso presumibilmente vale per le culture organizzative. Le norme e le aspettative, le conoscenze e i sentimenti delle persone influenzeranno il come e il quando la fiducia viene concessa. Inoltre sembra esserci maggior fiducia in una nazione quanto più essa è etnicamente e linguisticamente omogenea (Naef et al., 2008). L’implicazione è che in un mondo economico sempre più globalizzato e diversificato, la fiducia sarà ancor più difficile da stabilire. Cosa succede a livello individuale? Se un individuo offre risorse a un altro senza esserne obbligato allora la fiducia è automaticamente implicata. Tuttavia, comprendere i sottili processi e meccanismi che guidano la fiducia è tutta un’altra storia. Ralph Adolphs ha scoperto che l’amygdala (che regola le nostre reazioni emotive di fronte alle situazioni di pericolo) è maggiormente attivata quando le persone vedono facce che Le neuroscienze 77 giudicano poco affidabili. Quindi la percezione della fiducia ha un impatto sui nostri cervelli e le nostre emozioni influenzano e determinano la percezione di fiducia. Per esempio, espressioni di rabbia e tristezza sono correlate negativamente con l’affidabilità percepita. Una ricerca recente di Kosfeld et al. (2005) sottolinea l’aspetto chimico e biologico della fiducia. Questo studio ha scoperto che soggetti a cui veniva somministrata oxytocina apparivano significativamente più fiduciosi. L’oxytocina è comunemente nota come l’ormone che si trova in grandi quantità nelle donne in gravidanza e in allattamento; crea un desiderio di coesione sociale. Da un punto di vista biologico questo ha senso, poiché le donne in attesa o in allattamento devono avere fiducia negli altri, in particolare nel partner, per proteggere se stesse e i propri figli. Sembra che l’oxytocina possa essere chiamato ormone della fiducia! Diversi studi hanno anche dimostrato che la fiducia genera fiducia (Bohnet et al., 2001; Fehr e Falk, 2000; Falk e Kosfeld, 2006). Una persona mostra fiducia offrendo qualcosa a qualcun’altro di cui si fida, il quale potrebbe sentirsi incoraggiato a ricambiare, dimostrando a sua volta fiducia. Come riportato in un importante studio (2005) di Zak, Kurzban e Matzner, coloro che ricevono un segnale di fiducia intenzionale producono un livello di oxytocina superiore del doppio rispetto a chi non ha ricevuto il rinforzo. Questo ci porta a dire che ricevere fiducia genera la stessa risposta biologica che si otterrebbe concedendola. Un’altra scoperta interessante è che il livello di oxytocina non è legato a comportamenti demografici e sociali o a profili psicologici. Ovvero: la fiducia può dipendere da fattori culturale ma a livello biologico siamo tutti uguali (Zak, 2005). 78 Cosa sappiamo del cambiamento Di importanza critica per il cambiamento è la relazione tra paura e fiducia. In uno studio successivo, Baumgarner et al. (2008) hanno scoperto che l’oxytocina causa una disattivazione selettiva nei circuiti della paura (quindi chi prova fiducia non può provare paura). Inoltre, le persone con alti livelli di avversione al rischio (coloro che sono quindi molto timorosi) mostrano un comportamento meno fiducioso (Fehr e Armin, 2002). Da questi studi possiamo dedurre che la fiducia può essere generata quando la capacità di percepire la paura cala e quando il desiderio di socializzazione aumenta. Quindi la fiducia mitiga gli effetti della paura e aumenta la voglia di unirsi al gruppo anche quando questo comporta un rischio. Riepilogo Grazie alle conoscenze offerte dalle neuroscienze contemporanee possiamo avere una base concettuale più solida per gestire con efficacia i processi di cambiamento, questo perché stiamo includendo nel nostro processo razionale le componenti umane fondamentali per comprendere il comportamento delle persone, dei gruppi e quindi delle organizzazioni. Ricorda: • Il cambiamento inizia nel cervello. Il cervello è “plastico” ed è quindi in grado di modificare se stesso. Il cambiamento o l’apprendimento per essere efficaci richiedono il giusto stato d’animo quindi: concentrazione, ripetizione, rinforzo e un po’ di sfida. • Le emozioni guidano l’attenzione e determinano il modo in cui gli individui e i gruppi rispondono ai cambiamenti. Le Le neuroscienze 79 emozioni sono contagiose, si connettono tra di loro e tra le persone attraverso un perfetto sistema biologico. • La fiducia non è a senso unico ma reciproca, ha una componente culturale e una individuale, è legata ad altre emozioni, collega le persone tra di loro. Note 1 Adattamento da The Brain Fitness Program, Pbs Video.