3. Le neuroscienze
C’è molto da imparare sul modo in cui funzionano le persone, i
progressi compiuti negli ultimi dieci anno dalle neuroscienze
hanno trasformato le teorie sul comportamento e l’apprendimento degli individui offrendoci preziosi contributi: a queste
scoperte vorremmo dedicare questo capitolo così da affiancare alla base teorica del nostro modello anche una base scientifica. Stiamo ovviamente parlando di una scienza in continua
evoluzione e per questo è giusto mettere in conto il fatto che “la
verità” non sia ancora del tutto disponibile ma sicuramente
possiamo dire di avere molte più informazioni del passato e che
riferirci a queste nuove scoperte ci può aiutare a rinforzare i nostri ragionamenti sul cambiamento. Come possono dunque
aiutarci le neuroscienze? Sicuramente possiamo iniziare ponendoci alcune domande su quelli che abbiamo visto essere i
fattori discriminanti del processo di cambiamento ovvero:
1. Apprendimento: come fa il nostro cervello a processare gli
stimoli e le informazioni?
2. Interazione: perché le emozioni sono contagiose e influenzano le persone? Le persone possono influenzare le emozioni?
58 Cosa sappiamo del cambiamento
3. Risultati: da cosa dipende la fiducia? Cosa serve per ottenere fiducia?
Come apprendono le persone
Le neuroscienze hanno dimostrato che il cervello umano si “cabla” letteralmente per rispondere in un determinato modo a determinati stimoli. Gli schemi del pensiero, dei sentimenti e delle azioni si formano molto velocemente perché si basano sull’esperienza pregressa di ciascuno di noi. A tanta velocità si oppone la lentezza e la difficoltà con cui il cervello sa invece cambiare e modificare questi schemi come dire: è facile farsi
un’idea delle cose ma è difficile cambiare questa idea! È attraverso questi schemi che il nostro cervello vuole renderci la vita più semplice. Visto che gli schemi neurologici si formano in
base all’esperienza di ciascun individuo ne consegue che anche
la cultura organizzativa tende ad autorinforzare questi percepiti, come dire: se un certo modo di fare business ha sempre attenuto dei risultati sarà difficile che qualcuno avverta la necessità di metterlo in discussione. Ma, come abbiamo già detto approccio non ci favorisce di questi tempi, per restare a galla bisogna anticipare, cambiare e avere una visione prospettica
(quasi preveggente) del futuro: oggi giorno la normalità e la
routine sono disfunzionali nel business.
Ne è un esempio la storia di W.L. Gore, l’azienda che fabbrica il materiale impermeabile Gore Tex molto diffuso nell’abbigliamento tecnico. L’azienda è stata fondata nel 1958 da Bill e
Vieve Gore. Quando Bill lavorava presso la Dupont, realizzò
che c’erano solo due posti in cui le persone erano propense a
collaborare veramente: in condizioni di aggregazione sponta-
Le neuroscienze 59
nea o in una trasferta in macchina. Tutte le altre situazioni erano afflitte dalla gerarchia e dalle regole! Bill volle così creare
una nuova azienda con una nuova cultura: nessuna gerarchia
ma solo lavoro di squadra. Ogni volta che un nuovo associato
(non “impiegato”) si unisce all’azienda gli viene detto “Non abbiamo capi qui”. Inizialmente le persone credono che questo
sia solo un eufemismo aziendale, e per un po’ continuano a
chiedere “no, sul serio, chi è il mio capo?” fino a quando con
l’andare del tempo le persone si abituano a non avere capi e gerarchie (Freedman, 2007b).
Ora, superati i cinquant’anni di età e con vendite di oltre 1,8
miliardi di dollari, 45 impianti e nove anni in cima alla Fortune’s 100 Best Places to Work, l’esperimento sembra aver avuto
successo. In termini di cambiamento, la cosa interessante del
caso Gore è la dimostrazione di quanto uno schema sociale
possa essere difficile da modificare. Anche in questo caso esiste una spiegazione infatti, la struttura concettuale ovvero il bisogno di creare sistemi di riferimento inizia a un livello neurologico quando le cellule del cervello si collegano formando sistemi interconnessi. Quei nuovi impiegati della Gore hanno un
sistema di “capi” e “gerarchia” fortemente connesso con la nozione di lavoro. Gli schemi diventano una sorta di cornice attraverso cui essi vedono il mondo, e le loro menti si ristrutturano letteralmente in modo da dare un senso alla cornice.
Questo tipo di apprendimento basato sulla riconnessione
dei sistemi neurali è ciò che i neuroscienziati chiamano “plasticità”, il nostro cervello è modificabile, e l’esperienza diretta
prolungata su un arco di tempo è un modo utilissimo per riprogrammare le sinapsi. Le connessioni nervose si sviluppano e
cambiano in risposta agli stimoli dell’ambiente (Garlick, 2003).
60 Cosa sappiamo del cambiamento
! Il primo passo per cambiare i nostri schemi o quelli degli
altri è riconoscerli, una volta riconosciuti possiamo costruire un contesto diverso. Attenzione però questo “nuovo mondo” deve essere coerente con i suoi postulati
(niente capi vuol dire che nessuno può comportarsi come
se lo fosse).
All’interno del cervello
Il cervello è costituito da miliardi di reti interconnesse, ognuna
è depositaria di un mix dinamico di concetti associati a sentimenti. Le connessioni sono “plastiche”, il cervello si riorganizza costantemente in base al modo in cui viene usato. In un diecimilionesimo di secondo un neurone può cambiare la sua connessione. Neuroni che “bruciano assieme, si collegano tra loro” e quando associamo determinati concetti o sentimenti
l’uno con l’altro, allora contribuiamo a rinforzare questa connessione. Questi collegamenti si formano attraverso centinaia
di milioni di “micro-ponti” tra una rete e l’altra; più ponti ci sono, più forte sarà l’associazione. Il cambiamento implica spesso il “ricollegamento” di questi ponti, ed è questa una delle ragioni per cui ci vuole tempo per cambiare.
Il cervello si modifica continuamente, in gran parte durante
l’infanzia ma non solo. Per tutta la vita il cervello cambia quando impariamo e ci adattiamo a nuove situazioni. Questo fatto è
chiamato “neuroplasticità”. Ne è un esempio estremo il fatto
che quando si subisce un danno cerebrale ai centri del linguaggio in molti casi si riesce ad apprendere nuovamente a parlare
(anche quando si è adulti e quindi i centri del linguaggio sono
già ampiamente sviluppati). Un esempio più quotidiano è inve-
Le neuroscienze 61
ce la velocità con cui qualcuno impara a utilizzare il suo nuovo
telefonino. Per costruire questi nuovi ponti, per usare la plasticità, abbiamo bisogno di attenzione e concentrazione, prontezza, il giusto ambiente e quindi stimoli adatti. L’intelligenza è una
conseguenza dello sviluppo di connessioni neuronali in risposta all’ambiente che ci circonda, e le differenze nell’intelligenza sono dovute ai diversi modi in cui si svolge questo processo
di adattamento (Garlick, 2003).
Un tempo i neuroscienziati pensavano che le persone nascessero con un numero fisso di neuroni (le cellule cerebrali),
ma ora sappiamo che esse vengono prodotte durante tutto l’arco della nostra vita. Non sappiano esattamente come velocizzare questa produzione, ma l’attività fisica e mentale sembrano
esserne la chiave. I muscoli del tuo corpo si atrofizzano se non
vengono usati e si rinforzano con l’attività, il tuo cervello risponde allo stesso modo.1
Elenchiamo di seguito sei principi da tener bene in mente rispetto all’apprendimento e al cambiamento:
1. Il nostro cervello ama gli schemi, ci aiutano a essere più efficienti. Cambiare schemi richiede un “passo indietro” dalla
routine. Il cambiamento può avvenire solo quando si presta
attenzione e si è consapevoli dei propri schemi.
2. Il cambiamento iniziale è solo un risultato temporaneo. Per
rinforzare l’apprendimento è necessario ripetere il nuovo
comportamento così da rinforzare le connessioni tra i neuroni. Bisogna essere incrementali e ricordarsi che lo stress
aumenta la possibilità di ritornare sulla vecchia strada.
3. Il cervello ha bisogno di esercizio per prosperare. Sia l’esercizio mentale (pensare, sentire) che quello fisico (ossigena-
62 Cosa sappiamo del cambiamento
re) aiutano l’allenamento del nostro cervello. Anche il sonno e la dieta hanno un impatto enorme sul funzionamento
del cervello.
4. La neuroplasticità è una strada a doppio senso. Possiamo
imparare nuove abitudini più produttive ma possiamo anche impararne di negative e distruttive. Il cervello è accomodante e diventerà efficiente ed efficace con entrambi i tipi di
abitudine.
5. Le emozioni guidano l’apprendimento perché hanno una funzione regolatrice, ovvero ci aiutano a focalizzarci su ciò che
ci interessa, infatti, se una cosa ci interessa ce la ricorderemo.
6. Le emozioni sono motivanti. Quando avvertiamo di doverci
impegnare ci concentriamo maggiormente.
La scienza dell’apprendimento
Sono molti i ricercatori che si dedicano alla comprensione delle modalità attraverso le quali il cervello processa le nuove informazioni. Marcus E. Raichle, per esempio, ha condotto uno
studio in cui ha chiesto ad alcune persone di apprendere delle
parole nuove e tornare a ripeterle dopo un po’ di tempo. Usando delle scansioni fMri e Pet, Raichle è stato in grado di evidenziare quali centri del cervello fossero effettivamente coinvolti
nei due momenti: quello in cui si dovevano apprendere nuove
informazioni e quello in cui le persone dovevano recuperare
quelle informazioni. Siamo sempre stati portati a pensare che
più ci esercitiamo in qualcosa e più questa nuova informazione
verrà assimilata, ma questo non è del tutto esatto. Quando apprendiamo qualcosa di nuovo, alcune aree del cervello sono pesantemente coinvolte (incluse le aree “esecutive” della corteccia prefrontale che gestiscono i processi valutativi), ma succes-
Le neuroscienze 63
sivamente l’informazione appresa viene trasmessa ad altre
aree; questo vuol dire che mentre apprendiamo usiamo una certa parte del cervello ma dopo le informazioni vengono immagazzinate altrove ovvero in un’area che è attiva solitamente durante le attività quotidiane inconsce. Per apprendere qualcosa di
nuovo è importante quindi metterci in uno stato d’animo adeguato, abbiamo bisogno di molta attenzione per apprendere e
questo “bisogno cerebrale” non viene favorito dai ritmi che si respirano nelle nostre organizzazioni visto che ci troviamo molto
spesso ad “aggiustare l’automobile mentre si sta viaggiando a
cento all’ora”. Non basta la ripetizione, serve focalizzazione.
Solitamente pensiamo che le nuove idee e le situazioni presenti siano filtrate attraverso il cervello e immagazzinate nella
memoria, come in una videocamera. Ma in realtà si tratta di un
processo a due vie: il cervello si aspetta che una nuova situazione sia simile a ciò che ha sperimentato già nel passato, perciò dalla nostra memoria partono segnali che arrivano alle zone cerebrali dedite all’elaborazione degli input sensoriali, preparandoci a riavvertire quelle sensazioni ricordate (Phelps e
LeDoux, 2005). Il risultato è che il passato diventa parte del nostro filtro del presente e noi mescoliamo immaginazione, memoria ed esperienza nel presente.
Regina Pally, ricercatrice della Ucla, studia il modo in cui il
cervello reagisce ai trattamenti terapeutici. Una delle sue scoperte è di particolare importanza in termini di cambiamento.
Abbiamo visto prima che il nostro cervello ama costruire e seguire schemi per aumentare l’efficienza. Il problema è che questi tendono a rinforzare il passato piuttosto che a prepararci
per qualcosa di nuovo.
Citando Pally (2007, p. 862): “In un certo senso, impariamo
64 Cosa sappiamo del cambiamento
dal passato cosa aspettarci per il futuro e quindi viviamo il futuro che ci aspettiamo”. Quando ricreiamo l’esperienza passata
nel nostro cervello, spiega Pally, crediamo che essa sia reale. Per
la maggior parte delle aree del cervello, qualsiasi esperienza abbiamo è reale, come nel film Matrix: ciò che immaginiamo è la
realtà in cui viviamo. Serve un grande sforzo fatto di prove e rivalutazioni per distinguere la nostra mappa della realtà da quelle altrui. La mappa di ciascuno, inoltre, è largamente influenzata dalle esperienze passate che si ripetono e si rinforzano continuamente. Ciò rende difficile adattarsi a nuove situazioni.
Allora come possiamo cambiare questa mappa? Possiamo
semplicemente “disimpararla”? Apparentemente no: piuttosto,
sovrapponiamo nuova conoscenza alla vecchia mappa e sarà lei
ad apportare le correzioni necessarie. È un processo che richiede un pensiero consapevole e concentrato (Phelps e LeDoux,
2005): “Quella strada è chiusa, vai da questa parte”. “Disimparare” porta alla nascita di nuove connessioni cerebrali nella corteccia prefrontale, le quali servono a inibire l’apprendimento
originale (Nadel e Land, 2000). Un problema di questo sistema
è che la vecchia mappa rimane dov’era, e solitamente la vecchia
mappa è molto familiare! Quindi quando siamo stressati o affaticati potremmo dimenticarci di “leggere le correzioni” e seguire la vecchia mappa, anche se sappiamo essere sbagliata.
Paradossalmente sono le emozioni ad aiutarci perché svolgono una funzione regolatrice ovvero ci aiutano a valutare le
nostre scelte confrontandole con le nostre reazioni e quelle degli altri. Quando le persone si scollegano dalle proprie emozioni, il processo decisionale viene compromesso. Per esempio, in
uno studio condotto su persone affette da disturbi alimentari,
Anoressia Nervosa, si è scoperto che queste sono meno consa-
Le neuroscienze 65
pevoli dei propri sentimenti (in effetti, sono più propense a mostrare segni di soppressione emotiva patologica chiamata alexithymia), e sono meno capaci di riconoscere le emozioni altrui (Treasure et al., 2005). Lo studio ha inoltre rilevato che il
trattamento terapeutico risultava più efficace quando i pazienti erano in grado di “ridurre l’intensità” delle proprie emozioni;
in altre parole, se i pazienti si sentivano ansiosi ignoravano i
propri sentimenti, ma quando erano in grado di rilassarsi potevano beneficiare delle preziose informazioni e delle energie
fornite dalle proprie emozioni. Come ci aiuta questo nel cambiamento? Se prestiamo attenzione alle nostre emozioni quando sono allo stadio iniziale di intensità otterremo un risultato
migliore rispetto a chi attende la tempesta emotiva prima di ragionare di cambiamento.
Ciò richiede una grande attenzione. Il risveglio emotivo, il
sentire qualcosa, è lo strumento utilizzato dal cervello per segnalarci di stare attenti! L’ippocampo, l’area del cervello responsabile del controllo dell’attenzione, è particolarmente sensibile
ai cambiamenti d’umore. Quando le nostre emozioni si attenuano fino a scomparire anche la soglia dell’attenzione si abbassa
e svanisce. Anche in questo caso ci sono zone del nostro cervello deputate alla costruzione dell’attenzione, i formatori e gli insegnanti lo sanno bene almeno per esperienza che quando le
persone si annoiano difficilmente apprendono (Weissman et al.,
2006). L’implicazione di questa informazione per noi è importante perché in qualità di change agent dobbiamo sapere che:
! Creando e mantenendo il coinvolgimento emotivo aumentiamo nelle persone la capacità di prestare attenzione.
66 Cosa sappiamo del cambiamento
Apprendere nuovi compiti e accettare nuove sfide è essenziale
per attivare e utilizzare pienamente il nostro cervello. Ma troppe sfide creano angoscia, la quale spegne l’apprendimento.
L’esercizio è essenziale – la ripetizione aiuta a rinforzare un
nuovo modo di utilizzare il cervello rendendolo sempre più automatico a patto che permanga la focalizzazione.
Interazione: come funziona il cervello
Le emozioni sono contagiose. Infatti siamo “animali da branco”
e per questo ci siamo adattati a essere altamente sensibili alle
opportunità e alle minacce che riguardano il gruppo. Le emozioni formano un sistema di trasmissione quasi istantanea di informazioni. Le emozioni di una persona influenzeranno sempre gli altri, e le persone sono particolarmente inclini a farsi
condizionare dai sentimenti di coloro che amano/ammirano e
di coloro che hanno potere. Il cambiamento comporta spesso
una variazione della cultura, le regole e i sentimenti, che guida
il comportamento di un gruppo; per questo motivo è essenziale riconoscere e monitorare gli effetti del contagio emotivo. A
loro volta, questi segnali emotivi interagiscono, cambiando il
modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri.
Una delle sfide più grandi nel cambiamento è la gestione delle nostre interpretazioni e convinzioni riguardo gli altri. Pensa
a questa situazione: qualcuno esce da una stanza. Niente di
sconvolgente, certo, ma se decidiamo che “è uscito dalla stanza perché ci sta ignorando” ci sentiamo non rispettati, o addirittura traditi, e il nostro termometro emotivo aumenta. Il punto è che pur non sapendo cosa sta provando l’altro tutti noi siamo portati a reagire come se lo sapessimo.
Le neuroscienze 67
! “Nell’interazione sociale reagiamo non al comportamento degli altri, ma all’interpretazione delle loro presunte intenzioni” (Pally, 2007, p. 872).
Tutto questo accade pressoché inconsciamente e automaticamente. Abbiamo un tipo di cellule cerebrali, chiamate “neuroni specchio”, che sono particolarmente coinvolte nell’interazione con gli altri. Una funzione dei neuroni specchio è quella
di monitorare il comportamento altrui, sono infatti collegati
ai nostri centri motori (del comportamento), ma anche ai nostri centri emotivi. Questi neuroni seguono le azioni degli altri e il modo in cui ci sentiamo rispetto a esse. In un intrigante studio svolto da uno dei pionieri dei neuroni specchio Marco Iacoboni è stato usato l’fMri per tracciare le reazioni dei
partecipanti alla visione di un video in cui qualcuno afferrava
una tazza di caffè con intenzioni differenti (a volte per bere, a
volte per pulirla). Iacoboni e il suo team sono stati in grado di
osservare come il cervello riuscisse a predire e attribuire determinate intenzioni al protagonista del video. Questo era
possibile perché chi osservava rispecchiava sé stesso nel protagonista interpretando quindi il comportamento in base a come si sarebbe comportato al suo posto (Iacoboni et al., 2005).
Mappiamo nei nostri cervelli ciò che potrebbe succedere nella nostra mente, quindi diciamo “cosa farei io dopo e perché
lo farei” e assumiamo che questo è ciò che farebbero gli altri
per lo stesso motivo. Questo può creare una sorta di cecità sociale perché “presupponiamo” che gli altri sentano le stesse
cose che sentiamo noi. Tutto questo ci suggerisce che in periodi di complessità (come nei cambiamenti organizzativi),
68 Cosa sappiamo del cambiamento
dobbiamo stare attenti e interrogarci realmente sulle intenzioni altrui.
Assodata l’importanza di queste due aree (neuroni specchio
e contagio emotivo) ora le esploreremo più a fondo.
Neuroni specchio
Alcuni studi mostrano che gli individui ricevono, codificano e
interpretano informazioni relative alla conoscenza e alle percezioni altrui. In quanto attori in un contesto sociale, noi esseri
umani partecipiamo alle esperienze di coloro che ci circondano e usiamo le nostre interpretazioni per predire i comportamenti e le reazioni altrui rispetto a vari ambienti ed eventi.
Molte teorie hanno cercato storicamente di spiegare l’abilità
unica degli esseri umani di “mettersi nei panni” altrui. Negli anni, gli psicologi hanno mostrato che bambini di appena tre anni
sono capaci di valutare accuratamente gli stati mentali e le prospettive di altre persone (Cole et al., 2005). Ciò significa che non
solo i bambini sono consapevoli che la conoscenza degli altri
possa differire dalla loro, ma sono anche capaci di osservare e
valutare gli stati emotivi e mentali di coloro che li circondano.
Più recentemente, lo sviluppo delle tecniche di osservazione
a disposizione della neurologia ha consentito ai ricercatori di investigare più a fondo le ragioni biologiche di questi fatti. Una ricerca svolta inizialmente sui primati ha suggerito che le cellule
nervose del cervello potrebbero giocare un ruolo chiave nell’attitudine umana a condividere esperienze ed emozioni.
Il sistema
I neuroni specchio furono scoperti negli anni novanta dai ricercatori dell’Università di Parma. Utilizzando originariamente
Le neuroscienze 69
dei macachi, gli scienziati scoprirono accidentalmente che
quando una scimmia osservava specifiche azioni fisiche (ad
esempio afferrare, masticare e sputare) svolte da un compagno, determinate cellule nervose celebrali si attivavano come
se fosse essa stessa a compiere le azioni (Gallese, 2007). Si ritiene che queste cellule nervose (chiamate neuroni specchio)
rappresentino il collegamento biologico tra gli individui durante la comunicazione (Rizzolatti e Craighero, 2004).
Nonostante la ricerca sui neuroni specchio sia molto giovane, molti autorevoli scienziati hanno suggerito che potrebbe esserci una base biologica della diffusione di emozioni tra gli individui (Gallese, 2006). Gallese sostiene che le emozioni di qualcun altro sono provate direttamente da un osservatore mediante attività neuronali simili; ciò significa che le persone possono
capire e provare direttamente gli stati emotivi di qualcun altro
poiché le loro cellule cerebrali reagirebbero in modi analoghi.
! Siamo biologicamente collegati tra di noi così da provare
le stesse emozioni contemporaneamente.
Inoltre, come ci si aspetterebbe, è stato osservato che l’attivazione delle aree specchio del cervello è legata all’abilità di cambiare prospettiva (Gazzola et al., 2006). In uno studio recente
condotto in Olanda, sedici soggetti sono stati esposti ad alcuni
suoni registrati che venivano poi associati a due azioni manuali. Nella seduta successiva, ai partecipanti veniva chiesto di
compiere azioni simili a quelle richiamate dai suoni che avevano sentito precedentemente. I dati fMri dell’esperimento mostrarono non solo che specifiche aree dell’emisfero sinistro so-
70 Cosa sappiamo del cambiamento
no attivate sia dal suono che dal compiere una specifica azione, ma anche che questo fenomeno si osserva maggiormente
nei partecipanti che hanno un alto grado di empatia.
Questi risultati spingono a chiedersi: l’abilità di qualcuno a
rispondere ai segnali emotivi altrui è puramente biologica o
può aumentare nel tempo? Fortunatamente, la ricerca suggerisce che non abbiamo restrizioni nelle abilità del nostro sistema
neuronale a specchio, ma che una stimolazione ripetuta e persistente può generare una migliore capacità di percepire e provare le emozioni altrui (Gazzola et al., 2006).
Questo vuol dire che:
! Non solo le persone ti osservano, ma i loro cervelli stanno letteralmente mappando le tue reazioni e probabilmente le replicheranno.
Entrando semplicemente in una stanza, si influenza il cervello
delle persone: siamo stati creati per connetterci. Questo sistema alimenta il trasferimento delle emozioni tra le persone,
quello che gli scienziati chiamano “contagio emotivo”.
Il contagio emotivo
Si è visto che nelle interazioni quotidiane a casa, al lavoro e nella società in generale, le persone inviano inconsciamente messaggi su come si sentono e, allo stesso tempo, ricevono informazioni dagli altri. Siamo continuamente esposti al “contagio”
e le ricerche hanno dimostrato che questi segnali emotivi non
solo vengono percepiti ma influenzano l’umore di ciascuno di
noi incidendo sui nostri comportamenti.
Le neuroscienze 71
Studi sul comportamento e sull’umore umano hanno mostrato che i sentimenti si diffondono da una persona all’altra attraverso una vasta gamma di meccanismi.
Per esempio, il modo in cui comunichiamo, le espressioni
facciali, la postura o i nostri schemi comportamentali trasmettono costantemente informazioni emotive (Gallese, 2006; Neumann e Strack, 2000). È stato dimostrato, che lo stato d’animo
può diffondersi attraverso caratteristiche comunicative come
l’inflessione della voce.
In un recente studio di Neumann e Strack (2000), ai partecipanti veniva chiesto di ascoltare un discorso emotivamente imparziale letto da un attore che usava un’inflessione di voce che
di volta in volta differente (felice, triste, neutrale). Quando poi
veniva loro chiesto di classificare le proprie emozioni, i partecipanti riportarono di aver provato emozioni in linea con quelle espresse dalla tonalità di voce dello speaker. Inoltre, i partecipanti hanno dichiarato di apprezzare meno lo speaker nei
momenti in cui aveva una voce triste: F (2,26) = 11,08, p < 0,001.
Queste informazioni portano a molte domande. Primo: gli
esseri umani nascono con una sensibilità innata per le emozioni altrui? Alcuni scienziati direbbero di sì. È stato osservato che
i neonati imitano fisicamente le espressioni facciali di chi li circonda. Anche se questo è stato interpretato da qualcuno come
un’indicazione di sensibilità emotiva istintiva (Gallese, 2006),
altri sostengono che la nostra sensibilità ai sentimenti degli altri si sviluppa e adatta nel tempo.
Il contagio emotivo all’interno dei gruppi
Nel 2002 Sigal Barsade della Yale University ha esaminato l’effetto del contagio emotivo all’interno dei gruppi. Nel suo espe-
72 Cosa sappiamo del cambiamento
rimento, un attore addestrato era posto in contesti di gruppo
con il compito di partecipare alle loro attività “recitando” un
ruolo (collaborativo, motivante, pessimista eccetera). A ciascun gruppo era stato affidato il compito di definire un sistema
di assegnazione dei bonus in denaro (avevano a disposizione
un budget fisso che potevano spendere definendo i criteri in base alla performance delle persone). Al termine delle attività ai
partecipanti è stato chiesto di compilare un’autovalutazione
identificando lo stato d’animo provato in quel momento. I risultati dello studio evidenziano chiaramente che le emozioni dell’attore hanno influenzato inconsciamente anche il resto del team determinando un diverso comportamento nelle decisioni
prese (questo valeva sia per gli stati d’animo “piacevoli” che per
quelli “spiacevoli”) (Barsade, 2000).
Analizzando invece un’altra dimensione del contagio emotivo ovvero quella svolta da chi occupa una posizione di potere
e autorità si è arrivati a conclusioni che non sempre concordano tra loro. Può accadere che coloro che hanno autorità o sono particolarmente amati e rispettati esercitino un effetto maggiore, ma ciò che resta indiscusso è che un leader per definizione influenza il mood di un gruppo:
In uno studio sull’influenza del contagio emotivo dei leader sul
gruppo, l’umore piacevole influenzava il team sia a livello individuale che collettivo, altrettanto accadeva per l’umore spiacevole. Il mood positivo del leader era in grado di incidere anche nel
tempo impattando significativamente sul coordinamento e sull’impegno del gruppo” (Sy, Côté, e Saavedra, 2005, come citato in
Barsade e Gibson, 2007).
Le neuroscienze 73
Gli effetti dell’umore
Abbiamo detto che l’umore è contagioso, vediamo ora come
questo contagio può impattare sulle performance di individui,
gruppi e organizzazioni. Anche se diversi autori sono dell’opinione che stati d’animo piacevoli generano effetti positivi sulla performance, c’è da dire che anche un mood poco piacevole, in determinate situazione, può risultare assolutamente efficace sulla performance. Vediamolo meglio.
Ripartendo dallo studio di Barsade discusso in precedenza,
si osservò che quando “l’attore” recitava un ruolo non piacevole generava nel gruppo emozioni spiacevoli e il team diminuiva
la sua efficacia, mentre quando l’attore generava un effetto piacevole il team cooperava di più, si generavano minori conflitti
e le performance miglioravano. Allo stesso modo, in uno studio simile, Alice Isen (1993) osservò il lavoro di alcuni radiologi, trovando che mood positivi aumentavano la loro accuratezza. Uno stato d’animo piacevole ha un effetto a lungo raggio sulle performance lavorative, sulla supervisione, sul processo decisionale e anche sulla volontà dei membri del team ad agire
per il bene dell’organizzazione.
D’altro canto, in alcune situazioni un “cattivo umore” è più
efficace. Per esempio, Elsbach e Barr (1999) hanno scoperto
che le persone in uno stato d’animo spiacevole usano un approccio più strutturato nel processo decisionale.
! Lo stato d’animo modifica le performance, il giusto mood
migliora i risultati di un gruppo mentre quello sbagliato li
peggiora (tabella 3.1).
74 Cosa sappiamo del cambiamento
Tabella 3.1 I costi e benefici degli stati d’animo piacevole o
spiacevole (Elsbach e Barr, 1999)
Umore
Benefici Potenziali
Piacevole
‡
‡
‡
‡
‡
Spiacevole
‡
‡
‡
‡
Costi Potenziali
Segnala situazioni positive
presenti nella memoria (Isen
et al. 1978)
Promuove il problem solving
creativo (Isen et al. 1987)
Promuove una
categorizzazione più flessibile
degli elementi (Isen &
Daubman, 1984)
Promuove Efficienza nel
decision making (isen &
Means, 1983)
Promuove precisione nei
compiti interessanti (Isen et
al, 1991)
‡
Mancanza di distrazioni e
maggiore impegno
nell'elaborazione dei
messaggi (Bless et al., 1990)
Minor propensione ad
affidarsi a segnali periferici
(Worth & Mackle, 1987)
Motivazione ad impegnarsi in
difficili analisi per cambiare
la situazione e l'umore (Bless
et al. 1990)
Maggior propensione a usare
un protocollo di decisione
strutturato completamente e
correttamente (studio in
corso)
‡
‡
‡
‡
‡
‡
‡
‡
Promuove l’avversione al
rischio, una utilità soggettiva
più negativa per le perdite (Isen
et al. 1988)
Promuove l’uso di processi
decisionali più euristici e rapidi
(Isen & Means, 1983)
Difficoltà a distinguere
argomentazioni forti e deboli
(Smith & Shaffer, 1991)
Persuasione da segnali
periferici (es. etichetta
“esperto”) (Mackie & Worth
1991)
Più difficile usare un protocollo
di decisione strutturato
completamente e correttamente
(studio in corso)
Affidamento a regole
decisionali ben conosciute
(Mano 1992)
Aumento del pessimismo
(Wright & Bower 1992)
Aumento del giudizio negativo
sugli altri (Fiske & Taylor,
1984)
Propensione al rischio quando i
guadagni/perdite potenziali
sono elevati (Dunegan et al.
1992)
Abbiamo visto che le emozioni esercitano un ruolo determinante sulle persone aiutandole ad adattarsi a situazione sociali nuove, inoltre le emozioni provate da una persona influenzano quelle di un’altra.
Proprio come all’interno di un branco le informazioni circa
Le neuroscienze 75
i pericoli (arriva il predatore) o le opportunità (da quella parte
c’è acqua) vengono trasmesse con una velocità impressionante, allo stesso modo le informazioni emotive circolano in maniera altrettanto sorprendente. Questo sistema aiuta un team a
vedere i rischi o le opportunità legate a un cambiamento attraverso una comunicazione rapida ed efficace.
Non possiamo più tirarci indietro, niente più alibi come: le
persone sono strane! Ora sappiamo che i sentimenti di una persona influenzano gli altri e che questi sentimenti a loro volta influenzano le performance. Per questo è necessario porre attenzione a questi aspetti, sviluppare consapevolezza e farsi carico
della loro gestione specialmente per chi occupa una posizione
di leadership (educatori, manager genitori, politici, atleti).
L’intelligenza emotiva permette alle persone di monitorare
e gestire questo scambio, ed è per questo che allenandola potremo aumentare la capacità delle persone di interagire l’uno
con l’altro.
Risultati: le basi scientifiche della fiducia
Se saremo bravi a gestire l’interazione emotiva ne otterremo in
cambio un bene prezioso ovvero la fiducia.
Ogni singolo giorno, in milioni di interazioni umane, la fiducia gioca un ruolo essenziale, il nostro mondo ruota intorno alla fiducia: abbiamo fiducia nel fatto che il semaforo sia rosso
per gli altri quando è verde per noi, che riceveremo il nostro stipendio a fine mese, che il nostro dentista è sincero quando ci
dice di doverci curare una carie, che le nostre banconote abbiano un valore.
La fiducia è un rischio, come scrivono Hong & Bohnet
76 Cosa sappiamo del cambiamento
(2007): “La fiducia è la volontà di rendersi vulnerabili agli altri”.
Molti di noi sanno cosa voglia dire fidarsi o non fidarsi, ma è
molto difficile misurare il grado di fiducia riposto in noi o negli
altri. Se è difficile misurare ancor più difficile è spiegare le ragioni per cui proviamo fiducia. Studi recenti hanno cercato di
svelare le variabili cognitive, comportamentali e fisiologiche
che contribuiscono alla presenza o assenza di fiducia e di seguito ti proponiamo una breve sintesi.
Cosa permette la creazione di fiducia
C’è un elemento della fiducia che è culturale ovvero dipende
dal contesto sociale in cui siamo nati e in cui abbiamo vissuto.
Il ricercatore Paul Zak ha scoperto che i livelli di fiducia possono, infatti, variare nelle diverse nazioni. Lo stesso presumibilmente vale per le culture organizzative. Le norme e le aspettative, le conoscenze e i sentimenti delle persone influenzeranno
il come e il quando la fiducia viene concessa. Inoltre sembra esserci maggior fiducia in una nazione quanto più essa è etnicamente e linguisticamente omogenea (Naef et al., 2008). L’implicazione è che in un mondo economico sempre più globalizzato
e diversificato, la fiducia sarà ancor più difficile da stabilire.
Cosa succede a livello individuale?
Se un individuo offre risorse a un altro senza esserne obbligato allora la fiducia è automaticamente implicata. Tuttavia, comprendere i sottili processi e meccanismi che guidano la fiducia
è tutta un’altra storia.
Ralph Adolphs ha scoperto che l’amygdala (che regola le nostre reazioni emotive di fronte alle situazioni di pericolo) è
maggiormente attivata quando le persone vedono facce che
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giudicano poco affidabili. Quindi la percezione della fiducia ha
un impatto sui nostri cervelli e le nostre emozioni influenzano
e determinano la percezione di fiducia. Per esempio, espressioni di rabbia e tristezza sono correlate negativamente con l’affidabilità percepita.
Una ricerca recente di Kosfeld et al. (2005) sottolinea
l’aspetto chimico e biologico della fiducia. Questo studio ha
scoperto che soggetti a cui veniva somministrata oxytocina apparivano significativamente più fiduciosi. L’oxytocina è comunemente nota come l’ormone che si trova in grandi quantità
nelle donne in gravidanza e in allattamento; crea un desiderio
di coesione sociale. Da un punto di vista biologico questo ha
senso, poiché le donne in attesa o in allattamento devono avere fiducia negli altri, in particolare nel partner, per proteggere
se stesse e i propri figli. Sembra che l’oxytocina possa essere
chiamato ormone della fiducia!
Diversi studi hanno anche dimostrato che la fiducia genera
fiducia (Bohnet et al., 2001; Fehr e Falk, 2000; Falk e Kosfeld,
2006). Una persona mostra fiducia offrendo qualcosa a qualcun’altro di cui si fida, il quale potrebbe sentirsi incoraggiato a ricambiare, dimostrando a sua volta fiducia. Come riportato in un
importante studio (2005) di Zak, Kurzban e Matzner, coloro che
ricevono un segnale di fiducia intenzionale producono un livello di oxytocina superiore del doppio rispetto a chi non ha ricevuto il rinforzo. Questo ci porta a dire che ricevere fiducia genera la stessa risposta biologica che si otterrebbe concedendola.
Un’altra scoperta interessante è che il livello di oxytocina
non è legato a comportamenti demografici e sociali o a profili
psicologici. Ovvero: la fiducia può dipendere da fattori culturale ma a livello biologico siamo tutti uguali (Zak, 2005).
78 Cosa sappiamo del cambiamento
Di importanza critica per il cambiamento è la relazione tra
paura e fiducia. In uno studio successivo, Baumgarner et al.
(2008) hanno scoperto che l’oxytocina causa una disattivazione selettiva nei circuiti della paura (quindi chi prova fiducia
non può provare paura). Inoltre, le persone con alti livelli di avversione al rischio (coloro che sono quindi molto timorosi) mostrano un comportamento meno fiducioso (Fehr e Armin,
2002). Da questi studi possiamo dedurre che la fiducia può essere generata quando la capacità di percepire la paura cala e
quando il desiderio di socializzazione aumenta. Quindi la fiducia mitiga gli effetti della paura e aumenta la voglia di unirsi al
gruppo anche quando questo comporta un rischio.
Riepilogo
Grazie alle conoscenze offerte dalle neuroscienze contemporanee possiamo avere una base concettuale più solida per gestire con efficacia i processi di cambiamento, questo perché
stiamo includendo nel nostro processo razionale le componenti umane fondamentali per comprendere il comportamento delle persone, dei gruppi e quindi delle organizzazioni. Ricorda:
• Il cambiamento inizia nel cervello. Il cervello è “plastico” ed
è quindi in grado di modificare se stesso. Il cambiamento o
l’apprendimento per essere efficaci richiedono il giusto stato d’animo quindi: concentrazione, ripetizione, rinforzo e un
po’ di sfida.
• Le emozioni guidano l’attenzione e determinano il modo in
cui gli individui e i gruppi rispondono ai cambiamenti. Le
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emozioni sono contagiose, si connettono tra di loro e tra le
persone attraverso un perfetto sistema biologico.
• La fiducia non è a senso unico ma reciproca, ha una componente culturale e una individuale, è legata ad altre emozioni, collega le persone tra di loro.
Note
1
Adattamento da The Brain Fitness Program, Pbs Video.