intervento pubblico ed economia delle imprese

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ARTI GRAFICHE APOLLONIO
Università degli Studi
di Brescia
Dipartimento di
Economia Aziendale
Maria MARTELLINI
INTERVENTO PUBBLICO
ED ECONOMIA DELLE IMPRESE
Paper numero 56
Università degli Studi di Brescia
Dipartimento di Economia Aziendale
Contrada Santa Chiara, 50 - 25122 Brescia
tel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814
e-mail: [email protected]
Agosto 2006
INTERVENTO PUBBLICO
ED ECONOMIA DELLE IMPRESE
di
Maria MARTELLINI
Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese
Università degli Studi di Brescia
Relazione presentata al Diciassettesimo Convegno annuale
della rivista Sinergie “Impresa e territorio tra pubblico e privato”
Brescia, 17 e 18 novembre 2005
Indice
1. Premessa................................................................................................ 1
2. La competitività delle nazioni ............................................................... 1
3. L’influenza del settore pubblico sul privato.......................................... 3
4. Le partecipazioni statali....................................................................... 10
5. La cultura pro-business nel nostro Paese ............................................ 21
6. Conclusioni.......................................................................................... 26
Intervento pubblico ed economia delle imprese
1. Premessa
L’influenza del settore pubblico nell’economia di una nazione si
manifesta secondo due principali direttrici:
- la partecipazione diretta alla produzione di beni e servizi;
- mediante le politiche in tema di tassazione, di formazione e ricerca
nonché di regolazione del sistema, che costituiscono alcuni dei
propagatori, secondo l’accezione di De Maria, del contesto nelle quali
le attività economiche si svolgono.
E’ parso opportuno affrontare tali argomenti perché essi, come ovvio,
sono strettamente correlati alla perdita di competitività del nostro sistema
produttivo e alla sostanziale stagnazione che si registra oggi in Italia e negli
altri paesi comunitari.
Si tratta di tematiche particolarmente ampie che, pertanto, mi accingo a
trattare non solo per cenni ma anche limitatamente ad alcuni aspetti,
ponendo alla vostra attenzione delle “istantanee” sullo stato delle cose con
particolare riguardo alla situazione del nostro paese e alla sua perdita di
competitività nel contesto globale.
2. La competitività delle nazioni
Uno studio recente, prodotto per il World Economic Forum, affronta il
tema del potenziale di crescita delle nazioni, misurandolo mediante due
indicatori:
a) il Growth competitiveness index – GCI , che misura il potenziale di
crescita della nazioni;
b) il Business competitiveness index – BCI, che misura la performance
delle imprese.
1
Maria Martellini
Tabella 1 - Classifica del GCI e del BCI (anni 1997, 2003 e 2004)
Anno
ITALIA
1997
2003
2004
GCI
34°
41°
47°
n.a.
n.a.
n.a.
44°
46°
28°
50°
48°
38°
19°
25°
34°
- Tecnologia
- Istituzioni pubbliche
- Ambiente macroeconomico
BCI
Fonte: elaborazione propria da Global Competitiveness Report
Le risultanze della ricerca descrivono efficacemente l’incapacità di
crescita della nostra economia.
Come si vede dalla figura, l’Italia è scivolata negli ultimi otto anni al 47°
posto nella classifica dell’indice di crescita economica, con correlati
peggioramenti sul piano dell’avanzamento della tecnologia, del
funzionamento delle istituzioni pubbliche e della qualità dell’ambiente
macroeconomico generale; parimenti, la competitività delle nostre imprese
risulta aver perso 15 posizioni nella relativa graduatoria, occupando oggi il
34° posto a fronte del 19° del 1997.
Con riguardo alle cause endogene di tale situazione, ed in particolare a
quelle ascrivibili agli effetti delle politiche pubbliche poste in essere, si può
sinteticamente fare riferimento ad una generalizzata aspettativa di recessione
presente nel nostro paese, correlata a:
a) insufficiente efficacia ed efficienza della spesa pubblica;
b) debolezza della finanza pubblica, destinata ad aumentare anche per
effetto dell’invecchiamento della popolazione;
c) regime impositivo;
d) inefficienza della burocrazia;
e) legislazione restrittiva e paralizzante;
f) illegalità diffusa.
2
Intervento pubblico ed economia delle imprese
Richiamato il modello di Porter relativo al vantaggio competitivo delle
nazioni 1 , secondo il quale le radici del successo delle imprese leader nei
settori globali sono da ricercarsi nelle condizioni di competitività della loro
base nazionale, si deve rilevare come la piattaforma nazionale da cui le
imprese italiane possono muovere per le iniziative nei mercati globali sia
quantomeno inadeguata.
3. L’influenza del settore pubblico sul privato
L’efficienza del settore pubblico. Recenti ricerche, di cui si riferisce
ampiamente nel Rapporto sulla competitività in Europa della Commissione
Europea per il 2004, hanno preso in esame la produttività del settore
pubblico nelle economie nazionali di 23 paesi dell’OCSE. Sono stati
pertanto elaborati due indici, l’uno relativo alla performance di ciascuna
nazione, avente ad oggetto i risultati delle attività poste in essere dal settore
pubblico, e l’altro l’efficienza della spesa, risultante dal confronto fra il
risultato conseguito e la spesa pubblica a tal fine impegnata.
Quanto agli indicatori di performance, è forse utile ricordare, rinviando al
citato rapporto per ogni maggior dettaglio, che essi sono stati costruiti con
riferimento alle informazioni contenute in indici socio-economici, quali
efficienza dei servizi resi dalla pubblica amministrazione, scolarizzazione
degli individui, condizioni di salute della cittadinanza, consistenza e qualità
delle infrastrutture, distribuzione del reddito, stabilità economica e tasso di
crescita del sistema.
1
M. PORTER, Il vantaggio delle nazioni, Milano, Mondatori, 1991.
3
Maria Martellini
Indicatore di efficienza (media = 1,04)
Grafico 1 -Settore pubblico: indicatori di performance e di efficienza
Indicatore di performance (media = 1,00)
Fonte: Afonso A., Schuknecht L., Tanzi V. (2003), Public sector efficiency: An
international comparison, European Central Bank, Working Paper
I risultati dell’indagine sono esposti nel grafico n. 1, dal quale risulta che
il valore medio, in termini sia di quantità/qualità della produzione che di
efficienza della spesa, raggiunto dai paesi dell’EU dei 15 è inferiore a quello
del campione considerato, così come che la performance e l’efficienza
dell’Italia nell’impiego di risorse ai fini della produzione di cui si fa carico il
settore pubblico sono entrambe di gran lunga inferiori anche alla media
europea.
In parole povere, nel nostro paese il settore pubblico non solo produce i
servizi e beni di cui il sistema ha bisogno in quantità e /o qualità inadeguate,
evidenza che risulta dalla considerazione dei valori registrati dagli indici
socio-economici di riferimento per la misurazione della performance in
questione, ma anche che la produzione di tali servizi e beni ha luogo a costi
eccessivamente elevati, quindi inefficientemente.
4
Intervento pubblico ed economia delle imprese
* * *
Un’indagine promossa dalla Commissione Europea nel 2003, ha rilevato,
tra l’altro, con riferimento al periodo tra il 1980 e il 2002, l’incidenza della
tassazione sul prodotto interno lordo nonché l’ammontare degli investimenti
effettuati nell’Europa dei 15 in ricerca e sviluppo per il settore business e
per la formazione universitaria. Per l’analisi, venivano assunti quali termini
di confronto i corrispondenti valori attribuibili agli Stati Uniti e al
Giappone.
I risultati sono esposti nei grafici nn. 2, 3 e 4.
Le evidenze che emergono dai grafici sembrano non richiedere
particolari commenti. Con riguardo alla tassazione, si deve infatti registrare
come essa sia stata in Europa stabilmente superiore a quella dei benchmarks
utilizzati; costantemente inferiore risulta invece essere stato l’investimento
in ricerca e sviluppo volto al mondo degli affari, mentre l’investimento in
formazione universitaria ha mantenuto nel tempo andamento allineato,
nell’Europa dei 15 e negli Stati Uniti.
Grafico 2 - Tassazione totale nell’EU-15, negli USA ed in Giappone (1980 - 2002, %
del PIL)
%
del
PIL
Fonte: OECD (2005), European Competitiveness Report 2004
5
Maria Martellini
Grafico 3 - Percentuale del PIL destinata alla R&S nel settore business
Fonte: OECD (2005), European Competitiveness Report 2004
Grafico 4 -Percentuale del PIL destinata alla R&S nel settore dell’educazione
Percentuale del PIL destinata alla R&S nel settore dell’educazione
Fonte: OECD (2005), European Competitiveness Report 2004
6
Intervento pubblico ed economia delle imprese
Tuttavia, stante l’influenza che le scelte in materia di tassazione, ricerca e
formazione hanno sulla competitività del relativo sistema economico
nazionale, le informazioni appena esaminate acquistano maggior significato
se considerate contestualmente all’andamento registrato dalla produttività
nei rispettivi paesi.
A tal fine si propone l’esame dei grafici che seguono, nei quali sono
delineati, nell’uno, l’andamento del reddito pro capite a valori correnti, dal
1950 al 2000, nell’Europa dei 15 e in Giappone, fatto 100 il valore
corrispondente agli Stati Uniti; nell’altro, sempre fatto cento il valore degli
Stati Uniti, quello della produttività del lavoro, nel trentennio fra il 1970 e il
2000.
Grafico 5 - PIL pro capite a valori correnti di mercato e a parità di potere di acquisto
dal 1950 al 2000 - EU-15 e Giappone, Stati Uniti = 100
Fonte: Sapir A. (2003), An Agenda for a growing Europe. Making the EU
Economic System Deliver
7
Maria Martellini
Grafico 6 PIL pro capite nella EU – Stati Uniti = 100
120
100
80
60
40
20
0
1970
1980
PIL pro capite
1990
Produttività oraria
2000
Ore lav. pro capite
120
100
80
60
40
20
0
1970
GDP per capita
1980
1990
Hourly productivity
2000
Working hours per capita
Fonte: Sapir A. (2003), “An Agenda for a growing Europe. Making the EU
Economic System Deliver”
Dall’esame congiunto dei dati fin qui considerati, risulta confermato
come nell’Unione Europea, a fronte sia di una tassazione particolarmente
assorbente di risorse sia di investimenti in formazione allineati a quelli degli
Stati Uniti, si sia registrata sistematicamente una minore produttività
8
Intervento pubblico ed economia delle imprese
complessiva dei fattori produttivi, come segnalato dalla circostanza che la
produttività del lavoro è stabilmente rimasta pari a poco meno del 70% di
quella registrata negli Stati Uniti, e che in Europa, in presenza di aumento
della produttività oraria, si registra in pari misura e con segno opposto la
diminuzione delle ore lavorate. La registrata sostituzione di capitale a lavoro
non ha evidentemente generato aumenti complessivi di occupazione e
produttività dei fattori.
La regolazione economica. Gli oneri che derivano dal crescente numero
di leggi e regolamenti imposti alle attività economiche, pubbliche e private,
e dalla complessità degli adempimenti burocratici necessari per rispettarli,
costituiscono un fattore importante della crisi di competitività dei sistemi
economici, in particolare in Europa ed ancor di più nel nostro paese. Come
noto, l’inflazione normativa a cui assistiamo trae origine essenzialmente:
dalla dinamica delle istanze sociali che caratterizza lo sviluppo delle società
contemporanee, nelle quali continuano ad emergere nuove esigenze di tutela
di interessi pubblici; dalla necessità di aggiornamento ed adattamento
specialistico della legislazione, per effetto dell’evoluzione della tecnologia e
del contesto economico-sociale; dall’odierna articolazione dei diversi livelli
di governo dotati di potere di regolazione (internazionale, comunitario,
nazionale, regionale, locale).
Si deve osservare peraltro come il sistema che pone meno regole e divieti
non sia necessariamente più competitivo. L’economia di una nazione si
giova piuttosto dell’esistenza delle norme e delle regole, di tutte quelle che
risultino effettivamente necessarie, purché siano chiare e certe. E del fatto
che dette norme e regolamenti siano realmente rispettati anche in virtù di un
sistema efficace di controlli sulla loro applicazione, che assicuri la certezza
degli scambi e la tutela della concorrenza nel mercato.
Ad integrazione di quanto detto, si ricorda (grafico n. 7) l’esito di
un’indagine di Banca Mondiale, “Doing Business 2004”, che ha rilevato le
correlazioni che sono risultate esistere tra inutile complessità normativa e
ricchezza pro-capite delle nazioni, da un lato, e tra diffusione della
corruzione ed eccessiva complessità degli adempimenti burocratici richiesti
negli affari, dall’altro2 .
2
Il primo dei due grafici è stato costruito analizzando gli effetti della regolazione sulla
produttività, sulla disoccupazione, sulla crescita, sulla povertà e l’irregolarità del campione
oggetto di analisi; il secondo sui dati relativi all’avvio di un’attività economica,
all’assunzione e al licenziamento dei lavoratori, alla stipula di contratti, all’ottenimento di
finanziamenti e alla cessazione dell’impresa.
9
Maria Martellini
Grafico 7 Una regolazione farraginosa ed eccessiva è associata ad economia “non ufficiale” e
corruzione.
Economia “non ufficiale”, % reddito
pro-capite
Alta
Corruzione
Alta
Bassa
Bassa
1
Minore
2
3
4
5
Maggiore
I paesi sono stati ordinati in 5 classi sulla
base dell ’’indice di regolamentazione del
lavoro
1
Minore
2
3
4
5
Maggiore
I paesi sono stati ordinati in 5 classi sulla
base della regolamentazione prevista per
l’avvio
di un ’attivit à commerciale
l’
Fonte: World Bank (2004), Doing Business 2004
4. Le partecipazioni statali
Esaminati nei termini generali l’influenza del settore pubblico
nell’economia, sia considerando il suo ruolo di fornitore di beni e servizi sia
quello di fonte dei propagatori delle condizioni di funzionamento
dell’economia nazionale, intenderei procedere alla considerazione dello
specifico peso che tale intervento assume in termini di partecipazione ai
processi produttivi e ciò con particolare riguardo al nostro Paese.
E’ noto come nel corso dell’ultimo ventennio l’intervento diretto dello
Stato nella produzione di beni e servizi si sia significativamente
ridimensionato, segnando un’inversione di tendenza rispetto agli anni della
ricostruzione postbellica, allorquando, in Europa, la presenza pubblica
aveva preso largo spazio nei sistemi produttivi nazionali.
Anche quando il progetto comunitario aveva raggiunto avanzati livelli di
maturazione, in Europa permaneva di fatto una elevata tolleranza nei
confronti dei monopoli pubblici.
Richiamando il vecchio modello “Struttura → condotte →
performance”, si riteneva infatti nel nostro continente che la politica
10
Intervento pubblico ed economia delle imprese
industriale dovesse muovere da interventi sulla struttura dei sistemi
produttivi al fine di concorrere a determinare le condotte delle imprese. Da
ciò lo Stato imprenditore.
Tale orientamento, come noto, era diverso da quello seguito dall’altro
lato dell’oceano Atlantico, dove l’intervento pubblico aveva ad oggetto
principalmente le condotte delle imprese, che erano ritenute essere la
determinante della struttura produttiva dei vari settori ed il principale vettore
dello sviluppo. Oltreoceano, infatti, lo Stato si è storicamente riservato
prevalentemente il ruolo di regolatore.
Nella seconda metà degli anni ottanta, il Libro Bianco della
Commissione europea voluto dal suo Presidente Delors, che intendeva dare
ulteriore impulso al completamento del mercato unico comunitario,
richiamò l’attenzione sul fatto che detto mercato avrebbe potuto utilmente e
compiutamente operare se assistito da un regime di libera concorrenza.
Ebbero così avvio anche in Europa importanti processi di
privatizzazione.
Le tabelle nn. 2 e 3 espongono alcuni dati espressivi del predetto trend.
Tabella 2 - Il peso delle imprese con prevalenza di partecipazione pubblica
nell’Europa dei 15 nell’economia europea
Paese
Germania
Francia
Italia
Gran Bretagna
Spagna
Svezia
Austria
Belgio
Grecia
Finlandia
Portogallo
Paesi bassi
Danimarca
Irlanda
Lussemburgo
UE 15
Dipendenti
(valori in
% dipendenti
migliaia)
1.972.500
9,0%
1.328.400
10,3%
790.000
7,7%
400.200
2,5%
300.000
3,9%
270.000
11,6%
210.000
9,1%
197.000
10,4%
154.300
12,3%
132.000
10,9%
116.600
5,3%
98.000
2,5%
92.300
6,1%
66.600
8,0%
9.200
5,3%
6.137.100
7,1%
% valore
aggiunto
9,9%
11,5%
10,0%
1,9%
3,3%
13,7%
13,0%
11,3%
13,5%
10,5%
8,4%
5,8%
7,5%
9,4%
5,3%
8,5%
Peso
Peso
Peso
% formazione
sull'economia sull'economia sull'economia
capitale
1991
1995
2000
complessivo
14,0%
10,9%
10,7%
11,1%
13,5%
11,8%
14,7%
17,6%
11,0%
9,6%
14,2%
18,9%
2,5%
2,3%
2,7%
4,4%
5,0%
4,1%
8,0%
9,0%
14,0%
13,1%
12,9%
n.d.
14,0%
12,0%
21,5%
n.d.
10,9%
10,9%
11,6%
11,0%
17,0%
14,2%
15,4%
20,2%
11,4%
10,9%
17,6%
n.d.
12,0%
8,5%
12,3%
20,7%
5,5%
4,6%
6,8%
7,5%
9,9%
7,9%
9,7%
11,5%
12,9%
10,1%
11,8%
12,3%
6,4%
5,7%
6,4%
6,4%
11,0%
9,0%
10,4%
11,8%
Fonte: nostre elaborazioni su dati CEEP 2000
Tabella 3 - Dipendenti impiegati nelle imprese con partecipazione pubblica di
maggioranza nell’Europa dei 15, suddivisi per settori di attività
11
Maria Martellini
Paese
Germania
Francia
Italia
Gran Bretagna
Spagna
Svezia
Austria
Belgio
Grecia
Finlandia
Portogallo
Paesi bassi
Danimarca
Irlanda
Lussemburgo
UE 15
Energia
257.900
176.200
100.000
24.900
8.600
25.000
32.000
10.300
37.000
9.400
18.600
37.000
15.300
12.400
1.000
765.600
Trasporti e
comunicazioni
Poste e
telecomunicazioni
857.700
348.500
400.000
43.000
61.100
29.000
60.000
72.500
31.000
24.500
36.400
48.000
40.000
19.600
3.800
3.291.100
Settore
finanziario
390.000
68.600
20.000
1.900
21.000
10.000
12.500
37.000
6.300
14.800
3.500
n.d
4.500
1.700
n.d
591.800
430.700
160.000
198.000
75.300
74.000
70.000
70.600
36.000
34.600
17.000
200
25.500
21.500
2.600
Idustria
131.300
106.600
100.000
n.d
31.400
59.000
10.000
15.500
7.000
22.400
500
900
1.000
200
n.d
485.800
Altri servizi
Commercio
327.200
186.000
10.000
134.300
121.700
62.000
28.000
14.900
6.300
30.500
28.100
6.600
10.500
7.300
100
1.002.800
8.400
11.800
700
4.300
1.200
1.800
1.100
n.d.
Fonte: nostre elaborazioni su dati CEEP 2000
*
*
*
In tema di privatizzazioni effettuate e progettate, con riguardo allo
specifico del nostro paese, è semplice il riferimento alla relazione elaborata
nel luglio 2004 dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Si rileva da detta relazione che il nostro paese si colloca al secondo
posto, nell’area OCSE, e al primo a livello europeo, per valore di introiti da
privatizzazione.
Tra il 1994 e la fine del 2003, infatti, lo Stato italiano ha ceduto quote di
proprietà pubblica per un ammontare di circa 90 miliardi di euro. Nel 2003,
anno nel quale peraltro si registravano sia recessione economica sia
sostanziale stagnazione del mercato mobiliare, i proventi di tali dismissioni
(vedi grafico n. 8) rappresentavano il 34% del totale delle privatizzazioni
mondiali, collocandosi ben al di sopra dei picchi, già di rilievo, del 1997
(14%), del 1999 (15%) e del 2001 (15%).
Grafico 8 - Proventi italiani vs. proventi globali (valori assoluti e percentuali 19922003)
12
Totale
1.972.500
1.328.400
790.000
402.100
319.100
259.000
212.500
221.500
123.600
140.500
105.300
94.500
96.800
63.800
7.500
6.137.100
Intervento pubblico ed economia delle imprese
200.000
15 %
180.000
14 %
(Proventi Ml. €)
160.000
140.000
7%
120.000
10 %
100.000
11%
4%
10 %
3%
8%
34%
80.000
60.000
7%
15 %
40.000
20.000
0
1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
ITALIA
RESTO DEL MONDO
Fonte: elaborazione da Securities Data Corporation
Non può concludersi questo brevissimo cenno al processo di
privatizzazione che ha interessato il nostro paese senza ricordare, in primo
luogo, che le cifre prima indicate sono solo parzialmente espressive
dell’effetto finanziario che ne è conseguito; infatti esse non comprendono i
proventi da dismissione conseguiti ad altro livello istituzionale (Enti locali),
né tengono conto dell’indebitamento che pure è stato trasferito. In secondo
luogo, si deve anche considerare che la componente finanziaria del processo
di privatizzazione non è di per sé idonea ad illustrare il punto di arrivo al
quale si è effettivamente pervenuti in termini di uscita dello Stato da alcuni
settori dell’economia. A tal fine, infatti, occorre considerare innanzitutto le
partecipazioni di minoranza che sono state mantenute e che consentono
comunque al soggetto pubblico di esercitare il controllo sulla società di cui
una quota è stata dimessa; ma principalmente il fatto che in determinati
settori i cessionari delle partecipazioni pubbliche sono risultati essere
soggetti che rientrano nella sfera di influenza di poteri pubblici. E’ ovvio il
riferimento alle Fondazioni bancarie, per le quali la legge Amato ha
previsto, in occasione della trasformazione in società per azioni delle casse
di risparmio, delle banche del monte e degli istituti di credito di diritto
pubblico tradizionalmente da esse detenuti, la separazione dell’attività
bancaria dalla proprietà mediante scorporo, e l’assegnazione delle azioni che
derivavano dall’operazione alle stesse originarie proprietarie, le Fondazioni.
Parlare di privatizzazione per gli istituti di credito rimasti nella sfera di
controllo delle Fondazioni è pertanto improprio, anche a motivo
13
Maria Martellini
dell’emendamento Tremonti del 2002, che ha introdotto ulteriori vincoli alla
destinazione del reddito da esse conseguito, da destinarsi ad obiettivi di
sviluppo del territorio di riferimento, a tal fine anche prevedendo congrua
assegnazione di posti negli organi di indirizzo agli stessi Enti Locali.
Nel settore del credito si è quindi ridimensionata la proprietà statale, ma
non il ruolo della proprietà pubblica, che si manifesta tramite le Fondazioni.
Ricordo che, a fine 1999, le Fondazioni bancarie detenevano la maggioranza
relativa nei primi 5 gruppi bancari italiani e in 6 dei primi nove.
Alla luce di quanto precede si può ora esaminare quale sia attualmente la
partecipazione pubblica nelle imprese italiane. Le informazioni esposte nella
figura n. 1 sono ricavate dalla precitata relazione del Ministero
dell’Economia e del Tesoro ed hanno riguardo alla situazione al 2005.
Per aver contezza della realtà delle privatizzazioni che hanno dato luogo
alla situazione descritta, dopo avere richiamato quanto detto a proposito
delle Fondazioni, è solo necessario aggiungere che il 35% di Poste Italiane,
di cui lo Stato non ha più il controllo totalitario, è stato ceduto alla Cassa
Depositi e Prestiti, a sua volta dallo Stato partecipata al 70%; e che il 30%
della Cassa Depositi e Prestiti è stato ceduto a 65 Fondazioni bancarie.
14
Intervento pubblico ed economia delle imprese
Figura 1 - Partecipazioni dirette del Ministero dell’Economia e delle Finanze
Ministero dell’Economia e delle Finanze
Dipartimento del Tesoro
Partecipazioni dirette
Partecipazioni di maggioranza/controllo
62,33%
21,87%
Alitalia S.p.A.
100%
100%
ANAS S.p.A.
90%
70%
ARCUS S.p.A.
100%
EUR S.p.A.
99,55%
RAI
Radiotelevisione
Italiana S.p.A.
Fintecna S.p.A.
100%
ENEL S.p.A.
100%
Cassa Depositi
e Prestiti
S.p.A.
100%
Ferrovie dello
Stato S.p.A.
33,98%
ENI S.p.A.
100%
Coni Servizi
S.p.A.
100%
100%
GRTN S.p.A.
Sicot S.r.l.
Finmeccanica
S.p.A.
100%
Cinecittà
Holding S.p.A.
100%
SACE S.p.A.
20,32%
Consap S.p.A.
100%
Italia Lavoro
S.p.A.
100%
61,83%
SOGIN
S.p.A.
ENAV S.p.A.
65%
Patrimonio
dello Stato
S.p.A.
100%
SOGESID
S.p.A.
100%
Consip S.p.A.
100%
Istituto
Poligrafico e Zecca
dello Stato S.p.A.
Società per lo sv.
del Mer. dei Fondi
Pensioni S.p.A.
100%
Poste Italiane
S.p.A.
100%
Sviluppo Italia
S.p.A.
Altre partecipazioni
0,1%
0,1%
Telecom Italia
Media S.p.A.
SEAT S.p.A.
Fonte: Ministero dell’Economia e delle Finanze, “La relazione sulle
privatizzazioni”, luglio 2004
Il richiamo in precedenza fatto alla liquidità pervenuta allo Stato a
seguito della serie di privatizzazioni poste in essere nel tempo, ne
sottolineava la componente finanziaria, fattore di grande rilievo stante
l’obiettivo perseguito di riduzione del debito pubblico. Tale obiettivo, però,
non era certo l’unico e forse nemmeno il più importante, pur essendo quello
che non poteva essere procrastinato. Con le privatizzazioni, lo Stato
intendeva influire sulla struttura produttiva nazionale migliorandone
l’efficienza, riducendo le influenze politiche, dando spazio alla libera
concorrenza, determinando le condizioni per la diffusione della proprietà dei
capitali di rischio, elementi tutti che avrebbero positivamente influito sul
funzionamento del sistema e sulle condizioni di vita della popolazione. C’è
da chiedersi se tali ulteriori obiettivi, che per certi versi giustificano il
ricorso dello Stato ad istituti quali la golden share, oggi in certo senso
rivista ai sensi dell’art. 55 della legge finanziaria 2006, siano stati raggiunti.
Come noto, si possono avere forti perplessità sul punto. Infatti, per le
15
Maria Martellini
modalità con le quali sono state effettuate le privatizzazioni, alle quali
hanno partecipato imprese private mediante il ricorso all’indebitamento e
privati risparmiatori, direttamente o tramite fondi previo disinvestimento
progressivo dei titoli pubblici, hanno nella sostanza trasferito a detti soggetti
privati le condizioni di vantaggio di cui, per finalità di natura pubblicistica,
godevano le imprese oggetto di privatizzazione, fino anche a sostituire un
monopolista ad un altro. Ciò significa, ad evidenza, che sono stati mancati
quantomeno gli obiettivi di contenimento dei prezzi dei servizi e prodotti
forniti al mercato per effetto di maggior concorrenza, di efficienza e così
via.
Al riguardo, è interessante citare l’analisi della dinamica che ha
interessato i primi 20 gruppi industriali italiani tra il 1994 e il 2004,
pubblicata la scorsa estate dal Corriere della Sera, sintetizzata nella tabella
che segue.
Tabella 4 - Confronto tra i primi 20 gruppi (1994-2004)
I primi 20 gruppi nel
1994
- Ifi
- Eni
- Stet
- Enel
- Ferruzzi Finanziaria
- Finmeccanica
- Fininvest
- Cofide
- Pirelli
- Ilva
- Ibm Semea
- Olivetti
- Alitalia
- Italmobiliare
- Fintecna
- Zanussi
- Sme
- Rai
- Edizione Holding
- Gim
di cui pubblico
di cui privato
Risultato netto
N° dipendenti
complessivo
milioni di euro (valori attualizzati al 2004)
44.626
971
268.956
33.983
2.179
91.544
24.055
1.274
144.316
23.241
1.578
103.550
15.617
-680
39.449
8.070
35
59.041
6.944
-9
27.363
6.711
-179
41.675
6.563
99
38.485
6.557
581
21.270
6.342
3
15.364
6.084
-443
33.867
5.368
-198
26.092
3.713
-79
19.378
3.040
115
16.057
2.923
143
20.480
2.862
-9
15.218
2.758
-9
13.166
2.667
149
8.991
2.612
18
9.114
Ricavi
109.935
51,20%
104.803
48,80%
5.546
100,10%
-8
-0,10%
I primi 20 gruppi nel
2004
Ricavi
- Eni
- Ifi
- Pirelli (*)
- Enel
- Finmeccanica
- Riva Fire
- Edizione Holding (*)
- Vodafone (**)
- STMicroelectronics
- Italenergia bis
- DeAgostini (****)
- Fininvest
- Ferrero (***)
- Italmobiliare
- Barilla
- Tenaris
- Alitalia
- Luxottica
- Indesit
- Cofide
58.382
51.878
38.351
36.489
9.011
7.912
7.824
7.444
7.084
5.696
5.668
5.408
4.807
4.682
4.675
4.136
4.075
3.248
3.176
3.061
di cui pubblico
107.957
39,50%
165.050
60,50%
490.254
48,40%
523.122
51,60%
di cui privato
Risultato netto
N° dipendenti
complessivo
milioni di euro
7.888
74.010
-1.029
179.790
1.807
125.865
2.832
62.218
548
46.401
681
25.433
657
52.459
2.089
10.053
489
47.600
150
3.883
158
6.427
730
11.034
282
18.456
452
18.380
-45
23.509
805
15.434
-811
21.539
254
42.738
117
19.056
248
10.329
10.457
57,10%
7.845
42,90%
204.168
25,10%
610.446
74,90%
(*) dati aggregati
(**) dati 31 marzo 2004
(***) dati 31 agosto 2004
(****) bilancio proforma
Fonte: Grandi imprese, pieno di utili in un’Italia a crescita zero, Corriere della
Sera, 18 luglio 2005
16
Intervento pubblico ed economia delle imprese
Nel periodo oggetto di analisi, i ricavi conseguiti da gruppi pubblici
risultano essersi ridotti, passando dal 51 al 39% del totale. Al contempo, se
nel 1994 la componente privata del campione (11 gruppi su 20), travolta
dalle crisi Ferruzzi ed Olivetti, aveva realizzato complessivamente redditi
nulli, nel 2004 essa raccoglieva invece il 43% dell’utile totale. Peraltro,
l’industria pubblica residua, pur ancora gravata dal fardello Alitalia, risulta
godere di una gestione più efficace di quella della parte privata del
campione, e ciò grazie alle dominanti posizioni di Eni ed Enel
evidentemente in grado di remunerare attività ad alta intensità di capitale; la
parte pubblica del campione, infatti, come in precedenza accennato, realizza
il 57% degli utili pur con poco meno del 40% del fatturato complessivo dei
gruppi industriali in esame.
E’ anche interessante osservare, con riferimento alle medesime imprese,
le variazioni nel periodo intervenute nella distribuzione del valore aggiunto
fra le sue componenti.
Una quota crescente del valore aggiunto viene infatti oggi destinata agli
azionisti e all’impresa (dal 29 al 46%, con un delta del 17%), a scapito dei
dipendenti (- 14%) e dello Stato per imposte dirette (-5%).
Grafico 9 - Confronto tra i primi 20 gruppi (1994-2004): distribuzione valore aggiunto
100%
90%
Stato; 18%
80%
Finanziatori; 7%
Stato; 13%
Finanziatori; 9%
70%
60%
Azionisti e
impresa; 29%
Azionisti e
impresa; 46%
50%
40%
30%
20%
Dipendenti;
46%
Dipendenti;
32%
10%
0%
1994
2004
Fonte: Grandi imprese, pieno di utili in un’Italia a crescita zero, Corriere della
Sera, 18 luglio 2005
17
Maria Martellini
I descritti fenomeni, come è ovvio, non derivano esclusivamente dalla
privatizzazione che ha interessato alcune delle imprese del campione. Essi
sono anche attribuibili ad andamenti congiunturali, quali la crescita dei
prezzi del petrolio per Eni ed Enel, la penuria di acciaio per eccesso di
domanda per Tenaris e Riva; così come hanno avuto certamente rilievo i
processi di globalizzazione attualmente in corso che hanno determinato per
alcune imprese del campione l’esercizio di parte rilevante dell’attività fuori
dei confini nazionali: Eni, STM e Luxottica hanno oltre il 50% dei propri
investimenti all’estero; Italmobiliare ha il 70% dei dipendenti fuori dal
nostro paese.
Tuttavia, mi piace anche ricordare che, dai bilanci degli esercizi 2000 –
2004 di EDF Group, nota società pubblica francese, che abbiamo potuto
esaminare, si rileva un andamento sostanzialmente diverso della
distribuzione del valore aggiunto generato: esso continua ad essere in
misura maggiore allocato a favore dei dipendenti (il 58% contro il 32% dei
gruppi italiani del campione) mentre agli azionisti/impresa risulta destinato
il 27% (contro il 46%); in egual misura rispetto al campione di imprese
italiane risultano compensati i finanziatori (circa il 9%), mentre le imposte
assorbono il 6% del totale (contro il 13%).
Il richiamo alle performance di EDF non vuol essere una “poison pill”
con riguardo alle privatizzazioni in atto e da effettuare nel nostro paese,
quanto piuttosto l’occasione per un invito ai Governi affinché tengano ben
presenti gli effetti degli interventi posti in essere, e ciò con particolare
riguardo sia alla coerenza fra obiettivi e strumenti selezionati per realizzarli
sia all’effetto indiretto che le politiche attuate possono avere sul
funzionamento dei mercati.
Per certi versi mette tristezza leggere una recentissima ricerca dell’ufficio
studi di Unicredit, nella quale viene scritto “i settori che sono in grado di
generare i maggiori profitti sono quelli meno esposti alla concorrenza o che
operano in regime di monopolio, come quello dei servizi e delle utilities
(ove peraltro opera la maggior parte delle grandi imprese), mentre
dall’altro lato si nota come i settori più esposti alla concorrenza (la
maggior parte di quelli dell’industria manifatturiera) abbiano sofferto di
una sensibile riduzione della loro profittabilità.”
Gli studiosi dell’Unicredit non stavano recitando il monologo del giovane
studente di primo anno del corso di laurea in economia politica: stavano
descrivendo lo stato della nostra economia al quale anche le privatizzazioni
hanno dato un apprezzabile contributo.
Privatizzando la proprietà delle imprese senza preventivamente o
contestualmente aver liberalizzato i settori interessati, lo Stato ha infatti
generato atteggiamenti viziati da parte dei capitalisti, dei finanziatori e dei
risparmiatori, a danno del consumatore finale, dell’efficienza dei mercati e
18
Intervento pubblico ed economia delle imprese
dello sviluppo dell’economia. Rieducare tali soggetti, facendo loro accettare
normali risultati e rischi delle attività di impresa e degli investimenti
finanziari, non sarà compito agevole che la politica dovrà affrontare.
Deve anche essere aggiunto che ritenere che la privatizzazione delle
imprese di per sé sia idonea a migliorare le condizioni di funzionamento del
sistema costituisce una ingenuità. Non mancano esempi di imprese
privatizzate e gestite in modo seriamente criticabile. Basti ricordare la
privatizzazione delle ferrovie britanniche, per la quale era stata peraltro
preordinata la divisione della gestione della rete da quella del materiale
rotabile, che ha dato luogo ad inefficienze, prezzi esorbitanti del servizio e
clamorosi disastri.
Per converso, la già citata francese EDF costituisce la più grande
impresa pubblica di maggior successo a livello mondiale, realizzando
performance difficilmente eguagliabili.
Il fatto è che si deve ammettere come non vi sia relazione logica fra
pubblico ed inefficienza, da un lato, e privato ed efficienza, dall’altro, ma
solo relazioni sostenibili in base a riferimenti ideologici.
Come sostiene Velo, la presenza di un’impresa a capitale pubblico non
contraddice i principi dell’economia di mercato, a patto che tale presenza
non condizioni l’equilibrato confronto concorrenziale fra le imprese. Non
sarebbe infatti l’assetto proprietario a determinare il maggior o minor grado
di libertà ed efficienza del mercato; esso sarebbe più che altro influenzato
dalle strategie poste in essere dalle imprese e dalla regolamentazione che lo
governa.
Si tratta di tesi sulla quale convengo, ritenendo che l’elemento davvero
qualificante con riguardo al funzionamento dei mercati non sia quello che
discende dalla proprietà pubblica o privata del capitale di rischio, ma
piuttosto quello che distingue la “proprietà responsabile” dalla “proprietà
irresponsabile”, da individuarsi nell’attitudine dei soggetti preposti al
governo dell’impresa tanto al rispetto delle regole e della legge, quanto alla
seria e ricorrente valutazione della validità e sostenibilità delle tecniche di
gestione adottate e degli obiettivi perseguiti, nel rispetto della natura
teleologica degli istituti. Infatti, non si deve mai dimenticare che l’impresa è
un istituto economico il cui agire non può, pena la sua stessa sopravvivenza,
essere improntato a malintese concezioni di socialità dimentiche
dell’economicità della gestione.
* * *
Se si ritiene che il grado di maggiore o minore efficienza di un mercato
non sia determinato principalmente dall’assetto proprietario bensì dai
rapporti che si instaurano fra le imprese per effetto delle loro strategie e
19
Maria Martellini
dalla regolamentazione in essere, particolare rilievo assume il tema della
regolamentazione dei mercati.
La normativa antitrust, come noto, è funzionale all’efficienza
complessiva del sistema economico, essendo volta ad impedire l’artificiale
aumento del potere di mercato delle imprese conseguito tramite intese
restrittive, comportamenti abusivi e concentrazioni tese a creare o rafforzare
una posizione dominante. Infatti, la concorrenza determina all’interno del
sistema un clima di incertezza che induce le imprese ad adottare strategie
concorrenziali aggressive, in riposta alle mosse dei rivali o in loro
anticipazione. Pur tuttavia, il regime concorrenziale come descritto è
naturalmente orientato alla creazione di nuovi beni e servizi, così
contribuendo al raggiungimento di più elevati livelli di benessere sociale.
Ne discende il ruolo cruciale della normativa antitrust che ha il compito di
assicurare al sistema i benefici della concorrenza, preservando la libertà di
iniziativa degli operatori ed impedendo, con tutti i possibili distinguo,
indesiderabili concentrazioni di potere nel mercato.
In proposito, con riguardo alla situazione italiana, per brevità mi limiterò
a citare quanto affermato dall’Autorità Garante della Concorrenza e dei
Mercati nella relazione sull’attività svolta relativa all’anno 2004.
Si legge nella relazione: “i meccanismi concorrenziali non sono ancora
sufficienti a disciplinare il potere di mercato delle imprese in posizione
dominante e la regolazione economica, soprattutto volta a controllare
prezzi e tariffe e a facilitare l’ingresso di nuovi operatori, continua a
rimanere necessaria….A fronte di processi di liberalizzazione lenti ed
inefficaci, l’economia italiana ha accumulato ritardi e inefficienze che
andrebbero rapidamente colmati. Le difficoltà nascono dal fatto che le
imprese beneficiarie degli assetti regolatori prevalenti, che pure sono
relativamente poche, hanno molto da perdere se la normativa che le
avvantaggia fosse modificata. I consumatori danneggiati dalle regolazioni
ingiustificatamente restrittive, invece, essendo molto numerosi, subiscono
un danno economico complessivamente cospicuo, ma singolarmente
modesto, così che non hanno incentivi sufficienti a mobilitarsi per
sollecitare un cambiamento.
Ed ancora: “Dall’entrata in vigore della legge antitrust nel 1990,
l’Autorità ha inviato quasi trecento segnalazioni che, pur nel rispetto di
eventuali altre esigenze di carattere generale, individuano soluzioni
regolatorie meno invadenti di quelle in vigore o di quelle proposte. Molto
raramente, il Parlamento, il Governo o gli Enti Locali hanno dato seguito
ai suggerimenti dell’Autorità, anzi nella maggior parte dei casi essi sono
stati ignorati, senza neppure una risposta o un dibattito.”
Non è confortante dover conoscere tale stato delle cose; posso solo con
voi condividere il mio sentito auspicio di una severa censura e quindi di un
20
Intervento pubblico ed economia delle imprese
forte impulso, da parte delle istituzioni dell’Unione Europea, affinché tale
modo di intendere le politiche a tutela della concorrenza venga abbandonato
dai nostri governanti e, in linea più generale, il conseguente auspicio che il
nostro paese continui ad essere strettamente legato al progetto comunitario,
senza partecipazione al quale il suo confondersi con il terzo mondo sembra
poter essere questione di un attimo.
5. La cultura pro-business nel nostro Paese
Fin qui ho parlato dell’interazione fra settore pubblico e il mondo della
produzione, ponendo particolare attenzione ad alcune condotte
dell’operatore pubblico, considerato nella sua duplice veste di produttore
economico e di regolatore e amministratore del sistema paese. Alle imprese,
e ai managers che le dirigono, ho fatto solo minimi cenni, sovente in forma
indiretta, pur avendole sempre ovviamente considerate in quanto
destinatarie delle ricadute di quanto il soggetto pubblico, nel bene e nel
male, decide e fa.
E’ però giunto il momento di introdurre una diversa chiave di lettura dei
fenomeni che ci interessano.
A questo fine, occorre muovere dalla considerazione, sovente trascurata,
che lo Stato siamo noi, così come noi costituiamo la società civile.
Il mondo delle imprese, siano esse pubbliche o private, la stessa pubblica
amministrazione, le attività di ricerca e sviluppo, la burocrazia, e via
dicendo sono tutte entità astratte, alle quali solo le persone umane danno
concretezza e vita. Il modo di intendere e la pratica del ruolo che ciascuno
ricopre nel funzionamento delle entità in cui è organizzata la società
moderna, in altre parole la cultura che viene in essa apportata, concorre a
determinare il funzionamento dell’intero sistema economico e sociale.
Devo anche precisare che, parlando di cultura non mi riferisco solo a
conoscenza e padronanza della tecnica, di tipo generale o specialistico,
derivata da processi di apprendimento scolastici, ma intendo anche riferirmi
alla conoscenza derivata dall’esperienza nonché ai comportamenti che
ciascuno di noi pone in essere per affrontare i problemi quotidiani
dell’esistenza e della convivenza, così come ai valori che tali comportamenti
ispirano. Era questo che intendevo dire affermando: “lo Stato siamo noi, noi
siamo la società civile”, affermazione dalla quale spero vorrete non
dissentire troppo.
Ciò premesso, possiamo prendere in esame quali risposte abbia ottenuto
il progetto di ricerca volto ad accertare il livello della cultura pro-business in
alcuni paesi, tra cui l’Italia.
21
Maria Martellini
La ricerca alla quale mi riferisco (Misurare la cultura pro-business
dell’Italia per migliorarne attrattività e competitività) è stata promossa dalla
Siemens ed affidata ad Ambrosetti. Essa ha coinvolto la popolazione di sei
paesi: Italia, Francia, Germania, Spagna, USA, Cina e Giappone, e si è
conclusa lo scorso settembre. Qui di seguito ne riferirò brevemente.
La cultura pro-business è stata definita come l’insieme di atteggiamenti e
comportamenti delle persone nei confronti del mondo degli affari, che
possono creare i presupposti ottimali per il suo sviluppo in un sistema
territoriale.
Per misurare una variabile complessa quale la cultura pro-business di una
nazione, essa è stata scomposta in parti, poi ordinate a formare due gruppi 3 :
- il gruppo delle dimensioni di contesto, che comprende : i) la
propensione al rischio, ii) la flessibilità lavorativa, iii) l’importanza
attribuita all’istruzione e alla formazione, iv) l’interesse per la
tecnologia v) l’internazionalizzazione) 4 ;
- il gruppo della dimensione core, del quale fanno parte: ( i) competenza,
ii) merito, iii) osservanza delle regole, iv) visione ampia, v)
orientamento al risultato, vi) management strategico, vii) cooperazione,
viii) cambiamento e innovazione, ix) proattività) 5 .
3
Per ulteriori dettagli si rinvia al documento citato.
Con riguardo alle determinanti delle dimensioni di contesto si precisa quanto segue:
i)
propensione al rischio: si fa riferimento ad un rischio calcolato e razionale, non
dettato dall’incoscienza o dall’impulsività;
ii) flessibilità lavorativa: riguarda direttamente il modo in cui gli individui entrano in
contatto con i sistemi economici organizzati, permettendo di innescare e favorire processi di
crescita rapidi in rapporto alle mutate caratteristiche dei mercati internazionali;
iii) importanza dell’istruzione e della formazione: l’istruzione riveste un ruolo cardine
all’interno di ogni civiltà per un duplice motivo. Il primo è rappresentato dal fatto che offre
la possibilità dell’individuo di assimilare i principi fondamentali alla base di un
comportamento civico e socialmente responsabile nella gestione dei rapporti tra cittadini; il
secondo aspetto è riferito al fatto che consente di approfondire le proprie conoscenze nella
direzione ritenuta più consona alle proprie attitudini nell’ottica dell’ingresso nel mercato
del lavoro;
iv) interesse per la tecnologia: la tecnologia è sempre più un elemento centrale nel
definire la traiettoria di sviluppo di un paese;
v) internazionalizzazione: si intende il grado di apertura al mondo esterno e la
capacità di individuare opportunità a livello dell’intero globo e non di ristretti confini
geografici. Ciò consente di affermarsi sul piano commerciale e culturale mondiale e avere
una visione internazionale in grado di interagire con altre culture.
5
Le determinanti della dimensione core possono essere così chiarite:
i)
competenza: attitudine ad utilizzare le proprie capacità e competenze per avere
successo, facendo leva sul “saper fare”;
ii) merito: utilizzo delle proprie capacità e livello di responsabilizzazione degli
individui nell’agire quotidiano;
iii) osservanza delle regole: importanza attribuita dalle persone alle regole;
4
22
Intervento pubblico ed economia delle imprese
Le dimensioni di contesto (misurate attraverso indicatori desunti da fonti
ufficiali, quali OECD, Eurostat, World Bank ecc.) riguardano il “sistemapaese”; la dimensione core (misurata attraverso questionari sottoposti a topmanager internazionali, esponenti della business community, opinion leader
e sociologi) riguarda i comportamenti e le attitudini degli individui.
Figura 2 - La struttura della cultura pro-business
Dimensioni di contesto
Dimensione “core”
Internazionalizzazione
Competenza (vs appartenenza)
Propensione
Merito (vs fatalismo)
al rischio
Osservanza delle regole (vs adattamento delle regole)
Visione ampia (vs focalizzazione)
Orientamento al risultato (vs orientamento all’impegno)
Interesse
per la
tecnologia
Management strategico (vs management operativo)
Orientamento alla cooperazione (vs individualismo)
Flessibilità
lavorativa
Cambiamento e innovazione (vs stabilità)
Proattività (vs reattività)
Importanza di istruzione e formazione
Fattori igienici
Fattori igienici
Fonte: Ambrosetti, 2005
iv) visione ampia: capacità di interpretare la realtà da molteplici prospettive;
v) orientamento al risultato: implica che i comportamenti siano guidati dai risultati e
da obiettivi predefiniti;
vi) management strategico: capacità di fissare obiettivi a lungo termine e pianificare le
azioni per raggiungerli;
vii) orientamento alla cooperazione: propensione al lavoro in team, nello spirito di
gruppo, nella capacità di coordinare gli sforzi di più persone al fine di trarre vantaggio
collettivo;
viii) cambiamento e innovazione: volontà di rompere gli schemi consolidati ed essere
aperti alle novità;
ix) proattività: propensione a prendere iniziativa, anticipando gli eventi prima del loro
verificarsi.
23
Maria Martellini
Con riferimento all’Italia, si deve subito rilevare che ancora una volta
non si sono ottenuti risultati incoraggianti.
Ad esempio, è emerso il non positivo atteggiamento degli italiani nei
confronti del rispetto delle regole, che si posizionano così all’ultimo posto
in graduatoria (Grafico 10): più del 50% degli intervistati attribuisce scarsa
importanza al rispetto delle regole, il 22% lo ritiene addirittura non
importante. Anche i giovani, interpellati con ricorso a un sottocampione (età
compresa tra 18 e 24 anni), confermano tale attitudine (19% dei giovani
italiani, contro il 2% degli statunitensi, ritengono persino lecito non
rispettare le norme).
Grafico 10 - Osservanza delle regole e adattamento delle regole: la matrice di
posizionamento
Fonte: Ambrosetti, 2005
A ciò si aggiunga che solo il 58% degli italiani intervistati ritiene che “il
merito” sia il fattore principale per il raggiungimento del risultato cercato
(Grafico 11), opinione ben diversa da quella prevalente negli Stati Uniti,
dove l’84% di risposte erano a favore del merito. Per contro, l’Italia è
seconda rispetto alla Cina (39 e 65%, rispettivamente) per propensione al
fatalismo, sintomo confermato dall’interesse di numerosi italiani per
argomenti e credenze irrazionali (frequentazione di maghi, astrologi, ecc.).
24
Intervento pubblico ed economia delle imprese
Grafico 11 - Merito e fatalismo: la matrice di posizionamento
Fonte: Ambrosetti, 2005
L’Italia rivela, inoltre, scarsa capacità di pianificare e fissare obiettivi di
lungo periodo (Grafico 12), collocandosi al penultimo posto nella
graduatoria relativa all’orientamento al management strategico, seguita dalla
Francia, (31 e 28%, rispettivamente), manifestando un atteggiamento
nettamente contrapposto a quello della Cina (61%).
Grafico 12 - Management strategico e management operativo: la matrice di
posizionamento
Fonte: Ambrosetti, 2005
25
Maria Martellini
Modesti risultati, se rapportati a quelli di altri paesi, sono stati registrati
dall’Italia anche per quanto riguarda le dimensioni di competenza (70%),
orientamento alla cooperazione (52%) e proattività (46%).
In controtendenza finalmente i risultati nelle dimensioni che riguardano
orientamento al risultato (57%), cambiamento e innovazione (49%), per le
quali l’Italia è sostanzialmente in linea con gli altri paesi europei.
Dal confronto tra la dimensione core dell’analisi, riguardante
comportamenti ed attitudini individuali (in cui l’Italia si classifica all’ultimo
posto) e quelle di contesto, relative al “sistema-paese” (in cui il nostro paese
si posiziona terz’ultimo), risulta come i “mali” più profondi dell’Italia siano
legati a particolare debolezza nelle seguenti aree: i) merito; ii) osservanza
delle regole; iii) interesse per la tecnologia; iv) importanza dell’istruzione e
della formazione. A pari merito con l’Italia, in fondo alla classifica, si
posiziona la Spagna. In assoluto gli USA si confermano il best performer,
sia con riferimento alle dimensioni di contesto che alla dimensione core,
mentre in Europa il miglior paese è rappresentato dalla Germania.
6. Conclusioni
Non sarei stata seria se avessi pensato di poter riferire su tutte le
questioni che devono essere risolte per migliorare la capacità di crescita e di
sviluppo del nostro paese, e quindi la sua capacità di essere vincente nel
confronto competitivo globale che deve affrontare. Non tanto perché la sede
non sarebbe stata quella appropriata, essa lo sarebbe, e come, ma perché non
sarei stata in grado di farlo, neanche con il supporto di uno strepitoso ufficio
studi del quale, ovviamente, non dispongo.
E’ comunque stimolante trattare della sfida competitiva oggi in corso fra
le economie moderne nei mercati globalizzati. Devo però osservare che ho
appena usato la parola sfida senza convinzione e per mera pigrizia; essa,
infatti, impropriamente drammatizza la tensione competitiva dei nostri
tempi. Nei mercati, la contesa è sempre stata asperrima tra le imprese delle
varie nazioni, sia che esse difendessero il proprio mercato interno, sia che
cercassero di occupare quote di mercati esteri. Il solo elemento di novità che
oggi si registra, e in ciò la pretesa drammaticità della situazione, è che a tale
contesa partecipano alcuni miliardi di altri esseri umani. Ma ciò non cambia
le regole del gioco, né le potrebbe cambiare.
In luogo di parlare di sfide, avrei dovuto parlare più semplicemente, da
un lato, del regime competitivo che si va instaurando nei mercati mondiali,
stante che il progresso nelle telecomunicazioni ha ampliato la dimensione
dei mercati, e, dall’altro, della necessità delle imprese di competere,
26
Intervento pubblico ed economia delle imprese
parimenti su scala mondiale, per la legittimazione all’uso delle scarse risorse
produttive disponibili.
Come noto, tale legittimazione può solo derivare da una superiore e
perciò vincente capacità di utilizzazione delle risorse produttive, espressa in
termini di valore aggiunto creato. Questa è la regola che governa le
economie di mercato, nelle quali non è riconosciuto ad un pianificatore
centrale il potere di decidere la allocazione delle risorse produttive. In
assenza di un pianificatore e in ossequio al postulato dell’economia politica,
la regola che assicura l’ordinato utilizzo delle risorse disponibili,
scongiurandone lo sperpero, è costituita dalla competizione che si instaura
fra i diversi soggetti che si propongono per la loro utilizzazione. L’impresa
competitiva risulta così essere entità funzionale all’ordinato operare della
democrazia economica.
Se ciò è vero, una moderna società operosa, ricca di esperienza e
conoscenza nonché di valori condivisi, che sia rispettosa delle regole, nella
quale la competizione nelle attività economiche possa pienamente attivare il
volano dello sviluppo, non ha nulla da temere dal futuro e tanto meno ha da
temere da chi muove da condizioni di bisogno più accentuate delle proprie.
Detta società saprà chiedere ed ottenere dai suoi governanti le politiche
appropriate perché l’impegno nel lavoro e nello studio, e così la ricchezza
prodotta, possano tradursi in effettivo sviluppo sociale, e non più in mera
crescita del prodotto interno lordo. Quella società saprà trovare appropriato
riferimento nei principi di solidarietà e di sussidiarietà, in forza dei quali si
vorrà dare assistenza e sostegno a chi ne avesse bisogno, senza aver
affievolito la volontà e l’orgoglio di ciascuno di essere parte del processo di
creazione di valore che sostiene il sistema e senza aver dovuto rinnegare il
pregio e la ricchezza costituiti dalla diversità degli individui.
Concludendo questa relazione, nella qualità di accademico e
principalmente di docente, devo anche chiedermi e chiedere a tutti voi quale
e quanto compito ricada sulla nostra categoria per rimuovere la descritta
situazione del paese.
27
28
DIPARTIMENTO DI ECONOMIA AZIENDALE
PAPERS PUBBLICATI DAL 2001 AL 2006 ∗ :
12. Daniele RONER, Domanda e offerta di beni economici. Rassegna critica
dall’irrealismo neoclassico alla differenziazione dei prodotti, marzo 2001.
13. Elisabetta CORVI, Le valenze comunicative del bilancio annuale. I risultati di
un'indagine empirica, luglio 2001.
14. Ignazio BASILE, Nicola DONINELLI, Roberto SAVONA, Management Styles of
Italian Equity Mutual Funds, agosto 2001.
15. Arnaldo CANZIANI, I processi competitivi fra economia e diritto, settembre 2001.
16. André Carlo PICHLER, L'Economic Value Added quale metodo di valutazione del
capitale economico e strumento di gestione aziendale, dicembre 2001.
17. Monica VENEZIANI, Economicità aziendale e capacità informativa del bilancio nelle
aziende cooperative agricole, dicembre 2001.
18. Pierpaolo FERRARI, La gestione del capitale nelle principali banche internazionali,
febbraio 2002.
19. Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Il valore della marca. Modello evolutivo e
metodi di misurazione, marzo 2002.
20. Paolo Francesco BERTUZZI, La gestione del rischio di credito nei rapporti
commerciali, aprile 2002.
21. Vincenzo CIOFFO, La riforma dei servizi a rete e l'impresa multiutility, maggio 2002.
22. Giuseppe MARZO, La relazione tra rischio e rendimento: proposte teoriche e ricerche
empiriche, giugno 2002.
23. Sergio ALBERTINI, Francesca VISINTIN, Corporate Governance e performance
innovativa nel settore delle macchine utensili italiano, luglio 2002.
24. Francesco AVALLONE, Monica VENEZIANI, Models of financial disclosure on the
Internet: a survey of italian companies, gennaio 2003.
25. Anna CODINI, Strutture organizzative e assetti di governance del non profit, ottobre
2003.
26. Annalisa BALDISSERA, L’origine del capitale nella dottrina marxiana, ottobre 2003.
27. Annalisa BALDISSERA, Valore e plusvalore nella speculazione marxiana, ottobre
2003.
28. Sergio ALBERTINI, Enrico MARELLI, Esportazione di posti di lavoro ed
importazione di lavoratori:implicazioni per il mercato locale del lavoro e ricadute sul
cambiamento organizzativo e sulla gestione delle risorse umane, dicembre 2003.
29. Federico MANFRIN, Sulla natura del controllo legale dei conti e la responsabilità dei
revisori esterni, dicembre 2003.
30. Rino FERRATA, Le variabili critiche nella misurazione del valore di una tecnologia,
aprile 2004.
31. Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Co-branding e valore della marca, aprile 2004.
32. Arnaldo CANZIANI, La natura economica dell’impresa, giugno 2004.
33. Angelo MINAFRA, Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del
XXI secolo?, luglio 2004.
34. Yuri BIONDI, Equilibrio e dinamica economica nell’impresa di Maffeo Pantaleoni,
agosto 2004.
35. Yuri BIONDI, Gino Zappa lettore degli Erotemi di Maffeo Pantaleoni, agosto 2004.
∗ Serie depositata a norma di legge
29
36. Mario MAZZOLENI, Co-operatives in the Digital Era, settembre 2004.
37. Claudio TEODORI, La comunicazione via WEB delle imprese italiane quotate: un
quadro d’insieme, dicembre 2004.
38. Elisabetta CORVI, Michelle BONERA, La comunicazione on line nel settore della
distribuzione dell’energia elettrica, dicembre 2004.
39. Yuri BIONDI, Zappa, Veblen, Commons: azienda e istituzioni nel formarsi
dell’Economia Aziendale, dicembre 2004.
40. Federico MANFRIN, La revisione del bilancio di esercizio e l’uso erroneo degli
strumenti statistici, dicembre 2004.
41. Monica VENEZIANI, Effects of the IFRS on Financial Communication in Italy:
Impact on the Consolidated Financial Statement, gennaio 2005.
42. Anna Maria TARANTOLA RONCHI, Domenico CERVADORO, L’industria
vitivinicola di Franciacorta: un caso di successo, marzo 2005.
43. Paolo BOGARELLI, Strumenti economico aziendali per il governo delle aziende
familiari, marzo 2005.
44. Anna CODINI, I codici etici nelle cooperative sociali, luglio 2005.
45. Francesca GENNARI, Corporate Governance e controllo della Brand Equity
nell’attuale scenario competitivo, luglio 2005.
46. Yuri BIONDI, The Firm as an Entity: Management, Organisation, Accounting, agosto
2005.
47. Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Luca MOLTENI, Consumatore, marca ed
“effetto made in”: evidenze dall’Italia e dagli Stati Uniti, novembre 2005.
48. Pier-Luca BUBBI, I metodi basati sui flussi: condizioni e limiti di applicazione ai fini
della valutazione delle imprese aeroportuali, novembre 2005.
49. Simona FRANZONI, Le relazioni con gli stakeholder e la responsabilità d’impresa,
dicembre 2005.
50. Francesco BOLDIZZONI, Arnaldo CANZIANI, Mathematics and Economics: Use,
Misuse, or Abuse?, dicembre 2005.
51. Elisabetta CORVI, Michelle BONERA, Web Orientation and Value Chain Evolution
in the Tourism Industry, dicembre 2005.
52. Cinzia DABRASSI PRANDI, Relationship e Transactional Banking models, marzo
2006.
53. Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Federica LEVATO, Brand Extension &
Brand Loyalty, aprile 2006.
54. Mario MAZZOLENI, Marco BERTOCCHI, La rendicontazione sociale negli enti
locali quale strumento a supporto delle relazioni con gli Stakeholder: una riflessione
critica, aprile 2006
55. Marco PAIOLA, Eventi culturali e marketing territoriale: un modello relazionale
applicato al caso di Brescia, luglio 2006
30
ARTI GRAFICHE APOLLONIO
Università degli Studi
di Brescia
Dipartimento di
Economia Aziendale
Maria MARTELLINI
INTERVENTO PUBBLICO
ED ECONOMIA DELLE IMPRESE
Paper numero 56
Università degli Studi di Brescia
Dipartimento di Economia Aziendale
Contrada Santa Chiara, 50 - 25122 Brescia
tel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814
e-mail: [email protected]
Agosto 2006
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