ARTI GRAFICHE APOLLONIO Università degli Studi di Brescia Dipartimento di Economia Aziendale Maria MARTELLINI INTERVENTO PUBBLICO ED ECONOMIA DELLE IMPRESE Paper numero 56 Università degli Studi di Brescia Dipartimento di Economia Aziendale Contrada Santa Chiara, 50 - 25122 Brescia tel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814 e-mail: [email protected] Agosto 2006 INTERVENTO PUBBLICO ED ECONOMIA DELLE IMPRESE di Maria MARTELLINI Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese Università degli Studi di Brescia Relazione presentata al Diciassettesimo Convegno annuale della rivista Sinergie “Impresa e territorio tra pubblico e privato” Brescia, 17 e 18 novembre 2005 Indice 1. Premessa................................................................................................ 1 2. La competitività delle nazioni ............................................................... 1 3. L’influenza del settore pubblico sul privato.......................................... 3 4. Le partecipazioni statali....................................................................... 10 5. La cultura pro-business nel nostro Paese ............................................ 21 6. Conclusioni.......................................................................................... 26 Intervento pubblico ed economia delle imprese 1. Premessa L’influenza del settore pubblico nell’economia di una nazione si manifesta secondo due principali direttrici: - la partecipazione diretta alla produzione di beni e servizi; - mediante le politiche in tema di tassazione, di formazione e ricerca nonché di regolazione del sistema, che costituiscono alcuni dei propagatori, secondo l’accezione di De Maria, del contesto nelle quali le attività economiche si svolgono. E’ parso opportuno affrontare tali argomenti perché essi, come ovvio, sono strettamente correlati alla perdita di competitività del nostro sistema produttivo e alla sostanziale stagnazione che si registra oggi in Italia e negli altri paesi comunitari. Si tratta di tematiche particolarmente ampie che, pertanto, mi accingo a trattare non solo per cenni ma anche limitatamente ad alcuni aspetti, ponendo alla vostra attenzione delle “istantanee” sullo stato delle cose con particolare riguardo alla situazione del nostro paese e alla sua perdita di competitività nel contesto globale. 2. La competitività delle nazioni Uno studio recente, prodotto per il World Economic Forum, affronta il tema del potenziale di crescita delle nazioni, misurandolo mediante due indicatori: a) il Growth competitiveness index – GCI , che misura il potenziale di crescita della nazioni; b) il Business competitiveness index – BCI, che misura la performance delle imprese. 1 Maria Martellini Tabella 1 - Classifica del GCI e del BCI (anni 1997, 2003 e 2004) Anno ITALIA 1997 2003 2004 GCI 34° 41° 47° n.a. n.a. n.a. 44° 46° 28° 50° 48° 38° 19° 25° 34° - Tecnologia - Istituzioni pubbliche - Ambiente macroeconomico BCI Fonte: elaborazione propria da Global Competitiveness Report Le risultanze della ricerca descrivono efficacemente l’incapacità di crescita della nostra economia. Come si vede dalla figura, l’Italia è scivolata negli ultimi otto anni al 47° posto nella classifica dell’indice di crescita economica, con correlati peggioramenti sul piano dell’avanzamento della tecnologia, del funzionamento delle istituzioni pubbliche e della qualità dell’ambiente macroeconomico generale; parimenti, la competitività delle nostre imprese risulta aver perso 15 posizioni nella relativa graduatoria, occupando oggi il 34° posto a fronte del 19° del 1997. Con riguardo alle cause endogene di tale situazione, ed in particolare a quelle ascrivibili agli effetti delle politiche pubbliche poste in essere, si può sinteticamente fare riferimento ad una generalizzata aspettativa di recessione presente nel nostro paese, correlata a: a) insufficiente efficacia ed efficienza della spesa pubblica; b) debolezza della finanza pubblica, destinata ad aumentare anche per effetto dell’invecchiamento della popolazione; c) regime impositivo; d) inefficienza della burocrazia; e) legislazione restrittiva e paralizzante; f) illegalità diffusa. 2 Intervento pubblico ed economia delle imprese Richiamato il modello di Porter relativo al vantaggio competitivo delle nazioni 1 , secondo il quale le radici del successo delle imprese leader nei settori globali sono da ricercarsi nelle condizioni di competitività della loro base nazionale, si deve rilevare come la piattaforma nazionale da cui le imprese italiane possono muovere per le iniziative nei mercati globali sia quantomeno inadeguata. 3. L’influenza del settore pubblico sul privato L’efficienza del settore pubblico. Recenti ricerche, di cui si riferisce ampiamente nel Rapporto sulla competitività in Europa della Commissione Europea per il 2004, hanno preso in esame la produttività del settore pubblico nelle economie nazionali di 23 paesi dell’OCSE. Sono stati pertanto elaborati due indici, l’uno relativo alla performance di ciascuna nazione, avente ad oggetto i risultati delle attività poste in essere dal settore pubblico, e l’altro l’efficienza della spesa, risultante dal confronto fra il risultato conseguito e la spesa pubblica a tal fine impegnata. Quanto agli indicatori di performance, è forse utile ricordare, rinviando al citato rapporto per ogni maggior dettaglio, che essi sono stati costruiti con riferimento alle informazioni contenute in indici socio-economici, quali efficienza dei servizi resi dalla pubblica amministrazione, scolarizzazione degli individui, condizioni di salute della cittadinanza, consistenza e qualità delle infrastrutture, distribuzione del reddito, stabilità economica e tasso di crescita del sistema. 1 M. PORTER, Il vantaggio delle nazioni, Milano, Mondatori, 1991. 3 Maria Martellini Indicatore di efficienza (media = 1,04) Grafico 1 -Settore pubblico: indicatori di performance e di efficienza Indicatore di performance (media = 1,00) Fonte: Afonso A., Schuknecht L., Tanzi V. (2003), Public sector efficiency: An international comparison, European Central Bank, Working Paper I risultati dell’indagine sono esposti nel grafico n. 1, dal quale risulta che il valore medio, in termini sia di quantità/qualità della produzione che di efficienza della spesa, raggiunto dai paesi dell’EU dei 15 è inferiore a quello del campione considerato, così come che la performance e l’efficienza dell’Italia nell’impiego di risorse ai fini della produzione di cui si fa carico il settore pubblico sono entrambe di gran lunga inferiori anche alla media europea. In parole povere, nel nostro paese il settore pubblico non solo produce i servizi e beni di cui il sistema ha bisogno in quantità e /o qualità inadeguate, evidenza che risulta dalla considerazione dei valori registrati dagli indici socio-economici di riferimento per la misurazione della performance in questione, ma anche che la produzione di tali servizi e beni ha luogo a costi eccessivamente elevati, quindi inefficientemente. 4 Intervento pubblico ed economia delle imprese * * * Un’indagine promossa dalla Commissione Europea nel 2003, ha rilevato, tra l’altro, con riferimento al periodo tra il 1980 e il 2002, l’incidenza della tassazione sul prodotto interno lordo nonché l’ammontare degli investimenti effettuati nell’Europa dei 15 in ricerca e sviluppo per il settore business e per la formazione universitaria. Per l’analisi, venivano assunti quali termini di confronto i corrispondenti valori attribuibili agli Stati Uniti e al Giappone. I risultati sono esposti nei grafici nn. 2, 3 e 4. Le evidenze che emergono dai grafici sembrano non richiedere particolari commenti. Con riguardo alla tassazione, si deve infatti registrare come essa sia stata in Europa stabilmente superiore a quella dei benchmarks utilizzati; costantemente inferiore risulta invece essere stato l’investimento in ricerca e sviluppo volto al mondo degli affari, mentre l’investimento in formazione universitaria ha mantenuto nel tempo andamento allineato, nell’Europa dei 15 e negli Stati Uniti. Grafico 2 - Tassazione totale nell’EU-15, negli USA ed in Giappone (1980 - 2002, % del PIL) % del PIL Fonte: OECD (2005), European Competitiveness Report 2004 5 Maria Martellini Grafico 3 - Percentuale del PIL destinata alla R&S nel settore business Fonte: OECD (2005), European Competitiveness Report 2004 Grafico 4 -Percentuale del PIL destinata alla R&S nel settore dell’educazione Percentuale del PIL destinata alla R&S nel settore dell’educazione Fonte: OECD (2005), European Competitiveness Report 2004 6 Intervento pubblico ed economia delle imprese Tuttavia, stante l’influenza che le scelte in materia di tassazione, ricerca e formazione hanno sulla competitività del relativo sistema economico nazionale, le informazioni appena esaminate acquistano maggior significato se considerate contestualmente all’andamento registrato dalla produttività nei rispettivi paesi. A tal fine si propone l’esame dei grafici che seguono, nei quali sono delineati, nell’uno, l’andamento del reddito pro capite a valori correnti, dal 1950 al 2000, nell’Europa dei 15 e in Giappone, fatto 100 il valore corrispondente agli Stati Uniti; nell’altro, sempre fatto cento il valore degli Stati Uniti, quello della produttività del lavoro, nel trentennio fra il 1970 e il 2000. Grafico 5 - PIL pro capite a valori correnti di mercato e a parità di potere di acquisto dal 1950 al 2000 - EU-15 e Giappone, Stati Uniti = 100 Fonte: Sapir A. (2003), An Agenda for a growing Europe. Making the EU Economic System Deliver 7 Maria Martellini Grafico 6 PIL pro capite nella EU – Stati Uniti = 100 120 100 80 60 40 20 0 1970 1980 PIL pro capite 1990 Produttività oraria 2000 Ore lav. pro capite 120 100 80 60 40 20 0 1970 GDP per capita 1980 1990 Hourly productivity 2000 Working hours per capita Fonte: Sapir A. (2003), “An Agenda for a growing Europe. Making the EU Economic System Deliver” Dall’esame congiunto dei dati fin qui considerati, risulta confermato come nell’Unione Europea, a fronte sia di una tassazione particolarmente assorbente di risorse sia di investimenti in formazione allineati a quelli degli Stati Uniti, si sia registrata sistematicamente una minore produttività 8 Intervento pubblico ed economia delle imprese complessiva dei fattori produttivi, come segnalato dalla circostanza che la produttività del lavoro è stabilmente rimasta pari a poco meno del 70% di quella registrata negli Stati Uniti, e che in Europa, in presenza di aumento della produttività oraria, si registra in pari misura e con segno opposto la diminuzione delle ore lavorate. La registrata sostituzione di capitale a lavoro non ha evidentemente generato aumenti complessivi di occupazione e produttività dei fattori. La regolazione economica. Gli oneri che derivano dal crescente numero di leggi e regolamenti imposti alle attività economiche, pubbliche e private, e dalla complessità degli adempimenti burocratici necessari per rispettarli, costituiscono un fattore importante della crisi di competitività dei sistemi economici, in particolare in Europa ed ancor di più nel nostro paese. Come noto, l’inflazione normativa a cui assistiamo trae origine essenzialmente: dalla dinamica delle istanze sociali che caratterizza lo sviluppo delle società contemporanee, nelle quali continuano ad emergere nuove esigenze di tutela di interessi pubblici; dalla necessità di aggiornamento ed adattamento specialistico della legislazione, per effetto dell’evoluzione della tecnologia e del contesto economico-sociale; dall’odierna articolazione dei diversi livelli di governo dotati di potere di regolazione (internazionale, comunitario, nazionale, regionale, locale). Si deve osservare peraltro come il sistema che pone meno regole e divieti non sia necessariamente più competitivo. L’economia di una nazione si giova piuttosto dell’esistenza delle norme e delle regole, di tutte quelle che risultino effettivamente necessarie, purché siano chiare e certe. E del fatto che dette norme e regolamenti siano realmente rispettati anche in virtù di un sistema efficace di controlli sulla loro applicazione, che assicuri la certezza degli scambi e la tutela della concorrenza nel mercato. Ad integrazione di quanto detto, si ricorda (grafico n. 7) l’esito di un’indagine di Banca Mondiale, “Doing Business 2004”, che ha rilevato le correlazioni che sono risultate esistere tra inutile complessità normativa e ricchezza pro-capite delle nazioni, da un lato, e tra diffusione della corruzione ed eccessiva complessità degli adempimenti burocratici richiesti negli affari, dall’altro2 . 2 Il primo dei due grafici è stato costruito analizzando gli effetti della regolazione sulla produttività, sulla disoccupazione, sulla crescita, sulla povertà e l’irregolarità del campione oggetto di analisi; il secondo sui dati relativi all’avvio di un’attività economica, all’assunzione e al licenziamento dei lavoratori, alla stipula di contratti, all’ottenimento di finanziamenti e alla cessazione dell’impresa. 9 Maria Martellini Grafico 7 Una regolazione farraginosa ed eccessiva è associata ad economia “non ufficiale” e corruzione. Economia “non ufficiale”, % reddito pro-capite Alta Corruzione Alta Bassa Bassa 1 Minore 2 3 4 5 Maggiore I paesi sono stati ordinati in 5 classi sulla base dell ’’indice di regolamentazione del lavoro 1 Minore 2 3 4 5 Maggiore I paesi sono stati ordinati in 5 classi sulla base della regolamentazione prevista per l’avvio di un ’attivit à commerciale l’ Fonte: World Bank (2004), Doing Business 2004 4. Le partecipazioni statali Esaminati nei termini generali l’influenza del settore pubblico nell’economia, sia considerando il suo ruolo di fornitore di beni e servizi sia quello di fonte dei propagatori delle condizioni di funzionamento dell’economia nazionale, intenderei procedere alla considerazione dello specifico peso che tale intervento assume in termini di partecipazione ai processi produttivi e ciò con particolare riguardo al nostro Paese. E’ noto come nel corso dell’ultimo ventennio l’intervento diretto dello Stato nella produzione di beni e servizi si sia significativamente ridimensionato, segnando un’inversione di tendenza rispetto agli anni della ricostruzione postbellica, allorquando, in Europa, la presenza pubblica aveva preso largo spazio nei sistemi produttivi nazionali. Anche quando il progetto comunitario aveva raggiunto avanzati livelli di maturazione, in Europa permaneva di fatto una elevata tolleranza nei confronti dei monopoli pubblici. Richiamando il vecchio modello “Struttura → condotte → performance”, si riteneva infatti nel nostro continente che la politica 10 Intervento pubblico ed economia delle imprese industriale dovesse muovere da interventi sulla struttura dei sistemi produttivi al fine di concorrere a determinare le condotte delle imprese. Da ciò lo Stato imprenditore. Tale orientamento, come noto, era diverso da quello seguito dall’altro lato dell’oceano Atlantico, dove l’intervento pubblico aveva ad oggetto principalmente le condotte delle imprese, che erano ritenute essere la determinante della struttura produttiva dei vari settori ed il principale vettore dello sviluppo. Oltreoceano, infatti, lo Stato si è storicamente riservato prevalentemente il ruolo di regolatore. Nella seconda metà degli anni ottanta, il Libro Bianco della Commissione europea voluto dal suo Presidente Delors, che intendeva dare ulteriore impulso al completamento del mercato unico comunitario, richiamò l’attenzione sul fatto che detto mercato avrebbe potuto utilmente e compiutamente operare se assistito da un regime di libera concorrenza. Ebbero così avvio anche in Europa importanti processi di privatizzazione. Le tabelle nn. 2 e 3 espongono alcuni dati espressivi del predetto trend. Tabella 2 - Il peso delle imprese con prevalenza di partecipazione pubblica nell’Europa dei 15 nell’economia europea Paese Germania Francia Italia Gran Bretagna Spagna Svezia Austria Belgio Grecia Finlandia Portogallo Paesi bassi Danimarca Irlanda Lussemburgo UE 15 Dipendenti (valori in % dipendenti migliaia) 1.972.500 9,0% 1.328.400 10,3% 790.000 7,7% 400.200 2,5% 300.000 3,9% 270.000 11,6% 210.000 9,1% 197.000 10,4% 154.300 12,3% 132.000 10,9% 116.600 5,3% 98.000 2,5% 92.300 6,1% 66.600 8,0% 9.200 5,3% 6.137.100 7,1% % valore aggiunto 9,9% 11,5% 10,0% 1,9% 3,3% 13,7% 13,0% 11,3% 13,5% 10,5% 8,4% 5,8% 7,5% 9,4% 5,3% 8,5% Peso Peso Peso % formazione sull'economia sull'economia sull'economia capitale 1991 1995 2000 complessivo 14,0% 10,9% 10,7% 11,1% 13,5% 11,8% 14,7% 17,6% 11,0% 9,6% 14,2% 18,9% 2,5% 2,3% 2,7% 4,4% 5,0% 4,1% 8,0% 9,0% 14,0% 13,1% 12,9% n.d. 14,0% 12,0% 21,5% n.d. 10,9% 10,9% 11,6% 11,0% 17,0% 14,2% 15,4% 20,2% 11,4% 10,9% 17,6% n.d. 12,0% 8,5% 12,3% 20,7% 5,5% 4,6% 6,8% 7,5% 9,9% 7,9% 9,7% 11,5% 12,9% 10,1% 11,8% 12,3% 6,4% 5,7% 6,4% 6,4% 11,0% 9,0% 10,4% 11,8% Fonte: nostre elaborazioni su dati CEEP 2000 Tabella 3 - Dipendenti impiegati nelle imprese con partecipazione pubblica di maggioranza nell’Europa dei 15, suddivisi per settori di attività 11 Maria Martellini Paese Germania Francia Italia Gran Bretagna Spagna Svezia Austria Belgio Grecia Finlandia Portogallo Paesi bassi Danimarca Irlanda Lussemburgo UE 15 Energia 257.900 176.200 100.000 24.900 8.600 25.000 32.000 10.300 37.000 9.400 18.600 37.000 15.300 12.400 1.000 765.600 Trasporti e comunicazioni Poste e telecomunicazioni 857.700 348.500 400.000 43.000 61.100 29.000 60.000 72.500 31.000 24.500 36.400 48.000 40.000 19.600 3.800 3.291.100 Settore finanziario 390.000 68.600 20.000 1.900 21.000 10.000 12.500 37.000 6.300 14.800 3.500 n.d 4.500 1.700 n.d 591.800 430.700 160.000 198.000 75.300 74.000 70.000 70.600 36.000 34.600 17.000 200 25.500 21.500 2.600 Idustria 131.300 106.600 100.000 n.d 31.400 59.000 10.000 15.500 7.000 22.400 500 900 1.000 200 n.d 485.800 Altri servizi Commercio 327.200 186.000 10.000 134.300 121.700 62.000 28.000 14.900 6.300 30.500 28.100 6.600 10.500 7.300 100 1.002.800 8.400 11.800 700 4.300 1.200 1.800 1.100 n.d. Fonte: nostre elaborazioni su dati CEEP 2000 * * * In tema di privatizzazioni effettuate e progettate, con riguardo allo specifico del nostro paese, è semplice il riferimento alla relazione elaborata nel luglio 2004 dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Si rileva da detta relazione che il nostro paese si colloca al secondo posto, nell’area OCSE, e al primo a livello europeo, per valore di introiti da privatizzazione. Tra il 1994 e la fine del 2003, infatti, lo Stato italiano ha ceduto quote di proprietà pubblica per un ammontare di circa 90 miliardi di euro. Nel 2003, anno nel quale peraltro si registravano sia recessione economica sia sostanziale stagnazione del mercato mobiliare, i proventi di tali dismissioni (vedi grafico n. 8) rappresentavano il 34% del totale delle privatizzazioni mondiali, collocandosi ben al di sopra dei picchi, già di rilievo, del 1997 (14%), del 1999 (15%) e del 2001 (15%). Grafico 8 - Proventi italiani vs. proventi globali (valori assoluti e percentuali 19922003) 12 Totale 1.972.500 1.328.400 790.000 402.100 319.100 259.000 212.500 221.500 123.600 140.500 105.300 94.500 96.800 63.800 7.500 6.137.100 Intervento pubblico ed economia delle imprese 200.000 15 % 180.000 14 % (Proventi Ml. €) 160.000 140.000 7% 120.000 10 % 100.000 11% 4% 10 % 3% 8% 34% 80.000 60.000 7% 15 % 40.000 20.000 0 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 ITALIA RESTO DEL MONDO Fonte: elaborazione da Securities Data Corporation Non può concludersi questo brevissimo cenno al processo di privatizzazione che ha interessato il nostro paese senza ricordare, in primo luogo, che le cifre prima indicate sono solo parzialmente espressive dell’effetto finanziario che ne è conseguito; infatti esse non comprendono i proventi da dismissione conseguiti ad altro livello istituzionale (Enti locali), né tengono conto dell’indebitamento che pure è stato trasferito. In secondo luogo, si deve anche considerare che la componente finanziaria del processo di privatizzazione non è di per sé idonea ad illustrare il punto di arrivo al quale si è effettivamente pervenuti in termini di uscita dello Stato da alcuni settori dell’economia. A tal fine, infatti, occorre considerare innanzitutto le partecipazioni di minoranza che sono state mantenute e che consentono comunque al soggetto pubblico di esercitare il controllo sulla società di cui una quota è stata dimessa; ma principalmente il fatto che in determinati settori i cessionari delle partecipazioni pubbliche sono risultati essere soggetti che rientrano nella sfera di influenza di poteri pubblici. E’ ovvio il riferimento alle Fondazioni bancarie, per le quali la legge Amato ha previsto, in occasione della trasformazione in società per azioni delle casse di risparmio, delle banche del monte e degli istituti di credito di diritto pubblico tradizionalmente da esse detenuti, la separazione dell’attività bancaria dalla proprietà mediante scorporo, e l’assegnazione delle azioni che derivavano dall’operazione alle stesse originarie proprietarie, le Fondazioni. Parlare di privatizzazione per gli istituti di credito rimasti nella sfera di controllo delle Fondazioni è pertanto improprio, anche a motivo 13 Maria Martellini dell’emendamento Tremonti del 2002, che ha introdotto ulteriori vincoli alla destinazione del reddito da esse conseguito, da destinarsi ad obiettivi di sviluppo del territorio di riferimento, a tal fine anche prevedendo congrua assegnazione di posti negli organi di indirizzo agli stessi Enti Locali. Nel settore del credito si è quindi ridimensionata la proprietà statale, ma non il ruolo della proprietà pubblica, che si manifesta tramite le Fondazioni. Ricordo che, a fine 1999, le Fondazioni bancarie detenevano la maggioranza relativa nei primi 5 gruppi bancari italiani e in 6 dei primi nove. Alla luce di quanto precede si può ora esaminare quale sia attualmente la partecipazione pubblica nelle imprese italiane. Le informazioni esposte nella figura n. 1 sono ricavate dalla precitata relazione del Ministero dell’Economia e del Tesoro ed hanno riguardo alla situazione al 2005. Per aver contezza della realtà delle privatizzazioni che hanno dato luogo alla situazione descritta, dopo avere richiamato quanto detto a proposito delle Fondazioni, è solo necessario aggiungere che il 35% di Poste Italiane, di cui lo Stato non ha più il controllo totalitario, è stato ceduto alla Cassa Depositi e Prestiti, a sua volta dallo Stato partecipata al 70%; e che il 30% della Cassa Depositi e Prestiti è stato ceduto a 65 Fondazioni bancarie. 14 Intervento pubblico ed economia delle imprese Figura 1 - Partecipazioni dirette del Ministero dell’Economia e delle Finanze Ministero dell’Economia e delle Finanze Dipartimento del Tesoro Partecipazioni dirette Partecipazioni di maggioranza/controllo 62,33% 21,87% Alitalia S.p.A. 100% 100% ANAS S.p.A. 90% 70% ARCUS S.p.A. 100% EUR S.p.A. 99,55% RAI Radiotelevisione Italiana S.p.A. Fintecna S.p.A. 100% ENEL S.p.A. 100% Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. 100% Ferrovie dello Stato S.p.A. 33,98% ENI S.p.A. 100% Coni Servizi S.p.A. 100% 100% GRTN S.p.A. Sicot S.r.l. Finmeccanica S.p.A. 100% Cinecittà Holding S.p.A. 100% SACE S.p.A. 20,32% Consap S.p.A. 100% Italia Lavoro S.p.A. 100% 61,83% SOGIN S.p.A. ENAV S.p.A. 65% Patrimonio dello Stato S.p.A. 100% SOGESID S.p.A. 100% Consip S.p.A. 100% Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A. Società per lo sv. del Mer. dei Fondi Pensioni S.p.A. 100% Poste Italiane S.p.A. 100% Sviluppo Italia S.p.A. Altre partecipazioni 0,1% 0,1% Telecom Italia Media S.p.A. SEAT S.p.A. Fonte: Ministero dell’Economia e delle Finanze, “La relazione sulle privatizzazioni”, luglio 2004 Il richiamo in precedenza fatto alla liquidità pervenuta allo Stato a seguito della serie di privatizzazioni poste in essere nel tempo, ne sottolineava la componente finanziaria, fattore di grande rilievo stante l’obiettivo perseguito di riduzione del debito pubblico. Tale obiettivo, però, non era certo l’unico e forse nemmeno il più importante, pur essendo quello che non poteva essere procrastinato. Con le privatizzazioni, lo Stato intendeva influire sulla struttura produttiva nazionale migliorandone l’efficienza, riducendo le influenze politiche, dando spazio alla libera concorrenza, determinando le condizioni per la diffusione della proprietà dei capitali di rischio, elementi tutti che avrebbero positivamente influito sul funzionamento del sistema e sulle condizioni di vita della popolazione. C’è da chiedersi se tali ulteriori obiettivi, che per certi versi giustificano il ricorso dello Stato ad istituti quali la golden share, oggi in certo senso rivista ai sensi dell’art. 55 della legge finanziaria 2006, siano stati raggiunti. Come noto, si possono avere forti perplessità sul punto. Infatti, per le 15 Maria Martellini modalità con le quali sono state effettuate le privatizzazioni, alle quali hanno partecipato imprese private mediante il ricorso all’indebitamento e privati risparmiatori, direttamente o tramite fondi previo disinvestimento progressivo dei titoli pubblici, hanno nella sostanza trasferito a detti soggetti privati le condizioni di vantaggio di cui, per finalità di natura pubblicistica, godevano le imprese oggetto di privatizzazione, fino anche a sostituire un monopolista ad un altro. Ciò significa, ad evidenza, che sono stati mancati quantomeno gli obiettivi di contenimento dei prezzi dei servizi e prodotti forniti al mercato per effetto di maggior concorrenza, di efficienza e così via. Al riguardo, è interessante citare l’analisi della dinamica che ha interessato i primi 20 gruppi industriali italiani tra il 1994 e il 2004, pubblicata la scorsa estate dal Corriere della Sera, sintetizzata nella tabella che segue. Tabella 4 - Confronto tra i primi 20 gruppi (1994-2004) I primi 20 gruppi nel 1994 - Ifi - Eni - Stet - Enel - Ferruzzi Finanziaria - Finmeccanica - Fininvest - Cofide - Pirelli - Ilva - Ibm Semea - Olivetti - Alitalia - Italmobiliare - Fintecna - Zanussi - Sme - Rai - Edizione Holding - Gim di cui pubblico di cui privato Risultato netto N° dipendenti complessivo milioni di euro (valori attualizzati al 2004) 44.626 971 268.956 33.983 2.179 91.544 24.055 1.274 144.316 23.241 1.578 103.550 15.617 -680 39.449 8.070 35 59.041 6.944 -9 27.363 6.711 -179 41.675 6.563 99 38.485 6.557 581 21.270 6.342 3 15.364 6.084 -443 33.867 5.368 -198 26.092 3.713 -79 19.378 3.040 115 16.057 2.923 143 20.480 2.862 -9 15.218 2.758 -9 13.166 2.667 149 8.991 2.612 18 9.114 Ricavi 109.935 51,20% 104.803 48,80% 5.546 100,10% -8 -0,10% I primi 20 gruppi nel 2004 Ricavi - Eni - Ifi - Pirelli (*) - Enel - Finmeccanica - Riva Fire - Edizione Holding (*) - Vodafone (**) - STMicroelectronics - Italenergia bis - DeAgostini (****) - Fininvest - Ferrero (***) - Italmobiliare - Barilla - Tenaris - Alitalia - Luxottica - Indesit - Cofide 58.382 51.878 38.351 36.489 9.011 7.912 7.824 7.444 7.084 5.696 5.668 5.408 4.807 4.682 4.675 4.136 4.075 3.248 3.176 3.061 di cui pubblico 107.957 39,50% 165.050 60,50% 490.254 48,40% 523.122 51,60% di cui privato Risultato netto N° dipendenti complessivo milioni di euro 7.888 74.010 -1.029 179.790 1.807 125.865 2.832 62.218 548 46.401 681 25.433 657 52.459 2.089 10.053 489 47.600 150 3.883 158 6.427 730 11.034 282 18.456 452 18.380 -45 23.509 805 15.434 -811 21.539 254 42.738 117 19.056 248 10.329 10.457 57,10% 7.845 42,90% 204.168 25,10% 610.446 74,90% (*) dati aggregati (**) dati 31 marzo 2004 (***) dati 31 agosto 2004 (****) bilancio proforma Fonte: Grandi imprese, pieno di utili in un’Italia a crescita zero, Corriere della Sera, 18 luglio 2005 16 Intervento pubblico ed economia delle imprese Nel periodo oggetto di analisi, i ricavi conseguiti da gruppi pubblici risultano essersi ridotti, passando dal 51 al 39% del totale. Al contempo, se nel 1994 la componente privata del campione (11 gruppi su 20), travolta dalle crisi Ferruzzi ed Olivetti, aveva realizzato complessivamente redditi nulli, nel 2004 essa raccoglieva invece il 43% dell’utile totale. Peraltro, l’industria pubblica residua, pur ancora gravata dal fardello Alitalia, risulta godere di una gestione più efficace di quella della parte privata del campione, e ciò grazie alle dominanti posizioni di Eni ed Enel evidentemente in grado di remunerare attività ad alta intensità di capitale; la parte pubblica del campione, infatti, come in precedenza accennato, realizza il 57% degli utili pur con poco meno del 40% del fatturato complessivo dei gruppi industriali in esame. E’ anche interessante osservare, con riferimento alle medesime imprese, le variazioni nel periodo intervenute nella distribuzione del valore aggiunto fra le sue componenti. Una quota crescente del valore aggiunto viene infatti oggi destinata agli azionisti e all’impresa (dal 29 al 46%, con un delta del 17%), a scapito dei dipendenti (- 14%) e dello Stato per imposte dirette (-5%). Grafico 9 - Confronto tra i primi 20 gruppi (1994-2004): distribuzione valore aggiunto 100% 90% Stato; 18% 80% Finanziatori; 7% Stato; 13% Finanziatori; 9% 70% 60% Azionisti e impresa; 29% Azionisti e impresa; 46% 50% 40% 30% 20% Dipendenti; 46% Dipendenti; 32% 10% 0% 1994 2004 Fonte: Grandi imprese, pieno di utili in un’Italia a crescita zero, Corriere della Sera, 18 luglio 2005 17 Maria Martellini I descritti fenomeni, come è ovvio, non derivano esclusivamente dalla privatizzazione che ha interessato alcune delle imprese del campione. Essi sono anche attribuibili ad andamenti congiunturali, quali la crescita dei prezzi del petrolio per Eni ed Enel, la penuria di acciaio per eccesso di domanda per Tenaris e Riva; così come hanno avuto certamente rilievo i processi di globalizzazione attualmente in corso che hanno determinato per alcune imprese del campione l’esercizio di parte rilevante dell’attività fuori dei confini nazionali: Eni, STM e Luxottica hanno oltre il 50% dei propri investimenti all’estero; Italmobiliare ha il 70% dei dipendenti fuori dal nostro paese. Tuttavia, mi piace anche ricordare che, dai bilanci degli esercizi 2000 – 2004 di EDF Group, nota società pubblica francese, che abbiamo potuto esaminare, si rileva un andamento sostanzialmente diverso della distribuzione del valore aggiunto generato: esso continua ad essere in misura maggiore allocato a favore dei dipendenti (il 58% contro il 32% dei gruppi italiani del campione) mentre agli azionisti/impresa risulta destinato il 27% (contro il 46%); in egual misura rispetto al campione di imprese italiane risultano compensati i finanziatori (circa il 9%), mentre le imposte assorbono il 6% del totale (contro il 13%). Il richiamo alle performance di EDF non vuol essere una “poison pill” con riguardo alle privatizzazioni in atto e da effettuare nel nostro paese, quanto piuttosto l’occasione per un invito ai Governi affinché tengano ben presenti gli effetti degli interventi posti in essere, e ciò con particolare riguardo sia alla coerenza fra obiettivi e strumenti selezionati per realizzarli sia all’effetto indiretto che le politiche attuate possono avere sul funzionamento dei mercati. Per certi versi mette tristezza leggere una recentissima ricerca dell’ufficio studi di Unicredit, nella quale viene scritto “i settori che sono in grado di generare i maggiori profitti sono quelli meno esposti alla concorrenza o che operano in regime di monopolio, come quello dei servizi e delle utilities (ove peraltro opera la maggior parte delle grandi imprese), mentre dall’altro lato si nota come i settori più esposti alla concorrenza (la maggior parte di quelli dell’industria manifatturiera) abbiano sofferto di una sensibile riduzione della loro profittabilità.” Gli studiosi dell’Unicredit non stavano recitando il monologo del giovane studente di primo anno del corso di laurea in economia politica: stavano descrivendo lo stato della nostra economia al quale anche le privatizzazioni hanno dato un apprezzabile contributo. Privatizzando la proprietà delle imprese senza preventivamente o contestualmente aver liberalizzato i settori interessati, lo Stato ha infatti generato atteggiamenti viziati da parte dei capitalisti, dei finanziatori e dei risparmiatori, a danno del consumatore finale, dell’efficienza dei mercati e 18 Intervento pubblico ed economia delle imprese dello sviluppo dell’economia. Rieducare tali soggetti, facendo loro accettare normali risultati e rischi delle attività di impresa e degli investimenti finanziari, non sarà compito agevole che la politica dovrà affrontare. Deve anche essere aggiunto che ritenere che la privatizzazione delle imprese di per sé sia idonea a migliorare le condizioni di funzionamento del sistema costituisce una ingenuità. Non mancano esempi di imprese privatizzate e gestite in modo seriamente criticabile. Basti ricordare la privatizzazione delle ferrovie britanniche, per la quale era stata peraltro preordinata la divisione della gestione della rete da quella del materiale rotabile, che ha dato luogo ad inefficienze, prezzi esorbitanti del servizio e clamorosi disastri. Per converso, la già citata francese EDF costituisce la più grande impresa pubblica di maggior successo a livello mondiale, realizzando performance difficilmente eguagliabili. Il fatto è che si deve ammettere come non vi sia relazione logica fra pubblico ed inefficienza, da un lato, e privato ed efficienza, dall’altro, ma solo relazioni sostenibili in base a riferimenti ideologici. Come sostiene Velo, la presenza di un’impresa a capitale pubblico non contraddice i principi dell’economia di mercato, a patto che tale presenza non condizioni l’equilibrato confronto concorrenziale fra le imprese. Non sarebbe infatti l’assetto proprietario a determinare il maggior o minor grado di libertà ed efficienza del mercato; esso sarebbe più che altro influenzato dalle strategie poste in essere dalle imprese e dalla regolamentazione che lo governa. Si tratta di tesi sulla quale convengo, ritenendo che l’elemento davvero qualificante con riguardo al funzionamento dei mercati non sia quello che discende dalla proprietà pubblica o privata del capitale di rischio, ma piuttosto quello che distingue la “proprietà responsabile” dalla “proprietà irresponsabile”, da individuarsi nell’attitudine dei soggetti preposti al governo dell’impresa tanto al rispetto delle regole e della legge, quanto alla seria e ricorrente valutazione della validità e sostenibilità delle tecniche di gestione adottate e degli obiettivi perseguiti, nel rispetto della natura teleologica degli istituti. Infatti, non si deve mai dimenticare che l’impresa è un istituto economico il cui agire non può, pena la sua stessa sopravvivenza, essere improntato a malintese concezioni di socialità dimentiche dell’economicità della gestione. * * * Se si ritiene che il grado di maggiore o minore efficienza di un mercato non sia determinato principalmente dall’assetto proprietario bensì dai rapporti che si instaurano fra le imprese per effetto delle loro strategie e 19 Maria Martellini dalla regolamentazione in essere, particolare rilievo assume il tema della regolamentazione dei mercati. La normativa antitrust, come noto, è funzionale all’efficienza complessiva del sistema economico, essendo volta ad impedire l’artificiale aumento del potere di mercato delle imprese conseguito tramite intese restrittive, comportamenti abusivi e concentrazioni tese a creare o rafforzare una posizione dominante. Infatti, la concorrenza determina all’interno del sistema un clima di incertezza che induce le imprese ad adottare strategie concorrenziali aggressive, in riposta alle mosse dei rivali o in loro anticipazione. Pur tuttavia, il regime concorrenziale come descritto è naturalmente orientato alla creazione di nuovi beni e servizi, così contribuendo al raggiungimento di più elevati livelli di benessere sociale. Ne discende il ruolo cruciale della normativa antitrust che ha il compito di assicurare al sistema i benefici della concorrenza, preservando la libertà di iniziativa degli operatori ed impedendo, con tutti i possibili distinguo, indesiderabili concentrazioni di potere nel mercato. In proposito, con riguardo alla situazione italiana, per brevità mi limiterò a citare quanto affermato dall’Autorità Garante della Concorrenza e dei Mercati nella relazione sull’attività svolta relativa all’anno 2004. Si legge nella relazione: “i meccanismi concorrenziali non sono ancora sufficienti a disciplinare il potere di mercato delle imprese in posizione dominante e la regolazione economica, soprattutto volta a controllare prezzi e tariffe e a facilitare l’ingresso di nuovi operatori, continua a rimanere necessaria….A fronte di processi di liberalizzazione lenti ed inefficaci, l’economia italiana ha accumulato ritardi e inefficienze che andrebbero rapidamente colmati. Le difficoltà nascono dal fatto che le imprese beneficiarie degli assetti regolatori prevalenti, che pure sono relativamente poche, hanno molto da perdere se la normativa che le avvantaggia fosse modificata. I consumatori danneggiati dalle regolazioni ingiustificatamente restrittive, invece, essendo molto numerosi, subiscono un danno economico complessivamente cospicuo, ma singolarmente modesto, così che non hanno incentivi sufficienti a mobilitarsi per sollecitare un cambiamento. Ed ancora: “Dall’entrata in vigore della legge antitrust nel 1990, l’Autorità ha inviato quasi trecento segnalazioni che, pur nel rispetto di eventuali altre esigenze di carattere generale, individuano soluzioni regolatorie meno invadenti di quelle in vigore o di quelle proposte. Molto raramente, il Parlamento, il Governo o gli Enti Locali hanno dato seguito ai suggerimenti dell’Autorità, anzi nella maggior parte dei casi essi sono stati ignorati, senza neppure una risposta o un dibattito.” Non è confortante dover conoscere tale stato delle cose; posso solo con voi condividere il mio sentito auspicio di una severa censura e quindi di un 20 Intervento pubblico ed economia delle imprese forte impulso, da parte delle istituzioni dell’Unione Europea, affinché tale modo di intendere le politiche a tutela della concorrenza venga abbandonato dai nostri governanti e, in linea più generale, il conseguente auspicio che il nostro paese continui ad essere strettamente legato al progetto comunitario, senza partecipazione al quale il suo confondersi con il terzo mondo sembra poter essere questione di un attimo. 5. La cultura pro-business nel nostro Paese Fin qui ho parlato dell’interazione fra settore pubblico e il mondo della produzione, ponendo particolare attenzione ad alcune condotte dell’operatore pubblico, considerato nella sua duplice veste di produttore economico e di regolatore e amministratore del sistema paese. Alle imprese, e ai managers che le dirigono, ho fatto solo minimi cenni, sovente in forma indiretta, pur avendole sempre ovviamente considerate in quanto destinatarie delle ricadute di quanto il soggetto pubblico, nel bene e nel male, decide e fa. E’ però giunto il momento di introdurre una diversa chiave di lettura dei fenomeni che ci interessano. A questo fine, occorre muovere dalla considerazione, sovente trascurata, che lo Stato siamo noi, così come noi costituiamo la società civile. Il mondo delle imprese, siano esse pubbliche o private, la stessa pubblica amministrazione, le attività di ricerca e sviluppo, la burocrazia, e via dicendo sono tutte entità astratte, alle quali solo le persone umane danno concretezza e vita. Il modo di intendere e la pratica del ruolo che ciascuno ricopre nel funzionamento delle entità in cui è organizzata la società moderna, in altre parole la cultura che viene in essa apportata, concorre a determinare il funzionamento dell’intero sistema economico e sociale. Devo anche precisare che, parlando di cultura non mi riferisco solo a conoscenza e padronanza della tecnica, di tipo generale o specialistico, derivata da processi di apprendimento scolastici, ma intendo anche riferirmi alla conoscenza derivata dall’esperienza nonché ai comportamenti che ciascuno di noi pone in essere per affrontare i problemi quotidiani dell’esistenza e della convivenza, così come ai valori che tali comportamenti ispirano. Era questo che intendevo dire affermando: “lo Stato siamo noi, noi siamo la società civile”, affermazione dalla quale spero vorrete non dissentire troppo. Ciò premesso, possiamo prendere in esame quali risposte abbia ottenuto il progetto di ricerca volto ad accertare il livello della cultura pro-business in alcuni paesi, tra cui l’Italia. 21 Maria Martellini La ricerca alla quale mi riferisco (Misurare la cultura pro-business dell’Italia per migliorarne attrattività e competitività) è stata promossa dalla Siemens ed affidata ad Ambrosetti. Essa ha coinvolto la popolazione di sei paesi: Italia, Francia, Germania, Spagna, USA, Cina e Giappone, e si è conclusa lo scorso settembre. Qui di seguito ne riferirò brevemente. La cultura pro-business è stata definita come l’insieme di atteggiamenti e comportamenti delle persone nei confronti del mondo degli affari, che possono creare i presupposti ottimali per il suo sviluppo in un sistema territoriale. Per misurare una variabile complessa quale la cultura pro-business di una nazione, essa è stata scomposta in parti, poi ordinate a formare due gruppi 3 : - il gruppo delle dimensioni di contesto, che comprende : i) la propensione al rischio, ii) la flessibilità lavorativa, iii) l’importanza attribuita all’istruzione e alla formazione, iv) l’interesse per la tecnologia v) l’internazionalizzazione) 4 ; - il gruppo della dimensione core, del quale fanno parte: ( i) competenza, ii) merito, iii) osservanza delle regole, iv) visione ampia, v) orientamento al risultato, vi) management strategico, vii) cooperazione, viii) cambiamento e innovazione, ix) proattività) 5 . 3 Per ulteriori dettagli si rinvia al documento citato. Con riguardo alle determinanti delle dimensioni di contesto si precisa quanto segue: i) propensione al rischio: si fa riferimento ad un rischio calcolato e razionale, non dettato dall’incoscienza o dall’impulsività; ii) flessibilità lavorativa: riguarda direttamente il modo in cui gli individui entrano in contatto con i sistemi economici organizzati, permettendo di innescare e favorire processi di crescita rapidi in rapporto alle mutate caratteristiche dei mercati internazionali; iii) importanza dell’istruzione e della formazione: l’istruzione riveste un ruolo cardine all’interno di ogni civiltà per un duplice motivo. Il primo è rappresentato dal fatto che offre la possibilità dell’individuo di assimilare i principi fondamentali alla base di un comportamento civico e socialmente responsabile nella gestione dei rapporti tra cittadini; il secondo aspetto è riferito al fatto che consente di approfondire le proprie conoscenze nella direzione ritenuta più consona alle proprie attitudini nell’ottica dell’ingresso nel mercato del lavoro; iv) interesse per la tecnologia: la tecnologia è sempre più un elemento centrale nel definire la traiettoria di sviluppo di un paese; v) internazionalizzazione: si intende il grado di apertura al mondo esterno e la capacità di individuare opportunità a livello dell’intero globo e non di ristretti confini geografici. Ciò consente di affermarsi sul piano commerciale e culturale mondiale e avere una visione internazionale in grado di interagire con altre culture. 5 Le determinanti della dimensione core possono essere così chiarite: i) competenza: attitudine ad utilizzare le proprie capacità e competenze per avere successo, facendo leva sul “saper fare”; ii) merito: utilizzo delle proprie capacità e livello di responsabilizzazione degli individui nell’agire quotidiano; iii) osservanza delle regole: importanza attribuita dalle persone alle regole; 4 22 Intervento pubblico ed economia delle imprese Le dimensioni di contesto (misurate attraverso indicatori desunti da fonti ufficiali, quali OECD, Eurostat, World Bank ecc.) riguardano il “sistemapaese”; la dimensione core (misurata attraverso questionari sottoposti a topmanager internazionali, esponenti della business community, opinion leader e sociologi) riguarda i comportamenti e le attitudini degli individui. Figura 2 - La struttura della cultura pro-business Dimensioni di contesto Dimensione “core” Internazionalizzazione Competenza (vs appartenenza) Propensione Merito (vs fatalismo) al rischio Osservanza delle regole (vs adattamento delle regole) Visione ampia (vs focalizzazione) Orientamento al risultato (vs orientamento all’impegno) Interesse per la tecnologia Management strategico (vs management operativo) Orientamento alla cooperazione (vs individualismo) Flessibilità lavorativa Cambiamento e innovazione (vs stabilità) Proattività (vs reattività) Importanza di istruzione e formazione Fattori igienici Fattori igienici Fonte: Ambrosetti, 2005 iv) visione ampia: capacità di interpretare la realtà da molteplici prospettive; v) orientamento al risultato: implica che i comportamenti siano guidati dai risultati e da obiettivi predefiniti; vi) management strategico: capacità di fissare obiettivi a lungo termine e pianificare le azioni per raggiungerli; vii) orientamento alla cooperazione: propensione al lavoro in team, nello spirito di gruppo, nella capacità di coordinare gli sforzi di più persone al fine di trarre vantaggio collettivo; viii) cambiamento e innovazione: volontà di rompere gli schemi consolidati ed essere aperti alle novità; ix) proattività: propensione a prendere iniziativa, anticipando gli eventi prima del loro verificarsi. 23 Maria Martellini Con riferimento all’Italia, si deve subito rilevare che ancora una volta non si sono ottenuti risultati incoraggianti. Ad esempio, è emerso il non positivo atteggiamento degli italiani nei confronti del rispetto delle regole, che si posizionano così all’ultimo posto in graduatoria (Grafico 10): più del 50% degli intervistati attribuisce scarsa importanza al rispetto delle regole, il 22% lo ritiene addirittura non importante. Anche i giovani, interpellati con ricorso a un sottocampione (età compresa tra 18 e 24 anni), confermano tale attitudine (19% dei giovani italiani, contro il 2% degli statunitensi, ritengono persino lecito non rispettare le norme). Grafico 10 - Osservanza delle regole e adattamento delle regole: la matrice di posizionamento Fonte: Ambrosetti, 2005 A ciò si aggiunga che solo il 58% degli italiani intervistati ritiene che “il merito” sia il fattore principale per il raggiungimento del risultato cercato (Grafico 11), opinione ben diversa da quella prevalente negli Stati Uniti, dove l’84% di risposte erano a favore del merito. Per contro, l’Italia è seconda rispetto alla Cina (39 e 65%, rispettivamente) per propensione al fatalismo, sintomo confermato dall’interesse di numerosi italiani per argomenti e credenze irrazionali (frequentazione di maghi, astrologi, ecc.). 24 Intervento pubblico ed economia delle imprese Grafico 11 - Merito e fatalismo: la matrice di posizionamento Fonte: Ambrosetti, 2005 L’Italia rivela, inoltre, scarsa capacità di pianificare e fissare obiettivi di lungo periodo (Grafico 12), collocandosi al penultimo posto nella graduatoria relativa all’orientamento al management strategico, seguita dalla Francia, (31 e 28%, rispettivamente), manifestando un atteggiamento nettamente contrapposto a quello della Cina (61%). Grafico 12 - Management strategico e management operativo: la matrice di posizionamento Fonte: Ambrosetti, 2005 25 Maria Martellini Modesti risultati, se rapportati a quelli di altri paesi, sono stati registrati dall’Italia anche per quanto riguarda le dimensioni di competenza (70%), orientamento alla cooperazione (52%) e proattività (46%). In controtendenza finalmente i risultati nelle dimensioni che riguardano orientamento al risultato (57%), cambiamento e innovazione (49%), per le quali l’Italia è sostanzialmente in linea con gli altri paesi europei. Dal confronto tra la dimensione core dell’analisi, riguardante comportamenti ed attitudini individuali (in cui l’Italia si classifica all’ultimo posto) e quelle di contesto, relative al “sistema-paese” (in cui il nostro paese si posiziona terz’ultimo), risulta come i “mali” più profondi dell’Italia siano legati a particolare debolezza nelle seguenti aree: i) merito; ii) osservanza delle regole; iii) interesse per la tecnologia; iv) importanza dell’istruzione e della formazione. A pari merito con l’Italia, in fondo alla classifica, si posiziona la Spagna. In assoluto gli USA si confermano il best performer, sia con riferimento alle dimensioni di contesto che alla dimensione core, mentre in Europa il miglior paese è rappresentato dalla Germania. 6. Conclusioni Non sarei stata seria se avessi pensato di poter riferire su tutte le questioni che devono essere risolte per migliorare la capacità di crescita e di sviluppo del nostro paese, e quindi la sua capacità di essere vincente nel confronto competitivo globale che deve affrontare. Non tanto perché la sede non sarebbe stata quella appropriata, essa lo sarebbe, e come, ma perché non sarei stata in grado di farlo, neanche con il supporto di uno strepitoso ufficio studi del quale, ovviamente, non dispongo. E’ comunque stimolante trattare della sfida competitiva oggi in corso fra le economie moderne nei mercati globalizzati. Devo però osservare che ho appena usato la parola sfida senza convinzione e per mera pigrizia; essa, infatti, impropriamente drammatizza la tensione competitiva dei nostri tempi. Nei mercati, la contesa è sempre stata asperrima tra le imprese delle varie nazioni, sia che esse difendessero il proprio mercato interno, sia che cercassero di occupare quote di mercati esteri. Il solo elemento di novità che oggi si registra, e in ciò la pretesa drammaticità della situazione, è che a tale contesa partecipano alcuni miliardi di altri esseri umani. Ma ciò non cambia le regole del gioco, né le potrebbe cambiare. In luogo di parlare di sfide, avrei dovuto parlare più semplicemente, da un lato, del regime competitivo che si va instaurando nei mercati mondiali, stante che il progresso nelle telecomunicazioni ha ampliato la dimensione dei mercati, e, dall’altro, della necessità delle imprese di competere, 26 Intervento pubblico ed economia delle imprese parimenti su scala mondiale, per la legittimazione all’uso delle scarse risorse produttive disponibili. Come noto, tale legittimazione può solo derivare da una superiore e perciò vincente capacità di utilizzazione delle risorse produttive, espressa in termini di valore aggiunto creato. Questa è la regola che governa le economie di mercato, nelle quali non è riconosciuto ad un pianificatore centrale il potere di decidere la allocazione delle risorse produttive. In assenza di un pianificatore e in ossequio al postulato dell’economia politica, la regola che assicura l’ordinato utilizzo delle risorse disponibili, scongiurandone lo sperpero, è costituita dalla competizione che si instaura fra i diversi soggetti che si propongono per la loro utilizzazione. L’impresa competitiva risulta così essere entità funzionale all’ordinato operare della democrazia economica. Se ciò è vero, una moderna società operosa, ricca di esperienza e conoscenza nonché di valori condivisi, che sia rispettosa delle regole, nella quale la competizione nelle attività economiche possa pienamente attivare il volano dello sviluppo, non ha nulla da temere dal futuro e tanto meno ha da temere da chi muove da condizioni di bisogno più accentuate delle proprie. Detta società saprà chiedere ed ottenere dai suoi governanti le politiche appropriate perché l’impegno nel lavoro e nello studio, e così la ricchezza prodotta, possano tradursi in effettivo sviluppo sociale, e non più in mera crescita del prodotto interno lordo. Quella società saprà trovare appropriato riferimento nei principi di solidarietà e di sussidiarietà, in forza dei quali si vorrà dare assistenza e sostegno a chi ne avesse bisogno, senza aver affievolito la volontà e l’orgoglio di ciascuno di essere parte del processo di creazione di valore che sostiene il sistema e senza aver dovuto rinnegare il pregio e la ricchezza costituiti dalla diversità degli individui. Concludendo questa relazione, nella qualità di accademico e principalmente di docente, devo anche chiedermi e chiedere a tutti voi quale e quanto compito ricada sulla nostra categoria per rimuovere la descritta situazione del paese. 27 28 DIPARTIMENTO DI ECONOMIA AZIENDALE PAPERS PUBBLICATI DAL 2001 AL 2006 ∗ : 12. Daniele RONER, Domanda e offerta di beni economici. Rassegna critica dall’irrealismo neoclassico alla differenziazione dei prodotti, marzo 2001. 13. Elisabetta CORVI, Le valenze comunicative del bilancio annuale. I risultati di un'indagine empirica, luglio 2001. 14. Ignazio BASILE, Nicola DONINELLI, Roberto SAVONA, Management Styles of Italian Equity Mutual Funds, agosto 2001. 15. Arnaldo CANZIANI, I processi competitivi fra economia e diritto, settembre 2001. 16. André Carlo PICHLER, L'Economic Value Added quale metodo di valutazione del capitale economico e strumento di gestione aziendale, dicembre 2001. 17. Monica VENEZIANI, Economicità aziendale e capacità informativa del bilancio nelle aziende cooperative agricole, dicembre 2001. 18. Pierpaolo FERRARI, La gestione del capitale nelle principali banche internazionali, febbraio 2002. 19. Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Il valore della marca. Modello evolutivo e metodi di misurazione, marzo 2002. 20. Paolo Francesco BERTUZZI, La gestione del rischio di credito nei rapporti commerciali, aprile 2002. 21. Vincenzo CIOFFO, La riforma dei servizi a rete e l'impresa multiutility, maggio 2002. 22. 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