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LEZIONE SU “APOLOGIA DI SOCRATE”
OBIETTIVI
DESTINATARI
PREREQUISITI
TEMPI
METODO
MATERIALI
CONTENUTI
VERIFICA
Gli obiettivi di tale lezione sono i seguenti:
a. Far conoscere agli studenti il contenuto di questo testo di Platone e
introdurne la parziale lettura
b. Far conoscere i temi principali del pensiero socratico (in particolare
l’etica)
III A Liceo scientifico “Filippo Lussana”.
Conoscenza degli aspetti essenziali del pensiero socratico e dei sofisti
1 ora e mezza
Lezione frontale con domande frequenti alla classe. Uso della lavagna come
aiuto per la schematizzazione.
Fotocopie con estratti dell’Apologia di Socrate di Platone e riassunto del resto
del testo sono stati consegnati dal docente nella lezione successiva (io tuttavia li
ho visionati precedentemente in modo da rendermi conto del tipo di studio che
avrebbero affrontato i ragazzi).
Per la preparazione della lezione ho utilizzato l’edizione del testo della BUR e
della Garzanti e un commento online di Maria Chiara Pievatolo sul sito
www.swif.it
- Enunciazione dell’argomento della lezione
- Analisi del titolo dell’opera, dell’autore, della forma, del contesto
storico e dei destinatari
- Prima parte del testo: le accuse, dalle più antiche alle più recenti
- Seconda parte del testo: l’ultimo appello di Socrate
- Terza parte: la condanna
La verifica della lezione verrà fatta dal docente con una prova scritta al termine
della spiegazione su Socrate.
Inizio la lezione chiedendo alla classe di riportarmi brevemente quello che il docente
aveva spiegato su Socrate nelle 2 lezioni precedenti a cui io non avevo assistito.
Scrivo alla lavagna il titolo dell’opera platonica e chiedo ai ragazzi di spiegarmi il
significato della parola “apologia”. Nel corso della spiegazione cerco di coinvolgere i
ragazzi con continue domande e se mi rendo conto che non stanno capendo provo a
rispiegare quello che ho detto con parole diverse.
Il titolo
Il termine apologia significa “discorso in difesa di qualcuno o qualcosa” e, originariamente,
“confutazione di un’accusa”. E questo era senza dubbio uno degli intenti di Platone: difendere
Socrate dalle accuse che gli erano state rivolte e che avevano portato alla sua condanna. Platone
intendeva inoltre riaffermare la validità dell’insegnamento socratico. In senso più lato, si è detto che
tutti i dialoghi platonici e anche quelli degli altri socratici mirano a difendere e a perpetuare la
memoria di Socrate e a tramandarne il messaggio.
L'Apologia di Socrate è un testo giovanile di Platone. Scritto tra il 399 e il 388 a.C., è la più
credibile fonte di informazioni sul processo a Socrate (399 a.C.), oltre a quella in cui la figura del
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vecchio filosofo è probabilmente meno rimaneggiata dall'autore. Socrate infatti non scrisse mai
nulla: tutto quel che sappiamo sul suo conto lo dobbiamo a Senofonte (il Socrate di Senofonte è
invece un Socrate pio, devoto alle leggi e a tutte le tradizioni, insomma, un Socrate perfettamente
conformista; "Ma se Socrate era veramente come lui l'ha dipinto, perché mai è stato accusato e
condannato a morte?"), Platone, al commediografo Aristofane (Aristofane, nel 423, lo porta sulla
scena come personaggio della sua commedia Le Nuvole, ritraendolo per metà come un filosofo
naturalista anassagoreo, e per metà come un sofista; tra l'altro, il decennio che va dalla morte di
Pericle, nel 429 a.C., alla pace di Nicia, nel 421 a.C., è anche il decennio che vede il maggior
concentramento di sofisti ad Atene: ad Atene troviamo Protagora, mentre, nel 427, arriva Gorgia;
nello stesso periodo vi si trova sicuramente Prodico di Cèo, insieme ad Ippia. Quindi, Socrate, che
vive a stretto contatto di tutti questi ambienti, è identificato da Aristofane con l'insieme di queste
tendenze culturali. Naturalmente, in questo modo, Aristofane attribuisce a Socrate delle dottrine,
quelle fisiche o quelle sofistiche, che altre fonti invece gli negano; di qui nasce il problema della
storicità della rappresentazione aristofanesca di Socrate. Tuttavia, dobbiamo tenere presente che
quella di Aristofane è la prima testimonianza che noi abbiamo su Socrate, ed è l'unica
testimonianza che risalga ad un momento in cui Socrate era ancora vivo) e in parte ad Aristotele,
che non lo conobbe direttamente. (Scrivo alla lavagna i nomi di Senofonte e Aristofane).
L'Apologia di Socrate è stata composta da Platone, che aveva assistito, come viene ricordato
successivamente nel testo, al processo per empietà intentato a Socrate. L'intento di Platone non è quello di
un cronista, ma di un filosofo coinvolto nella vicenda che intende narrare, il quale riporta le idee essenziali
che - per lui - meritano di essere ricordate.
Gli Ateniesi hanno sottoposto Socrate a un processo pubblico, dandogli la possibilità di difendersi. Questo è
un carattere notevole della "libertà degli antichi": condanne e ostracismi non vengono pronunciate
informalmente, in base alla semplice opinione pubblica come aggregato delle opinioni dei privati, o dei privati
che hanno accesso ai mezzi di comunicazione, ma - perfino nel caso di una persona fastidiosa come
Socrate - vengono discusse e deliberate pubblicamente.
L’autore e la forma del testo
L'Apologia è uno scritto platonico particolare, in quanto non in forma di dialogo tra due o più
persone: sia Platone che Socrate, infatti, disprezzavano la scrittura e sostenevano che la filosofia
fosse un'arte orale; pertanto – di fronte alla necessità di dover scrivere – Platone lo farà
principalmente in forma di dialogo tra due o più persone. La sua forma peculiare è data
dall'impossibilità per Socrate di dialogare, in un tribunale di Atene: egli doveva presentare
un'arringa per difendersi dalle accuse di corrompere i giovani, non riconoscere gli dèi della città e di
introdurne di nuovi. Cercherà comunque di mantenere una parvenza di dialogo inventando
"interlocutori fittizi".
Fermo restando che è Platone l’autore di questa opera, uno tra i problemi più affascinanti e
complessi della storia della filosofia è costituito dalla domanda su chi sia il “vero” autore di essa,
come di quei dialoghi definiti “socratici” proprio perché più forte in essi è l’incidenza
dell’insegnamento di Socrate. Infatti, nelle sue prime opere, Platone sembra impegnato a riproporre
il pensiero socratico. Ciò vale a maggior ragione per l’Apologia, che presenta la difesa che Socrate
avrebbe pronunciato al processo. Le parole, le argomentazioni, le tesi esposte sono quelle di
Socrate, oppure attraverso i discorsi attribuiti al maestro già si presenta la lettura che Platone darà di
quell’insegnamento e, in qualche modo, si enuncia il “programma” platonico?
Analisi del contesto storico
Il contesto storico in cui si iscrive l’Apologia è ancora quello che ha portato alla condanna di
Socrate. In Atene dominano i democratici di Trasibulo e Anito, espressione di una ricca borghesia
mercantile che, dopo la parentesi dei Trenta Tiranni, intende restaurare la democrazia ma anche
potenziare i commerci su cui ha in gran parte fondato il proprio potere. I contrasti interni alla
borghesia mercantile e al gruppo dirigente democratico, dovuti a divergenti interessi personali,
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rischiano di far degenerare la democrazia e di precipitare la pólis ateniese in una crisi gravissima.
Quello nei confronti di Socrate è un processo politico: la debole democrazia ateniese, restaurata
dopo la cacciata del governo filospartano dei Trenta tiranni, teme Socrate per la sua intelligenza
critica, la non subalternità al potere politico e l’influenza sui giovani e, diremmo noi oggi, in
generale sull’«opinione pubblica».
I destinatari
L’Apologia, presentandosi come il “testo” della difesa pronunciata da Socrate in occasione del
processo, ha come destinatari i cittadini di Atene, ai quali Platone ripropone la figura e
l’insegnamento di Socrate, con l’intento di riaffermare la validità dell’opera da lui svolta nel
dialogo e nel confronto continui con loro. Socrate sta parlando in sua difesa, dopo che gli accusatori
hanno esposto le loro ragioni davanti al tribunale popolare. Socrate nella sua difesa si rivolge agli
Ateniesi e dalle sue parole si capisce che con loro vi è stato un rapporto complesso, tutt’altro che
facile. Socrate, personaggio scomodo, sa che molti non lo vedono di buon occhio, a motivo delle
falsità da tempo diffuse contro di lui. Vuole convincerli della inconsistenza delle accuse che gli
sono state rivolte, ma sa – e lo dichiara fin dall’inizio – che sarà difficile sradicare dai loro cuori le
calunnie di cui da tempo è stato fatto oggetto. Dunque, sa che quell’uditorio in parte gli è ostile,
contrario. Tanto è vero che ad alcune affermazioni di Socrate il pubblico reagisce rumoreggiando
contro di lui. Ma Socrate ha scelto da tempo di svolgere, nei confronti della pólis e dei suoi
cittadini, una funzione analoga – dice nel testo con una immagine famosa – a quella del tafano ai
fianchi di un cavallo: pungerli, sollecitarli, non consentir loro di “addormentarsi”, di smarrire il
senso della loro situazione, indurli a riflettere, a cercare. Nulla può far arretrare Socrate, neppure il
rischio della vita, dinnanzi a quello che è da lungo tempo il compito e il senso della sua esistenza.
Può darsi che Platone – scrivendo l’Apologia – avesse in animo di rivolgersi ai democratici al
potere in Atene, per far saper loro che con quell’opera egli intendeva riprendere la battaglia
socratica per un rapporto critico e costruttivo con la pólis ateniese. Forse tra i destinatari vi erano
anche gli altri socratici, dinnanzi ai quali Platone rivendicava la fedeltà a Socrate e si candidava a
rappresentare colui che ne continuava in modo coerente l’opera, coniugando l’indagine filosofica e
l’impegno politico, nel modo originale in cui Socrate lo aveva inteso.
Mentre parlo scrivo alla lavagna alcune parole chiave accanto a forma, contesto
storico e destinatari.
Il libro si articola principalmente in tre fasi (scrivo sinteticamente alla lavagna):
• La prima, dove Socrate confuta tutte le cause che vengono mosse contro di lui, partendo da quelle
più antiche a quelle fatte di recente.
• La seconda fase, dove si assisterà alla dichiarazione di colpevolezza e alla richiesta di pena di
morte, dove Socrate proporrà una pena alternativa.
• La terza e ultima fase dove Socrate dirà ai giudici che egli stesso era convinto dell’esito della
sentenza, in quanto non sarebbe stato giusto né esiliarlo, né lasciarlo libero con la condizione di non
incorrere più in quelli che erano i reati contestati.
Il dialogo inizia con Socrate che distingue fra l'argomentazione strumentale, sofistica, finalizzata a prevalere
sull'interlocutore, e l'argomentazione volta a cercare la verità. Egli infatti dice che si impegna a dire la verità,
non a parlar bene. Si tratta di una distinzione morale, che dipende dalle intenzioni dell'oratore. Ma queste
intenzioni hanno una ricaduta anche sulle modalità di discussione e di comunicazione del sapere.
→ S. si definisce straniero in quel luogo.
Le accuse
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Socrate ritiene che le accuse più antiche siano anche le più gravi e pesanti perché c’è stato il tempo
per diffonderle e insediarle nelle menti delle persone e perché sono mosse da interi gruppi di
cittadini, ma da nessuno in particolare.
Gli accusatori più antichi presentano Socrate come un filosofo naturalista (“indaga sulle cose
celesti e su quelle che sono sotto terra”) e come un sofista (“rende migliori anche le ragioni
peggiori e si fa pagare per i sui insegnamenti”).
Scrivo le accuse alla lavagna
Il testo dell'Apologia riprende anche nei termini quello che Aristofane aveva derisoriamente messo in bocca
a Socrate nella sua commedia del 423 a.C., intitolata Nuvole (vv. 264-266). Questa commedia rappresenta
Socrate come sofista e filosofo naturale, che vive in una casa chiamata phronisterion (pensatoio) e insegna
al "discorso ingiusto" a prevalere sul "discorso giusto".
Ma, riferisce Socrate, questa sua immagine - espressa da Aristofane con geniale efficacia comica - era
dovuta a una serie di dicerie diffuse, e per questo cercare di smentirla è come "combattere con l'ombra".
Socrate è nel cuore della città quando si tratta di discutere con le persone, per scuoterle delle loro certezze
acritiche, ma le è estraneo quando non ha nessuno con cui dialogare: quando, cioè, le certezze diffuse, per
la loro impersonalità, non hanno un vero e proprio rappresentante individuale.
Socrate è un filosofo morale e non un filosofo naturale, per quanto non disprezzi la filosofia della natura, e
per quanto, a voler credere ad Aristotele e al Fedone platonico, si sia in gioventù dedicato a poco
soddisfacenti ricerche naturalistiche. Vale però la pena sottolineare che, nell'Apologia, Socrate non dichiara
mai di credere negli dei della città.
Il maestro però per concentrarsi sull’uomo abbandonò la metafisica (solo questo ha in comune con i
Sofisti), tanto meno si fa pagare. Socrate pensa che antiche ostilità siano la causa portante di tutte le
accuse che lo hanno portato in tribunale, ed è per questo che inizia a difendersi proprio da queste.
Da che cosa sono state originate le calunnie contro Socrate? Il filosofo racconta dell’oracolo della
Pitia, sacerdotessa di Apollo a Delfi: “Nessuno è più sapiente di Socrate”.
Socrate ricorda la testimonianza dell'oracolo di Delfi sulla sua sapienza poche righe dopo aver dichiarato che
la sua sapienza è soltanto umana. Dobbiamo dunque credere che il richiamo delle parole della Pizia - la
sacerdotessa che vaticinava a Delfi - sia solo un espediente retorico ad uso di un pubblico superstizioso?
Socrate non prende il responso dell'oracolo per buono, come avrebbe fatto un credente, ma cerca di capirne
il senso, usando la propria capacità di indagine. Quello che dice il dio può - e deve - essere vero, ma per noi
non ha nessun significato se non riusciamo a rendercene conto razionalmente.
Il vaglio della ragione comporta anche la possibilità di confutare il responso dell'oracolo. Socrate ha con il
divino un rapporto diverso da quello tipico del mondo antico, che comportava un do ut des con divinità
capricciose ed iraconde. Egli si permette di discutere un elogio dell’oracolo.
Il dio di Socrate è un attivatore dell'indagine razionale, un nemico della ragione pigra o asservita, e gli
impone un compito durissimo. quello di obbedire a lui piuttosto che agli uomini. La conoscenza che cerca
Socrate è un sapere completamente liberato dal potere, che inizia, non a caso, con una fortissima
confessione di debolezza, cioè con una professione di ignoranza senza compromessi.
Leggo ad alta voce alcune righe salienti del testo, in cui Socrate dichiara di aver
capito che egli è il più sapiente perché sa di non sapere.
S. si reca dai politici e poi dai poeti per verificare la veridicità dell’oracolo. Il poeta, nella tradizione orale, non
ha la funzione di creare o di conoscere per proprio conto, ma quella di ricordare: di comporre, dunque, sotto
dettatura, per ricevere una sapienza diffusa e impersonale. Non a caso le divinità ispiratrici dei poeti sono le
Muse, figlie di Apollo e di Mnemosyne, dea della memoria. Per Socrate, di contro, i segni dell'oracolo non
trasmettono un dettato divino, ma impongono un compito enigmatico, che chiama in causa l'indagine critica.
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La sophia di Socrate, che si acquisisce tramite un percorso e un impegno personale - perfino quando si ha a
che fare con oracoli - è completamente diversa dalla physis e dall'enthousiamos del mondo dei poeti, che
presuppone moralmente, socialmente e cognitivamente, passività e predeterminazione.
S. poi si reca dai lavoratori manuali. Con la parola cheirotechnes si intende chi esercita un'arte o una tecnica
manuale. Techne, infatti, copre lo spettro semantico sia della nostra "arte" sia della nostra "tecnica", che non
sono distinte: lavoro manuale, lavoro ingegneristico e lavoro artistico convivono in un solo concetto. Socrate
riconosce, nel cheirotechnes, una sapienza di settore, che però rischia di diventare presunzione quando
pretende di ergersi a sapienza complessiva. I tecnici/artisti fanno, nella disamina socratica, la figura migliore.
La techne di cui parla Socrate, consapevole del suo carattere di sapere parziale, è a un tempo manualità,
arte e tecnica, e non cieca esecuzione di progetti teorici; è, dunque, una modalità di relazione con il mondo
che presuppone una consapevolezza critica del tutto assente nei poeti, per esempio, e che ha la sua dignità.
Che un lavoro manuale possa avere una dignità, è, peraltro, un'idea piuttosto originale nel mondo antico.
Dopo quasi due millenni di cristianesimo, l'idea che la sapienza degli uomini sia nulla davanti a Dio potrebbe
sembrare un semplice pensiero edificante, ma in mano a Socrate non comporta né una devozione quietistica
né un fatalistico "lasciar essere l'essere", bensì un impegno etico: nessun sapere è tale quando è acquisito e
condiviso, ma solo quando è esaminato e discusso. Questo impegno rende Socrate odioso ai suoi
concittadini: è facile essere amici di chi condivide le nostre opinioni; meno facile condividere, in luogo delle
opinioni, la ricerca.
Socrate continua a ironizzare contro lo stile sofistico, sminuendo le proprie doti retoriche. Possiamo vedere
anche questo come un'ironia complessa: lo stile argomentativo di Socrate, così diverso da quello dei sofisti e
degli oratori, lo porterà a perdere il processo, ma, in un senso più profondo, ad accertare la verità.
Sembra che S. guardi i suoi avversari dall’alto in basso, e che tenga più a chiarire le ragioni lontane di
un’ostilità collettiva, che non a rispondere direttamente ai capi d’accusa.
La provocatoria baldanza di S. è evidente, ma per alcuni non è intenzionale.
La "maniera" di Socrate è l'élenchos, cioè la confutazione di tesi affermate da altri. Le sole limitazioni che
Socrate - il Socrate dei dialoghi giovanili di Platone - pone ai suoi interlocutori sono quella di dire solo ciò
che credono, cioè di esporre le loro vere opinioni, e di farlo brevemente. Questa "maniera" comporta la
rinuncia alla certezza assoluta, a favore di una ricerca morale della verità che ha bisogno del convincimento
delle persone con cui si discute, come si può vedere dal Gorgia. E ha come presupposto non espresso l'idea
che in ciascuno ci sia un germe di verità tale da poter essere portato alla luce mostrando che le opinioni
false presenti in tutti sono in contraddizione non solo fra loro, ma con la persona che ne è portatrice.
Socrate, dicendosi un oratore modesto, sta tentando di trascinare il pubblico sul suo terreno abituale. Ma nel
contesto giudiziario, occorre convincere i giurati e non cercare la verità a partire da quello che si crede:
questo, anzi, è il capo d'accusa da cui Socrate dovrebbe scagionarsi. L'Apologia di Socrate, nella sua
interezza, è un esempio di ironia complessa, ad opera e spese del suo protagonista: Socrate si difende,
ma la sua stessa autodifesa è una rappresentazione esemplare della sua colpevolezza filosofica.
Perché i giovani preferiscono pagare i sofisti, anziché farsi istruire gratis dai concittadini? Il mercato dei
sofisti sembra denunciare l'incapacità della città e dei cittadini di fornire un sapere gratuito, per quanto la
polis democratica intendesse se stessa come spazio comune di educazione. Agli occhi dei conservatori
ateniesi, la sofistica era causa di corruzione; ma l'osservazione di Socrate ci suggerisce che è possibile
vederla, piuttosto, come un sintomo. Il mercato del sapere si fonda sull'ignoranza.
A ben guardare, il non saper insegnare di Socrate è la sua dote più pericolosa e più scomoda. Vendere e
comprare conoscenze, come se fossero oggetti commerciabili, è qualcosa di rassicurante, così come sono
rassicuranti i contratti e gli scambi basati sul do ut des. Non solo ci si può nutrire dell'illusione di acquistare
conoscenza semplicemente pagando, ma soprattutto ci si può cullare nell'idea che lo stesso sapere sia
inserito in un sistema, il mercato, che sceglie e determina i valori per noi, e che ci esonera dal pericolo delle
relazioni e delle discussioni faccia-a-faccia.
In questa prospettiva, Socrate è fastidioso sia perché rifiuta di vendere la sua conoscenza, e dunque di
entrare nel sistema, sia perché prende tanto sul serio i propri interlocutori da mettere in discussione le loro
certezze acquisite con la durezza imbarazzante della prova elenctica.
Gli accusatori recenti sono invece: Meleto, Anito (leader democratico) e Licone: accusano Socrate
di corruzione dei giovani, di non riconoscere gli dei della città e di volerne introdurre di nuovi.
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In questa seconda parte del discorso di difesa, Socrate intraprende una sorta di dialogo direttamente
con il suo principale accusatore. Attraverso un fitto interrogatorio, come solitamente faceva, Socrate
smonta una ad una le accuse costringendo il suo avversario ad ammetterne indirettamente
l’infondatezza.
Scrivo alla lavagna le nuove accuse a Socrate.
L’accusa di corruzione dei giovani scaturisce dal fatto che durante i suoi dialoghi il maestro era
seguito da molti giovani che desideravano seguire i suoi insegnamenti e cercavano di imitarlo.
Socrate comincia col discutere intorno all’educazione dei giovani ed in particolare si chiede a chi
debba essere affidato questo compito; con alcune domande costringe Meleto ad affermare che sia
compito di ogni ateniese formare culturalmente i giovani, ma il filosofo è proprio colui che
minaccia la sua integrità. Aggiunge inoltre di non possedere alcuna verità da insegnare, perché
ognuno ha già in sé una propria verità; il suo compito è semplicemente quello di stimolare
l’interlocutore per aiutarlo a (come disse Socrate) “partorirla” (attraverso la maieutica socratica).
Socrate afferma che, se corrompe i giovani, non è possibile che lo faccia volontariamente: corrompere le
persone significa renderle malvagie, e dunque esporsi al rischio di venirne danneggiati. Tutt'al più, una simile
azione può essere compiuta involontariamente, e dunque non può essere sanzionata penalmente. La
sanzione penale, infatti, ha senso solo per le azioni volontarie, ma non serve a render consapevole chi
sbaglia involontariamente delle ragioni del suo errore.
L'argomento di Socrate è un corollario della sua equiparazione della virtù a conoscenza: chi sbaglia lo fa
senza consapevolezza, e dunque senza intenzione di sbagliare. Perciò, non ha senso punirlo, quando si
dovrebbe piuttosto discutere con lui, per renderlo avvertito del suo errore.
Insisto sul concetto esposto nelle righe precedenti perché non è chiaro ai ragazzi.
L’imputazione di empietà invece si articola in due accuse: quella di ateismo, viene contraddetta e
annullata dalla successiva legata all’introduzione di nuove divinità. È detto che Socrate non creda
agli dei della città. Socrate raccontava di sentire dentro sé la voce di un demone che, da quando
aveva accolto la rivelazione dell’oracolo di Delfi, suggerisce e giudica le sue azioni. Il demone più
che come un essere divino può essere interpretato come un espressione di una forte coscienza
interiore. In ogni caso il ‘segno demoniaco’ che avverte Socrate è ben lontano dalla nuova divinità
che voleva far credere Meleto.
Proprio in questa incongruenza Socrate attacca il suo accusatore. In questo modo dimostra ai giudici
che le ultime due accuse rappresentano una contraddizione in termini.
Il daimonion di cui si parla nell'Apologia è l'aggettivo neutro che viene da daimon (da daiomai: dispenso, do
in sorte) , una creatura divina non necessariamente malevola, che presiede alle sorti degli uomini. Un
daimon è contenuto nella parola eudaimonia (felicità), che significa, etimologicamente qualcosa come: "un
buon daimon governa il mio destino". Il demone non è un’entità che dice a S. di fare qualcosa, ma piuttosto
lo frena a compiere alcune azioni (come ad esempio l’entrare in politica).
L’ultimo appello di Socrate
Alla lettura della sentenza Socrate, riconosciuto colpevole, lancia un ultimo appello. Il maestro
spiega perché sceglie di continuare la sua ricerca pur sapendo che lasciar perdere gli avrebbe
salvato la vita. Lo fece perché pensava che la vita lontana dalla strada indicatagli dal dio, sarebbe
stata una vita non vissuta, quindi inutile. Continuò ad interrogare i suoi concittadini, a pungolarli
per mostrare loro l’importanza della sua missione; continuò a mettere tutto in discussione, a non
accettare nulla come verità definitiva restando coerente alla sua filosofia.
Platone pone in evidenza il fatto che la vittima non è solo Socrate, ma tutti i suoi concittadini
ateniesi. Con questo discorso Socrate vuole soltanto convincere i giudici della verità, infatti
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“l’importante non è indurre il giudice ad assolverci, ma persuaderlo della nostra innocenza,
facendolo agire secondo giustizia”.
Socrate si dimostra fermamente convinto di questo, non cerca mai la pietà dei giudici; nei processi
ad Atene era uso degli imputati portare in tribunale i propri figli, i familiari a piangere di fronte ai
giudici per supplicare clemenza e spesso impietosire la corte poteva alleviare la pena e salvare la
vita al condannato a morte. Socrate rifiuta di sottostare ad una simile consuetudine perché la
considera offensiva per la propria persona e screditante per la dignità della città, senza contare il
fatto che gli stessi giudici avrebbero dovuto agire secondo giustizia e non sotto la pressione di un
sentimento di pietà.
Vivere amando la sapienza, ed esaminando se stessi e gli altri mette Socrate al di sopra di qualsiasi
manipolazione esterna: ma in una città in cui la convivenza è assicurata dagli interessi e dalla paura del
giudizio degli altri, una persona che non è manipolabile è un cittadino cattivo e pericoloso. Anche perché
l'attività di Socrate non è tale che si possa esercitare, come vorrebbero certi liberali moderni, un una zona
privata, ma è per sua natura pubblica e dialogica. Un impegno alla conoscenza e all'esame critico che si
ponga dei confini tradisce, semplicemente, se stesso. Per questo Socrate deve dichiararsi non solo
colpevole, ma intenzionato a perseverare nel suo comportamento.
Socrate, qui, non ha una teoria metafisica dell'immortalità dell'anima: sta solo dicendo che, dovendo
scegliere fra un male non morale di statuto incerto (la morte) e un male morale certo (l'ingiustizia), preferisce
il primo corno del dilemma.
Socrate, da come descrive il suo rapporto con la città di Atene, non è un pensatore antidemocratico: sembra
piuttosto pensare che una democrazia che non pratichi l'autocritica e che tratti il sapere come un bene
commerciabile, riservato a pochi, è una democrazia che sonnecchia. La scelta di povertà compiuta da
Socrate, il suo offrire gratis un sapere che altri vendevano a caro prezzo, non è né un elemento marginale
né una captatio benevolentiae; è un porsi consapevolmente nell'agorà, ma "fuori mercato".
Dal momento che i processi ateniesi si svolgevano davanti a una giuria popolare, l'appello alla pietà dei
giudici era un espediente avvocatesco diffuso e accettato. In particolare, spettava ai giudici definire, di volta
in volta, che cosa si dovesse intendere per empietà. Una difesa accorta avrebbe dovuto cercare di rendere
ben disposti giudici con un così alto potenziale di arbitrio, manipolandoli emotivamente. Socrate si rifiuta di
farlo, adducendo la sua fede negli dei. In questo modo, però, dimostra una volta di più che i suoi dei non
sono gli stessi dei della città. La religione della città era un complesso di pratiche per impietosire gli dei e
renderseli amici, più o meno come facevano, senza scandalizzare nessuno, gli imputati con i giudici
popolari.
La condanna
Al momento della votazione da cui dipenderà la sua vita Socrate si accorge del numero esiguo di
voti a suo sfavore “…se trenta voti soltanto fossero caduti dall’altra parte sarei stato assolto…” .
Meleto chiede per Socrate la pena di morte (inizialmente non desiderava la sua morte, ma intendeva
soltanto spingerlo alla fuga da Atene nei giorni che precedevano il processo) poi i giudici, come era
consuetudine, chiesero al condannato di proporre una pena adatta alla propria colpa.
Questi, dopo aver ragionato dichiarando di essere sempre vissuto per gli altri ed in funzione della
città, afferma che non potrebbe proporre altro che una ricompensa; dice questo non senza una punta
di ironia, infatti subito dopo passa in rassegna possibili pene che siano accettabili anche per i
giudici. Potrebbe proporre di andare in esilio oppure di rinunciare ad ogni attività, ma ciò
significherebbe per lui disubbidire alla missione affidatagli, e andare contro alla sua natura e a tutto
ciò in cui crede. Per questo l’unica pena accettabile secondo Socrate è una multa proporzionata alle
sue disponibilità, o magari più congrua da pagare con l’aiuto dei suoi discepoli.
L’ultimo discorso di Socrate è rivolto a coloro che lo hanno giudicato colpevole. Il maestro dice che
è stato condannato, non perché non avesse ragione o perché non avesse detto la verità, ma ciò è
accaduto perché non aveva usato la sfrontatezza dei suoi accusatori.
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Platone sottolinea il senso di questo discorso “bisogna salvarsi dal male e non dalla morte”. A
questo aggiunge una sorta di predizione, dica che negli anni a venire altri percorreranno la sua
strada e non sarà possibile eliminarli tutti, la giusta cosa per liberarsi da colui che rimprovera i
comportamenti scorretti è comportarsi correttamente.
Le sue ultime parole furono “è un bene che io muoia in quanto anche dopo la morte continuerò nella
mia ricerca senza il limite di essere condannato a morte”.
L’ingiusta condanna l’ha fatto paragonare a Gesù.
Dunque Melèto, l'accusatore ufficiale di Socrate, ha ottenuto, grazie all'appoggio politico di Anito e Licone,
280 voti su 500.
Il Pritaneo (in cui provocatoriamente S. chiede di poter stare per un anno) era la sede di pritani; essere
mantenuti a vita nel Pritaneo era un'onoreficenza accordata a cittadini particolarmente meritevoli (generali
vittoriosi, olimpionici etc.). Socrate non rinuncia ad essere ironico, per quanto consapevole che la sua ironia
gli costerà la vita. Aveva infatti facoltà di proporre una pena alternativa a quella suggerita dal suo
accusatore, ma egli, dicendosi al massimo disposto a pagare una ammenda, si rifiuta di proporre una
opzione praticabile per giudici intenzionati a metterlo a tacere.
L'idea che una vita senza esame non meriti di essere vissuta è il lato forte della professione di ignoranza
socratica: Socrate è ignorante nel senso che non ha certezze teoriche che si possano dare per acquisite, ma
non lo è, nel senso che possiede una certezza pratica incrollabile, l'impegno ad esaminare rigorosamente e
personalmente ogni nozione e ogni valore. Questo distingue l'ignoranza socratica - per la quale si può
affrontare serenamente la morte - dal semplice scetticismo.
Gli Ateniesi che hanno condannato Socrate hanno fatto ricorso al diffuso espediente di esorcizzare un
problema morale diffamando ed eliminando la persona che lo pone. Socrate fa notare che sopprimere lui per
non dover più fare i conti con i suoi argomenti, non sopprime affatto i suoi argomenti, né ne indebolisce la
forza
Socrate non sa con certezza che cosa sarà di lui dopo la morte. Ma l'aspetto interessante dell'ipotesi
alternativa alla dissoluzione è che l'oltretomba appare, rispetto alla vita, come il luogo della verità e non
come il tradizionale regno delle ombre, di vacue ed evanescenti parvenze di una vita perduta. I morti,
essendo al di là di ogni timore, non sono manipolabili dalla comunità politica, dall'opinione pubblica e dalle
convenzioni sociali. Questo tema viene ripreso nei due grandi miti che concludono, rispettivamente, il Gorgia
e la Repubblica: il giudizio dei morti e il racconto di Er.
Il congedo di Socrate dal mondo dei vivi è fortemente antitragico. L'eroe tragico muore solo, e soffrendo per
il suo isolamento dalla comunità, dalla quale si distingue in quanto eroe. Socrate si accomiata
serenamente, lasciando chi rimane al mondo nel dubbio: senza la conoscenza, la stessa vita non ha
valore, e si può abbandonare senza troppi rimpianti. Il filosofo ha bisogno della città, perché la sua ricerca
non è autosufficiente, bensì ha luogo in una comunità; ma non può vivere in una città che non accetti questa
ricerca.
L'ironia, nel suo senso primario di dissimulazione (nel greco del V secolo), era una figura retorica di cui
erano vittime predilette gli eroi tragici. Essi venivano ingannati da situazioni di cui non avevano il controllo e
da cui rimanevano schiacciati: Edipo, per esempio, cerca con zelo il colpevole dell'assassinio del padre Laio,
senza sapere che sta cercando se stesso. In mano a Socrate, l'ironia diventa una figura non dell'impotenza,
ma della sophrosyne: conosco tanto bene me stesso da non vantarmi di un sapere che non possiedo, ma la
mia "ignoranza" è così forte da permettermi di affrontare la morte, e di farlo serenamente.
Classe: III A
Data: 21 ottobre
2008
Titolo della lezione:
L’Apologia di
Socrate di Platone
Durata: 1 ora e
mezza
Quali contenuti erano stati preparati? Vedi pagine precedenti
Con quale organizzazione logica? Vedi pagine precedenti
8
Con quali attività e mediazioni didattiche? vedi pagine precedenti
Con quali strumenti e materiali? Con quali testi? vedi pagine precedenti
Quali contenuti sono stati effettivamente presentati? Perché? Sono riuscita a presentare
interamente la lezione.
Quali modifiche è stato necessario apportare all’ordine logico della presentazione?
Perché? Non ho dovuto apportare modifiche rilevanti
Quali attività sono state effettivamente realizzate? Perché? Parziale dialogo con gli
studenti che non si facevano problemi a fare domande
Quali strumenti, materiali e testi sono stati effettivamente utilizzati? Perché? Ho solo letto
un paio di brevi frasi dal testo, tratti dalla parte che i ragazzi avrebbero ricevuto in
fotocopia
Quale giudizio è possibile dare sulla lezione in termini di completezza, chiarezza, fluidità?
Credo che sia stata chiara (ho cercato di essere abbastanza schematica), anche se
ovviamente si sarebbero potute dire in più anche altre cose.
Gli studenti hanno seguito le spiegazioni? Con quale grado di attenzione? Con quale
durata? Sono stati presi appunti? Come? Ci sono stati comportamenti di disturbo?
Perché? Gli studenti hanno seguito con attenzione, mi sembra che quasi tutti
prendessero appunti. Nessuno ha disturbato. Se mi sembrava che i ragazzi non stessero
seguendo ho rispiegato l’ultimo concetto, cercando anche di attualizzare.
Gli studenti hanno partecipato alle attività? Lo hanno fatto spontaneamente o sollecitati?
Ci sono state domande? C'è stata discussione? Chi ha partecipato che percentuale
rappresenta rispetto alla classe? Fondamentalmente gli studenti sono stati sollecitati ad
intervenire, ma in qualche occasione l’hanno fatto spontaneamente.
Gli studenti hanno richiesto il recupero di nozioni, concetti, metodi, presupposti dal
docente, ma non effettivamente posseduti? No.
Gli studenti hanno fornito degli spunti imprevisti per approfondimenti o interpretazioni
divergenti? No.
E’ stato possibile verificare il grado di apprendimento e di comprensione dei contenuti
trasmessi? Se sì, come può essere valutato? Lo si vedrà con la verifica futura
La classe o singoli studenti hanno manifestato interesse dopo la lezione per
approfondimenti o ampliamenti dei temi trattati? No
La lezione può essere riproposta negli stessi termini? In caso di risposta negativa, come
dovrebbe essere riorganizzata alla luce dell’esperienza fatta? Credo che sostanzialmente
possa essere riproposta negli stessi termini, magari avendo già il testo sottomano in
modo da poter leggere insieme ai ragazzi alcuni passi e quindi approfondire
maggiormente alcuni concetti (magari utilizzando 2 ore).
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