Volontà e Resilienza - Accademia per la Riprogrammazione

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ACCADEMIA PER
LA RIPROGRAMMAZIONE
DIRETTORE: PROFESSOR MARIO PAPADIA
Corso di counseling per la riprogrammazione
2011 - 2014
VOLONTÀ RESILIENZA RIPROGRAMMAZIONE
QUANDO RISALIRE SULLA BARCA ROVESCIATA DIVENTA OCCASIONE PER UNA
RIPROGRAMMAZIONE ESISTENZIALE
RELATORE: PROFESSOR MARIO PAPADIA
CANDIDATA: MAGDA TROTTA
[email protected])
(per il testo integrale contattare:
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Magda Trotta
2014
SOMMARIO
INTRODUZIONE
La scelta del tema – o, meglio, dei temi - di questo lavoro è stata il frutto di un
lungo e faticoso travaglio che mi ha portato a cambiare argomento alla fine del
corso, dopo aver - già nel settembre del 2013 - scelto e “dichiarato” di voler
affrontare altre tematiche.
Con il passar del tempo, però, ho cominciato a sentire la scelta iniziale sempre
più lontana dal mio ”sentire”. Mi sono, dunque, messa in ascolto per poter cogliere
il suggerimento che attendevo. In occasione dell’ultima lezione ho, dunque,
raccolto una sollecitazione del Professor Papadia (mi farebbe un regalo chi volesse
affrontare il tema della volontà!) grazie alla quale ho potuto individuare il primo
tema, quello della volontà. A questo primo tema mi è parso opportuno affiancare
quello della resilienza per i punti di contatto che – ritengo - leghino i due concetti.
Rispetto a questo secondo tema voglio precisare che, già prima di cominciare il
percorso di formazione per counselor, ne ero rimasta affascinata, tanto da volerne
approfondire la conoscenza. Questo lavoro me ne ha offerto l’occasione!
Lo stage di fine anno, infine, mi ha fornito le sollecitazioni e le suggestioni che
attendevo per completare la mia scelta e, dunque, per considerare la trattazione
della crisi come opportunità di cambiamento.
Indagando con maggiore attenzione la mia motivazione rispetto alla scelta dei
temi della volontà e della resilienza, ho trovato questa risposta: ne colgo la forza,
la potenza, la possibilità di far leva sull’una e sull’altra per accompagnare il cliente
nel percorso di cambiamento che la sua situazione richiede, ma che, soprattutto, il
cliente sente di voler affrontare. E’ all’una quanto all’altra che facciamo appello
quando arrivano il dolore e la sofferenza, esperienze alle quali la nostra fragilità, la
fragilità della condizione umana, ci espongono. Per ciascuno di noi può essere
diversa la causa, ma l’esperienza del dolore accomuna tutti. E con il dolore, al
quale tentiamo di resistere, arriva di frequente la crisi che – accade spesso –
trascende la situazione contingente, per “allargarsi” fino a diventare “esistenziale”.
A me è accaduto, come a tanti altri.
Nella mia esperienza la causa della crisi è stata quella del mancato coronamento
del sogno cui quasi tutte le donne aspirano: la maternità.
Con mio marito, che si è lasciato guidare da me, lasciandomi il potere, ma
anche la responsabilità di prendere ogni iniziativa, ci siamo inoltrati in un percorso
difficile e faticoso verso la genitorialità, anche adottiva, durato più di sei anni e
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conclusosi con un nulla di fatto. Ne siamo usciti distrutti, tanto da essere incapaci
di parlare del nostro profondo dolore, tanto tra di noi, quanto con gli altri.
Questa esperienza di maternità negata ha fortemente contribuito a minare le mie
certezze. Ho vissuto in uno stato di totale smarrimento - che è durato a lungo- e ho
provato il sapore del fallimento, io che non avevo mai mancato un obiettivo.
Quando sono riuscita a recuperare un po’ di energia, ho provato a reagire e mi
sono ritrovata a chiedermi “Come ricominciare, da dove, da cosa quando la vita ci
travolge? e ancora “a quali risorse è possibile attingere per non essere sopraffatti
dagli eventi negativi?”
Mi sentivo profondamente sola, immersa nel mio dolore, ma, pian piano, ho
cominciato a considerare che per me, come è capitato a quasi tutti, era arrivato il
momento che richiedeva un cambio di rotta, una profonda trasformazione, una
riprogrammazione.
La vita, prima o poi, chiama ciascuno di noi a misurarsi con l’imprevisto, la
fragilità della nostra condizione, il dolore e il fallimento. Tutti, prima o poi, siamo
chiamati a vivere, ad affrontare la nostra crisi, non possiamo evitarlo.
Quello che possiamo fare e non farci trovare impreparati.
Ma le crisi possono davvero diventare opportunità?
Credo di sì. E’ la mia esperienza, ma è anche l’esperienza di molti altri.
Quello che ho cercato di fare per reagire alla situazione di disagio e sofferenza
mi ha condotto – con naturalezza e senza che lo avessi considerato a priori– lì dove
non avevo programmato, consentendomi di arrivare ben oltre l’obiettivo di
superare la mia condizione di profonda frustrazione.
Grazie al fortunato incontro con l’Accademia per la riprogrammazione ho
avviato la mia personale riprogrammazione e, almeno inizialmente, ho creduto che
mi sarei accontentata di aver intrapreso il cammino per la costruzione di un nuovo
equilibrio e di una maggiore serenità, che mi sarebbe bastato avere una maggiore
consapevolezza delle mie risorse, quelle alle quali avrei potuto attingere per
affrontare i miei problemi. Ho realizzato, invece, man mano che mi addentravo
nella scoperta delle potenzialità del counseling, che il mio obiettivo iniziale si era,
in parte, trasformato e la riflessione di volere e potere fare del counseling la mia
nuova professione, quella della maturità, non solo anagrafica, mi ha condotto alla
decisione di “puntare” alla professione.
La mia dolorosa esperienza personale, il faticoso lavoro fatto per accettare e
superare il dolore, ma soprattutto la decisione di intraprendere un percorso
formativo indirizzato alla relazione d’aiuto, ha dato nuovo senso e slancio alla mia
vita e ha fortemente contribuito a generare quei cambiamenti dei quali sentivo di
aver bisogno.
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Oggi, accingendomi a chiudere la prima, fondamentale tappa del percorso che
mi permetterà di diventare un counselor e, dunque, di aiutare le persone in
difficoltà a trovare la strada per cambiare in meglio la propria vita, sono convinta
che le dolorose esperienze del mio vissuto, oggi in buona misura elaborate, mi
possano essere utili - nella relazione d’aiuto - ad entrare in risonanza con le
sofferenze altrui.
Naturalmente, oltre all’empatia, un buon counselor deve poter contare su tutta
una serie di strumenti per aiutare il proprio cliente a riconoscere, utilizzare e
rinforzare la possibilità di trasformare le avversità in opportunità, avviando, così,
quel cambiamento evolutivo che, sostenendo la volontà e promuovendo la
resilienza, possa accompagnarlo nella sua personale riprogrammazione.
Ho scelto di introdurre i temi che saranno oggetto di questo mio lavoro
riportando alcune frasi e/o aforismi su volontà e resilienza
Per la volontà ho scelto le seguenti frasi:
E'
la
volontà
Friedrich von Schiller
che
fa
l'uomo
grande
o
piccolo.
Dove c'è una grande volontà non possono esserci grandi difficoltà.
Niccolò Machiavelli
Si dice che il desiderio è il prodotto della volontà, ma in realtà è vero il
contrario: la volontà è il prodotto del desiderio. Denis Diderot
Sappi volere. La volontà è il mezzo più potente per chi sa valersene.
Quest’ultima frase potrebbe essere di Amedeo Rotondi, noto con lo pseudonimo
di Amadeus Voldben, scrittore e filosofo, studioso di esoterismo e tematiche
spirituali, ma non sono riuscita ad appurarlo con certezza.
La frase ha in sé potenza e fascino e non ho voluto rinunciarci, pur non potendo
avere certezza della sua paternità!
Per la resilienza ho scelto solo due definizioni che ritengo essere
significativamente “descrittive”:
Qualcuno, proponendo un collegamento suggestivo tra il significato originario
di "resalio", che connotava anche il gesto di risalire sull’imbarcazione capovolta
dalla forza del mare, definisce la resilienza “l’arte (o la capacità) di risalire sulla
barca rovesciata”
Per Boris Cyrulnik, psichiatra e psicanalista, la resilienza è ” l’arte di navigare
sui torrenti”.
Mi piaceva l’idea di introdurre questo mio lavoro riportando, anche se in modo
estremamente sintetico, il pensiero di grandi “maestri” e così ho deciso di
prendermi questa libertà, prima di addentrarmi nella mia personale “esplorazione”.
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Venendo, dunque, al mio lavoro ecco alcuni brevi cenni sulla sua
organizzazione.
I primi due capitoli, dedicati rispettivamente alla volontà e alla resilienza,
sono frutto di una ricerca bibliografica , condotta prevalentemente attraverso la
rete, partendo dalla quale ho potuto approfondire le tematiche trattate utilizzando i
testi indicati in bibliografia. La finalità di tale ricerca è stata quella di offrire al
lettore definizioni, analisi ed indicazioni elaborate da autori accreditati da cui
partire per proporre le mie personali riflessioni e conclusioni.
Nel capitolo sulla volontà – in chiusura, quasi a voler creare un ponte ideale tra
il più antico pensiero filosofico e il pensiero più vicino alla nostra realtà
contemporanea - ho voluto inserire alcuni riferimenti alle conclusioni alle quali, su
tale tema, è giunto Roberto Assagioli che, tra gli autori che hanno focalizzato
maggiormente l’attenzione sullo studio e sull’attivazione della volontà, è
considerato una figura di spicco.
Il terzo capitolo contiene un approfondimento sul modello di counseling
dell’Accademia - quello della riprogrammazione - ed è dedicato al tema della
crisi che diviene occasione di riprogrammazione e, dunque, opportunità –
opportunità per mettersi in gioco pienamente, opportunità per scoprire o riscoprire i
propri talenti e le proprie risorse, opportunità per cambiare. In questo capitolo
vengono ripresi i temi della volontà e della resilienza, “riproposti” quali programmi
che determinano l’agire della persona e sui quali si ritiene possibile operare
interventi di riprogrammazione. Ma tale capitolo è anche frutto delle mie
esperienze, del mio vissuto e - soprattutto - del percorso personale e di
formazione fatto in Accademia, sotto la sapiente e attenta guida del nostro
formatore, il Professor Papadia, al quale va la mia più sincera e profonda
riconoscenza per avermi offerto l’occasione - e gli strumenti - per essere quello
che oggi sono diventata.
Il lavoro si chiude, infine, con brevi conclusioni nelle quali ho provato ad
esplicitare le ragioni per la quali la professione di counselor avrà (o dovrebbe
avere) una diffusione sempre maggiore per aiutare a risalire sulla barca rovesciata
tutti coloro caduti in mare a causa delle tempeste della vita.
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CAPITOLO 1 - LA VOLONTÀ
1.1 CONSIDERAZIONI INIZIALI
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Chi scrive, che nel proprio percorso formativo non ha mai avuto occasione di
studiare in maniera “strutturata” una materia tanto affascinante quanto complessa
quale la filosofia, ha deciso, ciononostante, di accettare una sfida di non poco
conto.
Non è stata un’impresa facile, tuttavia è stato davvero avvincente per me
addentrarmi in una realtà a me quasi sconosciuta. La scoperta e il tentativo di
approfondimento di alcuni concetti, a me assolutamente ignoti (mi riferisco, in
particolare, alla volontà di potenza) hanno rappresentato per me un’occasione di
profonda riflessione, occasione questa che ha avuto quale conseguenza un
cambiamento che non avrei mai immaginato potesse derivare dall’elaborazione di
un testo di studio. Esco da questa esperienza con una carica di energia tanto
inattesa quanto utile per affrontare il percorso in salita di fronte al quale, proprio
nel tempo di elaborazione del presente lavoro, la vita mi pone di fronte.
Ho cercato di approcciare tutti gli argomenti trattati – alcuni dei quali
indubbiamente complessi – con rigore, pur nella consapevolezza dei miei limiti.
Spero che il risultato sia apprezzabile. Al lettore più esperto sui temi filosofici
chiedo fin d’ora comprensione per eventuali inesattezze.
1.2 DEFINIZIONE
Prima di addentrarmi nella trattazione filosofica - che occuperà buona parte del
capitolo sulla volontà - partirei dalla definizione “moderna” di tale termine,
richiamandone più d’una.
La volontà viene definita:
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La facoltà e la capacità di volere, di scegliere e realizzare un comportamento
idoneo al raggiungimento di fini determinati (enciclopedia on line Treccani );
la capacità di decidere e agire in modo da raggiungere il proprio scopo
(Sabbatini Colletti);
la capacità di volere, la facoltà di decidere consapevolmente il proprio
comportamento in vista di un dato scopo (Garzanti).
Le definizioni sopra riportate fanno chiaramente riferimento alla determinazione
intenzionale e fattiva del soggetto che, per il raggiungimento di un preciso scopo,
pone in essere azioni finalizzate al raggiungimento di tale scopo.
Se le definizioni dell’era contemporanea non sembrano presentare troppi
problemi visto che – pur con sfumature differenti - sembrano convergere verso
intenzioni e conseguenti azioni finalizzate al raggiungimento di fini o scopi, se
consideriamo il concetto di volontà sul piano filosofico il discorso cambia e di
parecchio.
1.3 SVILUPPO DEL CONCETTO DI VOLONTÀ IN FILOSOFIA: BREVI CENNI
Nel linguaggio filosofico con il termine volontà si intende far riferimento al
principio di libera causalità che sfugge alla sequenza causale della necessità
naturale. Il volere è la facoltà che inaugura l’azione, un principio spirituale che, in
quanto atto di libertà, è sottratto alla catena delle cause e degli effetti.
Nella tradizione filosofica, dunque, il concetto di volontà è legato al concetto di
libertà. Quando si parla di volontà, dunque, si fa riferimento al libero volere, alla
libertà del soggetto, ma cominciano già qui le prime difficoltà perché è indubbio
che il termine libertà è uno dei più oscuri ed ambigui, e non soltanto nel linguaggio
filosofico.
Il tema del rapporto tra volontà e libertà ha radici profonde nella teologia e nella
filosofia dell’Occidente ed ha attraversato secoli di storia per giungere fino a noi.
Qui di seguito si propone una breve ricostruzione del pensiero filosofico sul tema
della volontà e sul suo rapporto con il concetto di libertà.
Il concetto di volontà è stato a lungo dibattuto in ambito filosofico soprattutto
nel suo rapporto con la ragione e ad esso si è legata l’interpretazione di altri due
concetti fondamentali: quelli di libertà - come già detto - e di virtù.
Secondo il pensiero greco la volontà è subordinata alla ragione ed è strettamente
dipendente dalla conoscenza: per Socrate (470/469 - 399 A.C.) l’azione malvagia
si spiega con l’ignoranza poiché la volontà tende - di per sé - al bene e dipende
dalla conoscenza di questo.
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E’ la visione intellettualistica della volontà che è condizionata dal sapere:
l’uomo, per sua natura, è orientato a scegliere ciò che è bene per lui e se non
sceglie il bene è solo perché non lo conosce. Il male, in questa visione, non dipende
da una libera volontà, ma è la conseguenza dell’ignoranza umana che scambia il
male per bene.
Questo aspetto dell’etica socratica viene approfondito da Platone (427 - 347
A.C.) che arriva a sostenere che la volontà ha quale unico suo oggetto il bene; il
male, invece, è un non essere e, dunque, non si può scegliere ciò che non è.
Aristotele (384 - 322 A.C.) affronta il problema della natura del volere in una
prospettiva naturalistica e psicologica, ponendo nell’uomo il principio tanto del
bene, quanto del male. Per Aristotele l’azione dell’individuo può essere considerata
volontaria e libera se non nasce da condizionamenti esterni e se è predisposta a
seguito di un’adeguata conoscenza di tutte le circostanze particolari che riguardano
tale scelta; quanto più accurata sarà l’indagine svolta, tanto più libera potrà essere
considerata la scelta corrispondente.
Un rapporto di subordinazione della volontà alle facoltà conoscitive dell’uomo
si ritrova anche in altre dottrine etiche antiche, orientate verso l’ideale
dell’affrancamento dagli sconvolgimenti della volontà.
Il tema della volontà del saggio che aderisce perfettamente al suo dovere
(kathèkon) obbedendo ad una forza che agisce dal suo interno è centrale nello
stoicismo. Tutto avviene secondo necessità e la volontà consiste nell’accettare il
destino, qualunque esso sia, anche perché si è comunque destinati a farsi trascinare
da esso.
Questo è anche il senso della famosa metafora stoica che paragona la relazione
uomo-Universo a quella di un cane legato ad un carro. Il cane ha due possibilità:
seguire armoniosamente la marcia del carro o resisterle. La strada da percorrere
sarà la stessa in entrambi i casi, con la differenza che chi si adeguerà all'andatura
del carro avrà un tragitto armonioso; chi, invece, opporrà resistenza, avrà un
tragitto e un’andatura tortuosi e sarà trascinato dal carro contro la sua volontà.
L'idea centrale di questa metafora è espressa in modo sintetico e preciso da
Seneca (4 A.C. - 65 D.C) quando sostiene: «Ducunt volentem fata, nolentem
trahunt» (Il destino guida chi lo accetta e trascina chi è riluttante).
Plotino (204/203 D.C. - 269/270 D.C.), massimo esponente del neoplatonismo,
analogamente a quanto afferma Platone, sostiene che il male non ha consistenza
essendo solo una privazione del bene che è l’Uno assoluto. La volontà, quindi,
consiste nella capacità dell’uomo di ritornare all’origine indifferenziata del tutto
attraverso l’estasi che, però, non può essere mai il risultato di un’azione pianificata.
Plotino rivaluta il procedere inconscio partendo dalla considerazione che il
pensiero puramente logico e cosciente non è sufficiente per risalire verso
l’intelligibile.
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Alcuni autori considerano questo filosofo il precursore della psicanalisi e lo
scopritore dell'inconscio. Con la sua teoria della doppia anima (quella superiore rivolta all'intelletto - e quella inferiore - rivolta al mondo terreno) Plotino formulò,
infatti, le prime ipotesi sui processi non coscienti dello spirito, giungendo a definire
due forme di pensiero distinto: il pensiero "intellettivo" e “intuitivo”, collegato alla
contemplazione di archetipi, e il pensiero "discorsivo" che spesso coincide con ciò
che noi chiamiamo "conscio".
Nella tradizione teologica cristiana la volontà è libera perché l’uomo è
considerato responsabile delle proprie azioni secondo la dottrina del libero arbitrio
che si giustifica nell’economia del peccato e della pena. Solo se la volontà è libera
è possibile attribuire l’azione negativa, il peccato a colui che li compie. La teologia
cristiana accentuò l’aspetto volontaristico del neoplatonismo – a scapito di quello
intellettualistico – riprendendo da Plotino il concetto dell’origine imperscrutabile
della Volontà divina quale “Persona” che agisce intenzionalmente in vista di un
fine.
Il pensiero cristiano è il primo a riservare alla volontà, in quanto libera, un ruolo
cruciale. Alla volontà dell’uomo viene lasciata la decisione del suo conformarsi o
meno alla volontà divina. L’ambito della ragione, invece, viene riconosciuto come
limitato e insufficiente, mentre viene ampliato il raggio d’azione della volontà in
grado di condurre all’adesione alle Verità di fede indipendentemente dalle
conoscenze dell’intelletto.
San Tommaso d’Aquino (1225 - 1274), sulla scorta di Aristotele, definisce la
volontà dell’essere umano un appetito intellettivo, che potremmo definire un
desiderio, un tendere verso il fine ultimo, il Bene universale, conosciuto e valutato
come bene dal soggetto.
La volontà tende naturalmente al bene, ma nella sua esperienza l'uomo si deve
confrontare con una molteplicità di beni particolari; la determinazione del rapporto
tra questi beni e il Bene universale è libera ed è in questa determinazione che la
volontà si esercita come libero arbitrio.
La scelta, però, non è solo espressione della volontà; trattandosi, infatti, di
appetito intellettivo, in essa compartecipa l'aspetto intellettivo che la caratterizza
come attività esclusivamente umana.
Si viene così a delineare un rapporto particolare tra volontà e intelletto, poiché
l'intelletto vanta un primato rispetto alla volontà dal momento che essa tende ad un
bene (universale) che le viene indicato proprio dall'attività valutativa dell'intelletto
stesso; d'altro canto la volontà vanta il privilegio di non essere determinata
dall'oggetto particolare a cui viene indirizzata e per questo è libera di seguire o
meno le indicazioni dell'intelletto.
Per San Tommaso l’intelletto - in sé e per sé - è assolutamente superiore e più
nobile della volontà perché l’oggetto dell’intelletto è la stessa essenza del bene
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desiderabile, mentre il bene desiderabile, l’essenza del quale è nell’intelletto, è
oggetto della volontà. La volontà è superiore all'intelletto quando l'oggetto della
volontà è posto in una cosa più pregevole dell'oggetto dell'intelletto. La volontà si
esprime positivamente solo desiderando e raggiungendo il bene che l'intelletto le
presenta come vero.
Il concetto della volontà in quanto volontà libera subisce uno sviluppo
fortissimo nel pensiero moderno. E’ con Cartesio (1596 - 1650) che si ripropone
il problema del rapporto ragione / volontà.
Cartesio, da un lato, distingue intelletto e volontà, dall’altro considera la
volontà come sinonimo del libero arbitrio in quanto facoltà di estendersi oltre il
limite dell’intelletto generando, in tale maniera, l’errore e il male. Per Cartesio “la
volontà consiste solamente in ciò: che noi possiamo fare una cosa o non farla
senza sentirci costretti da nessuna forza esteriore. La volontà è origine dell’errore
perché è libera per sua essenza. La sua forma è la libertà: la volontà dice sì o no
oltre i limiti che la necessità dell’intelletto le porge”1. Cartesio, dunque, concepisce
la volontà come facoltà distinta e più estesa rispetto all’intelletto il cui assenso può
essere concesso pur in assenza di una conoscenza chiara e distinta delle cose. La
volontà è, dunque, la causa dell’errore sia teoretico che pratico. Cartesio identifica
la volontà con la libertà e considera la volontà una scelta impegnativa finalizzata a
cercare la verità tramite il dubbio. L’errore è causato da una cattiva volontà che
può costituire un ostacolo alla ricerca della verità.
Spinoza (1632 - 1677) chiama volontà quel principio - che si riferisce alla sola
mente - intrinseco all’essenza di ogni cosa (sforzo o conatus), mentre denomina
appetito ciò che è riferito all’insieme del corpo e della mente. Spinoza riprende il
tema stoico di un Dio immanente alla Natura, dove tutto avviene secondo necessità.
La libera volontà dell’uomo, dunque, altro non è che la capacità di accettare la
Legge universale ineluttabile che domina l’Universo.
Leibniz (1646 - 1716) sostiene l’idea della volontà come semplice autonomia
dell’uomo intesa quale accettazione di una legge che egli stesso riconosce come
tale, pur cercando di conciliarla con la concezione cristiana del libero arbitrio e
della conseguente responsabilità. Leibniz fa riferimento al concetto di monade
quale centro di forza dotato di una propria volontà; più monadi coesistono inserite in un quadro di armonia prestabilita dominata da una razionalità superiore,
voluta da Dio - per un’esigenza di moralità da comprendere in un’ottica finalistica
nella quale anche il male trova la sua giustificazione quale elemento che,
nonostante tutto, concorre al bene e che, all’infinito, si risolve in quest’ultimo.
Il grande passo compiuto da Cartesio nella direzione della distinzione tra
intelletto e volontà trova una sua sistemazione definitiva in Kant (1724 - 1804).
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Renato Cartesio, Opere filosofiche, Volume 2, Editori Laterza
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Con Kant la distinzione tra intelletto e volontà si traduce nella distinzione tra il
mondo dei fenomeni (la natura) e il mondo della ragion pratica.
La volontà è spontaneità, è libera causalità, capacità di sottrarsi al vincolo del
principio di ragione grazie alla propria energia originaria; è capacità di
ricominciare da sé. La definizione della volontà coincide con la definizione stessa
della libertà. Il mondo morale è il mondo degli esseri liberi. Per Kant la volontà è
lo strumento che ci permette di agire, obbedendo sia agli imperativi ipotetici (in
vista di un obiettivo), sia a quelli categorici (dettati unicamente dalla legge morale).
La questione è come e in quali condizioni la volontà possa costituire il principio
dell’agire morale, cioè se e come tale facoltà si lasci determinare dalla pura legge
della ragione - resistendo, dunque, agli stimoli della sensibilità che tendono a
condizionarla - oppure se essa possieda l’attributo della libertà.
Kant ritiene che la ragione faccia sentire la sua voce nella sfera dell’azione,
manifestandosi sotto forma di imperativo, quello che con un linguaggio comune
potremmo definire “voce della coscienza”; le manifestazioni della ragione sotto
forma di imperativi potrebbero essere espressi con il termine doveri.
Kant pensa che la ragione abbia una caratteristica fondamentale - l’universalità
- nel senso che essa è una facoltà presente in maniera identica in tutti gli uomini.
La morale kantiana è fondata sulla ragione ed è la ragione che, indicando la retta
via, può entrare in conflitto con desideri, sentimenti, gusti, passioni che il filosofo
definisce inclinazioni, inclinazioni capaci di indurre l’uomo ad allontanarsi dal
retto cammino.
La morale kantiana è, dunque, fondata sulla ragione che, come già sottolineato,
è universale, ed è essa stessa universale. Per Kant l’uomo deve ispirare la propria
azione non alla propria soggettività, ma alla propria interiorità, per meglio dire, a
quella parte della propria interiorità rappresentata dalla ragione.
Poiché la volontà - per sua costituzione oggettiva - non è necessariamente
determinata dalla legge oggettiva della ragione, può accadere che si aprano conflitti
tra volontà e ragione e tra volontà e imperativi/doveri. La ragione, nella concezione
kantiana, indica inesorabilmente il dovere, inteso come qualcosa di universale ed
oggettivo, ma la volontà potrebbe voler seguire le inclinazioni, invece del dovere
indicato dalla ragione, ecco perché la complessità dell’essere umano - all’interno
del quale agiscono facoltà diverse - deve essere “governata” dalla ragione.
Ma se la morale è dovere, allora come potrà l'obbligatorietà conciliarsi con
l'assoluta libertà formale della scelta? La risposta è nel concetto di autonomia.
La morale dell'essere razionale è tale che egli deve obbedire ad un comando
(obbligatorietà) che egli stesso si è liberamente dato (libertà), in modo conforme
alla sua stessa natura razionale. L'uomo che compie una determinata azione
secondo il dovere morale sa che, per quanto la sua decisione possa essere spiegata
naturalisticamente (anche con motivazioni psicologiche), la vera sostanza della sua
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morale non risiede in questa concatenazione causale, ma in una libera volontà che
corrisponde all'essenza razionale del suo essere.
L'uomo, dunque, appartiene a due mondi: a quello naturale - in quanto dotato di
capacità sensoriali - e sotto tale aspetto egli è sottoposto alle leggi fenomeniche; in
quanto creatura razionale, però, egli appartiene anche al mondo "intelligibile" (o
noumeno,
l’essenza pensabile, ma inconoscibile, della realtà in sé, in
contrapposizione a fenomeno), cioè al mondo com'è in sé e in esso egli è
assolutamente libero (autonomo), di una libertà che manifesta nell'obbedienza alla
legge morale, all'imperativo categorico.
Per Kant, dunque, libertà è equivalente di autonomia. Essa, però, più che
significare indeterminismo, sta ad indicare una specie particolare di
determinazione, nel senso che la legge cui l’uomo obbedisce nelle sue azioni non è
imposta dall’esterno, ma è egli stesso, nella sua qualità di soggetto morale, che la
impone a se stesso.
Per Kant la libertà etica è un postulato, una proposizione teorica che, pur
essendo in sé indimostrabile, deve essere ammessa perché abbia senso la libertà del
volere, necessaria per la stessa possibilità dell’azione morale. La libertà di cui parla
Kant non è un dono di cui la natura umana sia dotata, quanto piuttosto un compito,
il compito più arduo che l’uomo possa assegnare a se stesso, un’istanza
irrinunciabile, un imperativo etico.
Nel sistema filosofico di Fichte la volontà esplica un ruolo centrale.
Fichte (1762 - 1814), partendo dal primato della ragion pratica sulla ragion
pura di Kant, pone la volontà libera, l’Io pratico kantiano, alla base della stessa
attività teoretica dello spirito.
Anche Schelling (1775 - 1854), successore di Fichte, esalta la volontà come
assoluta attività dell’Io - o dello Spirito - in contrapposizione alla passività del
non Io - o della Natura - nell’ottica di un rapporto dialettico che si risolve nella
supremazia dell’etica per il primo, e dell’arte per il secondo.
Per Hegel (1770 - 1831) la volontà è la facoltà di autodeterminazione; essa non
è e non può essere in contrasto con la ragione, poiché con essa si identifica nel
momento della sua più completa realizzazione.
Dopo Hegel il pensiero filosofico ha interpretato la volontà ora alla luce del
concetto di prassi (come accade nel marxismo e nel pragmatismo), ora alla luce di
un volontarismo metafisico (la volontà di vivere di Schopenhauer), mentre
Nietzsche ha proposto, con la nozione di volontà di potenza, l’esaltazione massima
dell’energia vitale, volta a realizzare fini e valori che superano la vita stessa e la
morale corrente.
Il tema della volontà è centrale nel pensiero di Schopenhauer (1788 - 1861),
nel quale confluiscono le posizioni filosofiche di Platone e Kant, ma anche le
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correnti dell’illuminismo, romanticismo, idealismo, nonché le influenze della
spiritualità indiana. Egli riprende la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé,
ma, se per Kant il fenomeno è la realtà, per Schopenhauer il fenomeno è parvenza,
illusione, sogno, mentre l’essenza della realtà, il noumeno - è la volontà - ed è
una realtà nascosta dietro l’ingannevole trama del fenomeno. Il fenomeno è una
rappresentazione che consta di due aspetti essenziali, costituiti dal soggetto
rappresentante e dall’oggetto rappresentato, inseparabili, che coesistono solo
all’interno della rappresentazione.
Per Schopenhauer - che a seguito dei suoi viaggi in Oriente entra in contatto con
i saggi della tradizione induista e buddista che influenzeranno poi la sua filosofia il mondo può essere rappresentato sotto due forme: la forma intellettuale/scientifica
e la forma della volontà. Il mondo che viene espresso tramite la rappresentazione
scientifica deriva soltanto da una conoscenza sensibile, alla quale è possibile
accedere tramite le forme a priori dello spazio, del tempo e della casualità.
Schopenhauer paragona le forme a priori (spazio, tempo e casualità) a vetri
sfaccettati attraverso cui la visione delle cose si deforma, traendone la conclusione
che la vita è sogno, un insieme di apparenze, una sorta di incantesimo.
Questa conoscenza di tipo fenomenico - derivante, cioè, dall'esperienza
sensibile - non è una conoscenza oggettiva, poiché il vero si trova dietro un velo,
denominato velo di Maya; la vita, dunque, è un sogno, un’illusione poiché il reale
è nascosto ai nostri occhi. Il mondo come volontà, invece, rappresenta il noumeno
che non è altro che la volontà espressa nella corporeità degli essere viventi.
Tanto Kant, quanto Schopenhauer fanno riferimento al concetto di noumeno pur
intendendolo in maniera differente.
Kant distingue l'oggetto in sé dall’oggetto percepito, dunque la percezione delle
cose dalla reale essenza delle cose, il noumeno - l'oggetto in sé - dal fenomeno
percepito. Il noumeno è l'oggetto della realtà nella sua completezza - inconoscibile
alla soggettività umana - la quale interpreta l'oggetto attraverso la specificità dei
suoi sensi. Kant riconosce che i sensi umani hanno dei limiti, l'uomo non può dirsi
sicuro di ciò che percepisce con i sensi, non può ritenere che tutto ciò che vede in
un oggetto sia realmente il vero aspetto dell'oggetto stesso, l'essere umano è
limitato a priori dalla propria struttura di percezioni e, dunque, l'oggetto della
realtà nella sua completezza rimane inconoscibile alla soggettività umana.
Anche Schopenhauer divide il mondo in due parti: da una parte il mondo
fenomenico - ciò che apprendiamo e ci appare dall'esperienza diretta delle cose - e
dall'altra la cosa in sé, che per Schopenhauer coincide con la volontà. Questa non è
semplicemente un impulso, una caratteristica parziale del carattere umano, bensì
una vera e propria entità a sé, con una sua propria valenza ontologica: la volontà è
l'ente che da sempre sostiene il mondo e che sempre lo sosterrà.
L'uomo conosce la volontà attraverso la percezione immediata della sua esistenza e
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percepisce la volontà senza alcuno sforzo, la sente in sé, nel proprio essere,
percepisce l'impulso della volontà di vivere.
La realtà, dal canto suo, è come velata, nascosta dietro un velo di interpretazioni
illusorie. La vera realtà è quella della volontà, mentre il mondo fenomenico - nella
sua empiricità - è una rappresentazione prodotta dalla volontà.
Per Schopenhauer il mondo percepito non è la cosa in sé - il noumeno - come per
Kant, ma solo un'interpretazione, anzi la rappresentazione che ne dà il corpo.
Pur muovendo, dunque, dalla filosofia kantiana - assumendo come punto di
partenza del proprio pensiero la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno (o
cosa in sé) - Schopenhauer finisce per discostarsene non poco poiché per Kant il
fenomeno è la realtà, l’unica realtà conoscibile e accessibile dalla mente umana,
seppur non completamente, mentre per Schopenhauer il fenomeno, ciò che
percepiamo con i nostri sensi, è illusione, sogno e parvenza, il “velo di Maya”
della filosofia indiana, ossia l’illusione che vela la realtà delle cose nella loro
essenza autentica “è Maya, il velo ingannatore, che avvolge il volto dei mortali e fa
loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista;
perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che
il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata
a terra, che agli prende per un serpente”.
Per Schopenhauer, dunque, la realtà visibile è apparenza, illusione; nulla ci
garantisce che quanto esiste o accade non sia solo un sogno. Tuttavia l’essenza
della realtà - che si nasconde dietro il fenomeno - mentre per Kant resta il
concetto-limite della conoscenza e perciò inconoscibile, per Schopenhauer può
essere raggiunta poiché è possibile squarciare il velo di Maya. Ma come?
Se l’uomo fosse soltanto coscienza e rappresentazione non potrebbe mai uscire
dal mondo fenomenico, ma all’uomo è dato anche il corpo e grazie ad esso egli
può accedere al noumeno. E’ attraverso il corpo che l’uomo scopre la realtà delle
cose e sperimenta di essere una parte del mondo: egli vuole, desidera fortemente
alcune cose e ne rifugge altre, ricerca il piacere e rifugge il dolore.
Il corpo è, dunque, volontà resa visibile ed è grazie ad esso che è possibile
squarciare il velo della rappresentazione, del fenomeno, e scoprire che la radice
noumenica del nostro Io è l’impulso irrazionale della volontà di vivere che,
malgrado tutto, costringe chiunque ad agire e, dunque, a vivere.
Grazie al corpo, dunque, l’uomo sperimenta la vita, gioiendo, soffrendo,
tollerando le situazioni difficili; penetrando profondamente in se stesso, egli arriva
a comprendere che l’essenza, la cosa in sé del suo essere, è la volontà di vivere.
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La supremazia della volontà propugnata da Schopenhauer è messa mirabilmente
in luce dalle sue affermazioni sulla volontà di vivere, essenza di tutte le cose: ”essa
è l’intimo essere, il nocciolo di ogni singolo, ed egualmente del Tutto”2
Per Schopenhauer questa volontà si sottrae alle forme dello spazio, del tempo e
della causalità, poiché essa è unica ed eterna. Essa è anche inconscia, poiché la
consapevolezza e l’intelletto costituiscono soltanto sue possibili manifestazioni
secondarie. La volontà di vivere di cui parla Schopenhauer, sia pure in maniera
diversa e con gradi di consapevolezza diversi, pervade ogni essere vivente. La
natura e il mondo non hanno un’origine razionale, nascono da un istinto irrazionale
di vita, da una pulsione incontrollata e indeterminata che è proprio la volontà.
L’essere è volontà, ma proprio questa considerazione conduce Schopenhauer
all’affermazione che vivere è dolore perché “la volontà non è”3, nel senso che essa
è cieca, dominatrice, tiranna, irrazionale come irrazionale è la voglia di vivere e
priva di senso la stessa esistenza che porta dolore, penoso decadimento e, infine,
morte. La volontà non è, quindi, né autonoma, né libera ed è all’origine di tutte le
sofferenze che affliggono l’uomo. Se, infatti, volere significa desiderare, tendere
verso la ricerca di appagamento, non c’è via di scampo al dolore poiché la
condizione di mancanza non può essere superata, non c’è appagamento che la
possa colmare. Non c’è, dunque, spazio per l’ottimismo della ragione e questa
intemperante voglia di vivere non può che essere causa di sofferenza. Da tale
sofferenza è possibile uscire solo cercando di vincere l’attaccamento alla vita e ai
suoi piaceri attraverso la negazione progressiva di sé, la c. d. noluntas, la non
volontà, alla quale si può giungere attraverso la santità, l’ascesi e l’arte, catartica e
liberatrice, quindi capace di liberare momentaneamente l’uomo dal dolore grazie
alla sua capacità di estraniarlo dal mondo.
La sua visione pessimistica deriva essenzialmente dalla consapevolezza
dell'impotenza dell'uomo nei confronti della "sconcertante" potenza della natura,
ma anche dalla consapevolezza che l'uomo è impossibilitato ad intervenire nei
confronti del fluire del tempo.
A chiusura di questi cenni sullo sviluppo del concetto di volontà in filosofia, si
richiama il pensiero di Nietzsche (1844 - 1900) che, in contrapposizione a
Schopenhauer dalle cui riflessioni pure era partito, con il suo concetto di volontà di
potenza, al quale è dedicato un intero paragrafo, esalta la volontà di vivere ponendo
in primo piano l’aspetto vitale e dionisiaco dell’essere umano.
… CONTINUA …
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3
Schopenauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Editori Laterza
Schopenauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Editori Laterza
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