Filosofia oracolare e rivolta contro la ragione

Karl Popper: Filosofia oracolare e rivolta contro la ragione
Karl R. Popper
Filosofia oracolare e rivolta contro la ragione
La società aperta e i suoi nemici, Armando Editore, 2004.
Traduzione di Renato Pavetto.
Marx era un razionalista. Come Socrate e come Kant egli credeva nella ragione come base
dell'unità del genere umano. Ma la sua dottrina che le nostre opinioni sono detcrminate
dall'interesse di classe accelerò il declino di questa fede. Come la dottrina di Hegel che le
nostre idee sono determinate da tradizioni e interessi nazionali, così la dottrina di Marx ha finito
col minare dalle fondamenta la fiducia razionalistica nella ragione. Così minacciato sia da
destra che da sinistra. Patteggiamento razionalistico nei confronti dei problemi sociali ed
economici non potè opporre resistenza quando la profezia storicistica e l'irrazionalismo
oracolare sferrarono un attacco frontale contro di esso. Questa è la ragione per cui il conflitto fra
razionalismo e irrazionalismo è diventato il più importante problema intellettuale e forse anche
morale del nostro tempo.
Poiché i termini «ragione» e «razionalismo» sono vaghi, sarà necessario chiarire brevemente in
che senso essi sono qui usati. Prima di tutto, sono usati in senso lato: sono usati cioè fino a
coprire non solo l'attività intellettuale ma anche l'osservazione e l'esperimento. È necessario
tener presente questa precisazione, perché «ragione» e «razionalismo» sono spesso usati in
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un senso diverso e più stretto, in opposizione non a «irrazionalismo» ma ad «empirismo»; se
usato in questo modo, il razionalismo eleva l'intelletto al di sopra dell'osservazione e
dell'esperimento, e in questo caso sarebbe meglio chiamarlo «intellettualismo». Ma quando
parlo qui di «razionalismo», io uso sempre la parola in un senso che include tanto «empirismo»
quanto «intellettualismo», proprio nello stesso senso in cui la scienza fa uso sia di esperimenti
che di pensiero. In secondo luogo, uso la parola «razionalismo» per indicare, grosso modo, un
atteggiamento che cerca di risolvere il maggior numero possibile di problemi mediante un
appello alla ragione, cioè al pensiero chiaro e all'esperienza, piuttosto che mediante l'appello
alle emozioni e alle passioni. Questa spiegazione, naturalmente, non è molto soddisfacente,
dato che tutti i termini come «ragione» o «passioni» sono vaghi; noi non possediamo «ragione»
o «passioni» nel senso in cui possediamo determinati organi fisici, per esempio il cervello o il
cuore, o nel senso in cui possediamo certe «facoltà», per esempio, la capacità di parlare o di
digrignare i denti. Al fine, quindi, di essere un po' più precisi, sarà meglio spiegare il
razionalismo in termini di comportamento o di atteggiamenti pratici. Possiamo allora dire che il
razionalismo è un atteggiamento di disponibilità a prestare ascolto ad argomenti critici c ad
imparare dall'esperienza E, in sostanza, ratteggiamento di chi è disposto ad ammettere che «io
posso avere torto e tu puoi aver ragione, ma per mezzo di uno sforzo comune possiamo
avvicinarci alla verità».
È un atteggiamento che non rinuncia facilmente alla speranza che gli uomini possano, con
mezzi come l'argomentazione e l'attenta osservazione, raggiungere un certo tipo di consenso
su molti problemi importanti; e che, anche dove le loro richieste e i loro interessi sono in
conflitto, è spesso possibile discutere delle varie richieste e proposte e raggiungere — magari
per via di arbitrato — un compromesso che. in ragione della sua equità, risulti accettabile al
maggior numero, se non a tutti. Insomma, l'atteggiamento razionalistico o, come posso anche
chiamarlo. L'«atteggiamento della ragionevolezza», è molto simile all'atteggiamento scientifico,
alla convinzione che nella ricerca della verità è necessaria la cooperazione e che. con l'aiuto del
dibattito, possiamo col tempo giungere a qualcosa come l'oggettività.
È senza dubbio interessante analizzare più a fondo la rassomiglianza fra questo atteggiamento
di ragionevolezza e quello della scienza. Nell'ultimo Capitolo ho cercato di spiegare l'aspetto
sociale del metodo scientifico con l'aiuto della finzione di un Robinson Crusoe scientifico. Una
considerazione esattamente analoga può mettere in evidenza il carattere sociale della
ragionevolezza, in opposizione alle doti intellettuali o alla ingegnosità. Si può dire che la
ragione, come il linguaggio, è un prodotto della vita sociale. Un Robinson Crusoe (abbandonato
in pieno deserto fin dalla prima infanzia) può essere ingegnoso abbastanza da padroneggiare
molte situazioni difficili; ma non saprebbe inventare né il linguaggio né l'arte
dell'argomentazione. Certo, noi spesso discutiamo con noi stessi; ma siamo abituati a far ciò
solo perché abbiamo imparato che a discutere con gli altri e perché abbiamo in questo modo
imparato quello che conta è l'argomentazione, piuttosto che la persona che
argomenta.(Quest'ultima considerazione non ha naturalmente peso quando discutiamo con noi
stessi). Dunque, possiamo dire che dobbiamo la nostra ragione, come il nostro linguaggio, ai
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nostri rapporti con eli altri uomini.
Di decisiva importanza è il fatto che l'atteggiamento razionalistico prenda in considerazione
l'argomentazione piuttosto che la persona che argomenta. Ciò porta alla conclusione che
dobbiamo riconoscere qualunque persona con la quale comunichiamo come una fonte
potenziale di argomentazione e di ragionevole informazione; e così si instaura quella che
possiamo definire «l'unità razionale del genere umano».
In certo qual modo, si può dire che la nostra analisi della «ragione» assomigli un poco a quella
di Hegel e degli hegeliani che considerano la ragione come un prodotto sociale e. di fatto, come
una specie di dipartimento dell'anima e dello spirito della società (per esempio, della nazione o
della classe) e che sottolineano, sotto l'influenza di Burke. il nostro debito verso il nostro
retaggio sociale e la nostra quasi completa dipendenza da esso. Certo qualche somiglianza c'è.
Ma ci sono anche considerevoli differenze. Hegel e gli hegeliani sono collettivisti. Hssi
sostengono che. poiché dobbiamo la nostra ragione alla «società» — o a una certa società
come la nazione — la «società» è tutto e l'individuo nulla; ovvero che quale che sia il valore di
cui un individuo è dotato, esso deriva dal collettivo che è l'effettivo portatore di tutti i valori. In
contrasto con questo atteggiamento, la posizione qui presentata non presuppone l'esistenza di
collettivi; se dico, per esempio, che dobbiamo la nostra ragione alla «società», intendo sempre
dire che noi la dobbiamo a determinati individui concreti — anche se forse a un considerevole
numero di individui anonimi — e ai nostri rapporti intellettuali con essi. Quindi, quando parlo di
una teoria «sociale» della ragione (o del metodo scientifico), intendo più precisamente dire che
si tratta sempre di una teoria interpersonale e mai di una teoria collettivistica.
Certamente, noi dobbiamo molto alla tradizione, e la tradizione è molto importante, ma anche la
«tradizione» dev'essere analizzata in termini di relazioni personali concrete. E, così facendo,
possiamo liberarci di quell'atteggiamento che considera ogni tradizione come sacrosanta, o
come preziosa in sé, sostituendo ad esso un atteggiamento che considera le tradizioni come
preziose o dannose, a seconda dei casi, in relazione all'influenza che esercitano sugli individui.
Così possiamo renderci conto del fatto che ciascuno di noi (per mezzo dell'esempio e della
critica) può contribuire al consolidamento o alla liquidazione di codeste tradizioni.
La posizione qui adottata è molto diversa dalla concezione popolare, originariamente platonica,
secondo la quale la ragione è una specie di «facoltà» che può essere posseduta e sviluppata
dai diversi uomini in gradi molto diversi. Certo, le doti intellettuali possono essere diverse e
possono contribuire alla ragionevolezza, ma non necessariamente. Gli uomini intelligenti
possono essere tutt'altro che ragionevoli, possono essere attaccati ai loro pregiudizi e possono
aspettarsi di non sentire mai niente di valido dagli altri. Secondo la nostra concezione, tuttavia,
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noi non solo dobbiamo la nostra ragione agli altri, ma non possiamo neppure mai essere
superiori agli altri in fatto di ragionevolezza, al punto di rivendicare una pretesa all'autorità;
autoritarismo e razionalismo nel senso che diamo a questi termini non possono conciliarsi,
perché l'argomentazione, che include la critica, e l'arte di prestare ascolto alla critica, sono la
base della ragionevolezza. Così il razionalismo, nel senso in cui qui è inteso, è diametralmente
opposto a tutti quei moderni sogni platonici di straordinari nuovi mondi nei quali la crescita della
ragione sarebbe controllata o «pianificata» da qualche ragione superiore. La ragione, come la
scienza, cresce per via di mutue critiche; il solo modo possibile di «pianificare» la sua crescita
consiste nello sviluppo di quelle istituzioni che salvaguardano la libertà di queste critiche, cioè la
libertà di pensiero. Si può osservare che Platone, anche se la sua teoria è autoritaria, e richiede
lo stretto controllo della crescita della ragione umana nei suoi custodi, paga tuttavia il suo
tributo, con il suo modo di scrivere, alla nostra teoria interpersonale della ragione; infatti, la
maggior parte dei suoi primi dialoghi rievoca dibattiti condotti con uno spirito perfettamente
razionale.
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