Zinàli, stelle e altre polveri. di Pericle Guaglianone Immaginare oggi un landscape romantico alla Friedrich, splendido e diroccato, significa fare i conti con ciò che è successo in un paio di secoli di storia delle immagini, fino al conceptual e oltre. L’opera d’arte ha preso a parlare di sé anziché del mondo non appena si è scoperta “evento” essa stessa (Heidegger), esperienza non più separata dalla vita (“arena di eventi”, come ebbe a scrivere la critica della tela di Pollock), “rovina o promessa di rovina”, addirittura (così Marc Augé, il teorico dei non-luoghi, in Rovine, pubblicato dopo la caduta delle Twin Towers); non appena il paesaggio da contemplare a bocca aperta – questa, in sintesi, la svolta metalinguistica impressa da Duchamp alla storia dell’arte – è diventato tutto ciò che all’opera d’arte-Mondo, semplicemente, accade. Così è per Corpus, di Patricia Carmo, installazione in cui una sequenza di grembiuli documenta – e, perché no, racconta – la vita vissuta che alla fine della storia si rovescia in antropometria; in cui il paesaggio sconfinato (s-corniciato) che bisogna impaginare anziché raffigurare è quello che rimanda, attraverso la certificazione della sua immanenza, alla dimensione esistenziale del lavoro degli uomini. Ed è proprio così che questi indumenti funzionano: clessidre silenziose e implacabili che in un’accezione tutt’altro che retinica convocano la polvere del tempo (anzi no: del lavoro nel tempo) come macula; ready-made che osano un’incombente urgenza metaforica mentre – ognuno di pertinenza di un mestiere differente – sembrano sospesi a mezz’aria e allo stesso tempo appesi al chiodo. E allora basta contare fino a tre, un due tre… Stella!, e in questi zinàli capovolti (questo il termine che andrebbe usato, in italiano, per via della pettorina) prende a lampeggiare un diagramma inedito del simbolo stesso del lavoro (la stella, appunto) del quale, uno dopo l’altro, essi diventano modulo e contro-immagine (i negativi, le impronte che Beuys chiamava gegenbild). Non più, dunque, ostensione di una fisionomia dispiegata e solenne, di uomo che – come nelle sculture di Gilberto Zorio – ha braccia e gambe spalancate, ma, al contrario, sedimentazione issata a mo’ di vessillo di tanti corpi che, derelitti eppure indomiti, ciondolano nel vuoto – mani e piedi – insieme alla loro storia professionale.