Potere e critica dell'economia politica in Marx J7.I Filosofia politica e potere nel giovane Marx di Gaetano Rametta I 7. I. I. Critica alla filosofia hegeliana del diritto e problema della democrazia La critica di Marx a Hegel è centrata sulla scissione tra società civile e Stato, e investe al tempo stesso la collocazione storico-concettuale del pensiero hegeliano r. Nella ricostruzione del giovane Marx sulla genesi della moderna separazione tra società civile e Stato, la Rivoluzione francese appare come il momento in cui tale scissione si compie 2 • Da un lato, la "società" s'impadronisce del potere politico nella forma del "terzo stato", che si qualifica e afferma come "nazione"; dall'altro, tale movimento conduce alla definitiva e radicale spoliticizzazione della sfera "sociale", che in tal modo sorge per la prima volta come dimensione autonoma e separata. Si genera così la dicotomia tra sfera "privata" e sfera "pubblica", bourgeois e citoyen. Concentrando nello Stato le funzioni politiche, la società si attua per la prima volta come sfera indipendente dallo spazio pubblico, nella quale gli uomini, dissolti gli antichi vincoli cetuali, si affermano storicamente come indivzdui privati. La modernità della filosofia politica di Hegel consiste, secondo il giovane Marx, nel fatto di concepire la scissione come momento strutI. Sempre utile, sul rapporto del giovane Marx con Hegel, Cian (1977). Per un inquadramento storico-interpretativo della marxiana "critica della politica", cfr. Bongiovanni ( 198Ù 2. Cfr. PE, pp. 381 ss.; CFH, pp. 86-8, 93 ss. Di quest'ultimo testo, cfr. anche l'edizione Finelli, Trincia (1981), con ampio commentario. Sull'interpretazione marxiana della Rivoluzione francese, nell'ampio quadro di un dibattito politico e storiagrafico che dura ormai da due secoli, cfr. Hobsbawm (1991). IL POTERE turale dello Stato moderno, tentando in pari tempo di ricondurre tale separazione a unificazione dialettica. Ma il pensiero hegeliano mancherebbe il suo scopo proprio in rapporto alla mediazione tra società civile e Stato. Per dimostrarlo, Marx svolge una critica dettagliata della concezione hegeliana del potere legislativo, e in particolare della dottrina dei ceti e della deputazione cetuale 3. Esse sarebbero gravate da due "collisioni" 4: la prima è quella tra il legislativo e il complesso della Verfassung. TI legislativo, in luogo di essere attuazione compiuta dell'universale nella forma della legge, sarebbe nient'altro che la riproposizione, all'interno stesso della compagine dello Stato, della spaccatura e dell'opposizione tra universale e particolare, tra Stato e società. La seconda collisione avverrebbe invece tra i diversi momenti interni al legislativo, e si scinde a sua volta in a) conflitto tra governo e ceti; b) conflitto tra deputazione e «individui, corporazioni e cerchie» della società civile. Poiché nel legislativo si riproducono semplicemente le contraddizioni che si sarebbero dovute "unificare" nel corso della "mediazione" dialettica, Marx giunge a diagnosticare la sostanziale Formlosigkeit dello Stato hegeliano 5 e definisce la concezione dei ceti come un'espressione di «romanticismo» politico 6 • Questi ultimi, infatti, non potendo ricomporre la frattura tra società civile e Stato, indicherebbero nient'altro che un'aspirazione e una tendenza destinate a rimanere prigioniere della loro velleitaria impotenza. La catastrofe del pensiero hegeliano conclude per Marx l'intera parabola della filosofia politica moderna, centrata sulla monopolizzazione delle funzioni della sovranità da parte dello Stato. Dalla critica della metafisica idealistica della sovranità, culminante nell'uno del monarca 7, si tratta per Marx di discendere - o risalire - alla dimensione democratica della pluralità come momento irriducibile, e in pari tempo irrappresentabile, della praxis politica. Da questa prospettiva la democrazia, nel modo in cui viene pensata dal giovane Marx, appare come il frutto di un'operazione critica rispetto all'intero assetto della filosofia politica moderna, ivi compreso quel pensiero della volontà generale che, da Rousseau ai giacobini, era comunque rimasto incluso all'interno di una problematica della sovranità e del potere come forme di attuazione dell'unità politica. La posizione "democra3· 4· 5· 6. 7· Cfr. CFH, pp. 73 ss. Ivi, pp. 67 ss. e pp. 71 ss. lvi, p. 77 («mancanza di /orma»). lvi, p. 107. Cfr. CFH, pp. 30 ss. ' 17. POTERE E CRITICA DELL ECONOMIA POLITICA IN MARX tica" del giovane Marx, infatti, non può essere identificata con quella di Rousseau e della sua "volontà generale", poiché quest'ultima, come dimostra l'esperienza giacobina che ne è il più compiuto tentativo di dispiegamento rivoluzionario, non solo non toglie, bensì al contrario porta a realizzazione storica effettuale la concentrazione della sovranità nello Stato inteso come suprema realizzazione dell'unità politica. Per questo aspetto, la pratica politica democratica a cui allude il giovane Marx non è più riconducibile alla concettualità moderna della sovranità e del potere. Se per sovranità s'intende il monopolio della decisione pubblica, la rappresentazione efficace dell'unità politica, la capacità d'imporre obbedienza mediante la minaccia ed eventualmente l'uso legittimo della forza, allora la critica a Hegel del giovane Marx non è tanto, o soltanto, rilevante in rapporto a un determinato assetto di pensiero, bensì piuttosto, e soprattutto, come sintomo di un'ambizione, espressione di un movimento che aspira ad una diversa esperienza della dimensione politica, senza avere ancora a disposizione lo strumentario concettuale per poter fare di più che indicare una direzione di ricerca. Ma perlomeno tale direzione è chiara: si tratta di mostrare come il potere moderno sia tutt'altro che l'estinzione del dominio dell'uomo sull'uomo, bensì piuttosto, nell'impossibilità di presupporre l'ordine cosmico-gerarchico all'interno del quale era possibile concepire un "governo", sia il dispositivo in grado di mantenere la diseguaglianza e le funzioni di comando e obbedienza, in un contesto in cui non è più possibile ricondurre queste ultime a una naturale "gerarchia" delle anime. Il potere moderno, che si vuole legittimo perché costruito sull'eguaglianza che esclude il dominio dell'uomo sull'uomo, sarà perciò stesso privato di ogni e qualsiasi legittimità dal momento in cui venga svelato come funzione e fattore di una diseguaglianza che consente all'uomo di dominare sull'uomo. Ciò significa che, dall'interno della sovranità moderna, emerge la traccia di un'esperienza della politica che la sovranità ha dovuto porre alle proprie origini per costituirsi in forma legittima, ma in pari tempo occultare e distruggere per instaurarsi come potere dotato di forza efficace. Se il potere si svela come nient'altro che la forma moderna del dominio, allora si tratta di rivendicare l'effettualità dell'agire politico a un'istanza diversa da quella del potere. La democrazia sarebbe dunque da leggere alla luce di questa istanza e di questa cr#ica, poiché nella torsione che ad essa fa assumere il giovane Marx si dovrebbe azzerare l'equazione tra ordine politico e produzione dell'unità politica, che proprio l'esperienza giaco- IL POTERE bina aveva condotto alla sua massima esasperazione. Qui, tuttavia, l'impianto della critica democratica all'assetto filosofico-politico moderno trova il suo punto di crisi. Perché è evidente che l'assunzione della democrazia in questa accezione implica come risolto il problema dell'ordine politico, dalla cui problematicità era partita la stessa scienza politica dell'età moderna. Questo sarà il motivo per cui Marx non potrà più accontentarsi della messa in evidenza della pluralità come presupposto essenziale e rimosso della sovranità e del potere moderni, bensì dovrà indirizzarsi a una forma qualificata della pluralità, tale da istituirsi come unità non in quanto verrebbe rappresentata, ma perché così dovrebbe esistere nella sua costituzione reale. Tale pluralità qualificata, che non si rappresenta come unità, e tuttavia non dà luogo a un'irrelata e monadica diversità di azioni e d'interessi, è ciò che Marx tenterà di esprimere nella nozione di "classe". Quest'ultima sarà determinata nella sua unità non in quanto sia costituita una volta per tutte, bensì nella misura in cui si dispieghi come processo strutturato di unificazione. I7. r. 2. Dai Manoscritti del I 844 al Manifesto del I 848 Il potere moderno s'istituisce solo a prezzo di distinguere e separare da sé una sfera, la "società", che perciò stesso appare, dal punto di vista dello Stato, priva di rilevanza "politica". Ora, per il Marx che ha attraversato la critica della filosofia del diritto hegeliana, si tratta di operare una più sottile strategia di smarcamento e riqualificazione: smarcamento dall'assetto moderno, che trova in Hegel il suo punto di massima condensazione e "compimento"; riqualificazione della propria posizione di pensiero in rapporto alla modernità e alla critica di questa. Da questo punto di vista, Marx non si limita a invertire le relazioni tra società civile e Stato, a teorizzare, cioè, una relazione tra "struttura" e "sovrastruttura" che ne rovesci i rapporti di priorità ma mantenga inalterata la grammatica dell'opposizione; e neppure "sostituisce" al dominio "idealistico" della dimensione politica o statuale il dominio "materialistico" delle relazioni economico-produttive o "sociali". La specificità dell'operazione marxiana, piuttosto, consiste nello smantellare la struttura stessa dell'opposizione, e nello spostare così drasticamente il piano del discorso e della stessa concettualità politica. Così facendo, del resto, egli non fa che sviluppare i risultati della critica precedente alla moderna nozione di sovranità, che non comporta solo l'espropriazione delle capacità decisionali e di azione poli- 17. POTERE E CRITICA DELL'ECONO~!IA POLITICA IN MARX tica che il giovane Marx attribuiva agli «individui in quanto tutti» 8 , ma produce anche un effetto di occultamento rispetto alla natura eminentemente politica di questa stessa operazione teorica. Da un lato, la società viene concettualmente rappresentata come impolitica, per incorporare nello Stato le funzioni connesse alla sovranità. Dall'altro, attraverso la neutralizzazione così prodotta, si ottiene il risultato di spoliticizzare la conflittualità sempre più dirompente all'altezza dei rapporti "sociali". Criticare la distinzione tra "Stato" e "società civile" significa invece mostrare il carattere eminentemente politico, e occultante sotto il pro@o conoscitivo, di quella distinzione, al tempo stesso mettendo in luce la politicità costitutiva e strutturale della cosiddetta "società". Con questa mossa, Marx opera una rivoluzione che è in pari tempo politica ed epistemologica. Infatti, dal momento in cui entra in crisi la pretesa di identificare nello Stato l'organo supremo del "potere" in veste di "unità politica" e "sovranità", queste ultime vengono meno anche come categorie portanti del discorso scientifico 9. Così, nella parabola che dalla Introduzione del r 844 alla Crztica della filosofia del diritto hegeliana e dai Manoscritti economico-filosofici del r844 conduce alla redazione del Manifesto, si consuma uno spostamento dell'intero impianto concettuale, imperniato sulla distruzione dell'assetto dicotomico pubblico/privato. La politica deborda dallo Stato investendo in pieno la società, e siffatto "deragliamento" della dimensione politica investe non soltanto la "teoria" ma anche la strutturazione reale del nesso potere-società vigente nell'assetto costituzionale degli Stati moderni. Entro questa cornice si dispone la critica della proprietà e dell'alienazione del lavoro operaio ro. In effetti, lo Stato moderno garantisce giuridicamente l'istituto della proprietà, e con ciò stesso la possibilità di scambiare forza-lavoro con salario. Tuttavia, dal momento in cui si assuma la dimensione statuale come l'unica propriamente politica, si potrà presumere come nulla anche la rilevanza politica di siffatto 8. Cfr. CFH, p. r 30. 9· Per una prospettiva sulle problematiche epistemologiche, che vada anche al di là dei testi che stiamo commentando, ancora utile appare il rimando ad alcuni contributi presenti nel dibattito italiano degli anni Settanta come Rovatti (1973); Curi (1975); Veca (1977). Particolare attenzione al linguaggio "giuridico" in Marx presta Guastini (1974l. Per la connessione tra le nozioni di "critica" e "critica dell'economia politica", cfr. infine Randère (1973). IO. Cfr. MEF, in particolare pp. 193-205 (sul "lavoro alienato") e pp. 209-35 (sulla critica della proprietà privata). IL POTERE scambio, si potranno "fingere" come politicamente insignificanti il concetto e la realtà stessa del lavoro salariato. Con ciò, l'intera sfera delle relazioni economico-sociali appare spoliticizzata; soprattutto, privo di rilevanza politica appare il rapporto tra capitale e lavoro salariato, nella sua concreta configurazione materiale, che trova il luogo della sua attuazione storicamente determinata nella fabbrica moderna. L'economia si potrà pretendere scienza "neutrale", perché neutrali e spoliticizzati appaiono i rapporti che ad essa spetterebbe di "descrivere" obiettivamente. Allo stesso modo, la codificazione giurzdica, che trova nella sovranità dello Stato la garanzia della propria vigenza, potrà apparire essa stessa luogo di neutrale regolazione dei rapporti tra organi dello Stato e diritti degli individui, visto che le istituzioni da cui essa promana sono legittime rappresentanti della sovranità, che spetta alla totalità del popolo come depositario della "volontà generale" ''. Dal momento in cui la dimensione "sociale" si trovi investita dalla logica del politico, saltano invece le neutralizzazioni operate dalla filosofia politica moderna, così come s'incrina la pretesa neutralità del diritto e della scienza economica "borghesi". Ma un pensiero che assuma fino in fondo questa scoperta deve innanzitutto riarticolare il proprio assetto logico e discorsivo; il che significa, in via preliminare, riarticolare la propria relazione con la "realtà". È il concetto marxiano di "ideologia", che impone allo stesso Marx di ripensare drasticamente la «posizione del pensiero nei confronti dell'oggettività» ' Se il pensiero è parte integrante della realtà, infatti, la realtà non potrà più essere intesa come qualcosa di indipendente dal pensiero, ma verrà modificata ogniqualvolta un pensiero tenterà di fornirne un sapere adeguato. Si tratta perciò di produrre una nuova forma di scienza, un nuovo orizzonte discorsivo e categoriale, che assuma fino in fondo la politicizzazione radicale che investe ormai ogni ambito dell'esistenza, dal momento in cui il politico ecceda lo Stato, e lo Stato emerga come istanza non più sufficiente né privilegiata di messa in forma del potere politico, e di attraversare e di approfondire la crisi irreversibile di siffatta complicità tra Stato, potere e rappresentazione dell'unità politica. Ora, secondo Marx, vi è una logica ben precisa, a cui la crisi dell'assetto teorico-politico della modernità si può ricondurre. Se al2 • r r. Siamo evidentemente al cuore della nozione marxiana di ideologia, su cui il rimando obbligatorio è aii'Ideologùz tedesca. 12. Per la matrice hegeliana di tale formulazione, rimandiamo ai paragrafi 25 ss. dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche. I7. POTERE E CRITICA DELL ' ECONOMIA POLITICA IN MARX l'origine della crisi della statualità moderna era il debordamento della politica dall'orizzonte della statualità, diventa necessario comprendere le radici del debordamento dallo Stato dei conflitti politici. Qual è il nuovo orizzonte, all'interno del quale lo Stato stesso si trova coinvolto come parte in causa? Non tanto la "società", bensì il "motore mobile" di una nuova qualificazione della totalità delle relazioni sociali e statuali - soltanto questo potrà essere la leva archimedea per una riarticolazione complessiva del discorso scientifico e dell'azione politica. Siffatta leva è quanto dovrebbe esprimere la nozione di "classe", di quella classe "operaia" che, da sotto le ceneri del discorso filosofico-politico della modernità, emerge come "soggetto", nel duplice senso di a) soggiogata al dominio statuale-sociale; ma proprio perciò, anche, b) di essere l'unica in grado di svelare nella sua verità, cioè nella sua menzogna, l'assetto scientifico-discorsivo della filosofia e dell' economia politica moderne. Ma prima di approfondire il discorso in questa direzione 3, è opportuno soffermarsi sulla funzione categoriale della nozione di classe, per evidenziarne la valenza critica e destrutturante in rapporto al discorso della filosofia politica moderna, ma anche rispetto all'assetto interno del pensiero di Marx in questa fase. Anzitutto, la "classe" degli operai si darà laddove si darà lavoro salariato. Nel concetto di lavoro salariato, infatti, è già implicito il suo essere al tempo stesso origine e funzione del processo di accumulazione del capitale. Ma se la fabbrica moderna è il luogo storicamente determinato di costituzione in classe del "proletariato", tuttavia a tale primato della fabbrica non si accompagna né può concettualmente accompagnarsi la ipostatizzazione di un soggetto-sostrato metafisicamente presupposto. n "proletariato" non è, da questo punto di vista, il rovesciamento materiale della nozione hegeliana dello "spirito" come «sostanza che in pari tempo è soggetto» '4. Se si limitasse ad essere questo, verrebbe comunque mantenuta la funzione che, nella lettura marxiana, era stata occupata dallo "spirito" hegeliano come macrosoggetto e centro d'imputazione dei processi storici. Il punto, invece, è che la critica della scienza politica moderna non si limita a sostituire il titolare di una funzione che verrebbe "conservata" in quanto tale, nel senso per cui prima (in Hegell soggetto sarebbe stato lo "spirito", mentre ora 1 13. Per maggiori specificazioni sul discorso marxiano in riferimento ai concetti di "classe" e di "critica dell'economia politica", rimandiamo alla parte di questo saggio sviluppata da M. Merlo. 14. Secondo la celebre formulazione hegeliana della Prefazione alla Fenomenologia dello spirito. IL POTERE (in Marx) soggetto diventerebbe il suo corrispettivo "materiale", cioè la classe. La concentrazione degli operai nella fabbrica moderna è la condizione materiale in base alla quale si producono le pratiche di costruzione dell'identità collettiva, ma questi processi di costituzione e di unificazione del proletariato in "classe" non possono portare alla costituzione di un soggetto conforme a quello della sovranità statuale moderna, poiché questo significherebbe ricadere all'interno della logica del potere e dell'unità politica. La connotazione propria del concetto di "classe" dovrebbe dunque tenere assieme l'unità del nome collettivo e la molteplicità delle pratiche e dei "soggetti" che della classe costituiscono l'articolazione materiale. Il "partito comunista" del Manz/esto è l'espressione e l'esito di questa tensione '5. Proprio perciò, esso non può venire ricondotto alla nozione della rappresentanza moderna. Se costitutiva di quest'ultima è la dialettica autore-attore, in cui l'attore è colui che compie le azioni di cui non è autore, mentre l'autore (il popolo "sovrano") è l'autore di azioni che però non compie egli stesso ' 6 , bensì fa impersonare dall'attore, è evidente che il "partito" non può essere "rappresentante" senza perdere lo specifico di ciò che Marx tenta di pensare, nella nozione di classe, come ulteriore rispetto alla scienza politica moderna. D'altra parte, sembra difficile anche ricondurre la teorizzazione del Manz/esto alla categoria, formulata da Voegelin nel nostro secolo, della rappresentanza "esistenziale". Infatti, anche nella rappresentanza di tipo esistenziale il rappresentante produce una reductio ad unum del molteplice, ovvero costitusce in "soggetto" il molteplice che trova in esso unità d'azione e di decisione, e dunque operatività politica, nel momento stesso in cui della capacità di agire politicamente si trova spogliato '7. Infine, non è nemmeno possibile pensare il partito come organizzazione dotata di mandato "imperativo" da parte della classe, poiché il mandato "imperativo" presupporrebbe come già costituito il soggetto che dà il mandato, mentre da una lato la classe non può diventare "soggetto" senza perdere la materialità della propria costituzione; e d'altra parte, all'interno della stessa concettualità politica moderna, il concetto di mandato "imperativo" è in se stesso contraddittorio, 15. Cfr. al riguardo il CAP. n del Manifesto del partito comunista (dall'emblematico titolo Proletan· e comunisti). 16. Cfr., in questo volume, l'Introduzione di G. Duso alla Parte seconda. 17. Anche su Voegelin, rimandiamo in/ra, in questo volume, al CAP. 20. 37° ' 17. POTERE E CRITICA DELL ECONOMIA POLITICA IN MARX poiché o il soggetto che dà il mandato è già costituito e perciò capace di agire politicamente, e dunque non ha bisogno di essere rappresentato; oppure non è costituito, e allora non si capisce chi potrebbe dare "imperatività" al mandato dell'eventuale rappresentante. Allo stesso modo, insufficiente appare la determinazione del rapporto politico interno alla classe qualora essa ricorra alla coppia comando-obbedienza. Questa coppia si trova strettamente connessa alla precedente, poiché soltanto il rappresentante può legittimamente pretendere obbedienza; solo chi riconosce di essere rappresentato dal rappresentante è tenuto a fornire obbedienza nei confronti dei comandi - delle leggi - emanati dal primo. Ma come sappiamo, proprio questa è la logica del potere moderno, contro il cui dispositivo di autolegittimazione già si era rivolta la critica del giovane Marx. Né dicotomia tra attore e autore, dunque, né polarità di comando e obbedienza possono descrivere adeguatamente le relazioni interne alla costituzione materiale della classe. Tanto meno adeguato sarà il tentativo di leggere nel proletariato l'istanza di una emancipazione della società contro lo Stato: innanzitutto, perché come abbiamo più volte mostrato, ciò che Marx mina dalle fondamenta è la struttura dell'opposizione che presuppone a suoi poli la "società" da un lato, lo "Stato" dall'altro; in secondo luogo, proprio perché il proletariato emerge come concrezione, in pari tempo storico-materiale e categoriale, nella quale conflagrano e si dissolvono tutte le principali distinzioni che sorreggevano la grammatica del discorso filosofico-politico moderno: la distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, tra ambito del politico e ambito dell'economico, tra sfera sociale e sfera statuale. È perciò che a Marx appare velleitario ogni tentativo di impostare l'azione politica del proletariato in chiave "riformistica", cioè come problema di allargamento della sfera dei diritti, come conquista di progressivi spazi di emancipazione "sociale", e così via. Nessuna "emancipazione" è possibile nel "sociale" poiché quest'ultimo è il prodotto, in pari tempo scientifico e politico, del discorso teorico e delle pratiche politiche che hanno istituito, attraverso i quali si è istituito, il potere moderno. Ma è perciò, anche, che la "classe" emerge come irrappresentabile e indisponibile alla presa dei concetti che hanno organizzato il discorso della filosofia politica moderna. Sullo statuto del "partito" si riflette dunque il carattere problematico che investe la concettualizzazione della classe. Quest'ultima, infatti, è sempre espressa per differenza tra il concetto proprio del discorso scientifico e la sua concreta materialità, che ne inibisce qualun371 IL POTERE que forma di reductio ad unum: cosicché, allo stesso modo che il discorso scientifico non può fare a meno di siffatto concetto, eppure al tempo stesso è costretto a desostanzializzarlo e a delocalizzarlo, l'irrappresentabilità della classe si riflette sullo statuto politico, eppure in fondo non padroneggiabile teoricamente, del partito. Non abbiamo semplicemente aporia, perché quest'ultima è stata evidenziata come forma specifica della filosofia politica moderna e del suo esito idealistico-hegeliano; d'altro canto, la dislocazione in senso materialistico della concettualità scientifica marxiana, che intende dare conto delle modificazioni che si vanno effettualmente dispiegando all'altezza dei processi storici e categoriali, è sempre al di qua, o al di là, della presa sulla "classe", proprio perché la classe non è né può essere "oggetto". È alla luce di questa impasse, cui corrisponde sul piano storico la sconfitta operaia del I 848, che andrà interpretato lo sviluppo del progetto marxiano di critica dell'economia poLitica. 17.2 Il significato politico della critica dell'economia politica di Maurizio Merlo I 7. 2. r. Società borghese e spazio delle classi Nel suo esilio londinese, seguendo da vicino il movimento cartista degli operai inglesi, Marx volge per un momento lo sguardo indietro, alle "cosiddette" rivoluzioni del I848. La rappresentazione delle classi si è dissolta, l'antagonismo tra proletariato e borghesia si è polarizzato e concentrato in «guerra civile latente o aperta», e tuttavia tale rapporto tra classi come forze collettive personificate appare a Marx ancora essenzialmente simmetrico. Perciò queste rivoluzioni sono solo «miseri episodi [ ... ] piccole rotture e lacerazioni nella crosta dura della società europea». Esse tuttavia hanno annunciato l' emancipazione del proletariato, cioè «il mistero [. .. ] della rivoluzione di questo secolo» (Marx, I984a). Discontinuità e asimmetricità dello spazio delle classi impongono di mutare radicalmente il quadro concettuale. Inizia la lunga via che dai Grundrisse porta al Capitale: la messa a nudo della «base produttiva, reale» dell'uguaglianza e della libertà che «si mostrano come disuguaglianza e illibertà». Eguaglianza e libertà, natura contrattuale del rapporto di salario, convergenza di interessi individuali in interesse collettivo si rivelano mera illusione, che solo la silenziosa coazione, implicita e fattuale, del rapporto economi- 372 I 7. , POTERE E CRITICA DELL ECONOMIA POLITICA IN MARX co alimenta. Ma non si tratta soltanto di una critica immanente allo scarto tra illusione e realtà: il progetto di critica dell'economia politica intende mostrare la base reale della rappresentazione del pubblico come sfera in cui gli individui, spogliatisi dell'astrazione di cui vengono investiti nei rapporti di mercato come proprietari di merci, entrano in rapporto come soggetti eguali e liberi ' 8 . È lo stesso concetto di società civile a risultare acritico. Il porsi in maniera aconcettuale dal punto di vista della società, «non significa altro che trascurare le differenze che appunto esprimono il rapporto sociale (rapporto della società borghese h (Marx, 1969a, r, p. 242). La forma di dominazione di questa è specifica: una duplice centralità di società e Stato che è ambivalente - poiché rende conto, duplicandola, dell'opposizione tra pubblico e privato - ma. necessaria - in quanto forma giuridica dell' appropriazione privata di lavoro altrui, mascherata dalla parvenza di contratto salariale. Questa doppia centralità pare rivestire carattere di forma politica strutturale della società borghese, se questa si identifica con il capitale stesso, con le condizioni della sua riproduzione. Tuttavia essa non satura la determinazione politica del progetto di critica dell'economia politica come trasformazione radicale del quadro concettuale. In una prima, rozza accezione, l'economia è "politica" in quanto scopre nei fenomeni concorrenziali e nella costituzione delle grandezze economiche la modificazione di rapporti di dominio, nell'accumulazione del capitale e nell'equivalenza del valore la logica dello sfruttamento. La ricchezza borghese appare come merce - nelle forme sociali del diritto e della rappresentazione economica - agli individui, tutti egualmente costituiti come soggetti indipendenti che scambiano, mediante contratto tra proprietari eguali, valori equivalenti, cioè prodotti di lavori "privati", indipendenti gÌi uni dagli altri. Ma allora la critica deve indicare "innanzitutto i limiti dell' autorappresentazione della società borghese in una scienza (l'economia politica) che pare a Marx procedere "necessariamente" da una forma scientifica alla propria dissoluzione per effetto diretto dell'emergenza dell'antagonismo di classe '9. Questa dissoluzione prende la forma dell'economia "volgare" che, limitandosi alla parvenza dei rapporti economici nella società borghese, si pretende non politica. L' incipit concettuale marxiano si costituisce in rottura con questo impianto categoriale. Non a caso i Grundrisse iniziano con il denaro r8. Poggi (1973), p. 209 e pp. 216 ss. Sui Grundrisse, Negri (1979). 19. Marx (r987l, p. 508, lettera a Weydemeyer del marzo 1852. Marx (1974), p. 8o. 373 IL POTERE come forma-valore e non con l'universale lavoro, perché la sostanza della società borghese è direttamente potere sociale nella sua forma più evanescente, la /orma-denaro, in cui la sovranità politica si aggira ora come un fantasma. Rappresentante materiale universale della ricchezza, il denaro è il sovrano delle merci, esercita un dominio assoluto. In esso prodotti e attività sono risolti in valori di scambio, dissolti «tutti i rigidi rapporti di dipendenza personali (storici) nella produzione». Il denaro costituisce l'unico "nesso sociale" tra individui reciprocamente indifferenti: è esso la comunità, né può sopportarne una superiore. Marx rovescia un'ironia hobbesiana sulla rappresentazione borghese dell'interesse generale: esso non è che interesse dei privati elevato a determinato interesse sociale (Marx, r969a, I, p. 96). La società non è forma unitaria né totalità composta, in equilibrio, bensì bellum omnium contra omnes, una !apologia dei rapporti di forza. L'unità prodotta dagli individui-guardiani di merci appare «qualcosa di estraneo e di oggettivo [ ... ] non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che esistono indipendentemente da loro e nascono dall'urto degli individui reciprocamente indifferenti» (ivi, p. 98). In maniera omologa al dispositivo logico del patto, l'esteriorità del nesso sociale nella forma denaro si presenta come forma generale e astratta del prinàpio generale dei rapporti di dipendenza personali sussunti in rapporti materiali. In quanto valore di scambio reificato il denaro possiede qualità sociale perché «gli individui hanno alienato, sotto forma di oggetto, la loro propria relazione sociale» (ivi, p. roz). Perciò la sovranità della forma-denaro opera la coniazione del sociale come rete di frammenti individuali meccanicamente incrociati in un'algebra monetaria che ne supporta la rappresentazione giuridica. Nei processi di aggettivazione e spersonalizzazione del potere, la moneta tiene dunque il luogo del sovrano: essa è la forma universale, evanescente di una configurazione politica e sociale che, ben !ungi dall'essere compiuta, è piuttosto «una massa di forme antitetiche», un rapporto estraniato di cui i singoli individui («dominati da astrazioni») sono meri supporti. Nel venir meno della sostanza dei rapporti comunitari (ma essa persiste come illusione), la moneta è forma minimale di un legame sociale che consiste nella scissione come forma del rapporto tr!l individui e tra questi e le strutture politico-economiche. «<l potere che ogni individuo esercita sull'attività degli altri o sulle ricchezze sociali, egli lo possiede in quanto proprietario [ ... ] di denaro. Il suo potere sociale, così come il suo nesso con la società, 374 17. POTERE E CRITICA DELL'ECONOMIA POLITICA IN MARX egli lo porta con sé nella tasca [ .. .] sotto la forma di una cosa» (ivi, pp. 97-8). La qualità di potere sociale che il denaro riveste si fa determinata quando si presentano individui «il cui semplice sussistete» è espressione di subordinazione generale astratta che si determina in lavoro salariato formalmente libero: la forza-lavoro incontra solo personifìcazioni di potere sociale annidate nella forma denaro (ivi, p. 107). In quanto sintesi del dominio sociale su questi individui, la forma-denaro istituisce uno spazio asimmetrico nel quale entrano in rapporto individui apparentemente uguali: il "proprietario di denaro", personifìcazione di capitale in potenza, e il "proprietario di forza-lavoro", supporto di un'astrazione oggettiva, il lavoro, che è tutt'uno con la sua corporeità. Il registro della temporalità si scinde: al "lavoro oggettivato" - temporalità passata che si fa presenzialità spaziale può contrapporsi soltanto il lavoro vivo, temporalmente presente. Esso può darsi solo come soggetto vivo, in cui il lavoro «esiste come capacità [. .. ] possibilità», come operaio (i vi, pp. 2 5 r- 2). Questa determinazione di lavoro e di individuo permette a Marx di approfondire il concetto di classe lavoratrice, irriducibile a gruppo sociale, a parte di una totalità unitaria. In quanto lavoro vivo, l'operaio si presenta nella società borghese come soggetto senza oggetto: in questa «il lavoratore [ ... ] non ha un'esistenza oggettiva, esiste solo soggettivamente; ma la cosa che gli si contrappone è ora diventata la vera comunità, che egli cerca di far sua e dalla quale invece viene divorato» (ivi, p. 124; I, p. 279; cfr. Toscano, 1988, pp. 62-3). La ragione profonda delle rivoluzioni è la contraddizione tra la pretesa dello Stato di costituire comunità di individui liberi e uguali (il rapporto capitalistico riproduce in forme sempre diverse un contenuto comunitario) e la nuda soggettività del lavoratore. Marx non si limita a mostrare - come Tocqueville - la natura ancipite della democrazia moderna, la sua inarrestabile tendenza a mutarsi in dispotismo, in destino di spoliticizzazione dell'individuo. Piuttosto: la parvenza dei rapporti di libertà ed eguaglianza «seduce la democrazia» (ivi, I, p. ro6) al formalismo giuridico, all'apparenza e al rapporto di circolazione tra i valori di scambio delle merci. L'esorcismo lzberale della democrazia moderna (e della sua "ombra", il dispotismo) pretende di sopprimere per via politica l'antagonismo fondamentale che precede e determina la produzione, di imporre equilibrio degli interessi e divisione del potere tra forze sociali non omologhe. La critica della rappresentazione liberale dello spazio pubblico come sfera del diritto, dell'identificazione di libertà e proprietà privata, procede di pari passo con quella dei progetti socialisti di ricomposizione ope375 IL POTERE raio-lavoro, tentativi di compensazione non-politica del "completo svuotamento" borghese in controfigure di risarcimento sociale del lavoro. Determinazioni oggettive del potere fondano, contraddittoriamente, relazioni proprietarie descrivibili in termini giuridici. In quanto forma di dipendenza monetaria che richiede fin da subito la presenza decisiva dello Stato a validazione del contratto, il rapporto di lavoro salariato non è in alcun modo privato bensì costitutivo della società borghese e della sua specifica configurazione politica. Il concetto marxiano di potere/dominio si intreccia con quello di lavoro salariato nella categoria di formazione sociale storicamente determinata 20 : non una teoria generale delle formazioni sociali, bensì una teoria della formazione sociale capitalistica, del suo costituirsi in modo di produzione dominante fondato da contraddizioni specifiche. In questo senso la società borghese pare a Marx l'unica formazione sociale storicamente fondata sulla lotta di classe. Non si tratta di ricostruire l'intreccio storico tra forme di lavoro e di dominio, bensì di scoprire il nesso necessario tra forma e contenuto del rapporto di potere, tra realtà del rapporto e sua rappresentazione, di stabilire la specifica determinazione /armale dell'intreccio capitalistico ricercando, mediante l'analisi dei concetti economici, della loro stratificazione storica e della loro funzione pratica, le tracce del processo sociale all'interno del quale si sono costituiti, delle contraddizioni che essi riflettono in modo mistificante Intendendo il proprio metodo come esposizione di una "storia naturale" del capitale, Marx formula problematicamente un rapporto di determinazione tra struttura (economica) e sovrastruttura (ideologica) 22 • Tuttavia la sua pratica teorica eccede ogni immagine dialettica dell'esposizione dell'antagonismo fondamentale che segna la produzione di capitale, ogni schema ancora interno alla distinzione liberale tra società e Stato. Marx non riduce naturalisticamente il proprio oggetto né si limita a mostrare la storicità, bensì ne ricerca le leggi immanenti di sviluppo. Il dato politico essenziale è che il capitale forma un sistema storicamente determinato tra mezzi di produzione e lavoro, del rapporto sociale complessivo, Z:rtituzionale ed economico che, nella società borghese, comprende fin da subito la presenza dello Stato (~<l'ultimo scampo delle armonie economiche») come macchina di regolazione degli antagonismi specifici che precedono la produ2 '. 20. Marx ( 1969'), Balibar ( 1976), pp. 109 ss. 21. Marx ( r969a), r, pp. 296-7. 22. Su ciò Cohen lr987'), Bachmann (1988), pp. 128 ss., Elster (r987'). 17. ' POTERE E CRITICA DELL ECONOMIA POLITICA IN MARX zione e in questa si sviluppano. In Marx il tentativo di ridurre 3 la doppia centralità della società e dello Stato mostrandone il carattere transitorio o la derivazione dell'uno dall'altra, coincide con l'individuazione delle leggi immanenti di questa formazione sociale. A tal fine è insufficiente la ricostruzione storica del processo della cosiddetta accumulazione originaria, poiché il suo arcano, l'intreccio di diritto e violenza, coincide con l'impossibilità di ricostruire geneticamente il proprio oggetto, nel senso di un'origine puntuale e localizzabile nel tempo storico-politico. L' «anatomia della società borghese» comprende invece i presupposti del capitale «come risultati della sua esistenza». In tal senso la sussunzione di un processo lavorativo al dominio del capitale mostra il potere come specifico rapporto di forza 4. Specifico, perché per la forza lavoro non vale la legge dei valori (la commensurabilità tra valore d'uso e valore che regola lo scambio delle merci): essa è condizione di esistenza del capitale stesso e unica forza in grado di valorizzarlo, cioè di accrescerlo in quanto valore di scambio, denaro. Ciò che distingue il capitale da altri modi di appropriazione di lavoro altrui è il fatto che la coazione esercitata sui lavoratori non è esterna ma interna al processo di produzione immediato. La forza lavoro è incorporata nel processo di produzione, i cui mezzi materiali sono già possesso del capitalista. In tale processo l' appropriazione di pluslavoro z5 prende la forma di plusvalore, di un incremento indefinito della grandezza di valore misurata in tempo di lavoro sociale. n processo di appropriazione opera il dislocamento complessivo di un meccanismo economico-sociale in rapporto di potere, cioè in «funzione di sfruttamento di un processo lavorativo sociale». Il potere del capitalista è un dominio che è sociale in quanto esercita comando (in forma proprietaria) sulle condizioni materiali della produzione - cristallizzatesi in determinati rapporti istituzionali ed economici - e attraverso queste su lavoro formalmente libero. I rapporti materiali e giuridici di potere che costituiscono il capitale in quanto rapporto antagonistico tra lavoro "morto" e "vivo", determinano uno spazio politico non riducibile allo Stato né ai presupposti storici di questo modo di appropriazione 26 • Tutti i rapporti di sovranità e dipendenza derivano dallo specifico rapporto giuridico proprietario «di 2 2 23. Sulla transitorietà del dominio borghese nella doppia centralità di società e Stato Marx (r968'al, capp. 24 e 27, dove si sostiene il superamento del capitalismo all'interno delle condizioni storiche del modo di produzione capitalistico stesso. 24. Marx ( r969bl, pp. 51 ss. 25. Badaloni (r98ol, pp. 15-6. 26. Marx (1970), pp. 79 ss. 377 IL POTERE dominio e servitù» che il modo di produzione capitalistico genera 2 7. Lo Stato stesso appare come forma derivata della sussunzione del processo lavorativo, forma di un dominio sociale basato su configurazioni determinate di appropriazione di pluslavoro. Marx è lontano sia da ogni riduzione naturalistico-economicistica di questi processi "oggettivi", sia da ogni soluzione banalmente eticista delle loro contraddizioni. Contro la spoliticizzazione dell' economia, il nesso lavoro-dominio si presenta come forma specifica della produzione sociale. Essa comporta perciò un antagonismo insopprimibile, che non è semplice effetto del modo di produzione capitalistico (come per l'economia politica, che riduce l'antagonismo a conflitti distrzbutivi) bensì la sua condizione fondamentale. Nel suo sviluppo incessante, il capitale è una «contraddizione in processo», un prodotto di un antagonismo di classe che si sviluppa in contraddizioni reali, materiali e determinate. 17.2.2. Dispotismo del capitale, rivoluzione politica ed emancipazione sociale del lavoro Il nesso lavoro-potere si dà dunque nello spazio asimmetrico delle classi. La "classe" è definita dall'antagonismo specifico che la costituisce: dapprima come forza-lavoro antagonistica che sola può valorizzare il capitale, poi come classe operaia dentro il capitale, da questo organizzata e disciplinata come sua parte, elemento variabile di una trasformazione costante e sempre rinnovata della potenza del lavoro sociale in proprietà altrui, cioè in potere che, separando astrattamente possibilità e potenza, domina l'operaio (Marx, 1974, p. 491; Tronti, 1980 Il capitale - in quanto riproduce e incrementa il proprio valore - è valore di scambio resosi autonomo, denaro, e però "necessariamente" in processo. In quanto effetto e causa insieme di un antagonismo irriducibile, la "valorizzazione" di capitale è concepita da Marx come continuo costituirsi del dominio di una forma di temporalità - quella del comando, del valore o lavoro oggettivato - sul lavoro vivo. Valorizzazione del capitale e astrazione del lavoro indicano in Marx la forza con cui, dapprima in un lungo processo storico e poi nella continuità antagonistica del proprio costituirsi in forma di dominio, il capitale ha separato, "astratto" la potenza del lavoro cooperante dai singoli lavoratori, l'ha fatta propria, ridotta a unico "elemento" vivificante, per poi cristallizzarsi come sistema di potere. Con l'analisi della cooperazione come qualificazione produttiva 2 ). 27. Marx (r968'), pp. 902-3. I 7· POTERE E CRITICA DELL'ECONOMIA POLITICA IN MARX del lavoro sociale, Marx approfondisce una dimensione del potere che eccede lo statuto concettuale dell'economia politica, interessata unicamente alle grandezze di valore. Nella cooperazione opera una dimensione produttiva della socialità di cui il capitale si appropria, "remunerandola" secondo il metro contrattualistica del salario individuale. La cooperazione capitalistica è un pactum unionis et subjectionis dal quale promana il potere dispotico del capitale in quanto forma stessa del lavoro sociale. Qui il capitalista è, di fronte ai singoli operai, «l'unità e la volontà del corpo lavorativo sociale», volontà estranea che sottomette l'attività dei lavoratori combinati ai propri fini (ivi, p. 457; Marx, 1979), Il comando del capitale sul lavoro non è più semplice conseguenza formale del fatto che l'operaio lavora non per se' stesso ma per il capitalista, ma diviene esigenza imprescindibile del processo lavorativo, condizione della produzione (ivi, p. 455). Processo lavorativo e processo di valorizzazione, organizzazione e comando, associazione e subordinazione paiono tenersi linearmente come "legge del valore". Il capitalista stesso agisce come personificazione del capitale; la sua autorità promana dalla natura stessa del processo messo in moto. Non si tratta allora, weberianamente, di potere come «possibilità [per un comando concreto] di trovare obbedienza, presso certe persone», bensi di un potere-comando mai disincarnato da una materialità temporale scissa e antagonistica, irreversibilmente costitutiva per i due termini non omologhi del rapporto. Lo schema marxiano che contrappone "dispotismo" del capitale in fabbrica e "anarchia" della divisione del lavoro sociale risente decisamente dei limiti storici strutturali di una determinata fase del modo di produzione capitalistico. Tuttavia la definizione di dispotismo cerca di indicare una trasformazione radicale del concetto di potere che può essere colta solo nella trasformazione complessa, non lineare, del sistema istituzionale ed economico del lavoro sociale. Dal dominio della cooperazione produttiva il comando del capitale esce trasformato: da meta escrescenza del lavoro salariato associato a elemento ordinatore dell'assetto costituzionale. Quando il lavoro astratto si presenta come forza produttiva sociale e la sua organizzazione si distende sulla società «trasformandola in una fabbrica» (ivi, p. 486), allora esso determina tutti i rapporti di subordinazione impliciti nella sua natura, copre tutta intera la realtà sociale e pare ripeteme le articolazioni. Il capitale sociale è «la soppressione del capitale come proprietà privata nell'ambito del modo di produzione capitalistico stesso» (Marx, 19685 , p. 5r8l. Allora il processo di valorizzazione capitalistica del lavoro produttivo cooperativo diventa modello 379 IL POTERE e fondamento di un'articolazione sociale del potere che riproduce la duplice e unitaria natura del processo di lavoro, concreto e astratto. Nell'articolazione strettissima di organizzazione del lavoro e comando del capitale 28 Marx ritiene di poter individuare, come aspetto essenziale della società del capitale, la necessità per questo di realizzarsi in istituzioni politiche formali, in potere costituito. In quanto figura che p romana dal lavoro astratto assunto a contenuto della costituzione materiale, l'unità della società capitalistica è astratta e totalizzante. L'articolazione sociale del potere coincide ora con il sussistere del lavoro astratto come norma esclusiva di legittimazione alla quale vengono ricondotti democrazia ed egualitarismo. Opponendosi alla forma dispotica e autocratica (Marx, r 9 74, pp. 457 ss.) che promana dalla cooperazione stessa in quanto dominata, il lavoro associato-salariato dà prova di cittadinanza politica. L'analisi marxiana della natura della cooperazione produttiva sociale mostra l'asimmetria specifica che sussiste tra consistenza oggettiva della forza-lavoro come parte variabile del capitale, e classe "in sé e per sé", che si costituisce innanzitutto in rottura con se stessa in quanto parte del capitale. Il discorso marxiano sulla classe operaia non si riduce pertanto a rivendicare un "riconoscimento" del lavoro sulla base della sua "utilità" sociale o il risarcimento di una millenaria esclusione. Né di un nuovo bellum servzle si tratta: negando il carattere servile del lavoro, la classe non afferma legame sociale né identità, bensi un "soggetto" cui non corrisponde alcun "oggetto" dal lato del capitale. Questa fondamentale asimmetria del processo costitutivo di classe operaia non è risolvibile dialetticamente in semplice rovesciamento del rovesciamento: nessuna omologia è possibile. Definita per sottrazione al meccanismo di qualificazione giuridica costituito dalla rappresentanza, la classe è soggetto asimmetrico che eccede il meccanismo economico dell'equivalenza: sia per il singolo lavoratore - irrisarcibile dalla rappresentazione sociale realizzata nella cooperazione produttiva- sia per la classe, collettivo singolare definito da un insieme di pratiche che si richiamano e restano fedeli a un'idea di eguaglianza e di giustizia non saturabile economicamente. "Potere" non è più concetto di un rapporto, rappresentabile in chiave costituzionale, di cui si tratta di svelare la determinazione materiale, storica. In condizioni di capitale socializzato, le articolazioni istituzionali non si danno più come elementi del rapporto, ma come funzioni che promanano da un'unità dell'ordinamento che si vuole assoluta. Capitale e società appaiono perfettamente mediati, egua28. Cfr. Negri (1992), pp. 287-308. 17. POTERE E CRITICA DELL'ECONOMIA POLITICA IN MARX glianza e democrazia le forme in cui la parvenza viene esaltata, l' organicismo nella democrazia una necessità strutturale della società capitalistica, e ciò quanto più si approfondisce la natura antagonistica del processo di produzione, né localizzabile nella società civile né pensabile come contraddizione di questa. L'antagonismo nel processo di produzione non è dislocabile "dialetticamente" nell'unità superiore dello Stato, né la società appare come autonoma macchina produttiva da sostituire allo Stato. Questa ideologia socialista, affatto estranea a Marx, conduce inevitabilmente, in una sorta di continuo rinvio tra i due termini, a concepire i movimenti politici di classe operaia come prefigurazioni o anticipazioni di un'unità finalmente ricostituita di società e Stato. La critica dell'ideologia si fa critica delle articolazioni del potere sociale, della sua rappresentazione. In primo luogo, allivello del capitale sociale come logica di trasformazione dei "rapporti originari" di proprietà e dominio sul lavoro, la definizione marxiana di potere capitalistico coglie la natura legittimante di un dominio, che si vuole in forma "economica", esercitato sull'insubordinazione politica di classe operaia. Inoltre, il problema del rapporto di padronanza (l' appropriazione della produzione da parte dei produttori) muta radicalmente. È significativa la critica di Marx alla formula di Saint-Simon: sostituire il "governo delle persone" con l"' amministrazione delle cose" è rovesciare la politica in scienza della produzione industriale, ideologia di un dominio politico mascherato da necessità economica oggettiva. Tale formula, parallela alla scoperta tocquevilliana della centralizzazione di tutti i poteri nelle mani dell'autorità nazionale, è ancora del tutto interna alla separatezza liberale tra società e Stato, riproduce l'antinomia giuridica della circolazione capitalistica e dell'apparato statale, pretendendo che alla scomparsa dello Stato faccia da contropartita un elemento (l'amministrazione delle cose), di cui si sostiene il carattere non politico 2 9. Nella riflessione di Marx, è decisiva l'esperienza storica della Comune parigina. In quanto rivoluzione non contro una delle forme dello Stato, bensì «contro l'essenza stessa dello Stato», essa costituisce la «forma politica finalmente scoperta» nella quale si può compiere l'emancipazione sociale del lavoro (Marx, 1971, p. 137 e pp. 215-7). La Comune ha mostrato che «la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini» (ivi, p. r 30). Il suo primo 29. La formula di Saint-Simon anche in Engels (1950), p. 305. Qui però si tratta di individui e non di classi. Balibar (1976), pp. 85 e ro2; Meldolesi (r982l. IL POTERE atto dev'essere invece la distruzione del «potere collettivo delle classi dominanti». Marx non intende soltanto contrapporre a quello che in precedenza aveva definito il dispotismo della società del capitale la dittatura del proletariato in quanto necessaria forma dispotica che dovrebbe innescare la realizzazione materiale della democrazia «per l'immensa maggioranza», ma ripensare radicalmente, a partire da questa soglia "minima" di contrapposizione, il carattere e le forme del processo costitutivo della classe operaia come classe politica. Tale processo si presenta come nesso tra movimento politico della classe operaia e potere politico (Marx, 1984b, p. 333). Marx non ricorda solo "lo scopo finale", la conquista del potere politico, ma sostiene che è politico ogni movimento in cui la classe operaia come classe affronta le classi dominanti e cerca di esercitare su queste una pressione dall'esterno in modo da imporre i propri interessi in una forma che possegga forza universale socialmente cogente. Alla luce della Comune, Marx ritiene necessario apportare quindi una decisiva rettifica alla formulazione del Manifesto (Marx, 1970, pp. 308-9; cfr. Balibar, 1976, pp. 70 ss.), riconoscendo ora che il dominio politico degli operai «non può coesistere con la perpetuazione del loro asservimento sociale» (Marx, 1971, p. 137), e che dunque non si tratta semplicemente di sostituire al dominio di classe della borghesia quello del proletariato organizzato come classe dominante. La classe sfruttata non può, in senso oggettivo, materiale, esercitare il proprio potere con gli stessi mezzi e nelle stesse forme in cui esso viene esercitato dalla borghesia. Infatti, di nuovo, i termini di questo processo costitutivo non sono omologhi. Il proletariato dovrebbe costituirsi come classe dominante in un processo aperto a forme di pratica politica affatto diverse da quelle storicamente cristallizzatesi nella macchina statale: non mettendo in opera una "comunità fusionale", ma abolendo il meccanismo di rappresentanza del "popolo", aprendo tra sociale e politico un intreccio che porti la pratica politica di emancipazione sin dentro il rapporto di produzione 3o. Questo processo è una repubblica sociale 3', l'unica possibile perché unica forma politica che tiene 30. Marx ( r97r ), p. 26T «la classe operaia non può accontentarsi di prendere possesso della macchina dello Stato senza cambiarla, e di farla funzionare per il suo proprio conto. Lo strumento politico del suo asservimento non può servire come strumento politico per la sua emancipazione». 3r. lvi, pp. 226 ss.: «la repubblica è possibile solo affermandosi come repubblica sociale» che <<toglie di mezzo, sottraendolo alla classe dei capitalisti e dei grandi proprietari fondiari, l'apparato dello Stato e lo sostituisce con la Comune; che riconosce apertamente "l'emancipazione sociale" come il fine essenziale della repubblica, e ' 17. POTERE E CRITICA DELL ECONOMIA POLITICA IN MARX aperto il processo di emancipazione sociale dei lavoratori. Il tornante storico dal governo come «comitato d'affari della borghesia» allo Stato come continuità e riproduzione allargata del rapporto di sfruttamento si pone come problema della rottura politica dell'orizzonte capitalistico: esso non coincide più con quello dei limiti storici di un modo di produzione. Vita e opere Nato a Treviri il 5 maggio 1818, Marx fa subito parte a Berlino del gruppo dei "giovani hegeliani". Nel r842 dirige la liberale "Gazzetta Renana" e nello stesso anno si trasferisce a Parigi dove pubblica con Arnold Ruge gli Annali franco-tedeschi. Espulso dalla Francia, si trasferisce in Belgio nel r 845. Qui partecipa alla "Lega dei giusti", poi "Lega dei comunisti", dalla quale riceve con Engels l'incarico di scrivere il Manifesto del partito comunista. Gli studi di economia politica, iniziati con i Manoscritti del I 844, sono interrotti dalla rivoluzione del 1848, alla quale dedica Le lotte di classe in Francia e Il r8 Brumaio di Luigi Bonaparte. Nel 1847 critica la dottrina socialista di Proudhon (La miseria della filosofia). Di nuovo in Germania, dirige la "Nuova Gazzetta Renana". Dal 1849 è esule a Londra dove, in estrema indigenza, è corrispondente del "New York Daily Tribune" e di altri giornali. Partecipa attivamente ai movimenti di classe operaia e continua lo studio delle "leggi immanenti" della società capitalistica: nascono i Grundrisse. Del r867 è il primo volume del Capitale, i cui libri secondo e terzo usciranno postumi a cura di Engels, mentre le Teorie sul plusvalore verranno pubblicate da Kautsky nel 1905 con rimaneggiamenti. Nel r864 fonda la Prima Internazionale e nel 1870-71, su incarico del Consiglio generale di questa, scrive gli Indirizzi sulla guerra franco-prussiana, di cui il terzo tratta della Comune. Nel r870-72 conduce una lotta a fondo contro l'anarchismo di Bakunin. Nella Critica del programma di Gotha ( 1875) critica le tendenze al compromesso di Lassalle. Muore a Londra il 14 marzo 1883. Opere principali (1961-73-79), Teorie sul plusvalore I, II, III, Editori Riuniti, Roma. Il Capitale. Lzbro terzo, Editori Riuniti, Roma. (r969a), Lineamenti fondamentali della critica dell'economia poldica r8J7r8J8, r-rr, La Nuova Italia, Firenze. ( 1969b), Il Capitale: Ltbro r, capztolo vr inedzto, La Nuova Italia, Firenze. (1971), r87r. La Comune di Parigi. La guerra civzle in Francia, International Edizioni, Savona. MARx c. ID. ( 1968 5 ), ID. ID. ID. assicura in questo modo la trasformazione sociale per opera dell'organizzazione della Comune». IL POTERE ID. (1974), Il Capitale. Libro primo, ID. ( 1975a), UTET, Torino. Il problema ebraico ( = PE), in Scritti politici giovanili, a cura di ID. L. Firpo, Einaudi, Torino, pp. 355-93. (1975bl, Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in Scritti politici giovanili cit., pp. 394-412. (I 977a), Crztica della filosofia hegeliana del diritto pubblico ( = CFH), in Opere filosofiche giovanzli, trad. it. di G. Della Volpe, Editori Riuniti, Roma. ( 1977b), Manoscritti economico-filosofici del 1844 ( = MEF), in Opere filo- ID. sofiche giovanzli. (r984a), Rede au/ der ]ahres/eier des "People's Paper" (1856), in MEW, ID. ID. 12, pp. 3-4· (r984b), Lettera a Bolte 23 novembre 1871, in MEW, 33, pp. 327-33. ID. (1987), Lettera a Weydemeyer, in MEW, 28, pp. 503-9. 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D'altra parte muta anche l'assetto politico complessivo, la costituzione dei rapporti politici, e ciò mette in crisi la capacità espressiva dei concetti moderni così come la funzione legittimante della scienza politica. La societas civzlis dei giusnaturalisti, cioè quella vita sociale tra gli uomini che è resa possibile solo dalla nascita del potere del corpo politico, della sovranità moderna, attraverso un lungo cammino, ha dato luogo alla distinzione di società civile e Stato, distinzione divenuta chiara nel periodo della Rivoluzione francese, nel quale la costituzione dello Stato ha bisogno di riferirsi all'idea di una società omogenea di individui uguali, che sta alla base della nazione, alla quale sola spetta il potere costituente. La distinzione di società civile e Stato comporta la nascita di una dialettica che si afferma nell'Ottocento, secolo nel quale la stessa società perde l'iniziale connotazione di omogeneità per mostrarsi luogo di conflitti e di tensioni, che devono essere controllate e organizzate in modo pacifico, come pure luogo di emancipazione di masse che erano escluse dalla partecipazione alla vita politica. La distinzione e la dialettica tra società civile e Stato appare in crisi nei primi decenni del nuovo secolo: essa infatti, nella sua prima formulazione, richiede una superiorità e neutralità dello Stato nei confronti delle parti sociali, il suo non farsi parte, pena la perdita di legittimità dell'obbligazione politica, perché nel suo farsi parte lo Sta- IL POTERE to non fa che acuire i conflitti sociali, mostrando di perdere quel carattere di tutela degli uguali diritti che legittimava la sottomissione di tutti al potere politico. Già in Hegel la distinzione di società e Stato è intesa in modo tale da rendere impossibile una loro considerazione come ambiti separati, e il concetto di costituzione (Ver/assung), irriducibile al significato formale del termine, rende deboli e contraddittorie sia l'immagine di una società civile che si collochi prima e fuori della politica, sia l'idea di un soggetto che con un atto totalmente creativo fondi la costituzione dello Stato. A maggior ragione dopo un secolo segnato dalla categoria della società civile, in una mutata realtà storica qual è quella dell'Europa degli anni Venti e Trenta del xx secolo, Carl Schmitt, nell'opera fondamentale Dottrina della costituzione, individua nel concetto di Verfassung quell'intreccio di elementi sociali e politici che caratterizzano gli Stati contemporanei. Se mai c'è stata la possibilità di distinguere e separare i due concetti, questa non si dà più all'altezza dei processi delle moderne democrazie di massa. Le vicende della Repubblica di Weimar, con la continua contrattazione politica che mette in crisi lo stesso concetto di sovranità dello Stato, così come la sua legittimità, sono indicative della crisi anche epocale di un apparato concettuale. La distinzione tra la privatezza, che caratterizzerebbe i rapporti sociali, e la pubblicità, che sarebbe propria dell'agire politico, della manifestazione dello Stato e delle sue leggi, non regge più. Fenomeni che dovrebbero essere indicati come privati o sociali, e che sono relegati ad un ambito di contrattazione tra i singoli, mostrano di avere una rilevanza pubblica e politica (si pensi ad esempio ai contratti di lavoro e al peso che hanno nelle vicende politiche le organizzazioni sindacali e imprenditoriali), il che comporta l'intervento sempre più capillare dello Stato e dei poteri pubblici in questo ambito. Di contro l'insieme di decisioni che passano attraverso gli organi del potere politico non appaiono più come unitario prodotto di un soggetto, che si collochi al di sopra delle parti sociali e dei loro conflitti, ma sempre più come frutto di lotte, di mediazioni, di accordi tra i partiti, i gruppi e le forze presenti nella società. La nozione di potere politico viene in tal modo a perdere la nitidezza propria della costruzione formale della sovranità moderna e viene ad essere sempre meno collocabile in uno spazio determinato, quello dei poteri dello Stato. Con Weber si assiste a una riformulazione epistemologica complessiva, che sarà decisiva per il concetto di potere. La scienza perde l'illusione di fondare razionalmente la vita pratica, non è più considerata, come in Hobbes, il vero fondamento della pace e dell'ordine tra COMPIMENTO E CRISI DELLA SOVRANITÀ gli uomini. Essa viene a prendere un carattere oggettivo: è "scienza di realtà", anche se quest'ultima è priva di ogni carattere antologico ed è attingibile solo dal punto di vista di colui che osserva scientificamente. L'ambito pratico è invece quello in cui si possono e si debbono fare scelte, che non sono però garantite, né scientificamente fondabili. La distinzione che sottostà a questo impianto epistemologico è quella tra fatti e valori, giudizi di fatto, che sono di pertinenza della scienza e giudizi di valore, che appartengono alle scelte etiche, alla vita pratica. In questo orizzonte epistemologico Weber dà la celebre definizione del potere politico (Herrscha/t), come rapporto formale di comando-obbedienza, e quella dello Stato come monopolio della forza legittima, definizioni che servono ad illuminare la storia del potere moderno. Egli intende tuttavia formulare tipi ideali che vanno al di là del concetto moderno e anche del potere politico nel senso della sovranità. Ciò non significa che in realtà la definizione della Herrscha/t, come pure quella dell'ubbidienza non siano legate alla storia fin qui esaminata: non sono in effetti pensabili senza lo sviluppo di quel pensiero giusnaturalistica che ha contribuito a ciò che lo stesso Weber intende come il processo di razionalizzazione proprio dell'Occidente moderno. Ma d'altra parte il significato nuovo che viene ad assumere la scienza, come scienza di realtà, e la separazione tra l' ambito etico delle scelte e quello oggettivo della scienza comportano uno scarto radicale sul modo di intendere il potere. Questo non coincide più con la sovranità come costruzione razionale della forma politica, non è più l'oggetto di una fondazione razionale che deve fare da guida nella vita pratica, ma diventa qualcosa di oggettivo, di reale, che si tratta di analizzare, mediante una scienza dei comportamenti sociali. D'ora in poi la scienza politica si porrà su questa nuova base e il potere non coinciderà più con la sovranità. Nell'orizzonte weberiano di comprensione dei rapporti sociali il fenomeno del potere politico viene ad essere collegato all'idea della politica come lotta per il potere, come tentativo di esercitare dominio e forza (Macht) attraverso la conquista del potere legittimo, il potere politico (Herrschaft). Siamo nel periodo della nascita dei grandi partiti di massa che determinano la scena contemporanea e che, lungi dall' essere semplice registrazione delle idee e degli interessi della società, abbisognano di una organizzazione razionale e burocratica per determinare consenso nell'opinione pubblica e conquistare il potere. La rappresentanza parlamentare, nella teoria legittimante che è presente nelle stesse costituzioni moderne a partire da quella francese del I79I, dovrebbe essere il luogo di formazione della volontà generale e IL POTERE dunque dell'espressione della sovranità del popolo attraverso il suo organo rappresentativo. In realtà, nell'analisi weberiana il Parlamento appare essere tutt'altro: palestra di lotta dei capi politici e luogo di mediazione di decisioni prese in altra sede, fuori del processo tradizionale di autorizzazione. La stessa radicalizzazione schmittiana del concetto di sovranità è emblematica della trasformazione della forma politica e della sua legittimità. Se la ben nota espressione «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione» non ha il significato dell'arbitrio e dell'assolutezza della decisione, tuttavia essa indica la difficoltà di intendere la sovranità in modo formale, come collocata cioè nelle persone che sono autorizzate a svolgere le funzioni in cui consiste l'esercizio del potere. Il concetto concreto e complesso di costituzione è il terreno in cui . si attua la decisione, che è effettiva in quanto è efficace, riuscendo a mettere in forma e a dare ordine ad una realtà complessa. La riflessione di Schmitt sulla teologia politica coglie i processi di secolarizzazione insiti nella genesi dei concetti politici moderni e insieme anche l'impossibilità di intendere questi ultimi sul piano della mera immanenza, senza cioè quel rapporto con l'idea che appare costitutivo della politica. Attraverso la teologia politica egli problematizza e radicalizza quei concetti del diritto pubblico all'interno dei quali si è pensata la forma politica moderna. Se la sua radicalizzazione del diritto pubblico e la sua problematizzazione dei presupposti della forma politica moderna tendono ad evidenziare una. dimensione esistenziale e riaprono il problema politico, il suo pensiero resta determinato dalla forma eolitica moderna; ed è quest'ultima che egli permette di intendere. E significativo che, proprio in un periodo di crisi dei concetti politici moderni e della figura dello Stato come entità super partes e garante dei diritti di tutti, la riflessione schmittiana consista in una tematizzazione della forma politica che getta luce sulla logica costitutiva dei concetti politici moderni. In ciò consiste la grande prestazione del pensiero di Schmitt, nella comprensione della logica di quella costruzione concettuale che caratterizza i secoli dello Stato moderno. Perciò è utile ripercorrere i tratti salienti della sua analisi per intendere il significato e la centralità del concetto di potere politico - qual è pensato nei modi della moderna sovranità - e la vocazione all'unità che è connaturato a tale concetto. Dall'unità politica è connotato anche il concetto di rappresentanza politica o Reprasentation, di cui egli, come pure Leibholz (1929), ha inteso tutta la centralità. La sua riflessione illumina il momento di nascita del nesso sovranità-rappresentanza e consente perciò di intendere la rilevanza del pensiero hobbesiano per la scienza politica mo39° COMPIMENTO E CRISI DELL.A SOVRANITÀ derna. Ma proprio la chiarezza con cui la rappresentanza moderna è legata al tema dell'unità politica rivela quanto sia difficile e contraddittorio pensare, mediante il complesso di concetti che stanno alla base dello Stato moderno, le differenze, la pluralità dei soggetti e delle forze, il problema della partecipazione. Con Schmitt sembra ormai alla fine la grande stagione del diritto pubblico europeo Oo jus publicum europaeum), cioè lo scenario determinato dai rapporti tra stati sovrani. Sembra alla fine lo stesso concetto di sovranità, sia inteso nel senso della sovranità dello Stato verso l'esterno, a causa dei vincoli molteplici che limitano la espressione della volontà statale, sia verso l'interno, per i processi sopra indicati, secondo i quali gli stessi poteri statali appaiono essere organi di mediazione di decisioni prese in altro luogo. La riflessione schmittiana appare centrale, sia pure come elemento polemico, in alcuni autori che hanno il punto di partenza del loro itinerario di pensiero nel crogiolo di riflessione che si ha nella Germania degli anni V enti e Trenta, ma che hanno trovato poi in America il luogo propizio alla loro attività culturale. In modo diverso Eric Voegelin, Leo Strauss e Hannah Arendt avanzano una domanda radicale nei confronti della scienza politica moderna e fanno emergere, all'interno del campo dei concetti moderni incentrati sul potere, alcune aporie fondamentali. La radicalizzazione schmittiana della forma politica è valorizzata da Voegelin, ed è importante per lo sviluppo del suo pensiero sul concetto di rappresentanza, centrale per la sua Nuova scienza politica; tuttavia Schmitt gli appare ancora prigioniero della scienza politica moderna. Con il pensiero filosofico di Voegelin, di Strauss e della Arendt, irriducibile in ogni caso alla dimensione propria della costruzione teorica moderna, si assiste a un tentativo di mettere in discussione fino in fondo i presupposti della scienza moderna e di riproporre il problema del giusto e del bene. Questa interrogazione va di pari passo con il riattingimento del modo proprio del pensiero greco di pensare la sfera dell'agire, modo che offre un quadro irriducibile a quello moderno del potere. Ciò che appare significativo in questi autori è non tanto l'insieme delle proposte avanzate, che possono apparire deboli o inesistenti, ma il ripresentarsi invece di un'interrogazione filosofica che riapre il problema su cui è divenuta muta la scienza politica. L'intenzione non è quella di riproporre le dottrine o le soluzioni dei Greci, o l'attualità del loro pensiero, quanto di far rivivere un atteggiamento di pensiero che in essi si è manifestato, aprendo contemporaneamente lo spazio per un modo di essere nella realtà che supera gli schemi e i modelli della teoria e la volontà, che ad essi si affida, di dedurre teoricamen391 IL POTERE te la prassi. L'agire politico si ripresenta nella sua problematicità, come pure si ripresenta la domanda sulla giustizia, al di là della soluzione moderna consistente nel nesso tra il concetto di libertà e quello di potere. Riferimenti bibliografici Pur rimandando agli apparati bibliografici dei singoli capitoli, si indicano qui alcuni testi che, per rilevanza o ampiezza di spettro problematico, sono da tenere presenti per l'insieme dei temi affrontati nella presente parte. BELLAMY R. (1992), Liberalism and Modern Society. An Historical Argument, Polity Press, Cambridge. · ROBBIO N. (1993), Diritto e potere. Saggi su Kelsen, ESI, Napoli. cosTA P. (1986), Lo Stato immaginario. Meta/ore e paradigmi nella cultura giurzdica italiana fra Ottocento e Novecento, Giuffrè, Milano. n uso G. ( 1988), La rappresentanza: un problema di filosofia politica, Angeli, Milano. EMERSON R. (1928), State and Sovereignty in Modern Germany, Yale University Press, New Haven. GALLI c. ( 1996), Genealogia della politica. 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Determinante per lo sviluppo dell'Occidente moderno risulta, nella visione weberiana, il "disincantamento del mondo" (Entzauberung der Welt), come progressivo affrancamento della cultura occidentale da presupposti magici e metafisici, e la connessa affermazione in tutti i campi della vita della "razionalità formale", ossia della razionalità strutturata in base al calcolo. La registrazione del processo di razionalizzazione dà luogo nella riflessione di Weber ad esiti contraddittori: alla visione di un sapere teso a raggiungere livelli sempre più alti di specializzazione e di rigore logico si accompagna l'idea di una scienza dipendente da scelte soggettive per la sua costituzione e per l'individuazione dei suoi oggetti; le categorie politiche classiche, se ancora utilizzate, perdono quel residuo fondamento di trascendenza che possedevano nella tradizione filosofico-politica moderna, mutando il loro senso e il loro rapporto reciproco '. Questi aspetti dell'approfondimento weberiano vanno contestualizzati nel dibattito filosofico e metodologico del suo tempo. Deve essere tenuta presente, in primo luogo, l'affinità che sussiste, anche al di là delle citazioni esplicite (ES 1, p. 495, 499; SR pp. 230 ss.), tra l'opera di W eber e quella di Friedrich Nietzsche Per entrambi gli 2• Fondamentali, a riguardo, le osservazioni di Lowith (r994l, pp. 4-5 e 24-7. Ormai molte sono le ricerche stÙ rapporto Weber-Nietzsche, tra cui ricordiamo Fleischmann (r964l; Eden ( 1983 l; Hennis ( 1991 l, pp. 193-220; Tyrell ( 1991 l; Peukert (1993l; Owen (1994l. r. 2. 393 IL POTERE autori il contrassegno culturale specifico della modernità è costituito dall'affermazione della soggettività razionale; essi riconoscono la genesi di tale soggettività nell'ascetismo cristiano e ne inseriscono lo sviluppo in un processo che consolida l'autonomia dell'individuo, ma al contempo riduce progressivamente i suoi spazi di libertà. Tanto nella teoria weberiana del disincantamento quanto nella metafora nietzschiana della "morte di Dio" traspare la convinzione della definitiva scomparsa di ogni forma di trascendenza, che da un lato affranca il soggetto da qualsiasi istanza superiore ma dall'altro aggrava drammaticamente la responsabilità della decisione individuale. Implicita in tale posizione speculativa è l'emergenza di un problema relativo al senso e al valore: la giustificazione del mondo non può più essere fatta dipendere da concezioni religiose, la storia perde lo statuto di sapere universale, la validità di ogni asserzione riposa su convincimenti soggettivi. Il differente atteggiamento di fronte all'avvento della razionalità tecnica, di rifiuto nel caso di Nietzsche e di inevitabile accettazione nel caso di Weber, non nasconde il comune pessimismo di entrambi di fronte ai prodotti del pensiero razionale. Su queste basi, anche il confronto con la scienza politica moderna, che aveva fondato la sua fortuna sulla deduzione razionale dell'ordine politico, non può che avvenire con una sensibilità diversa rispetto al passato. Weber, peraltro, occupa una posizione di spicco nel dibattito sullo statuto delle scienze storico-sociali sviluppatosi in Germania nella seconda metà del secolo scorso e nel primo Novecento, che ha tra i suoi maggiori esponenti Wilhelm Dilthey, Wilhelm Windelband, Heinrich Rickert. In tale dibattito viene diversamente articolata la distinzione tra il metodo delle scienze spirituali o culturali, a cui spetta la comprensione dei fenomeni politici, e quello delle scienze fisiche e naturali: nel saggio del 1904 intitolato L"'oggettività" conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale W eber qualifica le seconde come "scienze di leggi", tese all'elaborazione di regole generali, e le prime come «scienze di realtà», orientate all'isolamento dei fatti culturali nella loro individualità (M, pp. 84 ss.). W eber esclude che queste ultime possano raggiungere una conoscenza esaustiva del loro oggetto; il loro compito consiste piuttosto nella comprensione dei fenomeni a partire da punti di vista "adeguati", in una relazione non priva di tensioni con le prese di posizioni valutative. Egli adotta come procedura specifica delle scienze culturali l'individualismo metodologico elaborato dalla scuola economica marginalistica e in particolare da Cari Menger, in cui la significanza dei concetti è inversamente proporzionale alla loro ampiezza. Il ragionamento scientifico sulla poli tica può ancora utilizzare il metodo razionale-deduttivo, ma la sua pe394 I8. MAX WEBER: TRA LEGITTIMITÀ E COMPLESSITÀ SOCIALE culiarità risiede orma1 m una prassi conoscltlva diversa. Le opzioni epistemologiche weberiane hanno importanti ricadute anzitutto sulla visione del potere: questo si configura, almeno in prima istanza, come un fenomeno appartenente ad una "realtà" complessa non conoscibile mai nella sua interezza; il concetto di "potere" deve porre in essere un'astrazione degli aspetti essenziali di tale realtà, operando programmaticamente al di fuori di qualsiasi sapere unitario. 18.1 La concezione weheriana della politica Ad una esplicita caratterizzazione della politica Weber perviene soltanto nella tarda maturità, qualifìcandola, sia pure con alcune oscillazioni terminologiche, come aspirazione al potere (ES r, p. 54; PCP, pp. 48-9). Le osservazioni weberiane relative al potere emergono in opere diverse per tema e prospettiva analitica 3; nella fase più avanzata della riflessione dell'Autore esse si inseriscono in una disamina del rapporto tra fattori economici, politici e religiosi nello sviluppo della cultura occidentale, testimoniata dalla Sociologia della religione, che 3· Una considerazione esaustiva dei diversi contesti di formulazione dei riferimenti al potere da parte dell'Autore esula dai limiti di questo contributo. TI tema assume particolare rilievo almeno nei seguenti momenti della riflessione weberiana: negli studi sulle società commerciali nel Medioevo, i cui risultati vengono pubblicati nella Geschichte der Handelsgesellscha/ten im Mittelalter del I899; nelle ricerche sull'economia agraria antica, testimoniate anzitutto dalla Storia agraria romana del I89r e dalla voce Agrarverhi:iltnisse im Altertum del Handworterbuch der Staatswissenscha/ten, edita in tre diverse stesure tra il I 897 e il I 909 Oa terza versione è pubblicata in edizione italiana con il titolo Storia economica e sociale dell'antichità); nelle ricerche sulla condizione dei lavoratori agricoli nelle province prussiane ad est dell'Elba, svolte a partire dal I89o; nella Prolusione accademica di Friburgo del I895, specialmente nella cornice delle considerazioni sulla politica di potenza della Germania; negli scritti sulla situazione politica della Russia dopo la rivoluzione del 1905; nell'intervento al primo Congresso tedesco di sociologia del I 9 I o; in una parte dei saggi relativi alla metodologia delle scienze storico-sociali; nei numerosi articoli e discorsi relativi a questioni politiche e costituzionali tedesche; nella conferenza La politica come professione del I919; nelle lezioni sulla Storia economica tenute tra il I9I9 e il 1920; negli studi comparativi delle religioni universali, ora raccolti nella Sociologia della religione; nelle analisi confluite in Economia e società. Va tenuta presente l'eterogeneità degli scritti che compongono quest'ultima opera: una maggiore unitarietà possiede la prima parte, ove il potere viene definito nei Concetti sociologici fondamentali e trova ampia trattazione nel capitolo intitolato I tipi del potere; nella seconda parte sono in particolare da segnalare la Sociologia del diritto, la Sociologia del potere e la sezione dedicata alla tematica della città, che compare con il titolo non originale [{ potere non legittimo. 395 IL POTERE raccoglie testi scritti tra il 1904 e il 1920, e dall'opera intitolata Economia e società, la cui prima parte è stata elaborata dopo la prima guerra mondiale e pubblicata per volontà dell'autore, mentre la seconda parte contiene saggi composti separatamente e con finalità diverse nel periodo 1909-13 4. Il ragionamento di Weber sul potere, che viene svolto con un linguaggio non sempre traducibile in lingua italiana ricorrendo a crit eri uniformi 5, fornisce le sue migliori prestazioni sotto il profilo concettuale in alcuni degli scritti raccolti in Economia e società. Nei Concetti sociologici fondamentali, la cui elaborazione risale agli ultimi anni di vita dell'Autore, il potere (Herrschaft) viene definito come «possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, ad un comando che abbia un determinato contenuto» (ES r, p. 52). Tanto nel capitolo intitolato I tipi del potere, che viene scritto nello stesso arco di tempo, quanto nella Sociologia del potere, composta nel periodo precedente la prima guerra mondiale, la specificità della relazione di potere viene illustrata affermando che il comando influisce «come se» i dominati avessero, per loro stesso volere, assunto il contenuto del comando per massima del loro agire (ES r, p. 209, n, p. 2 5 r). In quanto strutturato dal rapporto comando-obbedienza il concetto di "potere" è considerato da Weber maggiormente determinato rispetto a quello di "potenza", legato alla mera affermazione della volontà in ambito sociale (ES r, pp. 52-3, r, p. 207, n, p. 230, n, p. 246). La credenza nella legittimità del potere, ossia nella sua validità, risulta fondamentale nella definizione weberiana dello Stato come 4· Da condividere ci sembra l'analisi di S. Breucr, che vede nella Sociologia della religione e in Economia e società due momenti di articolazione della ricerca weberiana sul potere secondo diverse prospettive (Brcuer, 1991, pp. 13-32). Propensi invece a riconoscere nella Sociologia della religione il momento genetico della concettualità politica weberiana sono: Tenbruck (1993); Accarino (1994), pp. 146-265. 5. Ci riferiamo alla traduzione dei termini Herrschaft, Ma eht e Gewalt, utilizzati da Weber nella sua riflessione sul potere. La Herrschaft, che assumeremo qui in primo luogo come "potere", viene qualificata nei Concetti sociologici fondamentali come caso speciale della "potenza" (Macht), che di per sé è la possibilità di far valere la propria volontà in una relazione sociale. Il termine Macht, tuttavia, viene spesso utilizzato nell'analisi sociale e negli Scritti politici per indicare rapporti autoritativi e ha in tali casi il significato di potere politico. Come è noto Weber riconosce la specificità del potere dello Stato nel «monopolio della forza (Gewalt o Gewaltsamkeit) fisica legittima»; va però tenuto presente il diverso significato delle Gewalten nel linguaggio weberiano quando esse indicano i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario come determinazioni costituzionali (in argomento Schrnidt, 1989, pp. 248-55). Alcune questioni legate alla traduzione della parola Herrschaft sono inoltre dipendenti dal riconoscimento di un condizionamento storico della teoria weberiana del potere: si veda la nota I 3· 18. MAX WEBER: TRA LEGITTIMITÀ E COMPLESSITÀ SOCIALE «monopolio della forza fisica legittima» (ES I, p·. 53, u, p. 2n; SR, p. 535; PCP, p. 48), in cui la vigenza materiale del potere e il suo riconoscimento da parte dei dominati assumono pari rilievo. Si tratta di una definizione che prescinde dagli scopi dello Stato, incentrandosi sul "mezzo specifico" della forza: secondo Weber lo Stato si presenta come unico titolare di un uso riconosciuto della forza fisica. L'autore ravvisa, inoltre, una forma specifica di Stato sviluppatasi nell'Occidente moderno: lo Stato occidentale moderno avrebbe origine con l'unificazione dei mezzi amministrativi in un vertice unico e si configurerebbe come una "impresa istituzionale" in cui prende progressivamente il sopravvento l'amministrazione razionale e in special modo quella burocratica (PCP, pp. 54-5). Tanto per i suoi referenti storici che per le sue caratteristiche concettuali pare ammissibile avvicinare la teoria weberiana dello Stato occidentale moderno alla nozione di forma politica illustrata in questo volume, ossia ad un assetto di potere in cui la concentrazione delle prerogative di comando viene giustificata sulla base del riconoscimento soggettivo dei sottoposti. Anche la struttura teoretica della categoria di "rappresentanza politica", cardine della tradizione @osofico-politica, appare almeno in prima istanza inalterata nel concetto di "rappresentazione libera" (ES I, pp. 291-4), ritenuto da Weber peculiare dell'Occidente moderno 6 . L'esercizio del potere politico, proprio perché svolto da rappresentanti della totalità dei cittadini, viene formalmente concepito come indipendente da qualsiasi istruzione particolare, anche da quelle degli stessi elettori: il rappresentante «è il signore (Herr) eletto dai suoi elettori e non il loro "servitore"» (ES I, p. 29I). Centrata sul riconoscimento soggettivo del potere è anche la teoria della legittimità, elaborata tra il I 909 e il I 9 I 3 ed esposta più volte negli anni successivi (ES r, pp. 207-5I, n, pp. 260-470; PCP, pp. 49-50; SR, pp. 255-9), in cui Weber distingue tre tipi di potere in base a tre forme di credenza nella validità del medesimo. Il primo tipo, quello legale-razionale, poggia sulla credenza nella validità razionale di norme ed è contraddistinto dall' ordinarietà e dall'impersonalità: la sua più compiuta espressione è costituita dalla burocrazia moderna. Il potere carismatico è invece fondato sulla credenza in qualità 6. Gli elementi di analogia tra la definizione weberiana dello Stato e la forma politica moderna vengono sottolineati da Duso ( r 988). Limitatamente alla presenza nella riflessione di Weber di un concetto di «potere>> fondato sulla rappresentazione di una volontà centrale si veda anche Breuer (r99r), pp. 9-ro. 397 IL POTERE caratteristiche di un capo; esso si palesa, all'opposto del potere legale-razionale, come personale e straordinario, cioè limitato nella sua durata perché detenuto da una persona fisica. Il potere tradizionale si fonda sulla credenza in un insieme di regole del passato la cui validità riposa sul costume e/o sulla consuetudine: è ordinario e personale, nel senso che la credenza, riferita direttamente alle norme di carattere tradizionale, legittima un'autorità individuale avente prerogativa di comando in base ad esse. Ai tre tipi corrispondono modalità differenti di esercizio del potere e quindi generi diversi di amministrazione 7. I tre tipi di potere sono concetti «tipico-ideali» (le forme categoriali ritenute da W eber specifiche delle scienze storico-sociali): essi esplicano la loro funzione nella comprensione di fenomeni risultanti più o meno vicini ad uno o all'altro dei tipi e nella maggior parte dei casi non coincidenti con uno di essi. In particolare viene negata la riconoscibilità di un potere reale esclusivamente burocratico, in quanto quest'ultimo ha «inevitabilmente, alla sua testa, almeno un elemento non puramente burocratico» (ES r, p. 2r6l. Secondo Weber la decisione politica, riconducibile alla configurazione del potere carismatico e dotata di una razionalità diversa da quella amministrativa, completa ed eccede necessariamente il potere burocratico. Oltre ad un uso metastorico dei tipi di potere da parte dell'autore, se ne può ravvisare uno più direttamente riferito alla realtà del suo tempo: il tipo legale-razionale viene utilizzato per la comprensione dell'elevato grado di burocratizzazione raggiunto dallo Stato in epoca contemporanea e quello carismatico viene impiegato, nella riflessione sulle componenti plebiscitarie della democrazia di massa, per interpretare il potere, instaurato per acclamazione ed eventualmente legittimato elettoralmente, di capi capaci di conquistare la fede delle masse. Nella tarda proposta politica della democrazia plebisdtaria del capo (Fiihrerdemokratie) (PCP, pp. 98-9; SP, pp. 365-70), centrata sull'elezione diretta della massima carica dello Stato, può peraltro essere visto il tentativo da parte di Weber di trovare una conciliazione tra razionalità e decisione politica 8 . Quanto al rapporto della teoria weberiana del potere con la tradizione filosofico-politica, le diverse interpretazioni possono essere raggruppate a fini espositivi in due settori. Nel primo rientrano gli studi che a diverso titolo sostengono la novità della posizione di W e7. È nota l'affermazione di W eber secondo cui <<ogni potere si manifesta e funziona come amministrazione>> (ES n, p. 252). 8. Cfr. in argomento Mommsen (1993), pp. 591 ss.; Mommsen (1974); Cavalli (r98rl, pp. 203 ss. 18. MAX WEBER: TRA LEGITTIMITÀ E CO~fPLESSITÀ SOCIALE ber: in essa non entrerebbe più in discussione l'autorità politica come tale, in una cornice teorica che ne giustifichi la titolarità o l'esercizio da parte di uno o più soggetti, bensì le modalità del suo riconoscimento 9; Weber prenderebbe le distanze da una nozione dello Stato come àmbito della politica, definendo la stessa in relazione ad un potere che non troverebbe necessariamente nello Stato la sua esplicitazione ro. La seconda linea interpretativa insiste sul condizionamento storico della concettualità politica weberiana e ravvisa nella problematica del riconoscimento del potere un elemento interno alla forma politica moderna: i tipi di potere risulterebbero dipendenti dal contesto culturale moderno e in relazione ad esso assumerebbero quindi significato n; tanto il concetto di «potere» che quello di "legittimità" troverebbero definizione in rapporto ad una concezione della unitarietà del potere politico propria soltanto della modernità 12 ; il potere politico moderno sarebbe fin dall'inizio fondato, grazie all'artificio contrattualistico, sulla volontà dei soggetti sottoposti al potere stesso; nel rapporto tra il tipo legale-razionale e quello carismatico emergerebbe la reciproca implicazione tra la razionalità della costruzione politica moderna e l'elemento necessariamente personale intrinseco alla decisione politica '3. Tale opzione interpretativa implica una presa di posizione determinata rispetto alla metodologia dell'analisi weberiana: 9· Bobbio (r98rl; Th. Wi.irtenberger, voce Legztimitiit, Legalztiit, in Brunncr, Conze, Koselleck (1972), Bd. 3., p. 735· IO. Rossi ( 1988l. L'internità della politica allo Stato nella visione weberiana è sostenuta invece da V. Sellin (voce Polittk, in Brunner, Conze, Koselleck, I972, Bd. 4., pp. 872-3). TI. Hintze (199ol, pp~ 148 ss. 12. Brunner ( 198 7). Secondo Brunner la teoria weberiana della legittimità si inserisce in una prospettiva di pensiero tipica della Germania del secolo XIX. n potere legale-razionale si riferirebbe al modello dello Stato amministrativo-burocratico; il potere carismatico costituirebbe lo strumento di comprensione delle forze rivoluzionarie che interrompono l'esercizio ordinario dell'obbligazione politica e al contempo producono nuove forme di potere; il potere tradizionale, infine, verrebbe pensato in riferimento al principio monarchico, specialmente negli aspetti per cui esso fa valere la propria legittimità richiamandosi, in contrapposizione alla sovranità popolare, ad un (indimostrato) carattere tradizionale. I3. Duso (I 9 88). Con attenzione alla signifìcazione moderna del termine Duso traduce pertanto la Herrscbaft weberiana con <<potere» (ivi, p. 64). Questa è del resto anche l'opzione di P. Rossi nella resa dell' «aspetto più propriamente politico della sociologia weberiana» (Avvertenza, in ES, pp. LVII-LVIII). L. Cavalli, occupandosi del potere carismatico tanto nei suoi aspetti moderni che premoderni, ritiene più adeguato l'uso del termine <<dominio» (Cavalli, I98I, pp. I9·2o). B. Spagnuolo Vigorita, traducendo invece un testo weberiano relativo ai rapporti agrari nell'antichità, opta per <<signoria>> (Avvertenza, in SES, p. xvm). 399 IL POTERE Weber porrebbe in essere un uso generalizzato del concetto di «potere», utilizzandolo anche in riferimento ad epoche e ambiti culturali diversi dal suo contesto moderno di significanza I4. I8.2 n potere oltre la sovranità Nella riflessione di Weber appare acquisito il superamento, maturato nel corso del xrx secolo, delle teorie giusnaturalistiche: specialmente nella Sociologia del diritto egli sottolinea l'impossibilità di far derivare i rapporti di potere dai principi di un diritto naturale ormai relativizzato e privo di una dignità sovraempirica (ES n, pp. 174-86). Il più rilevante scostamento della posizione weberiana rispetto a tale tradizione consiste, non a caso, nella presa di congedo dal concetto di potere come "sovranità", che era stato logicamente costruito dalla scienza politica moderna in modo tale da escludere qualsiasi possibilità di resistenza. Il termine Souveranitat è assente dalla teoria del potere di Weber '5, ma soprattutto non sono ravvisabili nel suo ragionamento sedi istituzionali concretamente in grado di esercitare un potere irresistibile ' 6 . Se con la formula del monopolio della forza fisica legittima W eber coglie l'aspetto essenziale di un assetto politico nel quale l'irresistibilità del potere viene fatta derivare formalmente dal riconoscimento di tutti, il suo interesse è però prevalentemente centrato sull'agire e sulle sue motivazioni: come egli sintetizza nel saggio del I 9 I 3 Alcune categorie della sociologia comprendente «per la considerazione sociologica dietro la parola "Stato" - quando essa lo impiega in generale sta soltanto un processo di azioni umane di specie particolare» (M, 14- Recenti ricerche hanno inoltre messo in evidenza la presenza nei primi studi storici weberiani relativi all'antichità di un interesse per problematiche moderne che influenzerebbe l'argomentazione dell'autore in materia: in SES Weber tenderebbe a caratterizzare il <<capitalismo anticm> nei suoi elementi di distinzione rispetto al capitalismo moderno (Capogrossi Colognesi 1990, pp. 266 ss.); nella Stona agrarz'a romana del 1891 sarebbe in realtà operante una comparazione tra l'evoluzione agraria romana e quella tedesca medioevale e moderna (Marra, 1995, pp. 33-92). r 5. L'edizione italiana della Politica come professione può trarre in inganno nei passi ove Herrschaft viene tradotto con «sovranità>>. Consigliamo in questo caso il confronto con l'edizione in lingua originale. r6. Diverso è l'uso del concetto di «Sovranità>> che Weber pone in essere in riferimento ad alcune sette protestanti in quanto organismi extrautoritari (RS, p. 215; ES n, pp. 52 3-4). In merito alla libertà della setta dal potere statale egli afferma, del resto, che essa non ha nulla a che fare con la teoria dello Stato di Rousseau (ES n, p. 528). 400 18. MAX WEBER: TRA LEGITTIMITÀ E COMPLESSITÀ SOCIALE p. 258). In contrapposizione alla tradizione di pensiero nella quale la società veniva definita per via negativa in rapporto allo Stato, in quanto momento non politico, W eber considera lo Stato stesso come una forma di agire sociale. D'altronde, utilizzando raramente il concetto di «società» (Gesellscha/t) e ponendo a tema della sua analisi gli atti associativi (Vergesellschaftungen), egli prende distanza da una visione unitaria della società come insieme di tutti gli individui ancora presente nell'opera di un esponente della scienza sociale del suo tempo quale Ferdinand Tonnies '7. Weber giunge ad affermare che lo stesso comando può avere effetto su soggetti diversi secondo modalità di influenza differenti e può trovare obbedienza in soggetti diversi per ragioni diverse. La bilateralità del rapporto di potere era già contemplata dalla teoria costituzionale e amministrativa, in forza del principio per cui un soggetto pubblico può essere sovraordinato ad un altro secondo alcune competenze e ad esso subordinato secondo altre competenze; Weber ritiene però sempre ammissibile che un soggetto, anche privato, nella sua relazione con un altro soggetto, possa risultare dominante sotto un determinato aspetto della relazione e dominato sotto un aspetto diverso della medesima (ES n, pp. 25r-2l. La ricchezza del quadro teorico weberiano traspare nella distinzione tra il «potere costituito in virtù di una costellazione di interessi» e il «potere costituito in virtù dell'autorità» (ES n, p. 247), normalmente compenetrantisi a vicenda. Ad essa fa capo la visione del reciproco condizionamento tra razionalità politica e razionalità economica, che trova una delle sue maggiori espressioni nella qualificazione dello Stato occidentale moderno come «impresa istituzionale» e nel parallelo riconoscimento dell'impresa come specifico soggetto economico occidentale (ES n, p. 470; SR, p. 6; SE, p. 243) ' 8 • Fondamentale è inoltre la distinzione tra potere politico e «potere ierocratico», da cui procede la differenziazione dello Stato dalla Chiesa, come gruppo di potere che avanza la pretesa del monopolio della coercizione psichica mediante concessione o rifiuto di beni sacri (ES I, p. 53). La categoria di "Chiesa" assume rilievo tanto nell'analisi delle sinergie tra fenomeni politici e religiosi (ES n, pp. 471-529), quanto nella complessiva disamina degli sviluppi culturali (p. es., limitatamente all'Occidente moderno, SR, pp. 145 ss., 197 ss.). 17. Swla differenza tra le posizioni di Weber e di Téinnies: M. Riedel, voce Gesellschaft, Gemeinschaft, in Brunner, Conze, Koselleck ( 1972), Bd. 2., pp. 858-9. Sull'assenza del concetto di "società" nella riflessione di Weber: Tyrell ( r 994). r 8. In argomento Marcuse (T 967). IL POTERE Le osservazioni storiche weberiane, che vengono svolte a partire dal riconoscimento di atti associativi fondamentali caratteristici di ogni gruppo sociale in ogni periodo storico, rimangono sostanzialmente estranee alla rideterminazione del concetto di "costituzione" (Ver/assung) a partire dalla quale Otto Hintze tentava nell'epoca di W eber l'articolazione di un sapere storico forte '9. Se nella riflessione weberiana va perduta la storicizzabilità delle relazioni sociali 20 , forse proprio per questo, tuttavia, essa perviene all' evidenziazione di specificità che in una rigida distinzione tra contesti culturali moderni e premoderni rischierebbero di essere trascurate. Basti qui ricordare l'interesse che continuano a suscitare gli studi weberiani sulla città europea medioevale (GHG; SES, pp. 323-35; ES n, pp. 553-669; SE, pp. 126-8, 276-94), come luogo di sviluppo di forme economiche e pratiche giuridiche su cui si innesterà, più tardi, la genesi dello Stato moderno r. Marcate sono le differenze del ragionamento weberiano sulla democrazia diretta rispetto alla linea di pensiero che la concepiva come forma di governo caratterizzata dalla detenzione e dall'esercizio del potere da parte del popolo: essa è per Weber una forma di amministrazione contraddistinta dalla forte limitazione dei rapporti di potere e viene considerata primariamente un «caso limite tipologico» (ES r, pp. 286-7, rr, pp. 252-6). Problematico è però, per quanto già osservato, anche il riconoscimento nella sua teoria del potere della democrazia rappresentativa in senso tradizionale, cioè come forma di Stato contraddistinta dalla detenzione del potere da parte del popolo e dall' esercizio del medesimo da parte dei suoi rappresentanti. Weber pose in essere un approfondito esame e una critica della situazione istituzionale dell'Impero tedesco Oa forma assunta da tale critica nella fase più matura è testimoniata da SP, pp. r67-242, 2932 19. L'attenzione di Weber per la costituzione è centrata, negli scritti di natura più marcatamente teorica, sulla critica della «costituzione in senso giuridico>>, che esprime la divisione formale dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario (Gewaltenteilung) (ES I, p. 28o, r, p. 292l; il riferimento ad una <<costituzione in senso sociologico», attinente all'effettiva distribuzione del potere nello Stato, emerge nella considerazione delle lacune dell'ordinamento giuridico (ES I, p. 329l. 20. Che nell'opera di Weber sia in atto una rideterminazione del concetto di «Storia>> viene sottolineato da M. Riedel nella citata voce in Brunner, Conze, Koselleck (r972l. 21. Nell'ampia letteratura sul problema della città medioevale si veda specialmente: Brunner ( 1970), pp. rr7-32; Chon ( 1985 ); Schluchter (r988l, Bel. 2., pp. 463-76; Andrini (r99ol, pp. 81-98; Marra ( r992l, pp. 95-162; i saggi di K. Schreiner, E. Voltmer e O. G. Oexle in Meier (r994l, pp. rr5-242; Colliot-Thélène (!995). 402 18. MAX WEBER: TRA LEGITTIMITÀ E COMPLESSITÀ SOCIALE 352; PG; PCP, pp. 95-7) 22 • I punti qualificanti delle proposte di riforma costituzionale avanzate dall'autore consistono, almeno fino al I9I8, nella «democratizzazione», intesa come introduzione del suffragio universale paritario in Prussia e negli altri Stati tedeschi ove esso non sussisteva, nella «parlamentarizzazione», ossia nella rimozione degli ostacoli che impedivano la formazione di un governo che fosse espressione della maggioranza del Parlamento federale, e in una modifica dell'architettura istituzionale che ridimensionasse la potenza della Prussia a livello federale. Se la riflessione di Weber sul federalismo non introduce elementi di novità su un piano di teoria del potere, in quanto non mette in discussione la struttura centralistica dell' autorità politica all'interno dei singoli Stati tedeschi, ma l'assetto dei loro rapporti, originale è il modo in cui viene concepita la trasformazione del Parlamento e del governo federale. Weber ritiene decisivo da un lato rendere il Parlamento in grado di controllare l'amministrazione statale e dall'altro fare di esso un luogo di selezione di capi: il conflitto non verrebbe eliminato nel Parlamento, bensì privato dei suoi aspetti più pericolosi e utilizzato per la formazione di autentici dirigenti politici attraverso la competizione per il potere. La frequente caratterizzazione della politica come «lotta» (per esempio PG, pp. 32, 52) indica, del resto, che il problema fondamentale per Weber non è quello della neutralizzazione del conflitto, ma quello del suo rapporto con la decisione. La struttura concettuale della rappresen. tanza politica permane nella forma che aveva assunto nella costituzione francese del I 79 I, ma l'attenzione è rivolta alla necessità di un controllo politico della burocrazia e a quella di rendere produttiva la lotta tra i partiti. Il riconoscimento della responsabilità del governo di fronte al parlamento è di per sé presente nei termini del «governo di gabinetto» della costituziohe inglese, ma la visione weberiana è ormal lontana dall'idea liberale delle sedi istituzionali come luoghi di 22. Il Parlamento federale tedesco (Reichstag), eletto a suffragio universale diretto, non era in grado di esprimere autonomamente un governo, né tantomeno di controllarlo. Il cancelliere non era infatti responsabile del proprio operato di fronte al Parlamento federale, ma formalmente soltanto di fronte all'imperatore. La Prussia, assieme ad altri ro Stati tedeschi, conservava un diritto elettorale basato sulla divisione della popolazione in classi di censo, che favoriva la classe di contribuenti più agiata; ciò si ripercuoteva non soltanto sulla formazione delle Camere rappresentative e dei governi in tali Stati, bensì anche sulla composizione del Bundesrat, la seconda Assemblea federale, in cui sedevano i delegati nominati dai governi dei singoli Stati. Nel sistema federale la Prussia deteneva, inoltre, una posizione di preminenza, avendo la prerogativa di nominare un numero di delegati al Bundesrat di gran lunga superiore a quello di qualsiasi altro Stato tedesco. IL POTERE soluzione dello scontro politico z3. Elementi classici della dottrina costituzionale sono utilizzati da Weber con una sensibilità tipicamente novecentesca, non differentemente da quanto accade nel dibattito caratteristico della transizione alla Repubblica di Weimar. Va però segnalato che l'autore non condivise il progetto di costituzione di Hugo Pretill poi approvato dall'Assemblea costituente e sostenne, tra il 1918 e il 1919, l'idea dell'attribuzione di poteri di governo al presidente della repubblica. Questa proposta, più che nel senso di un recupero dell'orizzonte tematico della sovranità, va vista come il tentativo di realizzare una struttura istituzionale rigida, nella quale le tendenze disgreganti dei partiti fossero incanalate e ridotte. Anche prescindendo dal significato storico-politico specifico delle proposte di riforma costituzionale avanzate da Weber, l'aspetto concettualmente più rilevante della sua posizione risiede nell'astrazione della categoria di «potere», che facendo dell'obbligazione una componente dell'agire anche al di là della sfera politica 2 4, permette di cogliere una complessità sociale non controllabile dagli strumenti teorici tradizionali. Se, come si è visto, la struttura teoretica del concetto di «rappresentanza politica» risulta ancora riconoscibile nel tipo ideale della rappresentazione libera, W eber sostiene d'altronde che la burocratizzazione dei partiti politici «trasforma il deputato da "signore" dell'elettorato in servitore del capo della macchina del partito» (ES r, p. 294), mettendo in discussione la prerogativa dell'indipendenza del rappresentante. In effetti notevole è lo scostamento della teoria weberiana da referenti liberali classici nei quali il parlamento, in quanto camera dei rappresentanti, veniva considerato come organo di potere. Il parlamento viene spesso da Weber presentato come luogo di ratificazione di decisioni prodotte, al di fuori di esso, nelle organizzazioni partitiche e nei centri di interesse economico. Il grado di autonomia riconosciuto in particolare alle organizzazioni partitiche, se non giunge ad annullare il riconoscimento formale del potere politico centrale, rende tuttavia ardua la riproposizione di quell'immagine dello Stato come unità politica che aveva per condizione la negazione dei corpi particolari. Il problema della espressione-formazione della 2 3. Mommsen insiste correttamente sul carattere funzionalistico della concezione weberiana del parlamentarismo (Mommsen, r993, 578 ss). In materia si veda anche Galli (r988). 24. Da condividere l'annotazione di D. Hilgher secondo cui la neutralizzazione del concetto di «potere» da parte di Weber pone le basi per la sua trasformazione in una categoria fondamentale dell'esistenza umana: cfr. la voce Herrscha/t in Brunner, Conze, Koselleck (1972), Bd. 2., p. ror. 18. MAX WEBER: TRA LEGITTIMITÀ E COMPLESSITÀ SOCIALE volontà popolare per via rappresentativa risulta a questa altezza svalutato e vengono privilegiate da W eber questioni tecniche di gestione del potere. L'opera weberiana, proprio perché da una parte ancora legata a categorie politiche classiche e dall'altra tesa al loro utilizzo in una prospettiva di pensiero ormai lontana dalla tradizione, costituirà un punto di riferimento imprescindibile per altre riflessioni novecentesche: tanto per quegli autori, come Carl Schmitt, che a partire dal concetto weberiano di "potere" articoleranno un radicale tentativo di ricostruzione dell'unità politica, quanto per quegli studiosi che faranno tesoro, invece, dell'astrazione di tale concetto confrontandosi con una "realtà" sociale, non necessariamente o prevalentemente politica, multilaterale e differenziata 5. 2 Vita e opere Max Weber condusse studi di giurisprudenza presso le Università di Heidelberg, Strasburgo, Gottinga e Berlino e si abilitò alla docenza universitaria nel r892. Insegnò economia politica e scienza delle fìnanze presso le Università di Friburgo e Heidelberg; svolse attività accademica, per più brevi periodi, anche presso l'Università di Vienna e quella di Monaco di Baviera. Fu attivo nel Circolo per la politica sociale (Vereùz /ur Sozialpolitik), un'organizzazione di studi economici e sociali fondata da esperti di economia politica, e nel Congresso evangelico-sociale (Evangelisch-sozialer Kongre/S), in cui prendeva forma l'impegno sociale del movimento evangelico. Fu codirettore dell"'Archivio per la scienza sociale e la politica sociale" (Archiv /ur Sozialwissenscha/t un d Sozialpolitzk), la maggiore rivista di studi sociali dell'epoca, e promotore del primo Congresso tedesco di sociologia nel 1910. II suo interesse per la politica si espresse più come pubblicista che nella militanza diretta, a causa del suo rapporto critico con le forze politiche çlel suo tempo; aderì nel 1918 al Partito democratico tedesco. Appartenne, al termine del primo conflitto mondiale, alla Delegazione tedesca per la negoziazione della pace a Versailles e partecipò alle discussioni preliminari sul progetto di costituzione presentato all'Assemblea costituente di Weimar. Opere principali L'edizione critica in lingua originale delle opere dell'autore è la Max- WeberGesamtausgabe, Mohr, Tubingen, in corso di stampa dal 1984. 25. Alcuni di questi esiti speculativi vengono presi in considerazione nel presente volume: sul carattere e sui limiti dell'approfondimento schmittiano si veda il contributo di Scalone (cap. 19l; riguardo all'influenza della posizione weberiana sulla riflessione sociale novecentesca rimandiamo invece all'intervento di Giacomini (cap. 21l. IL POTERE Economia e società, trad. di P. Rossi e altri, Comunità, Milano 19743 (ES). Die Geschichte der Handelsgesellscha/ten im Mittelalter, in Gesammelte Au/satze zur Sazia!- und Wirtscha/tsgeschichte, hrsg. von Marianne Weber, Mohr, Tiibingen 1924, pp. 312-445 (GHG). Il metodo delle scienze storico-sociali, trad. di P. Rossi, Einaudi, Torino 1958, pp. 143-237 (M). La politica come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, trad. di A. Giolitti, Einaudi, Torino 1983 3 (PCP). Parlamento e governo. Per la crttica politica della burocrazia e del sistema dei partzti, trad. di F. Fusillo, Laterza, Bari 1982 (PG). Storia economica. Linee di una storia universale dell'economia e della società, trad. di S. Barbera, Donzelli, Roma 1993 (SE). Storia economica e sociale dell'antichità, trad. di B. Spagnuolo Vigorita, Editori Riuniti, Roma 1981 (SES). Scrztti politici, trad. di P. Manganaro, Giannotta, Catania 1970 (SP). Soczologia della religzone, trad. di P. Rossi, Comunità, Milano 1981 (SR). Letteratura critica (1994), Ingiustizia e storta. 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L'irruzione sulla scena politica delle grandi masse popolari organizzate in partiti e il ruolo crescente svolto da esse - circostanza rispetto alla quale il primo conflitto mondiale, come mostrano la traumatica fine dell'impero guglielmina e le vicende convulse della repubblica dei consigli, ha costituito un potente acceleratore - hanno reso in breve del tutto obsoleta la forma costituzionale vigente. In particolare, il Parlamento non sembra più il luogo della decisione politica ma, tutt'al più, il luogo nel quale vengono ratificate decisioni prese altrove. In questo quadro si inseriscono le note analisi di Weber sul carattere cesaristico della democrazia contemporanea e sulla centralità che di conseguenza viene ad assumere il problema della selezione dei capi. Ciò però non sembra collocare la nuova realtà politica e costituzionale al di fuori dell'orizzonte concettuale della modernità: al contrario, proprio perché ancora caratterizzata dalla nozione di Herrscha/t, essa appare riconducibile alla dimensione rappresentativa propria della forma politica moderna, costituendone in qualche modo il compimento '. I. Ha scritto Bobbio (r98rl, p. 220, con riferimento alla nozione di Stato avanzata da Weber in La politica come professione: «[Essa] rientra nella tradizione classica del pensiero politico perché riprende idealmente (dico "idealmente" non essendoci alcun riferimento a Hobbes nelle opere di Weber) la spiegazione che Hobbes dà dello Stato [. .. ]. Si può dire allo stesso titolo che per Hobbes lo stato è, con le parole di Weber, il monopolio della forza legittima, così come per Weber è, con le parole di IL POTERE Da questo punto di vista, si può affermare che - al di là delle differenze 2 - la riflessione sul potere di Cari Schmitt costituisca uno sviluppo ed una radicalizzazione di taluni aspetti di quella weberiana, tanto che in Schmitt qualche interprete ha potuto ravvisare se non un "legittimo discepolo", almeno un "figlio naturale" di Weber 3. Non è un caso che le critiche weberiane e quelle schmittiane nei confronti del parlamentarismo siano in larga misura omologhe. Ma se Weber attribuiva pur sempre al parlamento il compito di formare e selezionare i capi politici, Schmitt ritene che, essendosi esaurita ogni fiducia nei suoi fondamenti spirituali, esso non possa più rispondere in alcun modo ai problemi politici di un'epoca dominata dalle grandi masse e dalla forza fascinatrice del mito (cfr. LHP). Egli avverte una forte discontinuità rispetto al xrx secolo: le trasformazioni del plesso politica/economia in direzione dello Stato totale e la necessità di controllare i processi entropici determinati dal proliferare dei centri di potere e dallo stabile organizzarsi delle parti ripropongono in termini inediti il problema della Herrschaft. La soluzione proposta, direttamente riconducibile all'antecedente weberiano 4, è quella di un presiHobbes, il detentore esclusivo del potere coattivo». Sul problema dell'internità del pensiero politico weberiano all'orizzonte concettuale moderno e ai suoi legami con la tradizione giusnaturalistica inaugurata da Hobbes, cfr. altresì Duso (r988), pp. 5582. Per un'analisi più articolata del concetto weberiano di potere, rimandiamo inoltre al saggio di Manfrin nel presente volume (cAP. r8). 2. Eiscrmann ( 1994), pp. 77 e 84, ha messo in luce la distanza fra il punto di vista "sociologico" e descrittivo di Weber, mirante alla determinazione delle nozioni di diritto e Stato all'interno di una teoria generale dell'agire sociale e quello politicogiuridico di Schmitt, mirante a cogliere drammaticamente l'elemento di debolezza della forma-Stato moderna, quello attraverso cui avrebbero fatto irruzione, svuotandola dall'interno, liberalismo e positivismo giuridico (cfr. in/ra, PAR. 19.zl. È lo stesso Schmitt, d'altronde, che in Teologùz politica sviluppa il suo concetto di forma giuridica - strettamente connesso alla nozione di decisione (cfr. in/ra, PAR. 19.3) - differenziandolo criticamente dalla razionalità giuridica weberiana, eccessivamente caratterizzata in direzione della «riflessione specialistica>>, della «regolarità>> e «calcolabilità>> e del «perfezionamento tecnico nel senso della prevedibilità>> (TP, p. 53l. Sull'argomento, cfr. altresì Portinaro (r982l, soprattutto p. 159, e Galli (1996), il quale sottolinea che se il pensiero di Weber resta legato ad una <<prospettiva di razionalizzazione in direzione statuale>> (p. roo), e quindi alla «tradizione tedesca dello Stato di "potenza"» (p. ror), Schmitt, che nel giovanile WS <<alla decisione arriva proprio criticando la Macht>> (zbzd.), realizza una prestazione più radicalmente decostruttiva della «mediazione razionale>> (p. roz), rappresentata dalla forma-Stato moderna. · 3· Cfr. l'intervento di]. Habermas in Stammer (r965), trad. it. p. 107. 4· Mommsen (1974'), trad. it. pp. 565-6 scrive: «La teoria schmittiana dell'autorità plebiscitaria del presidente del Reich come rappresentante, di contro al pluralismo dei partiti, della volontà politica collettiva del popolo costituisce uno sviluppo unilaterale, ma del tutto intrinseco al loro spirito - delle richieste weberiane>>. Egli 410 19. IL POTERE IN CARL SCHMITT dente della repubblica super partes in grado di porsi, forte dell'investitura popolare, quale custode della costituzione e della decisione politica fondamentale in essa racchiusa. Diversamente, l'alternativa è una compagine statale debole, incapace di prendere decisioni, ostaggio di questo o quel gruppo di potere, sempre sull'orlo della dissoluzione o, peggio, della guerra civile (cfr. SE). 19.2 La critica al liberalismo e al positivismo giuridico Sulla base di quanto detto, si può comprendere la polemica schmittiana nei confronti del liberalismo e del positivismo giuridico. Il primo, come risulta dal celeberrimo Der Begriff des Politischen, è incapace di esprimere un autentico pensiero politico. Infatti esso pone l'individuo come terminus a quo e terminus ad quem e la sua ragion d'essere consiste nel limitare un potere già dato in nome della difesa «della libertà borghese e della proprietà privata» (CP, p. 156). È chiaro che un pensiero di questo tipo risulta del tutto inutilizzabile nel momento in cui a divenire problematica è la stessa unità politica. È largamente nota la tesi avanzata da Schmitt in questo saggio, secondo la quale criterio specifico del politico sarebbe la distinzione amico/nemico (cfr. CP, p. ro8) 5. Con ciò Schmitt non intende individuare una sostanza metastorica, ma proporre uno strumento atto a ripensare ciò di cui il liberalismo appare strutturalmente incapace di dar conto: da un lato la genesi della forma-Stato, dall'altro, come suoi presupposti necessari, l'ostilità interumana e la possibilità del conflitto. A tal fine soccorre altresì il riferimento a Hobbes, «pensatore dawero grande e sistematico» e alla sua «concezione "pessimistica" dell'uomo» (CP, p. 149). D'altronde, la pretesa liberale di negare o neutralizzare il politico non ne evita la cogenza: «Come realtà storica - scrive Schmitt - il liberalismo si è sottratto al "politico" altrettanto poco di ogni altro mutamento umano, ed anche le sue neutralizzazioni e spoliticizzazioritiene inoltre che l'equazione schmittiana sovrano/Stato d'eccezione sia già implicita· mente presente in Weber (cfr. 564n.l. 5. Tale distinzione- dice Schmitt- assume il suo "significato reale" dal fatto di riferirsi «in modo specifico alla possibilità reale dell'uccisione fisica>> (CP, p. n6), giacché <<è da questa possibilità estrema che la vita dell'uomo acquista la sua tensione specificamente politica» (CP, p. II8). Ciò a prescindere dalla sfera umana che deter· mina la contrapposizione: <<Ogni contrasto religioso, morale, economico, etnico o di altro tipo si trasforma in contrasto politico, se è abbastanza forte da raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici» (CP, p. 12ol. 411 IL POTERE ni [ ... ] hanno un significato politico» (C'P, p. 155). Anzi, proprio il giudizio morale che è connesso a tale pretesa può portare a guerre particolarmente cruente contro un nemico visto come «violatore e disturbatore della pace» e dichiarato pertanto hors-la-loi e hors-l'umanité (CP, p. I 65) 6 . La negazione del politico ha come esito soltanto la criminalizzazione dell'avversario. Viceversa, il riconoscimento realistico della possibilità del conflitto ne permette la regolamentazione giuridica - come quella realizzata dal sistema europeo degli Stati - realizzando così <<Una relativizzazione dell'ostilità. Ogni relativizzazione del genere costituisce un grosso progresso in senso umanitario» (P, p. 92). Del positivismo giuridico Schmitt - con un procedimento argomentativo analogo a quello messo in campo contro il liberalismo critica il fatto di assumere l'ordinamento giuridico semplicemente come dato, senza porsi il problema dell'istanza che lo rende vigente. «Come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, si parla continuamente di una progressiva unità e ordinamento; come se sussistesse un'armonia prestabilità fra il risultato di una libera conoscenza giuridica ed un complesso legato in unità solo nella realtà politica, si parla di una scala di ordinamenti inferiori e superiori che è possibile ritrovare in tutte le disposizioni positive fornite alla giurisprudenza» (TP, pp. 46-7). Kelsen, che del positivismo giuridico è il rappresentante più prestigioso, limita programmaticamente la propria analisi al diritto positivo. Secondo Schmitt ciò comporta il risultato - paradossale per chi, come il giurista austriaco, difenda la purezza della scienza giuridica - di rendere il diritto indifeso di fronte alla fatticità: «In Kelsen hanno vigenza soltanto norme positive, cioè quelle norme che hanno effettiva vigenza; esse vigano non perché debbono vigere per la loro maggiore giustezza, ma, senza riguardo a qualità come razionalità, giustizia ecc., solo perché sono positive. Qui cessa improvvisamente il potere e cade la normatività; al suo posto appare la tautologia di una cruda effettività: qualcosa vige, se vige e perché vige. Questo è "positivismo"» (CP, p. 22). Viceversa, per Schmitt il diritto si pone in un'irriducibile ulteriorità rispetto alla m era norma: esso è un'entità ideale che deve essere realizzata. Sulla base di tale convinzione, già nel giovanile Gesetz und 6. Lo stesso progresso tecnico, !ungi dal risultare neutrale, può portare tanto ad un miglioramento materiale, quanto «alla produzione di armi e strumenti terrificanti» (CP, p. r6z). Schmitt ritornerà più volte su queste tematiche, in particolare nelle ultime pagine di Politische Theologie II, attraverso uno stringente confronto con Hans Blumenberg. Sull'argomento ci permettiamo di rimandare a Scalone ( r 988). 412 I9. IL POTERE IN CARL SCHMITT Urtetl egli sottolineava il ruolo della decisione giudiziaria come tramite necessario fra diritto e insieme delle norme, al punto da giustificare una decisione giudiziaria conforme al diritto e pertanto difforme dalla lettera della legge: «Fin dove il diritto positivo è in grado di garantire la certezza giuridica e suscita una prassi univoca, la "conformità alla legge" della decisione è una prova della sua giustezza. Ma non appena determinati elementi esterni al contenuto della legge positiva scuotono questa prassi [ ... ] questa congruenza tra "conformità alla legge" e giustezza della decisione cade ed un giudizio emanato contro il senso della legge può, nonostante ciò, esser giusto» (GU, pp. 112-3) 7, I medesimi problemi, ma in un ambito non più limitato alla dimensione giudiziaria, sono presenti in un altro scritto giovanile, Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen, ove Schmitt ribadisce la dimensione ideale del diritto e attribuisce allo Stato il compito di collegare tale dimensione alla realtà realizzando il diritto (cfr. WS, pp. 2-3). Il diritto non è riduci bile al fatto o alla mera forza, né alla norma semplicemente posta: «La sfera del diritto non può essere inclusa nell'ambito del diritto positivo, vigente di fatto» (WS, p. 20). Ma non vi è alcuna regola in base alla quale si possa dedurre il diritto e trascriverlo nella norma e nell'insieme delle norme; per questo c'è bisogno di un'istanza intermedia che, in qualche modo, si assuma il rischio della decisione: «Tra ogni concreto ed ogni astratto c'è un baratro che nessun passaggio graduale può colmare» (WS, p. 79). Così, se da un lato la decisione statuale non ha senso se non come realizzazione del diritto, dall'altro tale congruenza non è mai garantita. Come vedremo, l'insuperabilità di tale iato costituisce a giudizio di Schmitt l'elemento di radicale carenza di legittimazione della forma-Stato moderna 8 . 19·3 Decisione sovrana e realizzazione del diritto: la teologia politica Schmitt, dunque, si propone di ovviare in termini teorici all'incapacità del liberalismo e del positivismo giuridico di fornire risposte ade7· Naturalmente, nulla può garantire a priori che in tali condizioni la sentenza sia effettivamente giusta: in presenza dell'ineliminabile discrasia fra diritto e norma, la prassi giuridica comporta necessariamente l'elemento del rischio che il riferimento alla razionalità giuridica può limitare, ma non eliminare. 8. Sull'argomento, cfr. Galli (I996l, p. 332: «Lo Stato è, per Schmitt, Konstruktion, è un artificio e uno strumento che insiste in una insuperabile contingenza>>. IL POTERE guate ai problemi del presente, dovuti ai processi di crisi e trasformazione dello Stato. In questa direzione muove un altro scritto giustamente famoso, Teologia politica. Anche qui il punto di partenza è weberiano, cioè la "sociologia dei concetti giuridici" sviluppata in Economia e società. Schmitt, per la verità, ne propone un'accezione parzialmente diversa, ma lo fa procedendo in una direzione non estranea all'orizzonte concettuale dello stesso Weber, cioè in quella di un ripensamento e approfondimento della nozione di Herrscha/t 9. Se per questi la sociologia dei concetti giuridici consiste nel fare riferimento all'«ambito di persone che si occupano professionalmente della creazione del diritto» 10 , per Schmitt, ciò è ancora solo «psicologia» (TP, p. 67): a suo avviso la sociologia dei concetti giuridici rettamente intesa «consiste nel fatto che, superando la concettualità giuridica orientata ai più immediati interessi pratici della vita giuridica, viene rintracciata la struttura ultima, radicalmente sistematica, e questa struttura concettuale viene poi comparata all'elaborazione concettuale della struttura sociale di una determinata epoca» (TP, p. 68). Operando in questo modo si scopre, a suo avviso, che da conformazione giuridica della realtà politico-storica ha sempre trovato un concetto la cui struttura coincideva con la struttura dei concetti metafisici» (TP, p. 69). Se si guarda al periodo in cui si sono formati i concetti fondamentali del lessico politico-giuridico moderno, ovvero al secolo xvn, si vede come allora fosse largamente diffusa la convinzione metafisica per cui «le opere costituite da più uomini non sono così perfette come quelle per cui ha lavorato uno solo» (TP, p. 70). Nessuna sorpresa, allora, che il pensiero politico coevo sia incardinato sulla nozione di sovrano, inteso «come un'unità personale e come causa ultima» (TP, pp. 69-70). Ciò vale in particolare per il pensiero di Hobbes, che per Schmitt costituisce il paradigma della moderna concezione della politica e del diritto. La sua dipendenza dalla concezione metafisica dominante spiega infatti perchè «Hobbes, nonostante nominalismo e scienze naturali, nonostante la sua riduzione dell'individuo ad atomo, rimane tuttavia personalista e postula un'istanza ultima, concreta, decisiva e proietta anche il suo Stato, il Leviatano, nel mitologico, facendolo diventare una persona mostruosa» (TP, p. 7ol. L'applicazione della sociologia dei concetti giuridici così intesa 9· Da questo punto di vista, non è irrilevante che la prima edizione della Teologia polztica compaia in una raccolta di scritti in onore di Weber. ro. M. Weber (I972'), Wirtscha/t und Gesellscha/t, trad. it. Comunità, Milano 1961, vol. I, p. I. 19. IL POTERE IN CARL SCHMITT produce dunque, secondo Schmitt, il seguente risultato: la nozione di Stato risulta incomprensibile a prescindere da quella di decisione personale, giacché essa è stata costituita a ridosso di una concezione metafisica nella quale i concetti di decisione e persona svolgono un ruolo costitutivo. Se nelle "situazioni normali" ciò non appare con evidenza, è nelle situazioni d'emergenza, quelle che per loro natura non sono prevedzbzli in una fattispecie giuridica, che tale connessione risulta in tutta la sua necessità. È in questi casi eccezionali che si evidenzia l'intrascendibilità della decisione personale sovrana e si manifesta pienamente il suo carattere specifico, tanto che Schmitt può affermare che «Sovrano è chi decide sullo stato d'eccezione» ( TP, p. 3 3) ". Questo è il motivo per cui la decisione non può essere espunta dalla considerazione giuridica: chi lo fa, come i rappresentanti del positivismo giuridico, disconosce l'orizzonte concettuale all'interno del quale tutti i concetti giuridici moderni trovano la loro origine e il loro senso. Occorre allora tornare a Hobbes, inteso come il «rappresentante classico» di quella «scientificità giuridica» più di altre consapevole «della peculiarità normativa della decisione giuridica» ( TP, p. 57), ovvero del fatto che «l'idea giuridica non può mutare da sè sola» e che «in ogni trasformazione» deve essere sempre presente una auctorztatis interpositio (TP, p. 55). È importante notare come in quest'opera, in modo sostanzialmente analogo agli scritti giovanili, la nozione schmittiana di decisione e quella, ad essa strettamente legata, di sovranità rivendichino sempre l'appartenenza alla dimensione giuridica. La decisione non si costituisce oltre o contro il diritto, ma è un aspetto specifico della forma giuridica stessa. Scrive Schmitt: «La forma giuridica non ha la vuotezza aprioristica della forma trascendente, poiché essa nasce proprio dalla concretezza giuridica. Essa non è neppure la forma della precisione tecnica, poichè questa risponde ad un interesse finalizzato essenzialmente fattuale, impersonale. Essa infine non è nemmeno la forma della creazione estetica, che non conosce alcuna decisione» (TP, p. 59). La sociologia dei concetti forgiata in Teologia politica consente di intendere rettamente, contro quello che secondo Schmitt 1 r. Va ricordato come in generale Schmitt attribuisca all'eccezione, al caso estremo, una particolare efficacia ermeneutica: «L'eccezione- scrive in TP, p. 41 -è più interessante del caso normale. Quest'ultimo non. prova nulla, l'eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell'eccezione>>. E in CF, p. u8 ribadisce~ «TI caso d'eccezione ha un'importanza particolarmente decisiva, in grado di rivelare il nocciolo delle cose». IL POTERE è lo snaturamento formalista del positivismo giuridico, lo specifico della forma giuridica e in particolare il suo rapporto strutturale con la decisione. 19·4 Logica e aporie del concetto di Repriisentation L'analisi schmittiana sembra dunque aver conseguito i seguenti risultati: ha riacquisito la nozione di decisione sovrana in tutta la sua pregnanza giuridica, ha stabilito che non vi è forma giuridica, ossia vigenza delle norme, senza un'istanza sovrana che crei la situazione normale in cui, appunto, le norme hanno vigore (cfr. CP, p. 130), ha fissato nell'ostilità interumana il presupposto necessario del politi~o e, quindi, nella capacità di determinare l'amico e il nemico uno dei contrassegni tipici della Herrscha/t. A questo punto, occorre porsi un'ulteriore domanda: su quale base il sovrano fonda la sua pretesa di ricevere obbedienza? La risposta di Schmitt coincide con la teoria della Repri:isentation. Per un'esatta comprensione del concetto, occorre innanzitutto ricordare che - come si evince da Romischer Katholizismus und politische Form - Schmitt ravvisa nella Chiesa cattolica la «rigorosa attuazione del principio di rappresentazione» (CR, p. 3 7), tanto da riconoscere in essa addirittura il modello di ogni rappresentazione. La ragione della longevità e della perdurante vitalità dell'istituzione Chiesa consiste secondo Schmitt nel suo esser radicata in un'idea, nel suo rappresentare (personalmente, tramite la figura del pontefice) un principio trascendente. Da ciò deriva la «capacità di forma giuridica» della Chiesa cattolica, che ne fa «la vera erede della giurisprudenza romana» (CR, p. 47). Ora, secondo Schmitt, nel momento della dissoluzione del sistema medievale della Respublica Christiana, di cui la Chiesa era cardine, tale logica, insieme al compito di creare e mantenere un ordine, si trasferisce allo Stato moderno. Infatti secondo Schmitt il riferimento in termini di rappresentazione ad un principio trascendente è l' elemento essenziale non solo della Chiesa, ma di ogni forma politica: «Nessun sistema politico può durare anche soltanto per una generazione con la sola tecnica della conservazione del potere. Al "politico" inerisce l'idea, dato che non c'è politica senza autorità nè c'è autorità senza un ethos della convinzione» (CR, p. 45). In questo trasferimento di ruolo e di funzioni, nei cui confronti l'analogia sistematica fra concetti teologici e concetti politici illustrata in Politische Theologie ri- 19. IL POTERE IN CARL SCHMITT veste al più il carattere di sintomo, è da ravvisare a nostro avviso il nucleo del concetto schmittiano di teologia politica ' Nel moderno, dunque, ogni potere legittima la pretesa all' obbedienza e l'irresistibilità del proprio diritto con il fatto di rappresentare un'istanza ideale e non immediatamente presente. Nella Ver/assungslehre, Schmitt si chiede quali siano i principi formativi che permettono ad un popolo di esser tale (di «raggiungere e ottenere [ ... ] la condizione dell'unità politica», DC, p. 271) e di agire politicamente. Essi sono due - risponde - il principio di identità e quello di rappresentazione. Il primo corrisponde all'idea democratica dell'immediata presenza del popolo, così com'è stata determinata da Rousseau '3; il secondo all'idea, riferibile innanzitutto all'istituzione monarchica, secondo la quale «l'unità politica è realizzata solo dalla rappresentanza» (zbid.). Ma la distinzione non è così netta come potrebbe sembrare di primo acchito. Infatti, aggiunge Schmitt poco dopo, <mella realtà della vita politica esiste tanto poco uno Stato che possa rinunciare agli elementi strutturali del principio di identità, quanto poco uno Stato che possa rinunciare agli elementi strutturali della rappresentanza» (DC, p. 272). Il primato sembra peraltro spettare alla rappresentanza, giacché, scrive Schmitt, «non c'è nessuno Stato senza rappresentanza, poiché non c'è nessuno Stato senza forma di Stato e alla forma spetta essenzialmente la rappresentazione dell'unità politica» (DC, p. 273). Nemmeno là dove il popolo è tutto visibilmente presente in piazza e prende direttamente e attivamente parte al processo di formazione della volontà politica, si può parlare di presenza immediata e di democrazia diretta. Anche in questo caso, infatti, «agiscono al massimo solo tutti i componenti adulti del popolo e solo nel momento in cui sono riuniti come comune e come esercito. Ma anche tutti i cittadini attivi presi insieme non sono in quanto somma l'unità politica del popolo, ma rappresentano l'unità politica che è superiore all' assemblea riunita nello spazio e al momento della riunione. Il singo2 • 12. La forma giuridica, scrive Schmitt in Politische Theologie, trae il suo senso proprio dal fatto di «essere dominata dall'idea di dirittO>> e «dal problema della realizzazione del diritto>> ( TP, p. 53). D'altro canto, tale realizzazione non può avvenire da sè, ma necessita di un'istanza intermedia che renda visibile - e questa è la struttura rappresentativa - l'idea: «Ogni pensiero giuridico traspone l'Idea giuridica, che nella sua purezza non diventa mai realtà, in un altro aggregato concettuale, e aggiunge un momento che non può essere fatto derivare né dal contenuto dell'idea giuridica né, nel caso che si impieghi una qualsiasi norma giuridica generale positiva, dal contenuto di quest'ultima» (TP, p. 55). 13. Schmitt si riferisce qui a Contra! social, n, 5; cfr. CP, p. 271. IL POTERE lo cittadino (cosa che proprio Rousseau ha sempre messo in evidenza) non è però presente nella sua datità "naturale" come uomo singolo, ma come cittadino, come "citoyen" » (DC, p. 2 72). D'altro canto '<non c'è nessuno Stato senza elementi strutturali del principio di identità», ma questo significa soltanto che "il principio della rappresentanza non può mai essere realizzato in modo puro e assoluto, cioè ignorando che il popolo è invece in qualche modo sempre esistente e presente» (DC, p. 274). La rappresentanza sembra dunque costituire in qualche modo la forma formarum dell'unità politica, senza la quale questa non è né realizzabile né visibile, nemmeno nella variante estrema del modello rousseauiano; il principio politico dell'identità sembra invece soltanto indicare per la rappresentanza l'impossibilità di porsi come assoluta, tranciando il cordone ombelicale che la lega a quel popolo di cui è pur sempre espressione. L'indicazione schmittiana dell'identità come principio dell'unità politica è cioè rivelativa del problema proprio di ogni forma politica, in quanto forma rappresentativa: quello dell'inevitabile iato fra rappresentante e rappresentato e dell'inevitabile carenza di legittimazione (declinabile in termini di fiducia o di credibilità) a cui il primo è sempre sottoposto. La determinazione della Repri:isentation come struttura formante l'unità politica è considerata da Schmitt il gesto inaugurale dell'età moderna. Essa trova la sua espressione più compiuta - conformemente all'interpretazione già avanzata in Teologia politica - nel pensiec ro di Thomas Hobbes e nel suo concetto di sovranità. In Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes, Schmitt sottolinea la novità della costruzione hobbesiana e la sua irriducibilità all'orizzonte politico medievale: d! sovrano non è il defensor pacis di una pace riconducibile a Dio; è il creator pacis, creatore di una pace esclusivamente terrena» (L, p. 84). Essa non corrisponde a nessun ordine preesistente, ma è il frutto artificiale di un'azione umana, ovvero della stipulazione di un patto fra uomini. Questo è reso possibile dall'istituzione della «persona sovrano-rappresentativa» la quale, in virtù del fatto di rappresentare un'unità altrimenti invisibile, il popolo, «è trascendente rispetto a tutti i singoli autori del patto, ed anche alla loro somma» e pertanto può porsi come «esclusiva garante della pace» (L, p. 85) '4. Di fronte ad essa diventa inconcepibile un prin14. In questa trascendenza dell'idea del popolo e nel tentativo della forma politica di renderla visibile per il tramite del rappresentante consiste il carattere teologico della forma politica moderna. Rispetto a ciò, come si è detto, l'interpretazione del 19. IL POTERE IN CARL SCHMITT ctplo giuridico del tutto evidente per la mentalità medievale, quello del diritto di resistenza. Ma la struttura rappresentativa della nuova unità politica compiutamente secolarizzata non è priva di pecche. Al contrario, essa è viziata da un limite interno che ne condizionerà il futuro, fino a determinarne la crisi e l'irrevocabile fine '5. Esso è localizzato in un punto apparentemente periferico rispetto al ragionamento hobbesiano: il problema della fede nei miracoli. Con un atteggiamento agnostico che Schmitt giudica già compiutamente illuminista e «quasi volterriano», Hobbes ritiene che «nessuno possa sapere con sicurezza se un fatto è un miracolo o no» (L, p. 103). Dunque, occorre rimandare la decisione all'istanza sovrana, conformemente al principio secondo cui auctoritas, non veritas, facit legem: «Se qualcosa deve essere considerata un miracolo, lo decide lo Stato in quanto ragione pubblica, public reason in contrapposizione alla private reason del suddito» (L, p. 104). È però proprio a quest'altezza, laddove sembra realizzarsi il «culmine della potenza sovrana», che «appare l'incrinatura in quella che per il resto è un'unità tanto compatta ed irresistibile» (zbzd.). Infatti, fatta salva l'obbedienza esteriore al comando del sovrano anche in tema di miracolo, Hobbes lascia al suddito la libertà di credere o meno in cuor suo alla verità di quanto il potere pubblico dichiara miracoloso. «Le distinzioni di privato e pubblico, di fede e confessione [. .. ] sono così introdotte in un modo tale che ogni ulteriore sviluppo, nel corso del secolo seguente fino· al liberale Stato costituzionale di diritto, ne è derivato consequenziariamente» (L, p. 105). Solo «pochi anni dopo la pubblicazione del Leviatano» - continua Schmitt - sarà lo sguardo acuto di Spinoza a cogliere in questa crepa dell'edificio hobbesiano «il punto d'irruzione del moderno liberalismo, il punto a partire dal quale l'intero rapporto che Hobbes aveva inteso fissare fra esterno e interno, tra pubblico e privato, poteva essere rovesciato nel suo opposto» (L, p. ro6). Ora, lo zelo propagannucleo concettuale della teologia politica semplicemente nei termini di una secolarizzazione dei concetti teologici, se trova rispondenza nella lettera del noto passo della Politische Theologie, <<Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati>> ( TP, p. 6r ), appare riduttiva rispetto alla complessità della riflessione schmittiana. Sull'argomento, cfr. Duso (1988), pp. 13-54. È d'altronde lo stesso Schrnitt a ricordare che un'adeguata comprensione delle tesi sostenute in Politische Theologie è possibile solo tenendo presente «la sua connessione temporale, contenutistica e sistematica>> con gli altri suoi scritti del medesimo periodo (TP II, p. 3I). 15. Sullo Stato come grandezza storicamente determinata, c&. SK. IL POTERE distico che uno Schmitt politicamente engagé mostra nell'indicare nel «primo ebreo liberale» (ibid.) l'artefice dello svuotamento del Leviatano, non può nascondere il fatto che Spinoza rileva qualcosa che comunque già c'era. Solo la necessità di assicurarsi con la pace le condizioni necessarie per il perseguimento della propria felicità personale e privata - in un'accezione compiutamente borghese e intramondana - può motivare la sottomissione del singolo al potere sovrano. Non è un caso che sia stato possibile scorgere in Hobbes «il fondatore delliberalismo» (Strauss, 1932, trad. it. p. 321). D'altronde è lo stesso Schmitt, come si è testè visto, a giudicare preilluministico l'atteggiamento agnostico di Hobbes: egli istituisce irrevocabilmente la distinzione fra pubblico e privato e sembra del tutto consequenziale con tale gesto la circostanza - illustrata da Koselleck - per cui, con l'affievolirsi del ricordo tragico delle guerre di religione, lo spazio privato verrà via via allargandosi finché, in epoca illuminista, la morale pretenderà di giudicare la politica (cfr. Koselleck, 1959, trad. it. p. 39) r6. Vi è però un'altra circostanza, alla quale abbiamo già fatto cenno, che mina la consistenza della costruzione hobbesiana. Essa, per quanto messa a fuoco da Schmitt in modo meno esplicito, è altrettanto decisiva di quella fondata sulla distinzione pubblico-privato e, come essa, risulta legata alla struttura logica della Reprdsentation. Come si è detto, è solo nella rappresentazione sovrana che il popolo, o comunque l'unità politica, prima assente, diventa presente. La dignità del rappresentante deriva non dalle qualità della persona, ma dal fatto di render visibile, di impersonare quell'unità. Naturalmente questa capacità del sovrano è tale solo finché viene creduta, ovvero finché esiste una fiducia diffusa fra i cittadini che il sovrano rappresenti, cioè renda realmente presente, l'unità politica altrimenti invisibile e r6. Sempre in L, p. 121, Schmitt, discutendo e criticando l'interpretazione lockiana di Hobbes, scrive, in modo a nostro avviso del tutto inequivoco: «A Hobbes interessa soltanto superare con lo Stato l'anarchia del diritto di resistenza feudale, cetuale o ecclesiastico e le guerre civili che da quello continuamente divampano, e contrapporre al pluralismo medievale, alle pretese di dominio delle Chiese e degli altri poteri "indiretti", l'unità razionale di un potere univoco, capace di protezione efficace e di un sistema di legalità dal funzionamento calcolabile. A questo potere statale razionale inerisce sempre primariamente la piena assunzione del rischio politico e, in questo senso, la responsabilità della protezione e della sicurezza dei sudditi. Cessando la protezione, cessa immediatamente anche lo Stato, cade ogni obbligo di obbedienza e l'indivzduo rzguadagna la sua libertà "naturale". La "relazione di protezione e obbedienza" è la pietra angolare dello Stato architettato da Hobbes, ed è assai facile ricollegarla ai concetti e agli ideali dello Stato borghese di diritto>> (il corsivo è nostro). 420 19. IL POTERE IN CARL SCHMITT che sia in grado di garantire il rapporto oboedentia-protectio e, con esso, la situazione normale necessaria per la vigenza delle norme. Nulla garantisce la congruenza fra rappresentante e rappresentato, giacché dò che viene reso presente non è la volontà del singolo, e nemmeno la volontà della somma dei singoli, la rousseauiana volonté de tous, ma la volontà generale, la volonté générale '7. Schmitt mette a fuoco la questione in tutta la sua drammaticità già in Die Diktatur. Qui egli opera una distinzione fondamentale fra dittatura commissaria, limitata nel tempo, nelle finalità e nelle prerogative, e dittatura sovrana. Da un lato egli pone il popolo come «abisso infinito e insondabile», dal cui seno «sorgono forze sempre nuove» (D, p. 154); dall'altro afferma che «la volontà riguarda soltanto la persona del rappresentante e la decisione se debba verificarsi o meno una rappresentanza» (D, p. 156). Con riferimento a Sieyes e alla sua distinzione fra potere costituente e potere costituito Schmitt ricorda che i rappresentanti dell'Assemblea costituente del 1789 vanno intesi come «rappresentanti» e non come «dei titolari di un mandat impérati/: essi non devono fungere semplicemente da legati o trasmettitori di una volontà già determinata, ché anzi sono essi stessi a "darle forma"» (D, p. 155). Essi sono in senso proprio i titolari di una dittatura sovrana. Essa è tale, cioè libera da ogni vincolo, assoluta, irresistibile, in quanto è diretta espressione, meglio, unica espressione legittima di un potere costituente altrimenti "informe". La sua infinita potenza deriva da un potere che, paradossalmente, è tanto potente quanto invisibile, giacché, in quanto costituente, non può mai costituirsi (zbzd.: «La volontà può essere oscura, anzi deve esserlo se veramente il pouvoir constituant è incostituibile») senza cessare di essere se stesso. Ma tale discorso non vale soltanto per il pensiero di Sieyes, o per la Rivoluzione francese, o per l'istituto della dittatura. Coerente con la sua convinzione nella forza ermeneutica dell'eccezione e del caso estremo, Schmitt scorge nelle vicende rivoluzionarie del 1789 nient'altro che il pieno manifestarsi dell'essenza stessa della forma politica moderna, qual è stata formulata per la prima volta da Hob17. Il problema riguarda ogni forma di governo, anche quella parlamentare-liberale. In particolare, questa si fonda sulla fiducia che la libera e disinteressata discussione fra parlamentari sottoposti solo alla propria coscienza possa produrre infine una legge conforme a ragione. Se questa fiducia viene a mancare, crollano i presupposti spirituali e la ragion d'essere del parlamentarismo stesso. Per questo tipo di interpretazione del parlamentarismo, cfr. LHP. 421 IL POTERE bes 18 : giacché «per Hobbes è il sovrano a stabilire ciò che è utile o dannoso allo Stato», lo Stato hobbesiano «è per costituzione una dittatura», la cui necessità deriva dalla circostanza che l'interesse dello Stato, in quanto tale, non si dà mai immediatamente: «A fondamento della legge, che per natura sua è imperio, sta una decisione sull'interesse, ma tale interesse esiste solo in quanto viene impartito l'imperio. La decisione che è implicita nella legge, considerata sotto l'aspetto della norma, è nata dal nulla. Essa è "dettata" per definizione» (D, p. 33) r9. 19·5 Katechon, origine, idea La riflessione sulla struttura logica dello Stato moderno, owero sulla Reprdsentation, ne rivela dunque il carattere infondato. Per la verità, nella produzione schmittiana degli anni di W eimar probabilmente vi è ancora l'idea di una possibile "risostanzializzazione" dello Stato, declinata nei termini dello «Stato totale per qualità e energia» (WTS, p. 36r), capace di procedere al di là delle neutralizzazioni e spoliticizzazioni liberali e di governare il p lesso politica/economia. D'altro canto, negli anni di maggiore vicinanza al regime nazista, la sua affermazione della storicità e dunque dell'imminente superamento della formaStato assume il significato di un sostegno teorico all'idea nazionalsocialista di Grossraum e alla politica estera del regime (cfr. Cl). Consumate tali illusioni, nel secondo dopoguerra, soprattutto in Der Nomos der Erde, queste acquisizioni teoriche vengono invece rifuse all'inter18. Come è stato osservato (Nicoletti, 1990, p. 139): «La dittatura non è solo un istituto giuridico, ma esprime l'essenza stessa dello Stato moderno. Lo Stato moderno nasce come potere assoluto che dall'alto si impone in modo indiscusso conferendo ordine e stabilità alla realtà magmatica e conflittuale della storia. Ma anche la dottrina della sovranità popolare che parrebbe l'esatta antitesi della dottrina dello Stato assoluto in realtà nasconde un'analoga anima dittatoriale. La volontà generale del popolo si impone in modo indiscusso e assoluto sopra ogni potere costituito. Dall'origine dello Stato moderno [. .. ] l'essenza del potere è secondo Schmitt intrinsecamente legata all'essenza della dittatura». 19. Il riferimento schmittiano al "nulla" non indica una vocazione "nichilista" del giurista tedesco e, per questa via, una sua dipendenza dalla mera fatticità. Esso, conformemente all'ipotesi interpretativa qui avanzata, va inteso nel senso che se l'idea non può manifestarsi al di fuori della rappresentazione, questa, a sua volta, non può pretendere di esaurire l'idea: il salto fra le due istanze può essere colmato soltanto da una decisione, alla quale è però connesso il rischio di non essere creduta. Essa è il tramite necessario fra Recht e Rechtswirldichkeit, evidenziandone, a un tempo, contiguità e differenza. 422 19. IL POTERE TN CARL SCHMITT no di una riflessione sulla storia politica europea intesa come successione di Raumordnungen, di ordinamenti spaziali concreti, fondati sui principi della localizzazione territoriale (Ortung) e dell'ordinamento (Ordnung). Centrale, in questo contesto, è il concetto di katechon, di forza qui tenet, secondo le parole dell'apostolo Paolo. Esso riguarda originariamente la Chiesa, e il suo compito storico di arrestare l' avvento dell'Anticristo, nella consapevolezza che comunque tale evento possa solo essere differito. Nella riflessione del secondo dopoguerra, Schmitt secolarizza tale concetto, che diventa ora metafora dell'ordine politico moderno, della sua struttura logica, caratterizzata dallo iato insuperabile fra principio ideale e sua realizzazione concreta e dunque sempre esposto alla possibilità della dissoluzione traumatica 20 • Al concetto di katechon si intreccia strettamente quello dell'ineliminabile ostilità interumana, presupposto logico di ogni teoria politica. Esso trova espressione, da ultimo, nella nozione di stasiologia: l' ambivalenza della parola greca stasis, che significa insieme quiete e disordine, allude a un tempo all'intrascendibilità del conflitto, al compito storico di parvi rimedio istituendo una situazione normale, nonché al carattere transitorio e storicamente determinato di ogni forma politica (cfr. PTn, pp. 95-7). Di fronte ad una tale realtà, l'atteggiamento di Schmitt oscilla fra il distacco - frutto di disincanto, ma anche di disillusione - dello scienziato, cui non resta altro «che conservare i concetti e chiamare le cose col loro nome» (PR, p. 76), e l'attesa di un nuovo inizio: «È agli spiriti pacifici che è promesso il regno della terra. Anche l'idea di un nuovo nomos della terra si dischiuderà solo a loro» (NT, p. 15). Egli non sembra poter procedere analiticamente "oltre" il moderno se non nei termini di questo nebuloso annuncio. Ciò perché la sua capacità ermeneutica nei confronti del moderno appare direttamente proporzionale alla sua internità ad esso 21 • In questo si può probabilmente scorgere un limite non irrilevante del suo approccio: la convinzione di essere l'ultimo custode di una razionalità ormai perduta e di un ordine storicamente giunto a compimento, lo conduce infatti ad interpretare tutti i fenomeni che eccedono o che complicano questa forma - è il caso per esempio del ruolo ere20. In questo senso va Neumann (r99ol, p. 223: «Schmitt secolarizza il katechon. Forza frenante (Aufhalter) è ogni potere politico che tenta di contrastare la distruzione di un ordinamento storico e di un'epoca». 2 r. Come è stato osservato, <<Schmitt non riesce a liberarsi dalla tradizione europea, a congedarsi dal suo congedo dallo jus publicum europaettm» (Galli, 1996, p. XX Ili). IL POTERE scente di partiti e organizzazioni d'interesse nel processo di formazione della volontà politica - in termini negativi e come conferme di un' irrimediabile patologia 22 • È però proprio il carattere consapevolmente epigonale della propria riflessione che consente altresì a Schmitt di operare quella comprensione radicale della propria epoca capace - come si è visto - di coglierne il tratto strutturalmente aporetico. Mostrando l'impossibilità di una fondazione della forma politica, la riflessione schmittiana si apre così all'origine del politico, quale risulta dal nesso rappresentazione/idea 2 3. Non vi è forma politica stabile e duratura se non in relazione ad un'idea e, in assenza di tale riferimento, la forma politica - come sostenuto nella Dottrina della costituzione all'altezza della critica a Kelsen - assume i caratteri della più cruda e ingiustificata positività. D'altro canto, l'irriducibile ulteriorità dell'idea rispetto alla rappresentazione fa sì che questa non sia mai garantita, ma appaia sempre decisa. Essa dunque - secondo quanto abbiamo cercato di dimostrare - risulta caratterizzata da una strutturale carenza di legittimazione, giacchè la congruenza fra istanza rappresentante e idea rappresentata non può mai essere mostrata, ma soltanto creduta. Si spiegano in questo contesto l'enfasi posta dall'ultimo Schmitt sull' elemento della disperazione 2 4 intesa come uno dei tratti costitutivi del moderno e la sottolineatura del carattere strutturalmente agonico 2 5 della forma politica. Essi non vanno intesi tanto come la conseguenza di un disilluso ripiegamento su se stesso, quanto piuttosto come l'esito coerente dei presupposti del proprio pensiero. 22. Cfr. SE. Da questo punto di vista, appaiono più significative le riflessioni di Weber, che si sforza di dar ragione del contraddittorio coesistere, nella sfera dell'O! /entlichkeit, dell'elemento unitario, rappresentato dalla Herrscha/t, e di quello parziale e interessato, rappresentato da partiti e organizzazioni d'interesse. Sull'argomento ci permettiamo di rimandare a Scalone (1996), pp. 57-7423. Sull'argomento, cfr. Duso (1988), pp. 50-1: «L'idea non è propriamente ciò che è rappresentato, ma ciò che rende possibile la rappresentazione e che in essa mostra la sua alterità L .. ]. Nel sottrarsi dell'idea compare allora l'origùte stessa della rappresentazione, come ciò che rende possibile la rappresentazione e opera in essa». 24. Cfr. EC, p. 68. Qui Schmitt riconosce a Bodin il fatto di essere <<Uno dei maieuti dello Stato moderno», ma nega che abbia saputo concepire il Leviatano come farà invece Hobbes - in tutta la sua compiutezza, attribuendo questo fatto alla circostanza che «la sua disperazione non era ancora abbastanza grande per giungere a tanto>> . . 25. «Noi siamo sempre- come nel 500 o nell'8oo- nell'Eone cristiano, sempre in agonia, e tutti gli avvenimenti essenziali non riguardano altro che il katechon, cioè ciò che "tiene", qui tenet nunc» (G, p. 8o). 19. IL POTERE IN CARL SCHMITT Vita Cari Schmitt (1888-1985) è considerato uno dei più grandi giuristi e politologi del secolo. Ha studiato a Strasburgo e Monaco, ove fu allievo di Max Weber, e ha insegnato nelle Università di Greifswald, Bonn, Colonia e Berlino. Fu molto attivo e influente nel periodo di Weimar e nei primi anni del regime nazionalsocialista, al quale offrì un sostanzioso sostegno teorico. A partire dal 1936, in seguito ad un attacco da parte della rivista delle ss, si limitò all'attività accademica. Indagato e poi assolto nel 1945 per i suoi legami con il nazismo, si ritirò nella natia Plettemberg continuando comunque a esercitare una notevole influenza sul pensiero giuridico e politico. Opere fondamentali Gesetz und Urtezl. Bine Untersuchung zum Problem des Rechtspraxis ( 1912), Beck, Munchen (citato come GU). Der Wert des Staates und die Bedeutung des Binzelnen ( I 9 I 4)' Mohr' T ubingen (citato come WS). Die Sichtbarkeit der Kirche. Bine scholastiche Brwagung (I917l, in "Summa", n. 2, pp. 71-8o; trad. it. in Cattolicesimo romano e forma politica, Giuffrè, Milano 1986, pp. 70-85 (citata come VC). Die Diktatur (r92I), Duncker & Humblot, Miinchen-Leipzig; trad. it. parz. Laterza, Bari I975 (citata come D). Polztische Theologie. 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Crisi della forma e problema dell'origine Tra gli anni Sessanta e Settanta si è sviluppato in Germania un dibattito, che ha avuto eco anche in altri paesi, teso ad indicare l'incapacità contemporanea della scienza politica ad interrogarsi sui problemi di fondo dell'agire politico e a fornire a quest'ultimo criteri di orientamento '. In questo dibattito, che si è svolto sotto l'insegna della riscoperta di quella filosofia pratica che era stata messa da parte con la nascita della scienza politica moderna, spesso si è avuto un richiamo ad autori che hanno condotto una critica alla concettualità politica della modernità e ai suoi effetti di spoliticizzazione, ponendo contemporaneamente ad oggetto della riflessione la politica propria dei Greci. Mi riferisco ad autori molto noti anche in Italia, quali Eric Voegelin, Leo Strauss e Hannah Arendt. In questo recente quadro di * Questo capitolo è stato scritto da Giuseppe Duso (PAR. 20.1 e sottoparagrafi); Mario Piccinini (PAR. 2o.2); Sandro Chignola (PAR. 20.3) e Gaetano Rametta (PAR. 20.4). I. Si possono ricordare come punti di inizio di questo dibattito in Germania K. H. Ilting, Hobbes und die praktische philosophie der Neuzeit, in "Philosophisches Jahrbuch", LXXII CI964), pp. 84 ss. e i due volumi a cura di M. Riedel, Rehabilitierung der praktischen Phzlosophie, Rombach, Freiburg 1972-74, e, per quanto riguarda in modo specifico il rapporto tra la filosofia pratica con la scienza politica, W. Hennis, Politik und die praktische Phzlosophie. Bine Studie zur Reconstruktion der politischen Wissenschaft, Luchterhand, Neuwied-Berlin 1963. Per un primo sguardo d'insieme cfr. F. Volpi, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in C. Pacchiani (a cura di), Fzlosofia pratica e scienza politzca, Francisci, Padova e per una ulteriore precisazione, F. Volpi, La riabzlitazione della filosofia pratica e il suo senso nella crisi della modernità, in "D Mulino", xxxv, n. 6, pp. 928-49. IL POTERE "riabilitazione della scienza pratica" questi autori sono spesso sembrati presentare, sia pure in forme diverse tra loro, tentativi di rifondazione del pensiero politico e di criteri di orientamento, tanto più necessari quanto più sembrava diffusa e condivisa dalla scienza politica contemporanea l'idea weberiana dell'impossibilità di fondare in modo rigoroso e scientifico i giudizi di valore relativi al comportamento morale e politico 2 • La riflessione di questi tre autori va peraltro in una ben diversa direzione 3. Non di rifondazione scientifica dei valori si tratta, quanto piuttosto della stessa messa in crisi del linguaggio comune, come di quello diffuso nella scienza politica contemporanea - che a partire da Weber si è sviluppata su una base sociologica -, secondo il quale sembra naturale porre accanto agli oggetti e al metodo che caratterizzano l'oggettività della scienza, il mondo dei valori come mondo delle scelte soggettive e non garantite dell'agire umano. È in Voegelin che emerge con più chiarezza la critica alla stessa impostazione epistemologica che rende possibile parlare di "valori". Il termine ha infatti significato, nell'accezione di "giudizio di valore", solo a partire dalla seconda metà del secolo xrx, nel contesto in cui è contrapposto al "giudizio di fatto", il quale unico è inteso come pertinente alla scienza. L'uso del termine risulta allora condizionato da presupposti di tipo positivistico sulla scienza, che contemporaneamente escludono un rigore proprio della filosofia. Perciò, in quanto sono all'interno di un quadro teorico che usa tale termine, anche i tentativi di rifondazione dei valori finiscono per rimanere succubi di quella impostazione che tentano di superare, come criticamente ha indicato Carl Schmitt 4. Altri batteranno la via della rifondazione; per i tre autori in questione si tratta piuttosto di rintracciare un piano epistemico diverso da quello positivistico, un piano @osofico che permetta di porre il problema politico in modo rigoroso e che permetta di tino- 2. Questa intetptetazione potrebbe sembrare avallata dal tentativo voegeliniano di una Nuova scienza politica, come recita il titolo di una delle sue opere più note. Ma altro, filosofico, è in realtà il senso di questa nuova scienza, come si tenterà qui di indicare. 3. Cfr. soprattutto il volume collettaneo Duso (I 988). 4· Non si può non ricordare la critica schmittiana ai tentativi di rifondazione dei valori sia in chiave soggettiva, sia in chiave oggettiva; questi tentativi infatti sono visti ricadere nella stessa posizione nichilistica che intendono combattere, in quanto il termine di "valore" è contraddistinto da una parte dall'accezione economica che segna inesorabilmente nell'epoca contemporanea il suo uso, e dall'altra dall'elemento della soggettività e della conflittualità: il valore infatti vale in quanto è fatto valere (cfr. Schmitt, 1967; su ciò Duso, 1981). 430 20. CRISI DELLA SCIENZA POLITICA E FILOSOFIA minare nel processo del logos termini quali quello di "buono" e di "giusto", al di là della loro riduzione alla t ematica dei valori. I nomi di Nietzsche, Weber e Schmitt vengono a circoscrivere idealmente uno spazio problematico che non è dai nostri autori evitato, magari contrapponendo ad esso un semplice ritorno alla filosofia classica, ma è assunto nel tentativo di un'interrogazione radicale. Se è all'attingimento del problema originario dell'agire umano che essi tendono, tuttavia è proprio dalla problematica che si delinea tra la fine dell'Ottocento e il primo trentennio del Novecento che essi muovono, anche per portare un affondo critico alla scienza politica moderna. Anche se il pensiero di questi autori, per un destino comune, si svilupperà nel dopoguerra in terra americana, tuttavia la loro problematica ha origine nella soglia epocale costituita dagli anni Venti e Trenta e la loro riflessione è emblematica del problema che investe in questo periodo lo Stato come pure il sapere politico. Nell'indicazione straussiana della filosofia politica, in quella voegeliniana della "nuova scienza politica", e anche anche in quella arendtiana di un pensiero che sfugge alla dimensione riduttiva della moderna teoria 5, possiamo ravvisare la riproposizione di una domanda filosofica forte, accompagnata alla denuncia di non filosoficità, che è contemporaneamente anche non rigore, della teoria politica moderna. Tuttavia questo ritorno della filosofia non appare come una fondazione di quadri normativi, ma piuttosto come l'individuazione di un problema che nasce all'interno delle aporie della scienza o filosofia politica moderna. Proprio sulla base di queste aporie, di una scienza che è monopolizzata dal concetto di potere, si ripropone la domanda sull'essenza del polztico, che non appare più riducibile al pubblico, allo statuale, al tema dell'uso della forza legittimata, dal momento che è proprio l'agire concreto e politico dell'uomo che non risulta attinto attraverso questa riduzione. T ale domanda è pensabile proprio in relazione alla radicalizzazione dei concetti politici operata da Schmitt. E il confronto con Schmitt gioca un ruolo rilevante nella dimensione che viene a prendere il pensiero di questi autori, come si può notare dall'importanza 5. Più complesso è il rapporto con la filosofia da parte della Arendt, la quale ravvisa le aporie della filosofia politica nella dimensione teorica che in fondo accomunerebbe la filosofia politica moderna e alcuni aspetti fondamentali di quella antica. Allora il pensiero (che ha a che fare con il filosofico di cui qui si parla) a cui lei tende risulta critico non solo della filosofia politica moderna, ma della filosofia politica tout court. 431 IL POTERE che ha nell'itinerario di Strauss la recensione a Il concetto di politico del giurista tedesco, come pure quella di Voegelin alla Dottrina della costituzione 6 • Se è in quest'ultima recensione che Schmitt viene criticato perché la sua radicalizzazione della scienza politica· moderna non viene portata fino in fondo, è tuttavia atteggiamento comune quello di ricercare un pensiero della sfera pratica che sia a questa adeguato, e perciò rigoroso, al di là della coerenza - minata da contraddizioni - di quella scienza o filosofia politica moderna in cui sono nati i concetti che ruotano attorno al fulcro del potere. La critica della scienza politica moderna è accompagnata dalla denuncia del modo normativa di risolvere il problema dell'ordine e dell' agire politico, un modo che è legato all'idea di uno stretto nesso deduttivo tra teoria e prassi, secondo la quale la prassi buona non dipende dalla virtù e dall'esperienza, come si è pensato lungo una millenaria tradizione, ma piuttosto dalla capacità risolutiva della teoria. L'interrogazione della forma politica compiuta da questi autori non è funzionale alla determinazione di nuove norme, o di una nuova forma per la convivenza degli uomini, ma tende piuttosto a fare emergere il problema dell'origine del politico. È questa domanda sull' origine che riapre un orizzonte di riflessione filosofica e contemporaneamente richiede di intendere la realtà politica contemporanea al di là degli schemi riduttivi della costruzione teorica e dunque dei concetti relativi alla sfera del potere. 20. 1.2. Dalla teoria normativa ad una pratica del pensiero Se è la denuncia della costruttività artificiale della teoria 7 con il carattere propositivo che è ad essa proprio, di indicazione di un modello da applicare, ciò che caratterizza l'intento di questi pensatori, si può allora anche comprendere come mai siano spesso esigue o insussistenti le proposte politiche che questi autori in positivo avanzano. Non è qui che essi esprimono il meglio del loro pensiero, ma piuttosto nella denuncia della crisi del rapporto deduttivo della prassi dalla teoria, il quale non è frutto di una concezione universale ed eterna, 6. Cfr. L. Strauss, Note sul "concetto di politico" in Carl Scbmitt e Eric Voegelin, La dottrina della costituzione in Carl Scbmitt. Tentativo di analisi costruttiva dei suoi principi teorico-politici, entrambi in Duso (I988). 7· In altro senso, positivo, parla Voegelin, di tbeoria, riferendosi all'uso greco del termine, ma è da tener presente che questa teoria ha un carattere fìlosofìco ben diverso da quella costruzione teorica dei concetti politici moderni, che sono, per Voegelin piuttosto prodotti dell'opinione, della doxa (vedi il paragrafo seguente su Voegelin). 432 20. CRISI DELLA SCIENZA POLITICA E FILOSOFIA ma piuttosto un atteggiamento che si è diffuso a partire dalla scienza moderna. Questo movimento di pensiero, problematizzante piuttosto che normativo, può essere ravvisato nel modo in cui Strauss pone lo specifico della filosofia politica, la quale, in quanto emblematicamente espressa dall'attività socratica del domandare, non permette la costruzione di una dottrina da cui appunto si possa dedurre ciò che nella prassi deve essere attuato. Ma esso può essere riscontrato anche nell' esclusione da parte di Voegelin della possibilità che l'anima, in cui emerge il problema dell'ordine, dia luogo ad un processo di fondazione risolutivo dell'ordine della società, che diventerebbe allora non il punto di riferimento reale dell'attività critica del filosofo 8 , ma piuttosto un modello di ordine vero una volta per tutte. Ma è con la Arendt - la quale pure si riferisce positivamente a Socrate - che tale movimento di pensiero risulta con evidenza ancora maggiore, nel momento in cui essa non solo esclude che il passaggio dalla teoria alla prassi sia consono alla natura dell'agire dell'uomo, ma mostra anche gli effetti devastanti, di dominio e appunto di potere, che il primato della teoria sull'azione comporta, come rivela la filosofia politica moderna e la sua ricaduta emblematica nella Rivoluzione francese 9: il novum, che si dà nella storia, anche e soprattutto nei momenti rivoluzionari, si produce e si comprende solo a partire dalla originarietà ed autonomia del mondo dell'agire nei confronti della costruzione teorica. In tutti e tre gli autori, sia pure in forme diverse, si manifesta un significato forte, e anche rigoroso in alcuni casi, del pensiero, che è tale proprio in quanto non ha le pretese costruttive e normative di un sapere oggettivante, ma è adeguato al campo dell'azione nel quale si esercita, evitando di modellarsi secondo l'esattezza della matematica. Ciò è riscontrabile nel tentativo voegeliniano di una nuova scienza politica, perché la scientificità di quest'ultima si basa sulla riscoperta del valore simbolico dei concetti, che egli ravvisa nella filosofia greca, e sulla critica di quel modo oggettivante ed esaustivo di intenderli che dà luogo ai sistemi dottrinari. Riluttante ad intendere la filosofia politica secondo gli schemi di una conoscenza oggettivante è anche Leo Strauss, sulla base della 8. Si tratta del movimento di differenziazione che è proprio del filosofo greco nei confronti della polis esistente. 9. Gli effetti negativi di dominio si determinano tuttavia per la Arendt anche nella filosofia politica dei Greci, nonostante la positività della vita della polis (cfr. il seguente paragrafo sulla Arendt). 433 IL POTERE considerazione che, essendo l'anima e i suoi fini oggetto della filosofia politica, in quest'ultima oggetto della conoscenza e atto conoscitivo vengono problematicamente a coincidere ro. La natura di ricerca, che viene socraticamente a caratterizzare il pensare filosofico, non è negazione del rigore del pensiero e della filosofia politica, ma piuttosto della sua coincidenza con l'esattezza della matematica e con la coerenza solo interna dei contenuti della dottrina. L'esperienza di un pensiero non riducibile alla costruzione teorica viene proposta dalla stessa Arendt, nel momento in cui l'opposizione ad una conoscenza normativa non immette in uno spazio vuoto o irrazionale, privo di pensiero, ma piuttosto in quello costituito dalla dialettica tra la critica corrosiva di ogni precostituita norma di comportamento e quella facoltà di giudizio che si esercita in rapporto al vivere e all'agire ' La filosofia - nel caso della Arendt si potrebbe meglio dire il pensiero - intesa come pratica del pensare in atto, comporta allora non la negazione del rapporto, ma un diverso rapporto tra pensiero e agire, secondo il quale l'agire non è qualcosa di secondario e dipendente, ma appartiene alla struttura originaria dell'uomo. Lungi dall'essere un ambito prodotto e regolato dalla teoria, quello dell'agire costituisce l'ineliminabile contesto in cui la riflessione critica ha luogo. Il pensiero politico non parte allora da zero, da una tabula rasa per costruire l'ordine giusto della società, ma riflette filosoficamente sulla realtà politica in cui si è, come mostra la riflessione politica che si ha nell'età della polis greca. 1 • 20. r. 3. Ritorno ai Greci? N el contesto cnt1co di interrogazione della scienza politica moderna si ha dunque un significativo rapporto con il pensiero greco. È infatti riproponendo a tema la filosofia e la politica dei Greci che, in modo diverso, i tre autori cercano di attingere una dimensione originaria, che permette anche di problematizzare le categorie politiche moderne, facendo loro perdere il carattere di presupposto necessario del nostro pensare la politica. Il riemergere del problema originario dell' agire in comune degli uomini permette di intendere la riduttività e le contraddizioni che caratterizzano quel modo di pensare moderno che sembra basarsi su concetti universalmente validi, come quelli di individuo, uguaglianza, libertà, società ecc. Cfr. Strauss (r938), trad. it. p. 69. rr. Cfr. Arendt (1985), pp. II3-15. IO. 434 20. CRISI DELLA SCIENZA POLITICA E FILOSOFIA T aie lavoro di decostruzione della concettualità moderna evidenzia in modo particolare le contraddizioni che si annidano nel modo di pensare il potere. È infatti il nesso categoriale di sovranità-rappresentanza, con il tema dell'unità politica che esso veicola, a venir messo in questione, in quanto da una parte è visto annullare quelle differenze che caratterizzano la concreta vita comune tra gli uomini e la possibilità di una loro effettiva partecipazione politica, e dall'altra è considerato come causa di quella distinzione di privato e pubblico che relega tutti i cittadini in uno spazio di agire privato, con il senso negativo e privativa che accompagna il termine 12 . Questo quadro di negazione per i cittadini della vita pubblica è problematizzato dalla Arendt mediante il concetto greco di praxis, che conferisce all'agire uno spazio di libertà impossibile nella sfera della produzione, e mediante il riferimento alla vita della polis o della civitas antica, in cui l'agire di concerto degli uomini rivela un modo diverso di intendere la politica e il potere. Con Strauss abbiamo il richiamo ad una dimensione originaria del rapporto tra Io e Tu, evidenziata dal concetto greco di amicizia, e il richiamo ad una interrogazione originaria sul bene e stÙ giusto - incarnata nell'interrogare socratico - che non può non emergere come origine della filosofia politica. Anche in Voegelin il passaggio attraverso i Greci risulta fondamentale, perché permette di superare la moderna astrazione e riduzione del problema dell'agire ai rapporti esterni tra gli uomini e rivela come necessaria, per affrontare il problema della giustizia, l'interrogazione che scende nell'interiorità dell'anima ponendo qui il problema dell'ordine. Allora il problema politico verterà sulla tensione esistente tra l'ordine reale della società, che non è razionalmente fondabile una volta per tutte, e l'ordine della coscienza. Tale ripresa dei Greci non può tuttavia essere intesa come una semplice riproposizione della filosofia antica, come modello di pensiero e di politica; sarebbe questo un atteggiamento tipico di un pensiero teorico che costruisce modelli e ristÙta dunque contraddittorio con la direzione nella quale questi autori accostano il pensiero greco, una direzione che tende a cogliere la concretezza del pensiero, la pratica del pensiero contro la cristallizzazione delle dottrine e dei sistemi normativi. Egualmente non è la polis ad essere anacronisticamente ri-. proposta di contro allo Stato moderno, e nemmeno lo sono alcuni elementi della polis usati come correttivo delle contraddizioni dello 12. Per la dialettica della rappresentanza in Voegelin e il suo rapporto con il pensiero schmittiano, rimando a Filosofia pratica o pratica della filosofia? La ripresa della filosofia pratù:a ed Eric Voegelin, in Duso (r988). 435 IL POTERE Stato moderno, come rischieranno di fare alcune delle posizioni che si inseriscono nel fenomeno della Riabtlitazione della filosofia pratica. Il ritorno ai Greci ha allora il significato insieme del riemergere di un'interrogazione originaria sulla politica e contemporaneamente di una sollecitazione critica delle categorie moderne del potere, che ne fa emergere le contraddizioni e la riduttività in rapporto alla realtà concreta. Tuttavia, pur in un analogo movimento di pensiero, diverso è in questi autori sia il rapporto con il pensiero greco, sia l'apparato categoriale che si viene a configurare attraverso la loro critica ai concetti moderni, come si può notare se si tiene presente il modo di confrontarsi con quel concetto di rappresentanza che Schmitt aveva acutamente posto al centro della costruzione dei concetti politici moderni. Mentre la Arendt tende a superare il concetto di rappresentanza mediante una dura critica agli effetti di spoliticizzazione che questa innesca, sottraendo ai cittadini lo spazio della vita pubblica, Voegelin invece radicalizza il concetto per trovare in esso - anche qui, sia pur criticamente, sulla scia della teologia politica schrnittiana - un movimento di trascendimento dell'esistente e dell'empirico verso l'idea che, presente e tuttavia negato nel concetto moderno di rappresentanza, emerge con chiarezza nella riflessione di Platone ed Aristotele I3. Appare allora necessario esaminare in modo più analitico le differenze tra i tre autori in relazione al problema del potere moderno. 20.2 Leo Strauss: i filosofi e la città Per Leo Strauss il lungo percorso compiuto negli anni Venti attraverso la critica delle teologie liberali aveva portato a una duplice acquisizione fondamentale: il politico e il religioso costituivano due momenti cruciali, in se stessi irriducibili, che le scienze della cultura - in cui si erano metamorfizzate in senso storicistico le istanze della Kritik illuministica - non erano in grado di assimilare e di ricondurre all'interno del proprio dispositivo di perimetrazione dell'esperienza umana. 13. Proprio l'indicazione dell'atteggiamento voegeliniano stù concetto di rappresentanza - che è concetto moderno in quanto inteso come espressione dell'unità - e stÙ suo uso nell'ambito del pensiero greco, ci rende awertiti di un pericolo insito nel pensiero di questi autori, nei quali il ristÙtato dell'emergere di una dimensione originaria rischia a volte di essere pagato con la perdita di una dimensione storico-concettuale e dunque con la perdita della consapevolezza della determinatezza epocale dei concetti politici. 20. CRISI DELLA SCIENZA POLITICA E FILOSOFIA Già nel libro che egli dedica a Spinoza Wie Religionskritik Spinozas als Grundlage seiner Wissenschaft, 1930) il nesso tra critica biblicistica e illuminismo politico gli appare chiaro e il nome di Thomas Hobbes assume il carattere di cifra matriciale della modernità politica. Sarà tuttavia nella serrata discussione intrapresa nelle Anmerkurgen al Begrif! des Politischen di Cari Schmitt che a Strauss risulterà chiara l'intrinseca contradditorietà di un progetto che, di fronte alla crisi epocale del Liberalismus che sembra trascinare con sé l'insieme delle categorie politiche moderne, punti a riaffermare il momento originario della costituzione di queste ultime. Così proprio la sostanziale accettazione da parte sua dell' originarietà dell'elemento polemico connessa al politico schmittiano lo induce a rimetterne in discussione la solidarietà con l'universo relativistico e in ultima istanza nichilistico nella figura schmittiana (e weberiana) della serietà. L'irriducibilità del politico infatti non può che esibire la propria apertura alla domanda decisiva sul buono e sul giusto, esattamente come l'irriducibilità del religioso non può che aprire sul rivelarsi nella parola del divino. Il politico è nell'ordine di una natura non passibile di disciplinamento, di un propriamente umano non bonificabile dalla cultura. Il ritorno alla filosofia classica passa per Strauss per questa via e implica l'abbandono della convinzione storicista dell'impossibilità di risalire all'indietro oltre le colonne d'Ercole del pensiero della tecnicizzazione della politica. L'insistenza su Machiavelli, su Hobbes e sulla portata della trasformazione delle matematiche classiche nella strumentazione della scienza moderna sopportano e negativo un programma di ricerca che ha fin dall'inizio degli anni Trenta in Platone e nella tradizione platonica il proprio baricentro. Si vengono così a coniugare due percorsi di indagine strettamente intrecciati tra loro: uno teso a ricostruire la dinamica interna della modernità, le sue "ondate", ma anche la sua compattezza, il suo carattere inclusivo che non lascia spazio .ad alternative di pensiero se non sulla base dei suoi stessi presupposti, l'altro teso a riacquisire il pensiero antico e medievale fuori da ogni aggettivazione prospettica e da ogni pretesa di poter comprendere un'epoca meglio di come l'hanno compresa i suoi propri interpreti. Nelle vesti di una storiografia fìlososofica di eccezionale capacità di ricognizione analitica e testuale, il lavoro di Strauss si costituisce in realtà come un'operazione di sospensione dell'ipoteca storica sulla domanda sull'ordine delle cose umane (Natura! Right and History). Abbandonato, perché impossibile, ogni tentativo di filosofia della religione (si veda il fondamentale saggio introduttivo di Phzlosophie 437 IL POTERE und Gesetz che delinea un definitivo congedo della propria prossimità intellettuale a Franz Rosenzweig), il problema di Strauss è sempre più quello di una pratica della filosofia che mantenga un proprio spazio nei confronti del politico e del religioso, senza pretendere di fondarne o legittimarne i profili e senza rischiare di esservi annessa. n tema classico del rapporto tra filosofia e città, della loro difficile consistenza Oa filosofia persecutrice della città e da essa nel contempo perseguitata) diventa cosi il perno della produzione straussiana successiva all'esilio americano e scandisce la continuità e la discontinuità tra la sua originale riproposizione di un nucleo platonico (l'estraneità di fondo della vita filosofica alla vita politica) e il suo problematico aristotelismo politico, teso a individuare il punto di equilibrio in cui filosofia e virtù civile non si contrappongono tragicamente e in cui l'elemento timetico del politico sembra farsi carico dello spazio della filosofia. È in questa prospettiva che va intesa la messa a fuoco da parte di Strauss di ciò che egli chiama la «filosofia politica classica» e che egli individua, oltre che nei momenti originari platonici e aristotelici, anche nella tradizione costruitasi in rapporto ad essi in età medievale, soprattutto nel pensiero islamico ed ebraico. Questa è appunto quella pratica della filosofia che, in un rapporto ancora vitale con la concretezza della vita politica, riesce ad attingere dall'esperienza discorsiva prefilosofica gli elementi vitalmente decisivi di tale esperienza in un processo di rideterminazione razionale che solleva, oltre l'ambito della città, la questione del governo migliore e della sua possibilità. Per questa via il filosofo, anche se trascende la città nella sua determinatezza, costituisce per essa una risorsa fondamentale, pagando in ciò il suo "dovere" verso la città. La questione del governo migliore di cui parla la filosofia politica classica è infatti questione affatto coinvolta nell'educazione di un'aristocrazia naturale ed è questa quanto i filosofi "devono" alla città. La dimensione educativa, pazdetica, si presenta dunque come l'elemento in cui si fa vincolo tra il filosofo e la città. Il filosofo delimita per questa via il proprio della vita politica, la virtuosità dell'agire, distinguendolo da ciò che è in un ordine diverso, quello delle cose naturali e delle cose divine, dove appunto l'agire non è implicato. Ma il filosofo così facendo agisce secondo prudenza: necessario alla città in quanto filosofo politico, sarà da essa accettato come filosofo? È dubbio che la "filosofia politica classica" di cui parla Strauss abbia il profilo di una "riproposizione". Forse, nel momento J stesso in cui si tenta di celarla, è la polarità che ne costitusce l'intima tensione ad essere da ultimo esibita. 20. CRISI DELLA SCIENZA POLITICA E FILOSOFIA 20.3 Potere e rappresentanza. Eric Voegelin e la forma politica moderna Sin dagli anni Trenta, dopo aver elaborato criticamente il distacco da Hans Kelsen, che fu suo maestro, Eric Voegelin indaga il tema della rappresentanza, come modo di articolazione del potere. Nel saggio Le religioni polztiche, del 1938, egli affronta il problema del rapporto tra teologia e politica, incentrando la trattazione sulla dinamiche di autoidentificazione dell'unità politica. Allo scopo di comprendere (e criticare) il totalitarismo nazista, egli ricostruisce la genealogia della forma politica moderna e del moderno concetto di potere. L'esito totalitario, per Voegelin, conservatore, diretto prodotto dalla modernità e non di una reazione antimoderna ad essa, è direttamente inscritto, anche se in forma soltanto potenziale, nella logica della rappresentazione inaugurata da Hobbes. Ciò che di quest'ultima va evidenziato, infatti, non è tanto l'elemento del contratto (ovvero la dimensione convenzionale e pattizia del potere che viene posto in essere), quanto piuttosto la sequenza in forza della quale, grazie alla persona repraesentativa del sovrano, da una informe moltitudine di uomini viene tratta l'unità del corpo politico (RP, pp. 53 ss.). Il passaggio al moderno totalitarismo è breve: la teologia civile hobbesiana rappresenta per Voegelin ii precedente della sacralizzazione del potere terreno (sia questo il caso delle fenomenologie nazifasciste del dominio o quello della missione salvifica assegnata dalle filosofie della storia progressiste alle istituzioni della politica), solo garante dell'identità collettiva degli uomini e della loro sicurezza. Nel rappresentante, attraverso il quale soltanto si forma il corpo della collettività, la comunità identifica la propria immagine di gruppo politicamente coeso e storicamente concreto. La politica non può quindi essere modernamente pensata, per Voegelin, se non attraverso la mediazione rappresentativa; ovvero secondo i termini del permanente processo di formazione dell'immagine che ogni comunità storica, identificandosi, dà di sé, e che la rende così storicamente «pronta all'azione» (NSP, p. 93). La rappresentazione media perciò Cielo e Terra, agisce come cerniera tra l'autocomprensione identitaria della comunità e la verità che quest'ultima assegna a se stessa. È in questa torsione che la scienza politica moderna si trova presa. Essa agisce come vettore di quegli stessi processi identitari e codetermina il processo autocomprensivo alla base dell'unifi439 IL POTERE cazione politica. Chi si interroghi sull'origine della Forma politica della modernità, non può prescindere, per Voegelin - se non al prezzo di non comprendere, come accade anche a Schmitt, il ruolo di irrevocabile immanenza della teoria al processo identitaria della legittimazione (DCS, p. 303) -, dalle modalità autorappresentative con cui il sapere permea l' autocomprensione della comunità politica. Assai simile, per funzione e scarsa differenziazione, al mito, la moderna teoria politica rifiuta il passo, che consente invece alla filosofia, in virtù della propria vocazione critica, di eccedere la forzata continuità con le procedure identitarie della rappresentanza. La tensione originaria della filosofia, rispetto alla quale la scienza politica opera lo scarto con cui principia la genealogia del Moderno, viene riattinta ogniqualvolta la coscienza interrogante della persona esistenziale concreto che non coincide con il suo corrispettivo giuridico-rappresentativo (HL) - si ponga criticamente in contatto con le forme autocomprensive della politica, per riaprir! e all'originario della verità. L'eccedenza del giusto e del buono riconfigura l'esperienza della politica, operando permanentemente come il «cuneo che incrina» la compattezza dei processi autorappresentativi dell'unità politica (NSP, p. 123) e che riafferma l'irriducibile criticità dell'idea (OH, p. m). Per Voegelin, tale processo è del tutto coerente con la tensione rappresentativa del pensiero. Filosofia si dà soltanto come pratica coerente del limite della rappresentazione - che strutturalmente non può esaurire il problema dell'idea - e come permanente riapertura della politica («oggi come ai tempi di Platone», NSP, p. r23) all'operare della verità. Desaturare il rapporto tra teoria e prassi, ovvero rimontare la cesura con cui principia la modernità politica, significa per Voegelin recuperare la criticztà della teoria (operare cioè una "riteorizzazione" della scienza politica, NSP, pp. 49-5 r) rispetto ad ogni forma terrena di potere. 20-4 Il potere in Hannah Arendt Hannah Arendt è stata tra gli autori che maggiormente hanno ispirato il fenomeno della cosiddetta "riabilitazione della filosofia pratica" ma, come per Voegelin e Strauss, anche nel suo caso l'inserimento in questa cornice risulta piuttosto problematico. Infatti, se ciò è stato il primo sintomo della ricchezza e degli stimoli che in misura sempre crescente sarebbero stati riconosciuti al suo pensiero, d'altro lato il fenomeno della Rehabilitierung poteva prestarsi al rischio di essere interpretato come un progetto d'impiego della "filosofia pratica" con 440 20. CRISI DELLA SCIENZA POLITICA E FILOSOFIA intenti neofondativi e costruttivistici, piegando infine a questo scopo anche i pensatori, quali Hannah Arendt, che maggiormente avevano evidenziato la ricchezza filosofica del pensiero classico, in particolare quello dei Greci, sulla politica, sottolineandone in pari tempo la radicale alterità rispetto ai concetti portanti della "scienza" politica moderna. L'opera di H. Arendt sicuramente più significativa al riguardo è The Human Condition ( r 9 58), il cui titolo italiano Vita activa risulta forse più conforme alle intenzioni dell'autrice dello stesso titolo originale. H. Arendt, infatti, intende qui mostrare come la nozione greca, e in particolare aristotelica, di praxis, intesa come "azione" condotta di concerto insieme agli altri membri della comunità politica Oa polis), contraddistinta dalla comunicazione discorsiva e dalla manifestazione di fronte agli altri della propria "virtù", nonostante l'apparente continuità terminologica, risulti modificata e progressivamente sostituita da un concetto di "prassi" che ben poco conserva della nozione originaria. A partire dall'età moderna, infatti, la "prassi" si afferma dapprima come attività di "fabbricazione" di utensili e in generale come insieme di operazioni volte a costruire un mondo artificiale conforme ai bisogni e alle esigenze dell'uomo. Anche di questo concetto H. Arendt evidenzia un'origine nella nozione greca di poiesis, la quale però risultava comprensibile non in quanto dimensione assolutizzata dell'agire, bensì proprio in quanto veniva distinta e, dal punto di vista dell"' eccellenza", subordinata rispetto alla praxis politica in senso proprio. Ma il percorso moderno di trasformazione e annichilimento del concetto antico giunge al suo culmine, secondo H. Arendt, solo nell'Ottocento, con la dottrina marxiana dell'uomo inteso come anima! laborans. Secondo l'autrice, Marx costituirebbe così il punto terminale di un allontanamento senza ritorno dall'esperienza antica dell"' azione", e rappresenterebbe al meglio l'attivismo antropocentrico costitutivo della modernità, portando in pari tempo al culmine la "perdita del mondo" come correlato stabile e indipendente delle attività del soggetto. La riduzione della "prassi" al "lavoro" implicherebbe infatti il riassorbimento di ogni oggettività nel processo incessante della sua trasformazione funzionale al consumo, da parte dell'anima! laborans, dei prodotti del proprio lavoro. La lettura arendtiana dell'opera di Marx appare particolarmente significativa, poiché mostra la connessione tra gli aspetti di forza e quelli di debolezza nell'operazione ermeneutica dell'autrice. Da un lato, infatti, emerge come l'intento di questo pensiero non vada nella direzione del recupero nostalgico e neofondativo del pensiero classi44 1 IL POTERE co, ma impieghi quest'wtimo per destrutturare criticamente le concezioni dominanti in epoca moderna. Dall'altro, tuttavia, mostra anche come questa operazione si basi su di una visione perlomeno riduttiva dell'opera degli autori presi a bersaglio della critica. Così, nel caso di Marx, la funzione dominante - e dominata - che il lavoro assume nella configurazione della scienza economica e della società moderne, in luogo di essere riconosciuta come il costante obiettivo della marxiana "critica dell'economia politica", viene proiettata sullo stesso Marx come articolazione in positivo del suo pensiero. È vero, peraltro, che il giudizio sulla ricchezza teoretica del saggio arendtiano non può arrestarsi a quest'altezza, poiché scopo dell'autrice, più che la critica immanente di determinati sistemi di pensiero, sembra essere quello di evidenziare criticamente ciò che dalla dimensione filosofica del pensiero si è tradotto nella "prassi" storica e politica corrente (nel caso di Marx, ad esempio, la sua cosiddetta realizzazione in forma di "socialismo reale"). Nell'opera On Revolution (1963), H. Arendt esamina i momenti in cui, nella storia moderna, gli uomini hanno cercato di fondare nuovi ordini politici, riappropriandosi delle proprie capacità di azione politica, cioè condotta in comune con altri. Qui l'autrice, attraverso lo studio della Rivoluzione americana e della Rivoluzione francese, svolge una critica serrata di alcune tra le nozioni portanti della concettualità politica moderna, come quelle di sovranità e rappresentanza. H. Arendt vede nel dispositivo rappresentativo il meccanismo in base al quale si riproduce la distinzione tra governati e governanti, attraverso cui dunque ancora una volta la capacità di agire politicamente viene circoscritta alla minoranza di chi detiene il monopolio della decisione ultima e dell'impiego legittimo della forza. È il nodo che stringe assieme unità politica e costituzione del potere, ciò che l'autrice identifica come il bersaglio e al tempo stesso lo scoglio su cui s'infrangono, sia pure secondo modalità profondamente diverse, i tentativi rivoluzionari francese e americano. Anche qui, tuttavia, alla lucidità con cui l'assetto filosofico-politico moderno viene svelato nella sua struttura portante si accompagnano, a volte, semplificazioni forse eccessive. È questo il caso della critica arendtiana alla nozione di sovranità, a proposito della quale ella scrive che «la grande innovazione politica americana [. . .] fu la radicale e coerente abolizione della sovranità all'interno della compagine politica della repubblica, la concezione che [ .. .] sovranità e tirannia sono la stessa cosa» (Sulla rivoluzione, pp. 171-2). Qui si perde di vista che la nozione moderna della sovranità si collega al concetto della rappresentanza proprio per smarcarsi da quella che i filosofi moder44 2 20. CRISI DELLA SCIENZA POLITICA E FILOSOFIA ni leggono come inaccettabile forma di dominio dell'uomo sull'uomo, cioè come "tirannia". Ma anche in questa occasione, giova soprattutto tenere presente l'obiettivo di fondo del pensiero arendtiano, chè è quello di destrutturare in profondità la concettualità politica moderna, e le modalità stesse con le quali quest'ultima concepisce l'agire politico. Proprio in rapporto al tema del potere, la strategia di H. Arendt emerge con particolare chiarezza ed efficacia. Essa infatti rifiuta di riconoscere nella Herrschaft moderna la forma originaria del "potere", che sarebbe piuttosto custodita nella parola tedesca Macht. In quest'ultima, infatti, emerge in primo piano la dimensione della potenzialità e della capacità umana di istituire forme di vita in comune, attraverso la comunicazione discorsiva e l'esercizio condiviso della "virtù". Al contrario, nel termine Herrschaft emerge la dimensione del dominio e della signoria che, come aveva ben visto Max Weber, sono inseparabili dal possesso e dall'impiego, reale o minacciato, di violenza fisica (Gewalt), mediante cui costringere gli altri all'obbedienza nei confronti di un comando estraneo. La Herrschaft moderna spezza così il carattere orizzontale dell'azione politica, e sostituisce alla dimensione comunicativa dell'agire di concerto l'imposizione di una violenza coercitiva, che rende impossibile l'agire di concerto in cui consiste il potere. Se queste posizioni emergono con particolare chiarezza nel saggio On Violence (r97ol, in cui appunto H. Arendt contrappone violenza e potere, tale concezione era già operante nell'opera del I 9 5 I (I 9663), Le origini del totalitarismo, le cui lontane matrici, con una mossa che a questo punto non dovrebbe stupirei, vengono rintracciate nella filosofia politica di Hobbes. Alla luce di questo percorso di pensiero, appare profondamente conseguente il fatto che l'ultima opera di H. Arendt, rimasta incompiuta, sia dedicata alla Vita della mente. Infatti, l'attività del "pensare" (thinking), proprio nella misura in cui si ritrae dall'orizzonte delle apparenze, entro cui dovrebbe dipanarsi l'agire politico, svela tutta la sua importanza nei momenti di crisi, in cui decisiva appare la capacità di giudicare le vicende storiche da parte degli uomini. Nelle lezioni dedicate alla filosofia politica di Kant, la facoltà del giudizio (judging) emerge cosi come l'ultima riserva in cui sia possibile custodire un distanziamento e un'autonomia di pensiero rispetto alla realtà politica effettuale che troppo spesso occlude per gli uomini lo spazio dell'agire comune e l'esperienza della praxis in senso proprio. In questo esito, ciò che in età moderna si è imposto come "politico" appare piuttosto come la causa, e in pari tempo l'effetto, di un radicale pro443 IL POTERE cesso di spoliticizzazione e di impoverimento delle facoltà umane dell' azione con altri; mentre viceversa il pensiero giudicante, che si dispone su di piano drasticamente sottratto a quello dell'agire e del manifestarsi di fronte ad altri, svela nella sua apparente "impoliticità", nel suo rifiuto di costruire nuove dottrine e nuove "teorie" che possano fungere da guida e orientamento per una "prassi" efficace, il suo significato eminentemente pratico-politico. Vite e opere L. Strauss Nasce nel 1899 in Germania, a Kirchain nell'Hessen, da una famiglia di ebrei ortodossi. Addottoratosi con Cassirer ad Amburgo con una tesi su Jacobi, nei primi anni Venti ha occasione di frequentare a Friburgo le lezioni di H usserl e poi i seminari di Heidegger. Dal 19 2 5 al r 9 3 2 lavorerà all' Akademie fiir die Wissenschaft des Judentums a Berlino. Sono gli anni della sua amicizia con Rosenzweig e con Scholem e di intenso coinvolgimento nel dibattito intellettuale dell'ebraismo tedesco. Nel 1932 con una borsa Rockfeller si reca a Parigi, dove inizierà una duratura amicizia con Alcxandre Kojève: non tornerà più in Germania. Dopo l'ascesa di Hitler, andrà dapprima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, dove insegnerà dapprima alla New School for Social Research e poi al Department of Politics dell'Università di Chicago, dove formerà varie generazioni di allievi. Muore nel 1973, quando si era ritirato al Saint John College di Annapolis, chiamato dal vecchio amico degli anni di Friburgo, Jakob Klein. Opere principali Die Religionskritzk Spzizozas als Grundlage seiner Bibelwissenschaji. Untersuchungen zu Spinozas theologisch-po!itischen Traktat (1930), Schocken, Berlin. Phzlosophie und Gesetz. Beitrdge zum Verstdndnis Maimunis und seiner Vorli:iu/er ( 1935 ), Schocken, Stockolm. The Politica! Phzlosophy o/ Hobbes. Its Basis and Its Genesis (1938), Clarendon, Oxford (trad. it. in Che cos'è la filosofia politica?, Argalia, Urbino 1973l. On Tiranny. An Interpretation o/ Xenophon's ({Hiero" ( 1948), Free Press, Glencoe. Natura! Right and History ( 1953), Chicago University Press, Chicago (trad. it. Neri Pozza, Venezia). · Thoughts on Machiavelli ( 1958), Free Press, Glencoe. What Is Politica! Phzlosophy? (1954) (trad. it. parziale in Che cos'è la filosofia politica?, Argalia, Urbino 1973 The City and Man (1964), Chicago University Press, Chicago. 2 ). 444 20. CRISI DELLA SCIENZA POLITICA E FILOSOFIA Lzberalism Ancient and Modern, Basic Books, New York (1968) (trad. it. Giuffrè, Milano 1973). Platonic Politt'cal Philosophy (1983), Chicago University Press, Chicago. The Rebirth o/ Classica! Politica! Rationalism (1989), Chicago University Press, Chicago. Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero polztico dell'Occidente (1998), Einaudi, Torino. Letteratura critica s. (1988), The Polttical Ideas o/ Leo Strauss, Macmillan, London. v. ( 1968), Philosophy and Politics I-II, in "Review of Metaphysics", 22. DRURY GOUREVICH (1993), Jew and Phzlosopher. The Return to Maimonides in the ]ewish Thought of Leo Strauss, SUNY, Albany MCALLISTER T. v. (1996), Revolt against Modernity. Leo Strauss, Eric Voegelin and the Search /or a Postliberal Order, University Press of Kansas, LawrenGREEN K. H. ce. (1988), Leo Strauss e il problema teologico-polztico alle soglie degli anni '30, in G. Duso (a cura di), Filosofia politica e pratica del pensiero. Eric Voegelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, Angeli, Milano. ROSEN s. (1988), Hermeneutics as Polztics, Oxford University Press, New PICCININI M. York. E. Voegelin Nasce nel 1901. Giurista e scienziato della politica di origine tedesca, si forma a Vienna dove, allievo e assistente di Hans Kelsen, inizia l'attività di ricerca e di didattica universitaria. Nel 1938, dopo aver pubblicato sin dagli anni precedenti opere invise ai nazisti (Rasse und Staat, 1933; Die Rassenidee in der Geistesgeschichte von Ray bis Carus, 1933; Die politischen Religionen, 1938, aperto attacco al "collettivismo politico" nazionalsocialista), è costretto all'emigrazione negli usA. Insegna in diverse università americane (Harvard, Alabama, Louisiana State), sino al 1958, anno del suo ritorno in Germania. Dal 1958 al 1969 dirige l'Institut fiir politische Wissenschaft dell'Università di Monaco di Baviera. A partire dal 1969, e sino alla morte, è nuovamente negli usA, come professore emerito e Henry Salvatory Distinguished Scholar presso la Hoover Institution di Stanford. Muore nel 198 5. Opere principali Herrschaftslehre, dattiloscritto inedito (ca. 1931-33); Voegelin Papers, Hoover Institution, Stanford University, Box 53, Folder 5 (=HL). La dottrina della costztuzione di Carl Schmztt. Tentativo di analisi costruttiva dei 445 IL POTERE suoi principi teorico-politici (r93Il, in Duso (1988), pp. 291-314 ( =DCS). Die politischen Religionen, Bermann-Fischer, Stokholm 1938; trad. it. in La politica: dai simboli alle esperienze. I. Le Religioni politiche. 2. Riflessioni autobiografiche, a cura di S. Chignola, Giuffrè, Milano 1993, pp. 21-76 (=RP). The New Science o/ Politics, H. Regnery & Co., Chicago 1952; trad. it. Boria, Torino 1968 ( =NSP). Order and Hùtory, vol. m, Plato and Aristotle, Louisiana State University Press, Baton Rouge-London 1957 (=OH m). Letteratura critica s. (1998), Pratica del limite. Saggio sulla filosofia polztica di Eric Voegelin, Unipress, Padova. DUSO G. (a cura di) (r988l, Fzlosofia politica e pratica del pensiero. 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Opere principali The Origins of Totalitarianism (1951, m ed. 1966), Harcourt Brace & Co., New York (trad. it. Le origini del totalztarismo, Comunità, Milano 1967). The Human Condition (1958), The University of Chicago Press (trad. it. Vzta activa, Bompiani, Milano 1964, nuova ed. riv. 1988). Between Past and Future: Six Exercises in Politica! Thought (196r), The Viking Press, New York (trad. it. Tra passato e futuro, Vallecchi, Firenze 1966, u ed. Garzanti, Milano 1991). 20. CRJSI DELLA SCIENZA POLITICA E FILOSOFIA Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banalzty o/ Evzl (1963), The Viking Press, New York (trad. it. La banalità del male, Feltrinelli, Milano 1964). On Revolution (r963, n ed. riv. 1965), The Viking Press, New York (trad. it. Sulla rivoluzione, Comunità, Milano 1983l. On Violence (1970), Harcourt Brace and World, New York (trad. it. Sulla violenza, Mondadori, Milano I97I, n ed. I985l. Politica e menzogna (1985), SugarCo, Milano, pp. 85-I22. 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