Impresa sociale: una breve geografia del contesto italiano Vando Borghi in J.L. Laville, M. La Rosa, a cura di (2010), Impresa sociale e capitalismo contemporaneo, Sapere 2000, Roma, pp. 163-174 Impresa sociale: una breve geografia del contesto italiano Vando Borghi I confini di un fenomeno, nello scenario nazionale Misure dell’economia sociale Per ragionare di cosa sia l’impresa sociale e di come si configurino alcune delle sue principali problematiche è utile premettere un po’ di dati che possano aiutarci a dare un profilo concreto cui ancorare alcuni elementi di discussione. Vorrei subito chiarire, però, che il problema principale di una riflessione sociologica su questo fenomeno – che cosa sia davvero impresa sociale e cosa invece ne abbia soltanto, eventualmente, le forme o l’apparenza – non può essere risolto sul piano dei dati e della contabilità. E’ per questo che, delineato sinteticamente il perimetro della figura (nel contesto italiano) che abbiamo posto ad oggetto di questo volume, occorrerà poi indicare alcuni terreni su cui la riflessione e l’indagine devono esercitarsi per evitare analisi che si fermino soltanto alla superficie del fenomeno in questione. La cornice in cui si inscrive, dal punto di vista della classificazione statistica, il fenomeno dell’impresa sociale, vale a dire l’ambito dell’economia sociale, risulta da sempre complesso da monitorare, con cifre e misure non sempre concordi a seconda delle diverse fonti da cui derivano. Proviamo comunque a richiamare alcuni elementi principali. In primo luogo, va ricordato che, stando ai dati del censimento ufficiale riportati nel “Primo Rapporto Cnel/Istat sull’economia sociale” (Cnel/Istat, 2008), agli inizi del 20001 esistevano in Italia 221.412 organizzazioni senza scopo di lucro (comprendendo in questa classificazione Fondazioni, Associazioni, Cooperative), il 51% delle quali localizzate nell’Italia settentrionale e in cui erano impiegate più di 4 milioni di persone, delle quali 3 milioni e 200 mila a titolo volontario2 e 532 mila dipendenti. Da un punto di vista economico, non è secondario rilevare che, mentre la gran parte (75%) delle organizzazioni non profit si assesta su un ammontare annuo di entrate inferiore ai 50mila euro, una piccola minoranza 1 Anche se questi dati (così come quelli riportati nella Tab. successiva) sono tratti da pubblicazioni recenti (Alschelter, Bruzzese, Perna 2005; Cnel/Istat, 2008), rimandano comunque – almeno per i dati generali – al Censimento delle istituzioni nonprofit del 1999. 2 In effetti, l’80.2% utilizzava personale volontario e per il 70.1% questa figura rappresentava l’unica risorsa umana utilizzata. di esse (1.1%, cioè 373 organizzazioni) impiega il 42% del totale dei dipendenti (220 mila). Per tali ragioni è difficile non concordare con chi afferma che la cosiddetta economia sociale in Italia sia caratterizzata da “una grande concentrazione di risorse economiche in poche strutture” (Alschelter, Bruzzese, Perna, 2005: 21). Che tipo di effetti abbia tutto ciò nella qualificazione del rapporto tra problematiche sociali e dinamiche economiche – il nodo su cui lavora appunto l’impresa sociale – costituisce di per se un terreno assai significativo di ricerca. Tab. 1 – Organizzazioni nonprofit per forma giuridica, aree territoriali e principali settori di intervento FORMA GIURIDICA Associazione riconosciuta Nord Centro Mezzogiorno Italia 28.580 13.149 19.580 61.309 Cultura, sport e ricreazione Assistenza sociale Relazioni sindacali e rappresentanza di interessi Istruzione e ricerca 37.245 Fondazione Associazione Comitato non riconosciuta AREE TERRITORIALI 1.737 74.292 2.196 699 29.648 941 572 36.812 695 3.008 140.752 3.832 PRINCIPALI SETTORI 865 97.725 2.334 Cooperativa sociale Altra forma Totale 2.286 792 1.573 4.651 7.861 1.736 2.044 7.861 113.172 46.965 61.275 221.412 476 1.747 140.391 6.575 773 8.073 322 2.397 1.204 19.344 3.608 0 11.863 75 0 105 15.651 2.631 714 5.676 202 135 2.294 11.652 Fonte: Cnel/Istat, 2008: 19 (parziale da Tab. 4.1) La Tab. 1 ci fornisce una prima idea generale della mappatura (un po’ datata, per le ragioni sopra accennate) della tipologia di organizzazioni nonprofit, della loro distribuzione territoriale e dei principali settori di intervento Tra le diverse cose che si potrebbero sottolineare circa i dati sopra richiamati – relativamente alla netta prevalenza delle organizzazioni che si dedicano ad attività concernenti il legame sociale (nelle sue problematiche più o meno drammatiche, dal tempo libero e la cultura all’assistenza sociale in senso stretto), nonché alla preminente collocazione di tali organizzazioni nell’area settentrionale del paese (51,1%) – vale la pena rimarcare il dato concernente il principale oggetto delle considerazioni seguenti. Infatti, se come ho già detto, risulta difficile identificare a priori la natura di una effettiva impresa sociale, possiamo comunque provare a lavorare per approssimazione, riferendo pertanto i nostri ragionamenti al dato che descrive, nell’universo rappresentato nella Tab. 1, le cooperative sociali, che ammontano al 2,1% del totale delle organizzazioni. I territori della cooperazione sociale: una introduzione La cooperazione sociale, almeno per come viene rilevata dall’Istat, fa riferimento ad una normativa risalente al 1991 (Legge n. 381). Avente lo scopo, da statuto, di perseguire l‘integrazione sociale dei cittadini e, ancora più in generale, la promozione umana in quanto interesse generale alla comunità, la cooperazione sociale è articolata secondo la seguente tipologia: - coop. di tipo A: organizzazioni che svolgono attività finalizzate all’erogazione di servizi socio-economici ed educativi; - coop. di tipo B: organizzazioni che lavorano all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate; - coop. di tipo misto (A + B): organizzazioni che svolgono entrambe le tipologie di attività sopra richiamate; - consorzi sociali: organizzazioni cooperative con base sociale costituito almeno per il settanta per cento di cooperative sociali. Alla fine del 2005, l’universo delle cooperazione sociale risulta circoscrivibile attraverso alcuni dati generali (Cnel/Istat, 2008): a. le cooperative sociali attive sono 7.363 (la maggior parte delle quali, il 71.7%, costituitasi dopo il 1991): 12,1 cooperative ogni 100mila abitanti; b. il maggior numero di cooperative sociali ha sede in Lombardia (1.191 unità, pari al 16,2% del totale nazionale); seguono il Lazio (719), la Sicilia (589), l’EmiliaRomagna (584), il Veneto (564) e la Puglia (545) c. l’insieme delle cooperative sociali è costituito per la maggior parte da cooperative di tipo A (4.345 unità, pari al 59%), mentre le cooperative di tipo B ammontano a 2.419 unità (32,8%) d. i soci delle cooperative sociali sono 262.389, di cui 255.583 persone fisiche e 6.806 persone giuridiche; nelle cooperative di tipo A risultano relativamente più frequenti le unità con un’unica categoria di soci (21,5%), mentre tra le cooperative di tipo B e ad oggetto misto si registrano quote percentuali più favorevoli alla molteplicità di categorie di soci (il 94,1% delle cooperative di tipo B ed il 91,7% di quelle ad oggetto misto è composta da almeno due categorie di soci); e. il personale delle cooperative sociali nel 2005 è pari a 278.849 unità, di cui 211.307 dipendenti, 31.629 lavoratori con contratto di collaborazione, 30.478 volontari, 3.415 volontari del servizio civile, 1.287 lavoratori interinali e 733 religiosi; complessivamente i lavoratori retribuiti (dipendenti, lavoratori con contratto di collaborazione e interinali) sono 244.223, mentre le risorse umane non retribuite sono 34.626; rispetto al 2003, il personale operante nelle cooperative sociali è aumentato complessivamente del 26,2% e la crescita maggiore ha riguardato i lavoratori interinali (+159%); f. nel 2005, le cooperative sociali dichiarano, nel complesso, un valore della produzione di 6.381 milioni di euro, con un importo medio per cooperativa di circa 867 mila euro; la quota maggiore del valore della produzione si concentra nelle cooperative di tipo A, che raccolgono il 64,7% dei ricavi e costituiscono il 59% delle cooperative. Seguono, le cooperative di tipo B (21,2%), i consorzi (10,7%) e le cooperative ad oggetto misto (3,4%); g. per quanto concerne le cooperative di tipo A, il settore in cui esse operano maggiormente è rappresentato dall’assistenza sociale (59.1%), mentre la tipologia di servizio maggiormente erogato è l’assistenza domiciliare (36.5%) e, infine, il destinarlo prevalente dei servizi di tale tipologia sono i minori (28.8%); h. nelle cooperative di tipo B, invece, il servizio di inserimento lavorativo riguarda in primo luogo i disabili (46.3%). In termini di distribuzione territoriale (Tab. 2), la maggiore concentrazione di strutture cooperative risulta essere nelle regioni meridionali, prese nel loro insieme; nel confronto interregionale, tuttavia, la situazione risulta più eterogenea, con una rappresentanza significativa, tra le prime cinque regioni per presenza di strutture di cooperazione sociale, di regioni collocate nell’area settentrionale del paese: Lombardia (1191), Lazio (719), Sicilia (589), Emilia Romagna (584), Veneto (564). Tab. 2 - Cooperative sociali per tipologia e regione - Anno 2005 (valori percentuali, totale=100) Fonte: Istat, 2007 Un ulteriore elemento di dettaglio utile alla comprensione dell’universo della cooperazione sociale (Tab. 3) rimanda al tema della fonte di finanziamento di queste organizzazioni. La maggior parte di esso deriva da fonte pubblica (65.9%) e soltanto nelle aree del Nord-est risulta esserci un maggior equilibrio tra fonte pubblica (56.3%) e fonte privata (43.7%). Tab. 3 - Cooperative sociali per fonte prevalente di finanziamento, tipologia e ripartizione territoriale – Anno 2005 (valori percentuali, totale=100) Fonte: Istat, 2007 Altro tema rilevante è quello concernente la presenza di persone svantaggiate nelle cooperative. Per cominciare a vedere il peso di questa presenza, può essere utile osservare due indicatori, vale a dire il numero medio di persone svantaggiate per cooperativa (12) e il numero di svantaggiati ogni 10 unità di personale retribuito (6). Se prendiamo il primo dei due indicatori (numero medio persone svantaggiate per cooperativa), emergono evidenti differenze territoriali: il Nord-est (14) e il Nordovest (17) mostrano una presenza di persone svantaggiate superiore alla media nazionale, mentre nel Mezzogiorno la presenza di persone svantaggiate risulta inferiore alla media nazionale (8). Il Centro presenta invece un dato in linea con quello nazionale. Infine, rispetto al secondo indicatore (numero svantaggiati ogni 10 unità di personale retribuito), il rapporto che emerge nelle diverse aree regionali si mantiene intorno a quello nazionale. Tab. 4- Indicatori delle cooperative di tipo B per ripartizione territoriale - Anni 2003 e 2005 Fonte: Istat, 2007 Relativamente alla tipologia delle persone svantaggiate nelle cooperative di tipo B, emerge una prevalenza della figura del disabile su tutto il territorio nazionale; nella maggior parte delle aree regionali, tale figura è poi seguita da quella dei tossicodipendenti, con l’eccezione dell’area Nordest, che vede la figura del disabile seguita immediatamente da quella del paziente psichiatrico Tab. 5 - Persone svantaggiate delle cooperative di tipo B per tipologia e ripartizione territoriale - Anno 2005 Fonte: Istat, 2007 Un approfondimento, inoltre, di questi dati attinenti la presenza di persone svantaggiate all’interno delle organizzazioni cooperative in questione (Tab. 6) ne mette bene in evidenza i limiti da un punto di vista più qualitativo. Si tratta infatti di una presenza che si concentra sostanzialmente nei ruoli operativi, mentre fatica ad incidere sul processo decisionale e di definizione strategica attraverso l’accesso a posizioni dirigenziali. Tab. 6 - Ruolo dei soggetti svantaggiati nelle cooperative sociali 90,00% 80,00% 70,00% 60,00% 50,00% 40,00% 30,00% 20,00% 10,00% 0,00% Dirigenti Tecnici/Impiegati Sv antaggiati Capisquadra Ope rai Normodotati Fonte: Mattioni - Ires-Fvg, 2003 I dati fin qui richiamati e commentati mostrano dunque un universo vasto, eterogeneo e con opacità e contraddizioni. Da un lato, pare si tratti di un universo in espansione, in termini quantitativi; dall’altro, questo dato apparentemente positivo presenta, visto da vicino, più di un lato oscuro (la forte dipendenza dal finanziamento pubblico, la concentrazione delle risorse su alcune poche grandi organizzazioni, etc.). Da una parte, questa crescente affermazione come interlocutore rilevante dei decisori ha prodotto trasformazioni interessanti nell’ambito delle politiche e della legislazione sociale; dall’altro proprio questo successo costituisce il terreno di snaturamento e di strumentalizzazione di questo soggetto e delle istanze che veicola. In altre parole: “mentre infatti, le organizzazioni che compongono il Terzo Settore (…) ne enfatizzavano il ruolo di creatore di occupazione e di risolutore delle contraddizioni del tardo capitalismo al fine di ottenere riconoscimenti e attenzioni pubbliche (in termini di leggi, defiscalizzazione, peso politico), gli stessi argomenti venivano usati come cavallo di Troia per l’ingresso delle logiche neoliberiste nei modelli europei di welfare (attaccati dalla nuova dea privatizzazione). Il risultato è che, accanto a misure interessanti ottenute negli ultimi dieci anni (legge sul volontariato, sulla cooperazione sociale, sulle associazioni di promozione sociale, la legge per la riforma dell’assistenza), si è osservata una crescita impressionante del terzo settore che si occupa soprattutto di welfare e che stenta a mantenere un ruolo propositivo e riformatore, ma anzi spesso cade nella dipendenza quasi totale dal settore pubblico, unico rappresentante della domanda per queste ‘imprese’” (Alschelter, Bruzzese, Perna, 2005: 23). Quello che è possibile dire, sulla base di questi ed altri dati di tipo quantitativo ci riporta, quindi, esattamente alle considerazioni espresse all’inizio di questa breve ricognizione. Come anche altri contributi al volume, per vie diverse (cfr. de Leonardis, infra), mi pare mostrino con chiarezza, i dati introdotti ci descrivono lo sfondo sul quale l’impresa sociale, eventualmente, si muove, ma i due piani non sono sovrapponibili e la messa a fuoco delle proprietà e degli orizzonti problematici ed evolutivi di quest’ultima non sono sovrapponibili con quello stesso sfondo. Le coordinate dell’impresa sociale E’ sul terreno del rapporto con la società nel suo insieme, con il processo di alimentazione del tessuto connettivo della società in cui la società civile stessa affonda le proprie radici - laddove essa si configura, effettivamente, secondo modalità opposte al dilagante “particolarismo generalizzato” (Innerarity, 2008: 52 e ss.) con il quale essa viene invece spesso confusa – che è possibile misurare la messa all’opera (o meno) dell’impresa sociale. Ciò che conta, qui, non sono tanto le misure strutturali (di qui l’opacità, l’ambiguità dei numeri e delle classificazioni solitamente adottate per indagare i fenomeni in questione); piuttosto sono i processi, le proprietà emergenti entro sistemi d’azione e progetti che prevedono quasi sempre l’interazione tra attori diversi (profit e noprofit; pubblici e privati). Conta il modo con cui si costruisce la realtà sulla quale poi si andrà ad agire (il sensemaking) e, a questo proposito, le definizioni, le rappresentazioni di cui ci si serve per osservare e indagare, svolgono un ruolo determinante nel rapporto circolare con la realtà sociale cui si riferiscono, partecipando esse stesse della sua produzione ed essendone, contemporaneamente, l’esito. Possiamo sforzarci di identificare diverse versioni alternative di terzo settore e di impresa sociale ma, come ho già detto, credo che il discrimine decisivo si ponga in rapporto al nesso tra impresa sociale e società nel suo insieme. Da un lato possiamo facilmente rintracciare definizioni (direi senz’altro maggioritarie) che tendono a enfatizzare la natura “privatistica” di quel tipo di organizzazioni e di processi. “Le materie sociali implicate – bisogni e beni relativi alla salute, all’educazione, alla sicurezza e alla qualità della vita, al reddito e al lavoro, ecceetera – vengono ricondotte all’interno della sfera privata, e considerate come problemi e domande dei singoli e delle loro famiglie cui corrispondono, sul versante dell’offerta, capacità di iniziativa economica e virtù morali altrettanto personali, private. Così privatizzate, queste materie smettono di essere un terreno di discorso pubblico su questioni collettive e condivise, che riguardano la qualità e la tenuta del legame sociale e che dunque chiamano in causa corresponsabilità, azioni e scelte su beni e fini comuni” (de Leonardis, 1999: 246-7). Dall’altro, troviamo versioni (minoritarie) che insistono sul registro argomentativo della cittadinanza, che riconnettono sistematicamente il teatro dell’azione di queste organizzazioni allo spazio pubblico ed al senso che esse acquistano in esso, che ne sottolineano la radice politica (nell’accezione arendtiana del termine). Lo schema seguente (Tab.7) può fornire una rappresentazione grafica dei principali modelli dell’argomentazione che si confrontano su questi temi e delle loro principali caratteristiche, così come emerge da quanto fin qui discusso Tab. 7 – Matrici di agency delle organizzazioni nonprofit eterogeneit à dei soggetti coinvolti; strategie deliberative e partecipative; creazione di borderlands Impresa Sociale efficienza/ redditività come obbiettivo efficienza/ redditività come vincolo strategie organizzative e relazionali di tipo dualistico / privatismo Su un asse, quello orizzontale, si dispongono le diverse rappresentazioni del rapporto tra significato sociale delle organizzazioni e dei processi di cui stiamo parlando e processi economici, laddove su un estremo sono collocabili quelle concezioni e quelle pratiche che Perrow (2002: 40-41) definisce la “forma negativa di organizzazioni nonprofit” e che tendono in sostanza a sovvertire il rapporto tra aspetti economici e dimensioni sociali, facendo dei primi l’obbiettivo effettivo (in termini di vantaggi fiscali, di percezione di alti salari e gratifiche o anche soltanto assumendo i criteri di efficienza economica come l’effettivo criterio di gerarchizzazione e di selezione delle priorità e delle scelte strategiche) invece di considerarli come uno strumento e/o un vincolo della governo delle organizzazioni. Mentre sull’estremo opposto troviamo la tensione a considerare i vincoli economici e di mercato un vincolo, un dato non ignorabile ma che non impedisce tuttavia di esigere obbiettivi di alta qualità concernenti i beni ed i servizi trattati, le relazioni coinvolte e così via (de Leonardis, Mauri, Rotelli, 1994). Sull’altro asse, quello verticale, si collocano invece le diverse concezioni concernenti l’agency delle organizzazioni: su un estremo quelle di stampo fortemente privatistico (de Leonardis, 1997), cioè alimentate da una concezione del rapporto tra organizzazioni e cittadini come rapporto privato (di tipo familiare e/o mercantile) e dualistico3 oppure, per usare la terminologia di Perrow (2002), caratterizzate da comportamenti egoistici, orientate a fornire servizi soltanto ai propri membri; sull’estremo opposto, quelle organizzazioni e quei progetti orientati all’allargamento della cittadinanza e delle condizioni per il suo effettivo esercizio attraverso la messa all’opera di attori diversi, attraverso strategie borderlands, vale a dire, per usare la definizione di Piore (1995), l’istituzione di percorsi di “intrapresa sociale” basati non sulla negoziazione, lo scambio, il compromesso, bensì sulla costruzione di ponti, di terreni di incontro e di confronto, di un vocabolario comune finalizzato ad una reciproca trasformazione. Se assumiamo questa prospettiva di lettura, allora la definizione di impresa sociale propriamente detta – al di là delle misure e delle contabilità su base strettamente amministrativa – dovrebbe indicare soltanto quelle organizzazioni che si sforzano di muoversi nel quadrante in alto a destra. Proprio perché le nostre sono sempre più intensamente “società di organizzazioni” (Perrow, 1991), è indispensabile riflettere a fondo sulla natura ed il significato sociale dei modelli organizzativi e delle matrici cognitive cui attingono per cercare di interpretare l’orizzonte delle trasformazioni in corso. Vale dunque la pena concludere questa breve introduzione al contesto italiano, oltre che rimandando agli approfondimenti di tali aspetti presenti negli altri contributi a questo volume, con il richiamo della esortazione all’analisi critica dell’eterogeneo universo del nonprofit che, per quanto riflettendo su uno scenario diverso come quello statunitense, l’autorevole studioso delle organizzazioni complesse Charles Perrow (2002: 34) ha espresso alcuni anni fa: 3 La relazione duale, tipica dell’ambito clinico e/o mercantile, “fa incontrare due individui isolati e astratti dalla socialità, sottratti al reticolo delle altre relazioni che costituiscono il mondo di ciascuno, e separati in uno spazio artificiale, segreto e privatizzato, disegnato dal setting specialistico. La relazione duale recide legami, sottrae socialità ed esclude altre relazioni dal campo delle azioni e delle scelte pertinenti su problemi e beni sociali”. Nel modello duale di interazione, i due soggetti vengono implicitamente definiti in modo fortemente asimmetrico: “le competenze di uno dei due attori in gioco si configurano come appropriazione e segretezza (...) delle risorse materiali e cognitive su cui si svolge la relazione” mentre “le domande di cui l’altro attore è portatore vi vengono riconosciute e trattate come deficit, bisogni e patologie personali; nel migliore dei casi come preferenze soggettive” (de Leonardis, 1997: 186-7). Inoltre, a proposito del tema che indicavo come il terreno fondamentale su cui misurare l’impresa sociale, de Leonardis (1998: 91-2) mette a fuoco le conseguenze complessive di una tale logica d’interazione: “Questa cornice strumentale induce comunque una disattivazione della ‘voce’ della domanda, della sua partecipazione attiva alla questione. Con il rischio che si crei il deserto attorno ad essa e con ciò si riduca drasticamente la dotazione di risorse che il contesto sociale della domanda può mettere in gioco. Passività, dipendenza, cronicità, privatizzazione delle questioni, deprivazione materiale, culturale e politica finiscono per costituire il risvolto sistemico del trattamento del destinatario degli aiuti come cliente, in definitiva come consumatore individuale con i suoi bisogni e le sue preferenze private. Viene da domandarsi quale società civile potrebbero costruire, se così orientate, queste forme di autorganizzazione”. “Le società moderne sono sempre più costellate di grandi organizzazioni, dal momento che un sempre maggior numero di attività che vogliamo e dobbiamo svolgere sono gestite da queste ultime. Le organizzazioni, e in particolar modo quelle di grandi dimensioni, offrono sempre più servizi che un tempo erano forniti dalle famiglie, dai gruppi di amici, dal vicinato e dalle comunità locali. Ciò significa che sempre minore è la capacità della società civile di sussistere in assenza delle grandi organizzazioni. Una prova dell’assorbimento della società da parte delle grandi organizzazioni è costituita dall’organizzazione nonprofit. In teoria, essa è di piccole dimensioni, sensibile e orientata verso i bisogni della società. Se la società civile deve essere rappresentata da un’entità organizzata, sembrerebbe che questa debba essere l’organizzazione nonprofit. Ora, il numero delle organizzazioni nonprofit sta aumentando. Mi domando se questo aumento debba significare un aumento delle aspettative di una società civile vitale. Il mio timore è che le abbia invece ridotte. Fondamentalmente, ciò che sostengo è che i settori nonprofit che crescono più rapidamente sono caratterizzati da comportamenti egoistici, mentre i settori le cui attività sono orientate in senso altruistico sono in declino. Un argomento distinto, ma collegato a questo, è che le grandi organizzazioni, sia quelle a scopo di lucro che quelle nonprofit, stanno trasformando i servizi che erano un diritto del cittadino in attività accessorie al contratto di impiego”. Riferimenti bibliografici Aschelter A., Bruzzese E., Perna L. (2005), Dove va il Terzo Settore?Rapporto sull’Economia Sociale in Italia, Ricerca nell’ambito dell’Azione Sperimentale del Consorzio “Noicon”, finanziamento FSE e Regione Emilia Romagna. Cnel, Istat (2008), Primo Rapporto Cnel/Istat sull’economia sociale, Roma de Leonardis O. (1997) Declino della sfera pubblica e privatismo, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, n. 2, pp. 169-193. de Leonardis O. (1998), In un diverso welfare, Feltrinelli, Milano. de Leonardis O. (1999), Terzo settore: la doppia embeddedness dell’azione economica, in J.L. Laville, E. Mingione, a cura di, La nuova sociologia economica. Prospettive europee, numero monografico di “Sociologia del lavoro”, n. 73, pp. 230-250. de Leonardis O., Mauri D., Rotelli F. (1994), L'impresa sociale, Anabasi, Milano. Istat (2007), Le cooperative sociali italiane in Italia. Anno 2005, 12 ottobre. Mattioni F., Ires FVG (2004), La cooperazione di tipo B in Italia tra maturità e radicamento e proposte per il suo sviluppo, Presentazione del rapporto di ricerca, 30 giugno, Roma. Perrow C. (2002), L’ascesi delle organizzazioni nonprofit e il declino della società civile negli Stati Uniti, in “Rivista di politiche pubbliche”, n. 2. Perrow C. (1991), A Society of Organizations, in “Theory and Society”, vol. 20, n. 6., pp. 725-762.