VOLUME II UNITÀ 1 CAPITOLO 1 LA CRISI DELLA REPUBBLICA (79-44 a.C.) 1. PERSONALITÀ IN LOTTA PER IL POTERE 1.1 Effetti imprevisti della riforma di Silla Il potere ingordo La riforma di Silla non servì a restituire al senato l’antica autorità né pacificò gli animi, la crisi era molto più profonda e investiva l’intera gestione del potere. La riforma aveva anzi peggiorato il disagio e il malcontento, e lo spettro della guerra civile restava in agguato. La nobiltà, che per merito di Silla si trovò di nuovo nelle mani tutto quel potere, invece di usarlo per rimettere ordine nel governo e nella società, ne approfittò per rubare, corrompere e uccidere. Era ormai normale comprare i voti in un’elezione o i giudici in un processo; si pagava per avere un incarico nelle province dove ci si poteva arricchire a spese dei provinciali, con le tasse, le rapine, la vendita degli abitanti come schiavi. Chi poteva prestava soldi a chi voleva comprarsi una carica ad un tasso del cinquanta per cento, sicuro che una volta eletto il debitore sarebbe stato in grado di ripagare il debito. Il senato proibiva ai suoi membri il prestito ad usura, ma essi aggiravano la legge celandosi dietro a prestanome. Satrapi e cene luculliane Cesare, ad esempio, quando gli fu assegnata la provincia della Spagna, aveva debiti per 25 milioni di sesterzi: li ripagò in un anno. Crasso, che aveva ottenuto da Silla di organizzare il primo corpo di vigili del fuoco, quando scoppiava un incendio, cosa piuttosto frequente in una città in cui edifici alti anche sei piani, le cosiddette insulae, erano costruiti prevalentemente in legno, contrattava con il proprietario dell’immobile in fiamme, lo acquistava per pochi soldi e solo dopo azionava le pompe. Se non ne otteneva la proprietà, lasciava bruciare l’edificio. «In mano a una classe dirigente così corrotta, Roma era ormai diventata una pompa che succhiava quattrini in tutto il suo Impero per consentire a una categoria di satrapi una vita sempre più fastosa e un lusso sempre più insolente» (Montanelli). Il potere anomalo Un nuovo ruolo avevano ormai assunto anche il proletariato urbano e gli eserciti. Con il termine plebe, che aveva ormai perso il significato originario, si indicava la massa di nullatenenti che, spesso affluiti dalla campagna in cerca di lavoro, sovraffollavano Roma, vivendo di espedienti, di elargizioni gratuite di grano, di spettacoli gladiatori nel circo; alimentavano la delinquenza, si lasciavano manovrare e comprare dai potenti; davano il proprio appoggio a chi prometteva di più e sfogavano la rabbia in sommosse violente e spesso cruente. Gelosa dei suoi privilegi, la plebe di Roma si opponeva a qualsiasi tentativo di estendere tali privilegi, e in particolare la cittadinanza romana, ai provinciali, bloccandone in questo modo l’integrazione nell’impero. L’esercito, dopo la riforma di Caio Mario, era diventato invece lo strumento indispensabile nelle mani di chi aspirava al potere, anche al di là e contro le leggi. Sempre più spesso gli eserciti venivano arruolati direttamente da un politico abbastanza ricco da potersi permettere di mantenere delle truppe. Ai soldati, con la vittoria, il generale prometteva bottino e razzie, e ai veterani, al momento del congedo, l’assegnazione di terre. Naturalmente l’esercito dava la sua fiducia solo al generale che sapeva meritarsela, rispettava i soldati, garantiva numerose vittorie e le ricompense più ricche. Le personalità che nel I secolo a.C. dominarono la scena politica adoperarono con grande spregiudicatezza i loro eserciti, fino a scagliarli persino contro la patria. Fazioni o personalità in lotta In conflitto erano due diversi modi di concepire la politica, rappresentati dalle due fazioni che si contendevano il potere, gli optimates e i populares, espressione entrambe della nobilitas, ma con due opposte visioni del potere. Però da tempo ormai erano singole personalità – dai Gracchi, a Mario e Silla – spesso forti dei loro eserciti, ad assumersi il compito di tentare una riforma dello Stato in un senso o nell’altro, tanto che le guerre civili che si scatenarono nel I secolo a.C., secondo alcuni, furono dettate dalla brama di potere di singole personalità, quasi sempre esponenti della nobiltà, che aderivano all’una o all’altra delle due fazioni solo per sfruttarne l’appoggio. È anche vero però che, dietro le varie personalità, le vere protagoniste della storia erano le forze sociali che premevano per un rinnovamento profondo dello Stato. memo Gli optimates, tradizionalisti e conservatori, contrari al rinnovamento della politica, intendevano mantenere l’ordine costituito e i privilegi della classe al potere, basavano la loro forza sull’autorità del senato e della tradizione, cioè del mos maiorum; i populares, riformisti e favorevoli alle innovazioni politiche, economiche e sociali necessarie a governare un impero così ampio, volevano adeguare le strutture ai tempi e riequilibrare le disparità sociali, esercitando maggiore controllo sulle elezioni per evitare corruzione e brogli, migliorando le condizioni di vita dei ceti meno abbienti, per evitare conflitti sociali, realizzando riforme. La fazione dei populares era una minoranza tra i nobili, ma aveva spesso l’appoggio dei cavalieri e agiva attraverso i tribuni e i comizi, quindi sulla base della volontà popolare, ormai poco propensa a riconoscere autorità al senato. 1.2 Pompeo Magno L’ascesa di Pompeo (82-72 a.C.) La personalità forse più emblematica, per le sue scelte ambigue e contraddittorie, della grande confusione politica che regnava a Roma, è quella di Pompeo, il primo ad affacciarsi sulla scena politica alla morte di Silla. Gneo Pompeo apparteneva a una famiglia italica di recente nobiltà. Il padre aveva combattuto nella guerra sociale, dimostrando ambizione e brutalità, ed era riuscito a costruirsi una ricchissima proprietà nel Piceno e ad assicurarsi vaste clientele, che lasciò in eredità al figlio. Questi, quando Silla sbarcò a Brindisi, sfruttando le sue ricchezze poté addirittura arruolare tre legioni per appoggiarlo nella lotta contro Mario il Giovane. Nell’81 a.C., ad appena venticinque anni, senza aver ricoperto alcuna magistratura, ottenne il diritto a celebrare il trionfo – che spettava in realtà solo a un console o a un pretore vittorioso –, e il titolo onorifico di Magno. Sposò la figlia di Silla e durante la dittatura del suocero ebbe incarichi importanti, ma il suo potere crebbe soprattutto dopo il ritiro del dittatore a vita privata. Nel 76 a.C. fu inviato in Spagna, contro Quinto Sertorio, un seguace di Mario, governatore delle due province iberiche (Hispania Ulterior e Hispania Citerior), dove si erano rifugiati i mariani. Sertorio si era ingraziato le popolazioni iberiche in lotta contro Roma e ne appoggiava le rivendicazioni. Non fu facile per Pompeo sconfiggere i ribelli che avevano il vantaggio di conoscere i luoghi e attuavano la tattica della guerriglia. Il generale ricorse allora all’astuzia: approfittando del fatto che molti uomini di Sertorio trattavano gli indigeni come “barbari” e suscitavano proteste e defezioni, egli riuscì a sobillarli contro il governatore. Nel contempo corruppe anche gli uomini a lui più fedeli, finché ottenne che uno di essi attirasse Sertorio e la sua guardia del corpo in un tranello e li trucidasse (72 a.C.). Pompeo poté così tornare, dopo quattro anni, in Italia. La rivolta di Spartaco (73-71 a.C.) Ma intanto a Roma era scoppiata, nel 73 a.C., la più grave rivolta servile della storia romana. Tra il II e il I secolo a.C., gli schiavi rappresentavano la metà di tutta la popolazione della penisola. Il loro grande numero e il durissimo trattamento che subivano avevano provocato già molte rivolte. Già nel 136-132 a.C. in Sicilia era scoppiata una prima rivolta. Qui erano presenti più che altrove numerosissimi schiavi, di origine per lo più siriaca, che si impossessarono di Enna, proprio al centro dell’isola, e da lì estesero la rivolta ad Agrigento, Tauromenio (Taormina), Catania, Messina e, forse, Siracusa. A comandarli era lo schiavo Euno, eletto re dai suoi seguaci col nome di Antioco, come il re di Siria vinto dai romani. Gli insorti sconfissero ripetutamente i reparti romani inviati per reprimere la rivolta, fecero strage dei magistrati e di tutta la classe dirigente romana, mentre ottennero probabilmente l’appoggio delle classi popolari. La rivolta servile divenne così la lotta della Sicilia contro la dominazione romana. Lo storico Diodoro Siculo, un secolo dopo, parla di 200.000 insorti, mentre a provare il coinvolgimento della popolazione siciliana, che le fonti non citano, sono i provvedimenti assunti dal console che riuscì a reprimere la rivolta solo quando giunsero le truppe di rinforzo dalla Spagna, dopo quattro anni di lotta. Egli, dopo aver crocefisso migliaia di ribelli nelle campagne intorno ad Enna, concesse alla provincia della Sicilia larga autonomia nell’amministrazione della giustizia Anche ora a Roma il numero degli schiavi e il loro sfruttamento inumano spinsero in alcuni casi gli schiavi a ribellarsi per ottenere la libertà, a fuggire per darsi al brigantaggio nelle campagne e nei boschi oppure ad impossessarsi, come accadde in Sicilia, di ampi territori per taglieggiare gli abitanti, sicuri della protezione dei loro potenti padroni. Le pene per gli schiavi fuggitivi o ribelli andavano dalle torture fino alla morte: i condannati erano inviati nell’arena per essere sbranati da bestie feroci o venivano crocefissi: era questa una morte infamante riservata solo agli schiavi. Spartaco, trace di origine, uomo intelligente e coraggioso, che aveva combattuto nell’esercito romano, ma poi era stato fatto schiavo per diserzione e inviato nella famosa scuola di gladiatori di Capua, insieme a poche decine di gladiatori era riuscito a fuggire e a rifugiarsi alle falde del Vesuvio. Qui fu raggiunto da migliaia di altri schiavi fuggitivi e li guidò verso il nord, nella speranza di valicare le Alpi, raggiungere i paesi di origine e riacquistare la libertà. Nella loro marcia i ribelli raccolsero molti altri fuggitivi, tra cui gli schiavi pastori dell’Appennino e anche piccoli contadini e braccianti ridotti in miseria, tanto che il numero dei fuggitivi arrivò in alcuni momenti a 150.000. Roma fu costretta a inviare entrambi gli eserciti consolari, che tuttavia Spartaco riuscì a sconfiggere presso Modena, nel 72 a.C. A questo punto gli schiavi, esaltati dal successo, costrinsero Spartaco a tornare indietro e a marciare verso Roma. Ma Roma mise in campo ben dieci legioni, affidate al comando di Marco Licinio Crasso. I fuggitivi si diressero allora verso l’estrema punta del Bruzio (l’attuale Calabria) dove Crasso tentò di bloccarli con un vallo di 55 km che si estendeva dal Tirreno allo Ionio. Spartaco riuscì tuttavia a rompere l’accerchiamento e a guidare le sue truppe verso la Puglia. Ma fu raggiunto da Crasso e nel 71 a.C., in Lucania, avvenne la battaglia decisiva: 60.000 rivoltosi furono uccisi; dei superstiti, 6000, con una pena infamante, furono crocefissi sulla via Appia, che congiungeva Capua a Roma, altri 5000 riuscirono a raggiungere l’Etruria, dove si scontrarono con l’esercito di Pompeo di ritorno dalla Spagna e furono massacrati. La rivolta ebbe un effetto disastroso sulla schiavitù di Roma, non solo perché migliaia di schiavi morirono, ma anche perché i padroni terrorizzati si fecero sempre più repressivi: se, ad esempio, uno schiavo uccideva il padrone, venivano uccisi tutti gli schiavi della casa. Il voltafaccia di Pompeo (71 a.C.) Pompeo tornava a Roma carico di gloria e aspirava a diventare console, ma non aveva ancora percorso il cursus honorum previsto dalla riforma di Silla. Si alleò pertanto con Crasso, divenuto l’uomo più ricco di Roma grazie agli abusi compiuti durante le proscrizioni sillane. I due generali non congedarono i loro eserciti e li accamparono minacciosamente nei dintorni della città per forzare la mano al senato. Ma la mossa non bastò, occorreva l’appoggio dei cavalieri e del popolo. Benché aristocratici, sostenitori della politica sillana e degli optimates, essi decisero allora di cercare l’appoggio dei populares, promettendo loro lo smantellamento della costituzione di Silla se fossero stati eletti consoli. Con l’appoggio popolare e gli eserciti schierati alle porte di Roma i due ottennero il consolato per il 70 a.C. E mantennero le promesse: restituirono ai tribuni i poteri originari: l’intercessio e la possibilità di accedere alle altre magistrature; nominarono nuovi censori che espulsero dal senato 64 (o 84?) senatori che avevano appoggiato Silla o erano stati da lui nominati; in un nuovo censimento inclusero nelle tribù mezzo milione di italici che avevano ottenuto la cittadinanza con la guerra sociale: ora essi potevano finalmente votare; restituirono ai cavalieri l’appalto della riscossione delle imposte nelle province asiatiche, che era stato loro sottratto da Silla; riformarono la composizione delle giurie dei tribunali che furono affidate in parti uguali a senatori, cavalieri e a quei plebei che avevano un censo di poco inferiore ai cavalieri. Lo scandalo di Verre (70 a.C.) A rendere più che mai opportuna l’attribuzione ai cavalieri del tribunale de repetundis, che giudicava i reati di concussione, fu il processo contro Verre. Contro l’aristocratico Caio Verre, governatore della Sicilia, che in tre anni aveva depredato enormi ricchezze, soprattutto dalla ricchissima colonia greca di Siracusa, avevano intentato causa gli stessi sicelioti, che avevano chiesto il patrocinio legale di un giovane avvocato alle prime armi, Marco Tullio Cicerone. Nel processo, Cicerone, appoggiato dall’ordine equestre a cui egli stesso apparteneva, rivelò eccezionali qualità oratorie, mise in scacco l’avvocato della difesa, il celebre Quinto Ortensio Ortalo, considerato il “principe” del foro, avvocato di fiducia degli optimates, e sostenne l’accusa con tale veemenza da spingere l’accusato a fuggire in esilio a Marsiglia, in Gallia, già dopo la prima seduta. Cicerone pubblicò comunque le cinque orazioni, definite Verrine, che costituiscono ancora oggi una prova non solo delle colpe dell’imputato, ma anche delle responsabilità dell’intero sistema di governo delle province e della corruzione dell’oligarchia conservatrice. Gli esordi di un grande oratore Cicerone nacque nel 106 a.C. da un ricco agricoltore di Arpino, località del Lazio meridionale, che aveva dato i natali anche a Mario. Ricevuta un’ottima educazione, iniziò al sua carriera di avvocato nell’81 a.C., attaccando un liberto protetto da Silla. Nel 77 a.C. sposò Terenzia, da cui ebbe i figli Tullia e Marco, e nel 76 fu questore a Lilibeo, nella Sicilia occidentale, dove si fece apprezzare per la sua onestà. A Siracusa riscoprì la tomba di Archimede (ucciso nel 212 dai romani durante la conquista della città). Da allora la sua presenza sulla scena politica fu, in alcuni momenti, determinante. Pompeo contro i pirati (67 a.C.) A conclusione dell’anno di consolato, Pompeo non volle ricoprire il proconsolato in nessuna provincia per non allontanasi da Roma, in attesa di una nuova possibilità per mettersi in luce e acquisire sempre più potere. L’occasione gli si presentò tre anni dopo, quando un tribuno propose una guerra contro i pirati. La pirateria era considerata nel mondo antico una forma di concorrenza legittima tra le varie potenze commerciali: secondo il mito, persino Ulisse la praticava. Roma aveva sempre avuto un atteggiamento ambiguo nei confronti dei pirati: da un lato se ne era servita contro Cartagine, dall’altro aveva combattuto contro i pirati dell’Illiria nel 228 a.C. Ora a predominare erano i pirati orientali, stanziati soprattutto in Cilicia, in Asia Minore, una regione dalle coste piene di anfratti e ripari, coperte alle spalle da montagne aspre e inaccessibili, ricche di foreste che fornivano il legname necessario per la costruzione delle navi pirata. Partendo dai loro covi, i pirati razziavano beni e persone, attaccavano navi e paesi sulle coste e rifornivano di schiavi l’intero bacino mediterraneo. Avevano combattuto con le loro flotte al fianco di Mitridate e, approfittando della guerra civile a Roma, avevano razziato persino le coste italiche, arrivando perfino a Ostia, il porto di Roma. Si erano poi spinti fino in Spagna. La situazione si era fatta difficile. La flotta dei pirati era costituita da oltre mille navi e i loro attacchi insidiavano le rotte commerciali, ledendo gli interessi dei cavalieri, e mettevano in pericolo l’approvvigionamento di Roma: bastava che una nave, con un carico di grano destinato alla capitale, venisse depredata, per affamare la popolazione romana, che viveva in gran parte delle elargizioni di grano. Per questo fu proprio un tribuno della plebe a proporre, con la legge de piratis persequendis, la guerra contro i pirati e ad affidarne a Pompeo il comando con poteri eccezionali. Investito quindi, contro il parere del senato, dell’imperium proconsolare infinitum su tutti i mari e su tutte le coste dell’impero fino a 80 km nell’interno, per la durata di tre anni, dotato di un’enorme quantità di mezzi – 500 navi, 120.000 soldati, 5000 cavalieri e 150 milioni di sesterzi – Pompeo in soli 49 giorni distrusse le basi dei pirati nel Mediterraneo occidentale e catturò centinaia di imbarcazioni. Altrettanto tempo gli occorse per costringere i pirati che si erano rifugiati in Cilicia ad arrendersi. Per debellare il problema alla radice, assegnò loro appezzamenti di terra in Asia Minore, spingendoli così a cambiare le basi della loro economia. Il commercio nel Mediterraneo orientale riprese, l’ordine equestre tirò un sospiro di sollievo, crollò il prezzo del grano e allora furono le classi popolari a tirare un sospiro di sollievo, mentre l’aristocrazia terriera, che sulla vendita del grano basava tradizionalmente la sua ricchezza, non ne fu affatto contenta. La seconda e la terza guerra mitridatica (83-81, 74-62 a.C.) Fu ancora un tribuno della plebe a proporre una legge che affidava a Pompeo, appena tornato a Roma al culmine della popolarità, la guerra contro Mitridate, l’antico nemico che Silla non aveva potuto sconfiggere definitivamente, perché costretto a tornare a Roma. Nell’83 a.C., i romani avevano tentato di invadere il regno del Ponto, scatenando la seconda guerra mitridatica, ma nell’81 erano stati sconfitti al fiume Halys. Poi il re della Bitinia aveva lasciato il proprio regno in eredità ai romani ed essi ne avevano approfittato per riprendere le ostilità nel 74 a.C., ma non erano riusciti ancora a sconfiggere Mitridate che si era alleato con Tigrane, re d’Armenia. Pompeo, che sostituiva il comandante in carica, il senatore Lucio Licinio Lucullo, aveva a disposizione 60.000 legionari e assoluta libertà di iniziativa in guerra e in pace. Per vincere la guerra egli usò non solo la sua abilità di stratega, ma anche quella di diplomatico. Riuscì, infatti, a convincere Tigrane ad abbandonare l’alleato e persino Farnace, il figlio di Mitridate, a tradire il padre. Mitridate si uccise nel 63 a.C. Una personale sistemazione dell’Asia (63-62 a.C.) Pompeo si fermò ancora qualche tempo in Oriente per intraprendere una vasta opera di sistemazione dei possedimenti orientali di Roma, ampliati dopo la sua vittoria: lasciò Tigrane sul trono d’Armenia, assegnò a Farnace il piccolo regno del Bosforo, nel nord del mar Nero, unificò il Ponto e la Bitinia in una nuova provincia, ridusse in province la Cilicia e la Siria, dov’era stato eliminato l’ultimo discendente della dinastia dei Seleucidi. Sottomise alla protezione di Roma la Palestina e alcune città libere; lasciò indipendenti alcuni piccoli regni, facendone “stati cuscinetto”, che però legò a sé con vincoli di dipendenza personale. Quando nel 62 a.C. sbarcò a Brindisi carico di bottino e di gloria, il senato tremò all’idea che volesse approfittare del suo enorme potere. 1.3 Catilina (64-62 a.C.) Un nobile rovinato in ricerca di potere Roma, infatti, stava vivendo un momento drammatico. Nel 64 a.C. un nobile ex sillano, il cui padre si era rovinato finanziariamente nella competizione politica, Lucio Sergio Catilina, passò alla fazione dei populares e propose la propria candidatura al consolato per l’anno 63. Ma la pressione dei suoi ricchi creditori impose la candidatura di Marco Tullio Cicerone. Uomo politico e avvocato ormai affermato, Cicerone mirava alla concordia ordinum, cioè all’alleanza tra gli “ordini” della nobiltà e della classe imprenditoriale dei cavalieri, che, possedendo le leve del potere politico ed economico, avrebbero potuto garantire la stabilità dello stato. La nobiltà però non voleva accordare vantaggi ai cavalieri e anche l’ordine equestre preferiva conservare la libertà di allearsi ora con il senato ora con i populares, a seconda dei propri interessi del momento. Ma il momento richiedeva ora l’alleanza con i nobili, così Catilina fu battuto alle elezioni dal suo avversario Cicerone. Per ottenere l’appoggio popolare e soprattutto quello dei nobili decaduti come lui, Catilina propose allora la cancellazione dei debiti e nel 63 a.C. si ripresentò al consolato per l’anno seguente, ma fu battuto ancora una volta. Organizzò allora, con i nobili suoi amici, una congiura per eliminare il console in carica Cicerone, organizzando un esercito in Etruria per marciare su Roma. Ma anche tutta l’Etruria era pronta all’insurrezione generale, perché, pur essendo stata un tempo molto ricca, era ormai dissanguata dalla diffusione del latifondo e decimata dalle proscrizioni sillane. Fino a quando, Catilina? (63 a.C.) Cicerone, che aveva promosso una legge per inasprire le disposizioni contro la corruzione elettorale e impedire così a Catilina di ottenere il consolato per il 62, venne a conoscenza del piano e, pur non disponendo di prove schiaccianti della congiura, chiese e ottenne i pieni poteri e la dichiarazione dello stato di emergenza. Nella seduta del senato dell’8 novembre del 63 a.C., egli con una orazione attaccò Catilina, esordendo con la celebre domanda: «Quo usque tandem, Catilina, abuteris patientia nostra?» (“Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?”). Era la prima famosissima Catilinaria. I toni di Cicerone furono così efficaci da indurre Catilina a fuggire la stessa notte da Roma e a rifugiarsi in Etruria presso i ribelli. Cicerone continuò nella sua denuncia con le altre tre Catilinarie, declamate nelle sedute del senato del 9 novembre, del 3 e del 5 dicembre. Le quattro orazioni costituiscono un documento storico di eccezionale importanza, sia pure di parte e poco oggettivo, e un esempio altissimo dell’eloquenza ciceroniana. La fine gloriosa di una carriera senza gloria Il console trascinò poi in senato i congiurati rimasti a Roma e li fece condannare a morte, senza concedere loro di appellarsi al popolo, come consentiva la legge in caso di pena capitale. Nella seduta decisiva del 5 dicembre del 63, solo Caio Giulio Cesare fece sentire la propria voce per difendere la legalità: il senato, infatti, non era un organo giudiziario e tanto meno aveva il potere di impedire l’appello al popolo. L’intento di Cesare, che forse era coinvolto o almeno era a conoscenza della congiura, era però soprattutto quello di mettersi in luce e ottenere il favore dei populares. I ribelli in Etruria furono battuti presso Pistoia nel gennaio del 62: nessuno di loro si arrese e lo stesso Catilina cadde combattendo valorosamente. A Roma Cicerone divenne il “Padre della Patria”. Giudizi di parte Il giudizio su Catilina passato alla storia è quello fornito dallo stesso Cicerone e dallo storico Sallustio che dedicò un’opera alla congiura. Entrambi erano ostili al tentativo rivoluzionario di Catilina e perciò è difficile dare oggi un giudizio definitivo su questo tentativo, che da un lato sembra frutto di ambizione personale ed egoistica di un esponente della nobiltà in decadenza, ma dall’altro potrebbe apparire necessario a imprimere una svolta alla politica romana. D’altro canto, occorre dire che non furono mai trovate prove certe della congiura, mentre è certo che Catilina aveva cercato di raggiungere il potere legalmente, presentandosi alle elezioni, e che i suoi avversari avevano usato, invece, anche corruzione e mezzi illegali per escluderlo dalla competizione. Il fatto, poi, che Catilina trovasse, sia tra i nobili sia tra il proletariato e il sottoproletariato urbano, tanti seguaci disposti anche a morire per le loro idee rivela che il disagio era molto profondo e Catilina se ne faceva portavoce. Eppure neanche i populares, come lo stesso Sallustio, appoggiavano il suo piano, perché esso coinvolgeva gli strati più umili ed emarginati della popolazione e persino gli schiavi, in un progetto troppo rivoluzionario perché i popolari potessero accettarlo. La reazione del senato, che violava la legge, mostra però che la classe al potere non era più in grado di risolvere i problemi e di garantire la legalità e che un cambiamento radicale dello Stato era ormai inevitabile. 2. CESARE 2. 1 La scalata al potere L’ascesa di Cesare (oppure L’entrata in scena) Caio Giulio Cesare, il nuovo personaggio che si affacciava a sua volta sulla scena politica, apparteneva a un’antica gens romana, la gens Julia, che si vantava di discendere da Venere attraverso Enea e suo figlio Julo, ma non aveva avuto fino a quel momento personaggi di rilievo. Nipote della moglie di Mario, sposò in seconde nozze (ripudiando la prima moglie che gli era stata imposta dal padre) Cornelia, figlia di Cinna, un mariano avversario di Silla, e non volle ripudiarla quando il dittatore glielo chiese. Dovette perciò subire la confisca della dote di Cornelia e la persecuzione di Silla, che tuttavia gli concesse di allontanarsi da Roma. Quando rientrò in città, dopo la morte del dittatore, non volle prendere parte allo smantellamento della costituzione sillana, preferì agire nell’ombra per accattivarsi le simpatie popolari con elargizioni di denaro e di grano. Privo delle ricchezze necessarie alla carriera politica, seppe sfruttare l’amicizia con Crasso che gli fornì i mezzi economici necessari a scalare il potere; appoggiò la candidatura di Pompeo al consolato del 70 a.C. e lo attrasse verso la parte popolare; favorì la legge che gli affidava la guerra contro i pirati e poi quella contro Mitridate e, mentre Pompeo restava lontano da Roma per sette anni, ne approfittò per rafforzare la propria immagine davanti al popolo con magnifici giochi ed elargizioni. Box Dida Ritratto di Cesare La casa, in cui Cesare nacque il 12 o 13 luglio del 100 a.C. (o del 102), sorgeva nella Suburra, il quartiere popolare e malfamato di Roma. Sin da ragazzo soffriva di mal di testa e di attacchi di epilessia, che pare si siano aggravati col tempo, benché egli cercasse di nasconderli. Aveva ricevuto una buona educazione e studiato l’arte retorica in Grecia. Non era bello, divenne quasi calvo molto presto, ma era un uomo di mondo, elegante, galante, gran seduttore, spregiudicato e, ricco di umorismo, sapeva ridere delle battute, come quelle che gli lanciavano, secondo la consuetudine romana, i suoi soldati durante il trionfo: «Ehi, uomini, chiudete in casa le vostre mogli: è tornato il seduttore zuccapelata». A quanto pare sulle donne esercitava un fascino irresistibile. Ebbe quattro mogli. Nato in un periodo di conflitti sociali e guerre civili, egli imparò presto a diffidare degli uomini, a scrutare nella loro anima come nella realtà sociale e politica, a saper aspettare il momento per agire e a cogliere al volo le occasioni propizie, agendo con rapidità e fermezza. I primi gradini del cursus honorum L’origine nobile, le amicizie influenti, tra cui soprattutto quella di Crasso, e un uso spregiudicato della corruzione permisero a Cesare una rapida carriera politica: nel 69 a.C. fu questore e nel 65 come edile a Roma, fece costruire magnifici edifici e celebrare splendidi giochi, fece condannare alcuni personaggi che si erano segnalati nell’uccisione di proscritti all’epoca di Silla e sostenne l’accusa contro Rabirio, che aveva preso parte all’uccisione del tribuno della plebe Saturnino, ma Rabirio, difeso da Cicerone, si salvò. Nel 63 divenne pontefice massimo: a soli 37 anni, era la massima autorità religiosa di Roma. A quanto pare era a conoscenza della congiura di Catilina e si sospettava che ne facesse parte; sicuramente difese il diritto dei congiurati ad appellarsi al popolo. Nel 62 era pretore e il 61 come propretore in Spagna riuscì a domare le continue ribellioni dei lusitani, stanziati nell’odierno Portogallo, migliorò l’amministrazione e le leggi sulle imposte e sui debiti, ma ne approfittò, come tutti gli altri governatori, per arricchirsi e pagare i suoi debiti. Tornato a Roma nel 60 con la fama di grande condottiero, decise che era ormai giunto il momento di presentarsi alle elezioni al consolato per l’anno successivo. 2.2 Il consolato Un’alleanza privata (60 a.C.) Nel 61 era rientrato a Roma anche Pompeo, carico di gloria e di bottino e forte di un esercito vittorioso, con cui avrebbe potuto imporre il proprio potere e addirittura istituire un regime monarchico a Roma, ma preferì rispettare la legge e sciolse le proprie legioni. Il senato commise un errore imperdonabile: non comprese il pericolo rappresentato da Cesare, che aveva ormai il popolo a sostenerlo, lasciò prevalere l’invidia nei confronti di Pompeo e, anziché tenerselo alleato, gli rifiutò la ratifica dei provvedimenti con cui aveva sistemato le province in Asia e la distribuzione delle terre ai suoi veterani, anche se gli concesse il trionfo più ricco e fastoso che si fosse mai visto. Era giunta per Cesare l’occasione tanto attesa. Ancora una volta offrì il proprio sostegno a Pompeo deluso dall’atteggiamento del senato, incapace di far leva sul popolo, inviso ai suoi stessi veterani ai quali non era stato in grado di garantire la ricompensa abituale di terre. In cambio del suo aiuto per ottenere quanto il senato negava, Pompeo doveva garantire a Cesare il proprio appoggio per l’elezione al consolato. Per sostenere le enormi spese elettorali, a Cesare era poi indispensabile avere a disposizione anche un finanziere ricchissimo qual era Crasso. Con loro, dunque, egli strinse un patto privato e segreto, che passò alla storia come il primo triumvirato, quasi fosse una carica pubblica (come in effetti sarebbe stato il secondo triumvirato). L’accordo coalizzava i popolari nella figura di Cesare, i pubblicani e i cavalieri in quella di Crasso e la forza militare nel grande generale Pompeo. In base all’accordo, Pompeo e Crasso garantirono i voti dei loro sostenitori e clienti e misero la loro influenza, che era grande a Roma, e le loro ricchezze, che erano immense, per fare eleggere Cesare al consolato per il 59. Una volta console, Cesare stroncò la resistenza del senato alle sue proposte di legge portandole direttamente davanti ai comizi tributi, in cui le minacce e le violenze dei veterani di Pompeo, che si presentarono armati sulla piazza dei comizi, ridussero al silenzio ogni opposizione. Si ruppe così la concordia ordinum auspicata da Cicerone: l’ottusità del senato e l’arroganza dell’aristocrazia, che credeva di non aver bisogno dell’aiuto dei cavalieri e non voleva condividere i propri privilegi, avevano spinto il ceto equestre dalla parte dei popolari. Cesare fece, quindi, approvare una serie di leggi: una riforma agraria che distribuiva terre ai veterani di Pompeo e alla plebe, per le quali Cesare non espropriò terreni privati, come aveva fatto Silla, ma col bottino e le entrate provenienti dalle province asiatiche fece acquistare dallo Stato nuove terre; la convalida dei provvedimenti di Pompeo in Asia; la riduzione di un terzo dei canoni che i publicani delle province orientali dovevano versare allo Stato. Favorì così la classe equestre, che aveva il monopolio degli appalti, e Crasso che la rappresentava. Contro il potere occulto Per garantire una maggiore trasparenza politica, Cesare impose che: fosse abolita la consuetudine di prendere gli auspici prima delle assemblee legislative, perché i responsi dei sacerdoti erano manovrati dall’aristocrazia che, per rimandare le decisioni sgradite, accampava la scusa che gli auspici erano sfavorevoli alla riunione dell’assemblea; le discussioni che si svolgevano in senato fossero registrate, pubblicate e affisse in un luogo pubblico, in modo che tutti i cittadini ne venissero a conoscenza. Il senato, che fino a quel momento traeva il suo prestigio anche dalla segretezza delle sue riunioni, subì un altro duro colpo. Il potere e il carisma di Cesare erano così grandi da mettere a tacere l’altro console in carica, e l’anno del suo consolato, il 59 a.C., venne definito ironicamente dalla gente “l’anno di Giulio e di Cesare”. 2.3 Il proconsolato Alla conquista di Roma passando per la Gallia Alla fine dell’anno di carica, Cesare scelse inaspettatamente il proconsolato non in una ricca provincia orientale, ma nell’Illirico e in Gallia Cisalpina, a cui il senato, per mostrarsi generoso e impedire che lo facesse il popolo, aggiunse poi anche la Gallia Narbonense (l’odierna Provenza). Erano province economicamente depresse e politicamente insignificanti, che non offrivano grandi prospettive di arricchimento e apparentemente neppure di gloria. Ma Cesare aveva un piano assai più ambizioso: al di là della Gallia meridionale, già sotto il controllo romano, si estendevano gli immensi territori della Gallia centrale e settentrionale, scarsamente popolati da tribù celtiche ancora arretrate e militarmente deboli. Una guerra di conquista sarebbe stata per lui un vero trampolino di lancio: lo avrebbe posto su un piano di parità con Pompeo, gli avrebbe procurato la gloria militare che gli mancava e rafforzato il suo rapporto con l’esercito, sulla cui fedeltà avrebbe potuto contare nella sua scalata al potere. A disposizione egli aveva però solo quattro legioni, per un territorio immenso. Coprirsi le spalle Cesare non voleva allontanarsi da Roma lasciando la possibilità ai suoi avversari politici di tramare alle sue spalle. In particolare doveva liberarsi di Cicerone, esponente degli optimates moderati, che probabilmente conosceva il suo coinvolgimento nella congiura di Catilina e poteva usare contro di lui le notizie di cui disponeva. L’altro avversario era l’esponente della nobiltà senatoria più intransigente, Marco Porcio Catone il Giovane (poi soprannominato l’Uticense), pronipote del censore ultraconservatore che a metà del II secolo aveva tuonato perché Cartagine fosse distrutta. Uomo integerrimo, studioso di filosofia, aveva collaborato alla condanna dei catilinari, scontrandosi con Cesare. Per allontanare entrambi questi personaggi da Roma, Cesare preferì agire nell’ombra e si appoggiò al tribuno della plebe Publio Clodio. Era costui un nobile passato dalla parte dei popolari e molto amato dalla plebe, tanto che aveva cambiato il proprio nome dall’aristocratico Claudio a Clodio, secondo la pronuncia popolare. Clodio si era fatto adottare da un plebeo per poter essere eletto tribuno della plebe, proprio nel 58, l’anno in cui Cesare si accingeva a partire per la Gallia. In qualità di tribuno Clodio ottenne che Catone fosse inviato come ambasciatore nell’isola di Cipro e fece approvare una legge che condannava all’esilio chi avesse mandato a morte un cittadino romano senza regolare processo: era proprio il caso di Cicerone. E così questi dovette lasciare Roma, le sue proprietà vennero da Clodio saccheggiate e distrutte, la sua casa fu comprata dal tribuno che ormai era quasi padrone di Roma. Un po’ di gossip romano Bello, giovane e senza scrupoli, Clodio era stato accusato di essersi introdotto, vestito da donna, nel sacro recinto della dea Bona, per raggiungere la sua amante, la terza moglie di Cesare, Pompea, che Cesare aveva sposato dopo la morte della giovane Cornelia. «Quando si celebrano i sacri misteri della dea non è consentito che un uomo vi partecipi e neppure che sia nella casa […]. Quando dunque viene il tempo della festa la moglie di colui che è console o pretore prende in mano la casa e la prepara per il rito, mentre il marito ne esce e con lui tutti i maschi della casa. I riti più importanti si celebrano durante la notte» (Plutarco, Vita di Cesare, 9). Quell’anno toccava a Pompea, in quanto moglie del console, celebrare il rito e Clodio ne approfittò per entrare nella casa di nascosto. Una volta scoperto, fu accusato pubblicamente da Cicerone. Cesare ripudiò la moglie, ma al processo «disse di non sapere niente di quanto si riferiva contro Clodio. Il discorso appariva paradossale, e l’accusatore gli chiese: “Come mai allora hai ripudiato tua moglie?”, ed egli: “Perché pensavo giusto che di mia moglie neppure si sospettasse”» (Plutarco, Vita di Cesare, 10). Poi mise in moto Crasso per comprare i giudici e l’assoluzione di Clodio. Evidentemente gli serviva lasciare a Roma un tribuno che gli doveva un enorme favore. Ma l’episodio era anche una buona scusa per ripudiare Pompea e permettergli di sposare la figlia di Pisone, che gli serviva fare eleggere al consolato per averne l’appoggio mentre si trovava in Gallia. A Pompeo, invece, per stringere l’alleanza, aveva dato in moglie la propria figlia Giulia, che poi morì di parto. De bello Gallico Gallia est omnis divisa in partes tres L’esordio dei Commentarii de bello Gallico che Cesare scrisse sulla sua impresa in Gallia introduce la descrizione della Gallia transalpina, divisa, com’egli dice, in tre parti abitate da altrettanti popoli di stirpe celtica: l’attuale Francia era abitata dai celti che i romani chiamavano galli, suddivisi nelle diverse tribù degli edui, alleati dei romani, degli arverni, dei sequani, dei senoni ecc. Nell’attuale Svizzera, erano stanziati gli elvezi; a nord, al di là della Sequana (Senna) e della Matrona (Marna) nel Belgio e in una parte dei Paesi Bassi, erano insediati i belgi, a cui si mescolavano anche gruppi di germani; a sud-ovest, al di là del fiume Garonna, abitavano gli aquitani. La Gallia centrale e settentrionale, percorsa da basse catene, era ricca di miniere d’oro, di rame, di piombo e di ferro. Le campagne producevano varie specie di frutti e cereali. I popoli che la abitavano in grossi villaggi, in assenza ancora di città vere e proprie, vivevano di agricoltura e dell’allevamento di bovini. L’artigianato era sviluppato nella lavorazione del ferro, ma anche di altri metalli. Il commercio scambiava i metalli, soprattutto lo stagno che proveniva dalle isole britanniche e lungo il Rodano arrivava a Marsiglia e a Narbona, con i prodotti mediterranei (vino, ceramica, tessuti). Ai confini della Gallia A sud la catena dei Pirenei divide la Gallia dalla penisola iberica, mentre ad est quella delle Alpi segna il confine con l’Italia. Il confine orientale prosegue poi verso nord lungo il fiume Reno, oltre il quale si erano stabiliti i germani. Il fiume rappresentò per i romani, dal momento in cui assimilarono i galli, una frontiera che doveva restare invalicabile ai germani, come baluardo a difesa del mondo romano. Fu proprio Cesare a cogliere l’importanza di un fiume che separa in due l’Europa e che in alcuni momenti avrebbe costituito al contrario una via di collegamento e di contatto tra le genti europee. Eppure il Reno era rimasto per secoli sconosciuto alla cultura greca e romana, avvolto nel mistero: lo si immaginava scorrere tra foreste impenetrabili, abitate solo da lupi e fiere di ogni tipo, in un clima intollerabile per i comuni mortali. Anche le popolazioni che abitavano lungo le sue rive, galli e germani, spesso venivano confuse tra loro. Fu Cesare per primo, basandosi sulla conoscenza diretta e sull’osservazione attenta, a distinguerle e a descriverne le diverse caratteristiche, gli usi e i costumi. Eppure la fascia costiera mediterranea della Gallia, affacciata sul Gallicus sinus (“golfo Gallico”) e attraversata dal Rodano, era già dal 121 a.C. dominio romano col nome di Gallia Narbonense o semplicemente di Provincia, da cui deriva il nome attuale di Provenza. La città di Narbona, di origine celtica, nel 118 a.C. divenne la prima colonia romana fuori dall’Italia. Qui il commercio era quasi esclusivamente nelle mani dei mercanti romani, che avevano contatti anche con la Gallia ancora indipendente, di cui però conoscevano molto poco. Più a est il territorio di Marsiglia, antica colonia greca, era indipendente, ma alleata dei romani. La Gallia Cisalpina, “al di qua delle Alpi”, comprendeva invece tutta l’Italia settentrionale. Un popolo bellicoso guidato da sacerdoti I galli, per lo più ancora nomadi, erano forti e valorosi, ma suddivisi in un centinaio di tribù indipendenti, che spesso si combattevano a vicenda. Le tribù più forti, circa una quarantina all’epoca di Cesare, riuscivano a controllare abbastanza stabilmente il territorio e a dominare le altre. A governare era un’aristocrazia, suddivisa in due classi, che dominavano sulle classi inferiori: i cavalieri, che Cesare chiama principes, e i druidi. I cavalieri costituivano l’aristocrazia, dedita solo alla guerra, frequente tra le varie tribù assai bellicose dei galli. Fondavano il loro potere esclusivamente sul valore militare. A tutto il resto pensavano i druidi. I druidi costituivano la casta sacerdotale, ma di fatto tenevano in proprio potere tutta la Gallia: infatti alla frammentazione politica delle varie popolazioni corrispondeva un’unità religiosa che faceva capo a loro. Svolgevano anche la funzione di giudici, detenevano le conoscenze, che trasmettevano ai giovani durante i riti iniziatici, o attraverso i canti che alcuni di loro, i bardi, diffondevano per conservare la memoria storica della loro cultura, in mancanza della scrittura: solo i druidi, infatti, usavano talvolta, e solo per necessità, l’alfabeto greco. I druidi erano anche maghi e indovini, conoscevano le proprietà delle piante medicinali, curavano gli ammalati o esorcizzano gli influssi funesti con riti magici. Come sacerdoti, praticavano sacrifici umani e credevano nella reincarnazione. Si riunivano una volta all’anno in un bosco segreto, nei pressi dell’attuale Chartres, nella Francia settentrionale, ed erano guidati da un sommo sacerdote, che restava in carica a vita. Furono loro – che di fatto governavano i galli – a spingerli alla rivolta contro Cesare. Una volta sconfitti, il generale romano li perseguitò, e molti finirono massacrati, distrusse i loro santuari e vietò la loro religione. Glossario Il termine druidi, di etimologia incerta, potrebbe essere connesso con un’antica radice indoeuropea che dovrebbe significare “molto saggio” o “esperto in cose sacre”; altri preferiscono riferirlo al greco drys, “quercia”, perché i riti sacri erano celebrati nei boschi di querce. Una guerra lampo (58-57 a.C.) Fu proprio la divisione interna e l’instabilità delle tribù celtiche a favorire la penetrazione di Cesare in territorio gallico. Alcune tribù germaniche, infatti, premevano sugli elvezi, che dalla Svizzera occidentale cominciarono a spostarsi verso ovest attraversando il territorio degli edui. Questi, alleati dei romani, chiesero aiuto a Cesare, il quale arruolò altri soldati presso gli stessi galli, costituì quattro ulteriori legioni, attaccò gli elvezi senza neppure attendere l’autorizzazione del senato e, malgrado l’inferiorità numerica, in una sola battaglia, nell’estate del 58 a.C., li sterminò con mogli e bambini: 260.000 vittime su un totale di 370.000 elvezi partiti dai loro territori è la cifra dei morti, fornita dallo stesso vincitore, che poi «radunò i barbari sfuggiti alla battaglia, che erano ancora più di centomila, e li costrinse a riprendere la terra che avevano abbandonato e le città che avevano distrutte. Questo fece perché temeva che i Germani passassero a conquistare la terra rimasta inabitata.» (Plutarco, 18) Altri germani, i suebi, guidati dal loro re Ariovisto, tentavano di oltrepassare il Reno e occupare i territori dei galli: Cesare anche questa volta li attaccò e li massacrò, giungendo fino alla Manica e provocando la reazione dei belgi. Essi, temendo l’espansione dei romani, si coalizzarono con altre tribù per fermarli, ma furono anch’essi sconfitti. Nel 57 a.C. Cesare poteva proclamare, piuttosto prematuramente, di aver sottomesso tutta la Gallia. A Roma il popolo esultò, il senato molto meno. Erano trascorsi solo due anni dall’inizio del suo proconsolato. Per Cesare era però giunto il momento di sospendere momentaneamente le operazioni in Gallia e riprendere i contatti con Roma, in cui la situazione era andata degenerando. Guerra di bande (57-56 a.C.) A Roma il conflitto ormai cronico tra populares e optimates aveva preso la brutta piega di scontri tra bande armate, guidate rispettivamente da Clodio, il tribuno lasciato opportunamente a Roma da Cesare e controllato da Crasso, e da Annio Milone, manovrato dalla nobiltà e da Pompeo. Questi, infatti, preoccupato delle vittorie di Cesare, si stava riavvicinando al senato e lo spinse a richiamare Cicerone dall’esilio, entrando in contrasto con l’altro triumviro, Crasso. Nel 57 tornò in patria da Cipro anche Catone il Giovane. Gli ottimati ripresero forza e qualcuno propose di revocare il comando proconsolare a Cesare, prima della scadenza dei cinque anni previsti. Cesare giunse al momento opportuno: nel 56 a.C. incontrò, alla presenza dei più potenti cittadini romani, i triumviri a Lucca e rinsaldò con loro l’accordo triumvirale, con reciproci vantaggi: Cesare ottenne di prolungare il proconsolato in Gallia per altri cinque anni; Pompeo e Crasso ottennero il consolato per il 55 a.C.: i termini per la candidatura erano scaduti, ma bastarono degli espedienti perché i due fossero comunque eletti consoli; Crasso ottenne, al termine del mandato, il proconsolato in Siria, dove avrebbe potuto guadagnarsi, conquistando il regno dei parti stanziato in Persia e in rapida ascesa, quella gloria militare che gli mancava per raggiungere una posizione di parità con gli altri due triumviri; Pompeo ottenne il proconsolato in Spagna, che gli consentiva di disporre, oltre alle numerose relazioni e amicizie contratte ai tempi della guerra contro Sertorio, anche di alcune legioni e del comando militare. Lo Stato romano e tutto l’esercito erano ormai totalmente nelle mani di tre personaggi che ne disponevano a proprio piacimento. Le decisioni non erano più prese né nei comizi né in senato, ma in riunioni private dei tre potenti cittadini, che con le loro amicizie influenti e le loro ricchezze (Cesare le otteneva ormai dalla Gallia) si compravano i voti della maggioranza e intimidivano i comizi e il senato con la violenza di piazza. Ma il loro accordo era destinato a sfasciarsi presto, perché ognuno dei tre mirava al potere personale e assoluto. Ciascuno scelse un diverso percorso per ottenerlo. Cesare gioca la carta della Gallia (56 a.C.) Tornato in Gallia, con la sua eccezionale abilità propagandistica, Cesare intraprese una serie di azioni militari che non ebbero conseguenze pratiche, ma suscitarono una straordinaria meraviglia a Roma e fecero salire la sua fama alle stelle. Tanto più che egli seppe usare un magnifico mezzo di comunicazione che, in mancanza di internet, svolgeva perfettamente la stessa funzione: la letteratura. Con la prosa limpida, essenziale e apparentemente oggettiva, con l’uso di un narratore esterno che non dice mai “io”, neppure parlando di se stesso, Cesare racconta le sue imprese nei Commentarii de bello gallico, in cui mette in luce la propria straordinaria abilità di generale ed esalta il valore dei suoi soldati, di cui cita spesso anche il nome: quale strumento migliore per farsi adorare dalle truppe? E a Roma la sua fama dilagò. scheda tra storia e lett. Imprese da propaganda (55-54 a.C.) Cesare era infaticabile. «Dormiva per lo più in carri o in lettighe, utilizzando il riposo per l’azione, di giorno andava a controllare i presidi, le città, le fortificazioni, e gli stava vicino uno schiavo di quelli abituati a scrivere sotto dettatura anche durante il viaggio» (Plutarco). Nel 55 a.C., dato che «aspirava alla gloria di essere il primo uomo ad attraversare il Reno con un esercito» (Plutarco, 22), bloccò l’avanzata di due popoli germanici che tentavano di oltrepassare il Reno, facendo costruire in soli dieci giorni un ponte di legno, su cui condusse le truppe in territorio nemico, fece un’incursione poco più che dimostrativa e dopo 18 giorni tornò indietro e distrusse il ponte. Nel 55, una prima volta, e nel 54, una seconda, fece sbarchi esplorativi in Britannia, l’isola abitata anch’essa da popolazioni celtiche, e raggiunse il Tamigi per punire una tribù guidata da Cassivelauno che aveva aiutato i belgi nel 57. In realtà voleva soprattutto stupire i suoi concittadini, avventurandosi in una terra del tutto sconosciuta e tanto a nord, da essere posta ai confini della terra: alcuni ne negavano addirittura l’esistenza. «Mentre si accingeva a far la traversata [di ritorno] lo raggiunse una lettera inviatagli dagli amici di Roma, che gi annunciava la morte di sua figlia: ella era morta di parto in casa di Pompeo». Si sciolse così la relazione di parentela che sembrava garantire la pace tra i due triumviri. Lo scontro con un eroe (53-52 a.C.) Cesare non aveva fatto i conti con l’orgoglio delle popolazioni celtiche e il senso di indipendenza che le spinse a creare, nell’inverno del 53-52 a.C., una grande coalizione di popoli gallici, cui si unirono persino gli edui, tradizionali alleati dei romani. A guidarla era una personalità di grande valore, Vercingetorìge, un giovane nobile del popolo dei arverni, che si era assicurato l’appoggio dei druidi. Malgrado il coraggio e l’intraprendenza di Vercingetorige, che diede a Cesare del filo da torcere, alla fine egli fu costretto a rifugiarsi nella città fortificata di Alesia (vicino all’attuale Digione). Mentre Cesare la cingeva d’assedio, giunsero 300.000 uomini da tutta la Gallia e Cesare dovette combattere su due fronti per evitare che i due eserciti dei galli si congiungessero. Alla fine li sconfisse e prese la città. «Il capo di tutta la guerra, Vercingetorige, indossò le sue armi migliori, adornò il cavallo e uscì di gran carriera dal campo; compì un giro attorno a Cesare seduto e poi, balzato di sella, si tolse l’armatura, si sedette ai piedi di Cesare e se ne stette tranquillo finché fu dato da custodire per il trionfo» (Plutarco, 27). Cesare si fermò in Gallia ancora un anno per liquidare i resti della rivolta: agì con un’insolita severità nei confronti dei capi, che fece uccidere, ma con la sua abituale clemenza verso le popolazioni. Ottenne così un’assoluta fedeltà dei galli anche per il futuro. Il bilancio della guerra era di un milione di morti, di altrettanti prigionieri destinati alla schiavitù e di una totale romanizzazione delle popolazioni celtiche della Gallia, che determinò la progressiva scomparsa dell’identità originaria di un intero popolo. L’opera di romanizzazione fu favorita dal fatto che Roma, in cambio del controllo politico e di una contenuta pressione fiscale, garantiva la sicurezza dei fertili campi della Gallia sottoposti alla costante minaccia di razzie di germani. I galli, che vivevano di agricoltura, trovarono quindi vantaggioso non ribellarsi mai più al dominio romano. 2.4 La fine del triumvirato Crasso mira all’Oriente (54-53 a.C.) Proconsole in Siria, Crasso sperava di condurre una campagna vittoriosa contro il popolo dei parti. Nella loro espansione i parti vennero inevitabilmente in contatto coi romani: Crasso avrebbe dovuto fermare la loro marcia verso occidente. Ma il suo esercito fu sconfitto a Carre, in Mesopotamia, nel 53 a.C., ed egli stesso fu ucciso dal generale nemico mentre trattava la resa: la sua testa mozzata fu inviata a decorare una scena teatrale. Il ricordo del gesto orrendo e della battaglia che era costata la vita a 20.000 soldati romani rimase uno dei più dolorosi nella storia di Roma. Per di più le insegne dei romani erano rimate in mano ai nemici, un’onta intollerabile per Roma. Memo Stanziati originariamente nella regione a nord del mar Caspio, i parti erano calati fino all’altopiano iranico ed erano stati sottomessi agli assiri, poi ai medi e quindi ai persiani. Erano finiti sotto Alessandro e poi inglobati nel regno ellenistico di Siria, da cui si erano resi indipendenti intorno al 250 a.C., espandendosi fino all’Indo a est e alla Mesopotamia a ovest e costituendo un impero, forse come federazione di regni. In una posizione chiave, perché sul loro territorio passava la via della seta e delle spezie, essi divennero intermediari insostituibili nel commercio tra la Cina, l’India e il Mediterraneo e si arricchirono imponendo dazi sulle merci in transito e impedendo che greci e romani entrassero in contatto diretto con i popoli orientali. Dida su cavalieri parti La forza dei parti erano le schiere di cavalieri corazzati, che montavano cavalli nisei di taglia straordinaria e enorme potenza e velocità, affiancati dalla cavalleria leggera di arcieri abituati a cavalcare e a tirare con l’arco nelle aride e sterminate pianure dell’altopiano iranico sin da bambini. Pompeo gioca in casa (54-50 a.C.) Pompeo si era fatto dare un esercito per governare la Spagna, ma invece era rimasto a Roma e la sue province spagnole le governava tramite legati. La sua scelta era stata dettata dalla volontà di avvicinarsi sempre di più al senato e si rivelava più che mai proficua ora che Cesare imperversava con le sue imprese eroiche e Crasso era fuori gioco. I disordini in città si facevano sempre più violenti, e sorge il dubbio che fossero alimentati proprio da Pompeo. Per il 54 4 il 53 non fu neppure possibile eleggere i consoli. Nel 52 Clodio rimase ucciso in uno scontro con le bande di Milone e i sostenitori di Clodio appiccarono il fuoco alla curia, la sede del senato. Il senato nominò Pompeo console sine collega, con una scelta che violava un principio fondamentale della costituzione romana, la collegialità, tesa a impedire la concentrazione del potere nelle mani di uno solo. Di fatto Pompeo diventava un dittatore, ma la parola era impronunciabile e odiosa, dopo l’esperienza di Silla. Il senato non si fidava di Pompeo, però voleva battere Cesare a tutti i costi, così gli permise anche di arruolare un esercito, con la scusa di ristabilire l’ordine in città, e gli prorogò la carica di proconsole in Spagna per altri cinque anni, fino al 46 a.C.: la concentrazione di potere nelle mani di Pompeo, console sine collega a Roma e proconsole in Spagna, era assolutamente fuori da ogni regola. Come bloccare Cesare (49 a.C.) La forza di Cesare era immensa: un esercito forte di dieci legioni agguerrite e fedelissime, pronte a tutto per un generale che sapeva apprezzare il valore persino dei soldati semplici, che prometteva grandi vittorie e lasciava sperare in ricche ricompense; l’appoggio del popolo che vedeva in lui un idolo; il sostegno dei populares, che speravano da lui un rinnovamento dello Stato, ne facevano l’eroe del momento. Al termine del proconsolato, che cadeva il 1 marzo del 49 a.C., il generale intendeva proporre la propria candidatura per un secondo consolato. Il senato poteva riporre la speranza di evitare una simile sciagura solo in Pompeo. Su suo suggerimento emanò una legge che stabiliva che per candidarsi occorreva essere presenti a Roma. Cesare avrebbe dovuto rinunciare al proconsolato già nel 50, sciogliere le legioni, perché non si poteva superare il pomerium con un esercito in armi, e a Roma si sarebbe quindi trovato in balia di Pompeo, che, invece, con la scusa dell’ordine pubblico, poteva tenere un esercito accampato alle porte della città. La soluzione poteva essere quella avanzata da un tribuno, che chiedeva a Pompeo di congedare anche lui le sue truppe e il senato, che voleva evitare una prevedibile guerra civile, sembrava d’accordo. Ma l’esercito di Pompeo era minacciosamente vicino a Roma. Il senato preferì allora cedere e ordinò solo a Cesare di congedare il proprio esercito. Come Cesare non si fece bloccare (49 a.C.) La decisione che allora prese Cesare è passata alla storia con una frase, tramandata dalla tradizione, e divenuta emblematica: alea iacta est, “il dado è tratto”, la decisione è presa, non si può tornare indietro e niente può più essere come prima. La decisione era quella di oltrepassare con l’esercito in armi il pomerium, fissato da Silla al Rubicone. Cesare, acquartierato con l’esercito presso Rimini, aveva continuato ad avanzare proposte di accordo al senato, ma di fronte ai suoi ostinati rifiuti, prese infine la decisione estrema. Era la notte tra il 10 e l’11 gennaio del 49 a.C. e scoppiava in quel momento un’altra guerra civile. Anche su questa guerra Cesare scrisse, nei Commentarii de bello civili, le sue memorie, assai più drammatiche di quelle della guerra gallica. 2.5 De bello civili (49-48 a.C.) La fuga dei repubblicani Pompeo si accorse di non avere a disposizione un esercito fedele quanto quello di Cesare, benché potesse contare sul doppio delle truppe, e ancor prima che Cesare arrivasse preferì fuggire con la gran parte degli ottimati. Lo seguirono anche alcuni sostenitori di Cesare colti dal panico; persino «Labieno, uno dei più fidati amici di Cesare, che era stato suo legato e con estremo coraggio aveva combattuto al suo fianco in tutte le guerre galliche, in quel momento lo abbandonò e fuggì presso Pompeo; Cesare gli mandò dietro il denaro e il bagaglio» (Plutarco, 34). Si imbarcarono da Brindisi verso la Grecia, dove Pompeo contava, per raccogliere un esercito, di sfruttare le relazioni che aveva stabilito coi sovrani orientali all’epoca della guerra mitridatica. Poteva contare anche su sette legioni stanziate in Spagna, la fedeltà della provincia d’Africa, dove si era recato Catone, e l’alleanza con il re di Numidia Giuba. Il suo piano era quello di bloccare i rifornimenti diretti a Roma, mettendo in seria difficoltà Cesare, ma la rapidità del nemico non gli diede la possibilità di realizzarlo. L’inseguimento Cesare marciò verso sud, mentre «le città si aprono dinanzi a lui e lo salutano come un dio», scrisse Cicerone, e Cesare le ripagava evitando epurazioni e saccheggi e promettendo ai suoi soldati una ricompensa solo alla fine della guerra. Cercava in questo modo di evitare la guerra civile, dimostrando che il conflitto non era tra Cesare e il popolo, ma contro Pompeo. Nel contempo tentava ancora la via della riconciliazione. Arrivato a Brindisi, la conquistò il 18 marzo del 49, ma non riuscì ad inseguire Pompeo, che era salpato il giorno prima, perché non aveva navi a sufficienza. Marciò quindi verso Roma e vi entrò il 31 marzo, lasciando l’esercito fuori dalla città: era fuori legge, ma rispettava ancora le tradizioni, anche se poi si fece consegnare con le minacce il tesoro pubblico per mantenere il suo esercito. Quindi corse in Spagna, per assicurarsi il rifornimento di grano ed evitare che le sette legioni di Pompeo accampate nella penisola diventassero l’altro braccio della tenaglia con cui il nemico avrebbe potuto schiacciarlo. La campagna durò 40 giorni, tra aprile e agosto. Malgrado le numerose difficoltà, alla fine Cesare sbaragliò i pompeiani e ancora una volta fu generoso: accolse la parte dell’esercito pompeiano che si era arresa ed era passata dalla sua parte, congedò quelli che non volevano seguirlo, riorganizzò le province e ripartì. Nel novembre del 49, a Roma, si fece eleggere console per il 48, mise ordine nello stato, senza processi, né confische, né bandi. Poi radunò a Brindisi un centinaio di navi, 22.000 soldati e 1000 cavalieri e, benché fosse inverno e il mare fosse pattugliato dalla flotta di Pompeo, il 4 gennaio del 48, li traghettò in Grecia. Pompeo, che pure poteva contare su quasi 45.000 fanti e 7.000 cavalieri, evitò per mesi di scontrarsi con Cesare, in attesa del momento e del luogo più propizi. Cesare continuò invece a mostrarsi disponibile al dialogo e a tentare un accordo, ma i suoi legati furono sempre rinviati indietro. La battaglia di Farsalo (9 agosto 48 a.C.) Giunto in Tessaglia, Pompeo era certo della vittoria e già tutti i suoi collaboratori «si affaccendavano per accaparrarsi cariche o premi in denaro, o cercavano il modo di vendicarsi dei propri nemici, e non pensavano ai mezzi per vincere, ma a come sfruttare la vittoria» (Cesare, d.b.c., LXXXIII). Lo scontro avvenne infine il 9 agosto del 48 a.C. a Farsàlo, in Tessaglia. La battaglia fu il capolavoro di Cesare, che perse solo 200 uomini, uccise 15000 nemici, ne catturò 20.000, ma ordinò di risparmiarli. Il suo intento era sempre quello di mostrarsi clemente verso il nemico vinto e pronto alla pacificazione. La morte di Pompeo Pompeo fuggì in Egitto, stato vassallo di Roma, dove regnava il giovane Tolomeo XIV, di soli tredici anni, sposato con la sorella ventenne Cleopatra. Il matrimonio tra fratelli era una consuetudine della dinastia dei Lagidi, che, pur essendo ellenistica, aveva mutuato le tradizioni dei faraoni egizi. I due fratelli, per testamento del padre, Tolomeo XIII Aulete, avrebbero dovuto governare insieme, ma cercavano di sopraffarsi a vicenda. Il giovane Tolomeo, appoggiato e sobillato dai suoi consiglieri, aveva cacciato Cleopatra dall’Egitto. Rifugiatasi in Siria, ella aveva intrapreso una guerra contro il fratello. Pompeo, che sperava nell’amicizia del re, ricevette invece una pessima accoglienza: fu accolto con apparente benevolenza dai suoi consiglieri, ma, salito su una barca per raggiungere la corte del sovrano, venne da loro assassinato. La sua testa imbalsamata fu poi presentata a Cesare, quando, a settembre, raggiunse anch’egli Alessandria. Nel 59 a.C., durante il consolato di Cesare, Roma aveva fatto un’alleanza con Tolomeo Aulete, che era stato perciò dichiarato, con una legge e un decreto del senato, socius et amicus populi Romani. Cacciato dal suo regno da una sedizione popolare, nel 57 Tolomeo aveva invocato l’aiuto di Roma e Pompeo aveva fatto in modo che fosse ricollocato sul trono. Cesare in Egitto Cesare non gradì affatto che un romano fosse stato ucciso da uno straniero, tanto più che egli era solito graziare i nemici. Fu forse per punire Tolomeo o forse perché fu immediatamente attratto, lui cinquantaduenne, dalla ventenne Cleopatra, che affidò a lei il governo dell’Egitto. L’esercito di Tolomeo però attaccò Cesare e scoppiò la guerra. Negli scontri un incendio devastò la famosissima biblioteca di Alessandria e distrusse 400.000 volumi o, secondo altre fonti, 700.000. Cesare si fermò nove mesi per sedare la rivolta e riprendere il controllo dell’Egitto. Fino al giugno del 47 a.C., rimase quindi presso Cleopatra ed ebbe da lei un figlio, chiamato ironicamente dalla gente Cesarione (che in greco è un diminutivo e si potrebbe tradurre con “Cesarino”!). Veni, vidi, vici Poi fu costretto a lasciarla, per correre in Asia Minore dove il figlio di Mitridate e re del Bosforo, Farnace, aveva approfittato dell’assenza di Cesare per tentare di riprendersi il regno del Ponto. Con una campagna militare rapidissima lo sconfisse il 2 agosto del 47 a Zela e annunciò la vittoria al suo amico Mazio, con una celebre frase, modello insuperabile di concisione: Veni, vidi, vici, “Sono arrivato, ho visto, ho vinto”, con cui volle sottolineare orgogliosamente la fulmineità della propria azione. Il motto fu poi trascritto su un cartello e portato in corteo durante il trionfo nel 46. Cesare in Numidia Intanto i pompeiani guidati da Catone il Giovane avevano organizzato la resistenza in Numidia presso il re Giuba. Cesare li raggiunse e li massacrò nella battaglia di Tapso (46 a.C.). I pochi superstiti, tra cui i figli di Pompeo, Gneo e Sestio, si rifugiarono in Spagna, Giuba si uccise e la Numidia divenne provincia romana col nome di Africa Nova. Era una zona così vasta e fertile che avrebbe fornito ogni anno all’erario milioni di chilogrammi di grano e di litri d’olio. Catone cercò di resistere con un presidio a Utica, ma, quando vide che era impossibile, si uccise.. Passò alla storia come Catone l’Uticense e la sua figura divenne l’emblema della lotta a difesa della libertà contro la dittatura, anche se la sua idea di libertà era quella dell’antica aristocrazia romana. Dante, nella Divina Commedia, lo porrà come custode del Purgatorio, dove l’uomo si libera dal peccato. Cesare a Roma e in Spagna In Spagna i figli di Pompeo, Gneo e Sesto, con i veterani del padre, che avevano ripreso le armi dopo la sconfitta subita nel 49 e avevano costituito un nucleo di resistenza repubblicana, impedivano nuovamente i rifornimenti di grano a Roma. Ma prima di passare in Spagna, Cesare, nell’agosto del 46, tornò a Roma a celebrarvi ben quattro trionfi: sui galli, sugli egiziani, su Farnace e su Giuba. Nel primo di essi sfilò, trascinato in catene davanti al carro del vincitore, l’eroe della Gallia, Vercingetorìge, che subito dopo il trionfo fu giustiziato o, come si diceva, sacrificato agli dei. Dopo i trionfi Cesare organizzò per il popolo splendidi banchetti – in uno dei quali c’erano ben 22.000 triclini – spettacoli gladiatori e naumachie in ricordo della figlia Giulia. Poi corse in Spagna a sconfiggere gli ultimi pompeiani, alleati con le popolazioni dei celtiberi e dei lusitani, sempre ribelli al dominio di Roma. La loro resistenza pose non pochi problemi ai romani, ma fu vinta infine nella battaglia di Munda nel 45 a.C. 2.6 Cesare padrone di Roma e… del mondo Nuovi titoli e nuovi diritti Completata in alcuni mesi la sottomissione della Spagna, Cesare tornò a Roma nel settembre del 45 a.C., in compagnia di Cleopatra, che, incurante delle critiche, egli trattenne a Roma fino alla propria morte. Aveva condotto la sua ascesa attraverso guerre e battaglie, rivelandosi un condottiero eccezionale, ora doveva consolidare il suo potere, che lo rendeva padrone di Roma come un monarca, rientrando, in un certo senso, nella legalità. Assommava già una serie di magistrature: dal 63 era pontefice massimo, una carica che gli permetteva di controllare e manovrare gli auspici, quindi di indirizzare le decisioni politiche della città; dal 49 al 45 a.C. si era fatto eleggere console quattro volte e dal 45 il senato gli concesse il consolato per altri 10 anni; dal 48 aveva assunto la dittatura, prima annuale, poi decennale; ma fu anche censore per tre anni. Una volta tornato a Roma, dopo la battaglia di Munda, ottenne: il titolo di padre della patria (come Cicerone, dopo la scoperta della congiura di Catilina) e di imperator e il diritto di indossare sempre la toga di porpora e la corona d’alloro, che i generali vittoriosi potevano indossare solo il giorno del trionfo; il diritto di sedere in senato su un seggio dorato, di presiedere i comizi e di scegliere le province da assegnare ai propretori; la tribunizia potestas, con il diritto di veto e l’inviolabilità prerogativa dei tribuni, per cui la sua persona divenne sacra; una statua tra quelle dei re di Roma e monete con la sua immagine; la dedica del mese quintile, il quinto dall’inizio dell’anno secondo l’antico calendario romano, che cominciava a marzo. Da allora il mese fu chiamato iulius (il nostro luglio). Cesare provvide però a modificare radicalmente il calendario, che non coincideva più da molto tempo con le cadenze delle stagioni. Con la consulenza di un astronomo greco di Alessandria, Cesare creò un calendario di 365 giorni con un anno bisestile ogni quattro anni. Con le leggere modifiche effettuate da papa Gregorio XIII nel 1582, il calendario giuliano è quello che usiamo ancora oggi. Un politico saggio (44 a.C.) Oltre che ottimo stratega in guerra, Cesare si rivelò uomo di governo accorto, in grado di trovare soluzione ai problemi ormai non più rinviabili e di avviare una politica di riforma dello Stato. Per poter agire liberamente, nel 44 a.C. decise di farsi nominare dittatore a vita, ma diede alla parola un diverso significato rispetto a quello che aveva assunto con Silla. In politica estera: volle avviare una più solida integrazione tra Roma e le province, che costituirà col tempo la forza dell’Impero: concesse, infatti, la cittadinanza di diritto latino alla Sicilia, la cittadinanza romana agli abitanti dell’antica colonia fenicia di Gades, in Spagna, e alla Gallia Cisalpina, che si era rivelata alleata fedele e immise alcuni capi tribù in senato (suscitando, ovviamente, scandalo tra i tradizionalisti); pose sotto stretto controllo l’attività dei pubblicani, stabilendo con precisione l’ammontare dei tributi che dovevano riscuotere, per evitare le ruberie e la vessazione scandalosa delle province; riprese con vigore la legge sui reati di concussione e, in molti casi, sostituì l’appalto delle imposte con la riscossione diretta, eseguita dalla stessa comunità dei contribuenti, sotto la sorveglianza di magistrati statali. In politica interna: richiamò dall’esilio e graziò gli esponenti dell’aristocrazia senatoria, che lo avevano avversato, evitando inutili stragi, e li coinvolse nella gestione dello stato con l’attribuzione di magistrature e incarichi importanti; per garantire migliore efficienza alla burocrazia, ampliò il numero dei magistrati, edili, pretori e questori che portò a 40; rinnovò il senato: aumentò il numero dei senatori a 900 membri, immettendovi, oltre ai galli, anche esponenti delle aristocrazie italiche e uomini di sua fiducia. Ne smorzò, in questo modo, l’avversione alla sua politica e poté controllarlo meglio. …e un saggio economo In campo economico, Cesare affrontò il problema del proletariato urbano che sovraffollava Roma, con gravi problemi di ordine pubblico e di spese a carico dello stato, con vari provvedimenti. Sin dal 49 aveva ridotto i debiti, per arginare l’impoverimento delle classi più svantaggiate; ora, per favorire il ripopolamento delle campagne e frenare l’afflusso di nullatenenti in città, elargì contributi alle famiglie numerose; ridusse della metà il numero (da 320.000 a 150.000) di coloro che avevano diritto alle distribuzioni di grano, per non appesantire il bilancio dello stato, ma, in compenso, creò nuove fonti di guadagno per debellare la povertà: per arginare il problema delle rivolte servili e garantire altri posti di lavoro ai nullatenenti, decretò che almeno un terzo dei pastori alle dipendenze dei grandi proprietari dovesse essere rappresentato da uomini liberi. Poi distribuì terre a 80.000 capifamiglia, di cui molti erano suoi veterani, ma, per evitare confische ai danni dei proprietari terrieri, fondò diverse colonie: in Gallia, per consentire la romanizzazione della nuova provincia e il suo ripopolamento dopo la guerra; in Spagna per estendere la romanizzazione già avviata; nel sito dell’antica Cartagine e di Corinto, entrambe distrutte nel 146 a.C., e ricostruite entrambe contemporaneamente. A Corinto avviò il taglio dell’istmo per ridurre il percorso delle navi verso l’Oriente e favorire i commerci, anche con la fondazione di altre colonie in Macedonia e sul lontano mar Nero. L’assegnazione di terre ai veterani nelle colonie rientrava in un preciso disegno politico di Cesare, che sapeva quanto i soldati, per la vita che avevano condotto, erano insofferenti e poco disponibili a reinserirsi in una vita borghese, sempre pronti alla ribellione. Avviò inoltre una serie di lavori pubblici, come la deviazione del corso del Tevere, perché sfociasse più a sud e facilitasse i commerci; il consolidamento degli argini del fiume per evitare straripamenti; la bonifica delle paludi pontine a sud di Roma, per aumentare la disponibilità di terra coltivabile; l’edificazione di porti lungo il litorale di Ostia e la costruzione di edifici pubblici, tesa a rendere grandiosa soprattutto la zona di maggiore visibilità della città: risistemò il Foro, costruì la Basilica Giulia, con una grande sala destinata alle attività commerciali e giudiziarie; edificò una nuova curia per il senato, avviò la costruzione di un nuovo Foro, accanto al Foro romano ormai inadeguato alle nuove esigenze della capitale del mondo. Il Foro di Cesare sarà il primo dei Fori imperiali: al centro vi sorgeva il tempio di Venere genitrice, madre di Enea, fondatore di Roma, ma anche capostipite della gens Iulia. Tra i vari incarichi che Cesare assegnò all’aristocrazia senatoria, ci fu quello di creare la prima biblioteca pubblica di Roma: lo affidò al coltissimo Terenzio Varrone, benché fosse anticesariano e fautore di Pompeo. 2.7 Gli idi di marzo Contro il dittatore che non volle farsi re (44 a.C.) In un solo anno Cesare aveva ristabilito la pace e l’ordine, aveva migliorato le condizioni di vita dell’impero romano, il popolo lo adorava, ma l’aristocrazia non si rassegnava a perdere il proprio potere. Alcuni erano, per altro, convinti repubblicani e credevano ancora, come Catone, che solo la repubblica potesse garantire la libertà. Cesare veniva da più parti accusato di voler fare di Roma una monarchia di tipo orientale, spinto da Cleopatra, il cui figlio sarebbe potuto diventare l’erede del padre. Cesare smentì simili voci quando rifiutò, alle idi di febbraio del 44 a.C., il giorno dopo che gli era stata conferita la dittatura a vita, la corona che gli offriva il suo luogotenente Marco Antonio. La folla applaudì calorosamente il suo rifiuto di farsi re. Ma egli stava anche preparando una gigantesca spedizione contro i parti, per vendicare la sconfitta di Crasso e contro i daci, stanziati lungo il Danubio, nell’odierna Romania: 16 legioni e 10.000 cavalieri erano concentrati nella penisola balcanica per la nuova campagna che avrebbe dovuto offuscare le glorie del passato e garantire a Roma il controllo delle vie per l’Oriente con una frontiera in continua espansione ed enormi benefici per lo sviluppo economico. Il dubbio era su quanto ulteriore potere il generale avrebbe acquistato dopo la assai probabile vittoria. Cesare deve morire Il senato non proponeva alcun programma politico alternativo a quello del dittatore, ma voleva assolutamente liberarsi di lui. La congiura per ucciderlo fu organizzata da Caio Cassio Longino, che nutriva rancore verso Cesare e attirò nel suo piano Marco Giunio Bruto, facendo leva, tra l’altro, sul suo nome, che era lo stesso del nobile che aveva provocato la cacciata di Tarquinio il Superbo e liberato Roma dalla monarchia. Bruto e Cassio erano entrambi pompeiani e repubblicani convinti. Pure, dopo la morte di Pompeo, Cesare li aveva graziati e aveva concesso loro anche incarichi di prestigio, tra cui la pretura. La morte eroica (15 marzo 44 a.C.) È assai probabile che Cesare avesse sentore della congiura e non sarebbe potuto essere diversamente, visto che nasceva nel suo stesso ambiente. Le fonti parlano di profezie, prodigi e sogni premonitori, cui egli non avrebbe dato ascolto, ma è pensabile che invece avesse consapevolmente scelto di andare incontro alla morte. Il 15 marzo del 44 a.C., le idi di marzo secondo il calendario romano, Cesare si recò dunque alla seduta del senato, che si svolgeva eccezionalmente in una sala vicina al teatro costruito da Pompeo. Marco Antonio, il suo luogotenente che lo accompagnava, fu trattenuto con una scusa fuori dalla sala, mentre nel teatro una squadra di gladiatori era pronta a dare man forte ai congiurati. All’entrata di Cesare, i senatori si alzarono in piedi in segno di omaggio, ma i congiurati in parte si posero dietro il suo seggio, in parte gli si avvicinarono come per fargli delle richieste e poi gli si avventarono addosso coi pugnali. Quei senatori che non sapevano nulla della congiura rimasero paralizzati dalla sorpresa e «non osavano né fuggire, né difendersi e neppure aprir bocca. Quando ognuno dei congiurati ebbe sguainato il pugnale, Cesare, circondato, e ovunque volgesse lo sguardo incontrando solo colpi e il ferro sollevato contro il suo volto e i suoi occhi, inseguito come una bestia, venne a trovarsi irretito nelle mani di tutti […] anche Bruto gli inferse un colpo all’inguine. Dicono alcuni che mentre si difendeva contro gli altri e urlando si spostava qua e là, quando vide che Bruto aveva estratto il pugnale si tirò la toga sul capo e si lasciò andare», proprio ai piedi della statua di Pompeo che sorgeva nel suo teatro. Fu allora che, rivolgendosi a Bruto, avrebbe pronunciato le famose parole: «Tu quoque, Brute, fili mi!», “Anche tu, Bruto, figlio mio!”. Ritratto di Bruto A Bruto il dittatore era particolarmente legato, perché figlio di Servilia, una delle sue amanti, sorella di Catone l’Uticense, ma l’ipotesi, da qualcuno avanzata, che fosse anche suo figlio non è attendibile, perché Cesare aveva solo 15 anni più di Bruto. Nella frase famosa, in cui lo chiama “figlio mio”, l’espressione sarà da intendersi quindi come “ragazzo mio”, “caro”. Il giovane Bruto aveva subito l’influenza dello zio Catone il Giovane, sia nell’intraprendere studi filosofici sia nelle idee politiche: la sua scelta di aderire alla congiura per uccidere il “tiranno” nasceva dalla stessa esigenza di salvare la libertà repubblicana che aveva spinto Catone al suicidio. Il Ris, il male sacro e il divino dittatore L’omicidio di Cesare è uno dei delitti più famosi e carichi di mistero della storia. Troppi particolari lasciano supporre che il dittatore, dotato di un enorme potere e circondato da tanti sostenitori, non poteva essere all’oscuro delle trame che si tessevano nel suo stesso ambiente ed è improbabile che fosse così poco accorto e così fiducioso nel senato da non dare ascolto alle minacce di morte che negli ultimi tempi gli arrivavano da più parti. Perché allora si recò in senato quella mattina del 15 marzo e per di più senza scorta armata? E perché non aprì neppure il biglietto che gli fu consegnato mentre si recava in senato, in cui gli si annunciava la morte? L’assassinio delle idi di marzo ha attirato l’attenzione anche di un detective d’eccezione, Luciano Garofano, comandante del Reparto di indagini scientifiche dei Carabinieri (Ris) di Parma, che ha condotto la sua indagine basandosi su un attento esame delle fonti storiche. Sin da ragazzo Cesare soffriva di epilessia, una malattia che gli antichi chiamavano “male sacro”, perché la ritenevano inviata dagli dei. Provoca vertigini, convulsioni, perdita di conoscenza e spasmi muscolari. Cesare, come scrive Plutarco, «non prese questa sua debolezza a giustificazione di vita molle, anzi considerò l’attività militare una cura di questa debolezza, contrastando i suoi malanni con lunghissime marce, mangiando frugalmente, dormendo sempre all’aperto, faticando» (Plutarco, 17). Scelta di morte Con l’avanzare dell’età e degli stress cui Cesare era sottoposto, la malattia si era però aggravata e, a 56 anni, il dittatore sentiva di non poterla più controllare. Del resto anche le cure lo avrebbero debilitato gravemente ed egli le rifiutò. Ma gli attacchi epilettici determinavano situazioni assai imbarazzanti. Un giorno del 44 a.C., in senato, dove gli avevano decretato onori eccezionali, quando gli si avvicinarono consoli e pretori e tutto il senato, egli non si alzò, probabilmente in preda a un attacco epilettico. Ma questo irritò i presenti. La situazione stava quindi precipitando e il dittatore forse volle evitare di mostrare la propria decadenza fisica, uscendo di scena ancora nel pieno del suo potere, adorato dalle folle come un dio. Proprio la congiura poteva essere sfruttata per dare alla sua morte un’aura sacra, e farlo apparire un capro espiatorio, com’egli sottolineò consacrandosi agli dei col gesto di tirarsi la veste sul capo. Ma, nello stesso tempo, egli sapeva che l’odio popolare, che il suo assassinio avrebbe scatenato contro i suoi avversari, li avrebbe eliminati dalla scena politica – e la storia gli diede ragione: essi morirono tutti entro i successivi tre anni – e avrebbe lasciato campo libero al successore che Cesare aveva già designato nella figura del nipote. Forse non è un caso che solo pochi mesi prima di essere assassinato avesse appunto modificato il proprio testamento, adottando e nominando suo erede il giovanissimo Caio Ottavio, ma senza annunciare ufficialmente la decisione, com’era consuetudine. Fu forse con queste idee in mente che partecipò, il giorno prima della morte, al pranzo a cui lo aveva invitato Marco Emilio Lepido. Durante il convito, «caduto il discorso su qual fosse la morte migliore, anticipò l’intervento di tutti esclamando: “L’inattesa”» (Plutarco, 63). Poi, quella mattina del 15 marzo, dopo un’ultima titubanza, decise di uscire di casa e si avviò, nel tripudio del popolo che lo acclamava, alla sua ultima seduta in senato. Non gli serviva aprire il biglietto che gli annunciava la morte e che gli fu trovato ancora in mano: sapeva quello che c’era scritto. Regista anche dopo la morte (44 a.C.) Quel che accadde dopo la sua morte forse Cesare se l’era immaginato. Bastava conoscere la situazione per prevedere che l’esercito sarebbe rimasto fedele ai suoi luogotenenti e, in particolare ad Antonio, che, per altro, era parente di Cesare per parte di madre e condivideva con lui il consolato del 44 a.C. Bruto fece l’errore di non eliminarlo, pensando che bastasse avere ucciso il dittatore. La folla del popolo e dei veterani piangeva la morte di colui che aveva dato loro nuove prospettive di vita e minacciava di vendicarla con la violenza. I cesaricidi, che speravano di essere proclamati i liberatori di Roma dalla tirannide, spaventati dalla reazione popolare, si rifugiarono in Campidoglio. Il senato, in questo contesto, non osò abrogare le decisioni di Cesare già attuate o in fase di realizzazione, ma non prese neppure provvedimenti contro i suoi uccisori. I leaders dei cesariani, Marco Antonio, console, e Marco Emilio Lepido, governatore della Spagna Citeriore e pontefice massimo, che detenevano ora il potere e pretendevano di essere gli eredi della politica di Cesare, non osavano però rompere i rapporti col senato. Antonio, anzi, nella seduta del senato del 17 marzo, lasciò che fosse concessa l’immunità ai cesaricidi e che essi fossero celebrati con onori pubblici. Ma, nello stesso tempo, pretese che fosse data lettura pubblica del testamento di Cesare, fossero rispettate le sue volontà e fossero tributati solenni onori funebri al dittatore morto. Il funerale di un dio (20 marzo 44 a.C.) Quando, il 18 marzo, Antonio lesse pubblicamente il testamento in cui Cesare destinava 300 sesterzi a ogni proletario romano e a ogni legionario, e i suoi giardini, che si estendevano oltre il Tevere, a tutto il popolo di Roma, la folla andò in delirio. Per di più si scoprì che Cesare aveva adottato e nominato suo erede il nipote (nato nel 63 a.C. da una figlia di sua sorella Giulia). Il ragazzo, Caio Ottavio, che con l’adozione, com’era consuetudine, modificò il suo nome in Caio Giulio Cesare Ottaviano, aveva allora solo 19 anni, ma aveva già combattuto a fianco di Cesare nella battaglia di Munda, e ora si trovava in Epiro pronto a partire con la spedizione che Cesare aveva preparato contro i parti. Quando il 20 marzo, la salma di Cesare fu portata nel Foro, per i solenni funerali di Stato e la sua divinizzazione, Marco Antonio pronunciò l’elogio funebre e poi, «afferrate le vesti di Cesare, le spiegò in alto, insanguinate com’erano, mostrò gli squarci prodotti dai pugnali, tutte ferite che Cesare aveva ricevuto. La cerimonia degenerò in disordine aperto». Il popolo, in preda al dolore, si diede ad atti di violenza: dal rogo su cui bruciava il corpo di Cesare afferrò tizzoni accesi e diede fuoco alle case dei congiurati. Sul luogo del rogo si avviò subito la costruzione di un tempio al Divo Giulio. UNA NUOVA CULTURA Lo stato di guerra civile quasi permanente, in cui a tenere le redini del potere erano singoli comandanti militari che si dedicavano a tempo pieno alla politica e basavano la propria forza su eserciti fedeli solo a loro, aveva escluso da tempo i comuni cittadini dalla politica attiva. Emarginati dalla sfera pubblica essi sempre più si erano rifugiati nel privato. La cultura risentiva pesantemente di questa situazione sociale: da un lato si sviluppò l’arte oratoria, necessaria a chi si occupava di politica, dall’altro la poesia e la filosofia davano voce ai sentimenti, al disagio, alla ricerca di consolazione per la frustrazione conseguente all’esclusione del cittadino dalla vita politica. Ma anche i politici in realtà spesso cercarono nella letteratura e nella filosofia l’espressione dei propri ideali e dei progetti che cercavano di realizzare. Lo stesso Cesare fu un grande storico delle proprie imprese, come abbiamo visto, e Cicerone, il grande oratore, non poté fare a meno della filosofia. L’oratore più grande La vita di Cicerone fu, infatti, amareggiata da profonde delusioni. Spinto dall’idea eroica di salvare la gloriosa repubblica aristocratica di un tempo, era convinto che proprio un oratore dotato di grande cultura, studioso di filosofia, esperto di diritto, impegnato politicamente rappresentasse l’ideale del capo di stato. E in questa figura ideale Cicerone intendeva calarsi. La sua vita fu quindi dedicata al bene pubblico, ma nello stesso guidata dall’aspirazione di affermare la propria individualità. La sua sete di gloria fu però continuamente frustrata, a partire dalla denuncia della congiura di Catilina, per la quale non ottenne i riconoscimenti sperati. Quando nel 60 a.C. i triumviri cercarono poi di attrarlo nell’intesa che non condivideva, egli rifiutò e si ritrovò politicamente isolato. Esiliato poco dopo, nel 58 a.C., dai populares, fu fatto rientrare dagli optimates l’anno seguente su un carro dorato tra splendidi festeggiamenti, ma dovette lottare perché gli fossero restituiti, almeno in parte, i beni confiscati con l’esilio. Durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo, parteggiò per quest’ultimo e solo la generosità di Cesare gli permise di salvarsi. Nella vita privata, poi, il divorzio da Terenzia e da una seconda moglie e poi soprattutto la morte dell’amata figlia Tullia, lo addolorarono tanto che si isolò dalla vita politica cercando conforto nella filosofia. Ma dopo l’assassinio di Cesare volle compiere l’estremo tentativo di salvare la repubblica, appoggiando il suo successore Ottaviano. Fallì anche quest’ultimo eroico sforzo che si concluse con il suo assassinio nel 43 a.C. Opere illuminanti L’ampio epistolario, le numerose orazioni, le opere politiche e gli scritti filosofici di Cicerone non solo ne fecero uno dei letterati più importanti di Roma, ma forniscono ancora oggi un quadro dettagliatissimo della vita dell’ultima fase della repubblica romana, non solo nella sua sfera pubblica. Soprattutto le numerosissime lettere all’amico Attico e ai familiari contengono annotazioni di vita quotidiana e di avvenimenti che offrono uno spaccato di vita reale estremamente interessante. Catullo, i poetae novi Di continui riferimenti alla vita sociale dell’epoca sono infarcite anche le opere dei poeti dell’età di Cesare. Una generazione di poeti giovani, aristocratici, trasgressivi, impregnati di cultura ellenistica che, al contrario di Cicerone, cantavano il disimpegno dalla politica e mettevano al primo posto il mondo privato degli affetti, gli amori, i divertimenti, l’amicizia e la letteratura. Vivevano in una cerchia ristretta in cui tutti si conoscevano, a cui partecipavano anche le donne come giudici delle loro poesie, ma talvolta anche come poetesse esse stesse. Erano scelte di vita le loro che non potevano piacere al modello del perfetto civis romanus qual era Cicerone, che per loro adottò l’epiteto spregiativo di neóteroi in greco, poetae novi in latino. Le poesie di questi poeti erano leggere, quasi scherzi, nugae, “poesiole”, come le definivano essi stessi. Impregnati di raffinata cultura greca, i “poeti nuovi” amavano la brevità di contro all’ampiezza dei poemi, l’erudizione mitologica, la rielaborazione di testi di antichi poeti greci, come Saffo, l’estrema cura formale dello stile. I risultati più alti raggiunti da Catullo (84-54 a.C.), il più grande dei neóteroi, morto a soli trent’anni, difficilmente sono stati eguagliati nei secoli, per la capacità del giovane poeta latino di cantare l’amore come passione lacerante eppure espressa con l’estrema raffinatezza della forma. Come sopravvivere alla crisi Spesso si ritiene che i poetae novi fossero influenzati dall’epicureismo, la filosofia ellenistica che propugnava il disimpegno dalla vita pubblica e la chiusura nel proprio privato. Se non possiamo essere certi di questa ipotesi, di sicuro sappiamo invece che ad essere influenzato dalle teorie di Epicuro fu un altro grande poeta, Lucrezio. Egli seppe trasformare in grande poesia anche le fredde teorie filosofiche e, se pure sosteneva che il saggio non deve lasciarsi sconvolgere dalle passioni, dal dolore, dalla paura della morte – perché l’anima, come tutto il resto, è costituita da atomi, che si disgregano insieme al corpo – Lucrezio diede voce all’ansia di un secolo tormentato da un profondo pessimismo e insieme da un bisogno di verità e di pace. Secondo Lucrezio, l’uomo, abbandonato dagli dei, che sono perfetti, ma vivono lontani dall’imperfezione della materia e si disinteressano perciò degli uomini, deve ricercare il piacere, inteso come “assenza di dolore” e consapevolezza dei beni che la vita offre e di cui deve godere con moderazione. Ma accanto all’esaltazione della vita che il poeta canta descrivendo l’avvento della primavera nel bellissimo proemio dedicato a Venere, dea della generazione ciclica degli esseri viventi, Lucrezio crea alla fine pagine indimenticabili e drammatiche sugli orrori della peste di Atene del 430 a.C., come a preannunciare quanto avverrà alla fine dei tempi. La fine di Cicerone Esiliato nel 58 dai populares, fu fatto rientrare dagli optimates l’anno seguente su un carro dorato tra splendidi festeggiamenti e gli furono in parte restituiti i beni confiscati con l’esilio. Durante la guerra civile tra Pompeo e Cesare, parteggiò per il primo, ma dopo la vittoria Cesare gli concesse il perdono. Dopo il divorzio da Terenzia e la morte della figlia Tullia, si isolò dalla vita politica cercando conforto nella filosofia, ma dopo l’assassinio di Cesare nel 44 a.C., ritornò alla politica nell’estremo tentativo di salvare la repubblica contro le mire di Marco Antonio. Ma furono proprio i suoi sicari che il 7 dicembre del 43 raggiunsero Cicerone che cercava di fuggire per mare dalla sua villa di Gaeta. Ma per il timore della traversata in un mare in tempesta e della difficoltà della fuga Cicerone sporse la testa fuori della lettiga per offrirla alla spada del sicario che lo uccise. La sua tesa fu esposta sui rostri, la tribuna oratoria da cui aveva declamato tante volte le sue orazioni insieme alle mani con cui aveva scritto le orazioni contro Antonio.