leggere nei volantini, come ha
riportato il Corriere Fiorentino ieri.
La cosa un po’ kafkiana
13/03/2015
è che il blitz dei contestatori
cato, Tesi ha infatti spesso
prediletto le soluzioni un po’
laterali al prendere di petto
i problemi. Quando, l’anno
scorso, gli studenti di sinistra
abusivamente.
«Il tema degli spazi», ha
prontamente dichiarato,
«sarà riaffrontato ed esaminato: è necessario adoperarsi
ItaliaOggi
interveniva da sottosegretario e, due anni fa, anche col
governatore di Bankitalia,
Ignazio Visco.
E gli ultimi due episodi
dell’intolleranza.
Oltretutto vicino a quello
che la Fiorentina vuole costruire proprio là Pag.12
vicino.
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Se si analizza la lingua che viene utilizzata dai nostri politici
non ci si può più meravigliare se le leggi sono incomprensibili
DI
S
DIEGO GABUTTI
e qualcuno si chiede perché
l’esecutivo renziano, a dispetto di tutte le novità indubitabili che ha messo in
campo, continua a non convincere
tre quarti abbondanti degl’italiani
(la metà che non vota, e la metà degli elettori votanti) può dare un’occhiata a questo passo virgolettato
(e disperarsi): «Se si riflette sugli
agenti che danno cittadinanza al
cambiamento, che ne stimolano e
determinano l’insorgere, occorre
evocare in primo luogo la parola. E
subito dopo l’interazione e lo sguardo, la disciplina, la prossimità e la
relatività».
A parlare così – come se la
lingua fosse un campo di battaglia e a sbaragliare il vocabolario
umano fossero stati i tanks della
neolingua – è Graziano Delrio,
autore del recente Cambiando
l’Italia. Rinnovare la politica, ritrovare la fi ducia, Marsilio 2015,
pp. 128, 16,00 euro, ebook 9,99
euro. Sindaco di Reggio Emilia dal
2004 al 2013, sottosegretario alla
presidenza del consiglio dal 2014,
braccio non si sa quanto destro
del premier, tanto che negli ultimi
tempi gli è stato attribuito un ruolo frondista nei confronti del caposcout, Delrio non è solo un politico
ermetico, come in Italia ce ne sono
stati tanti.
È un politico imperscrutabile.
Parla come gli alieni nei romanzi
di fantascienza: difficile e strano,
ma più strano che difficile.
S’appella, per capirci con
un esempio, a cose singolarissime, tipo i «neuroni specchio» (non
sto a spiegare di cosa si tratta, ci
porterebbe lontano, come una visione di Santa Teresa o di Shirley
McLaine). Delrio, aggrappandosi
ai paroloni come Tarzan alle liane,
li rubrica alla voce «ultime scoperte dalla neurofisiologia, tra l’altro
fatta da italiani».
In realtà, come si legge in un
libro recente, che rende conto di
un’ultimissima scoperta, i neuroni
specchio sono una fantasia (Il mito
dei neuroni specchio di Gregory
Hickock, Bollati Boringhieri 2015).
Ma piacciono a Delrio, che ci crede al buio, senza prove, come crede
ai paroloni della politica sub specie cattolicesimo sociale rococò (da
Giorgio La Pira a se medesimo).
«Pare», scrive a proposito dei
suoi chimerici neuroni, «che
persino il linguaggio umano si sia
evoluto tramite l’informazione trasmessa con le prestazioni gestuali
e che il sistema specchio sia stato
capace di comprendere e codificare/
decodificare.
Ormai è certo che tale sistema ha
tutto il potenziale necessario per
fornire un meccanismo di comprensione delle azioni e per l’apprendimento attraverso l’imitazione e
la simulazione del comportamento
altrui». Prima «pare», poi «è certo». E stiamo parlando di neuroni
inesistenti. Senza offesa, ma sono
parole al vento. E se anche l’esecutivo nuovista fosse un neurone
specchio?
O qualcuno si specchia sul serio
nell’inesistenza e nella gessosità
di frasi come la seguente: «Il riconoscimento dei risultati non è solo
di natura economica ma anche reputazionale»? Perché «reputazionale»? Perché «procedimentalizzazione»? E cosa sono «le strozzature
di processo»?
Dobbiamo credere che ci sia un
qualsivoglia senso compiuto in
una frase in cui si legge che «educante, participio presente, non descrive una qualità, uno stato (come
può fare il termine «educativa»),
ma una vocazione, un processo
permanente, un’organizzazione
che consente a questo processo di
farsi realizzando la sua incompiutezza»?
C’è di peggio: una frase che
si capisce. Questa: «Andando a
scuola in macchina i bambini sono
prigionieri: della scatola metallica,
della musica e dell’attenzione alla
strada che la mamma o il papà devono tenere mentre guidano, della
fretta per non arrivare tardi al lavoro. Andando in bicicletta, invece,
senza il vetro dei finestrini, riscoprono i colori, sentono il freddo, il
caldo, le stagioni, parlano con gli
amici, imparano a essere attenti
alla vita».
Bene. Qualcuno dica al sottosegretario Delrio che l’Italia non è
un oratorio né una scuola materna
e che di tutto c’è bisogno in Italia
tranne che di retorica smielata (o
della condiscendenza dei potenti,
specie quando sono di basso rango).
Qualcuno gli dica anche d’essere più
chiaro quando parla e scrive. Sforzandoci, e avendo tempo da perdere, potremmo anche tradurre dallo
sbrodolese. Ma perché ci dovremmo
sforzare noi? Si sforzi lui.
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