L’AUTONOMIA INDIVIDUALISTICA DI MATRICE KANTIANA E I SUOI LIMITI (appunti per le lezioni di Filosofia del Diritto 2 di Francesca Zanuso) Il termine autonomia tradizionalmente rinvia in ambito moderno ad un altro orizzonte di pensiero, apparentemente opposto a quello utilitaristico: mi riferisco a quello che caratterizza la morale categorica di Immanuel Kant. Il Filosofo di Königsberg così suggella la sua ferma condanna dell’utilitarismo: “Se si sostituisce l’eudemonia (il principio della felicità) all’eleuteronomia (il principio della libertà, su cui si appoggia la legislazione interna), la conseguenza sarà l’eutanasia (cioè la placida morte) di ogni morale”1. Kant, come è noto, elabora una etica del dovere antieudaimonistica, nella quale la ricerca e l’esercizio dell’autonomia rivestono una importanza fondamentale2. Infatti, l’uomo è per lo più dominato nel viver quotidiano dalle prescrizioni che gli provengono dalla sua dimensione fenomenica e lo portano ad agire guidato dagli imperativi ipotetici: è così radicalmente condizionato e, quindi, non libero e, soprattutto, non morale. Egli attinge l’ambito dell’etica solo se riesce a manifestare la sua libertà; ciò avviene quando egli si assoggetta, comprendendola in sé, alla legge vincolante della Ragion Pratica legislatrice e alle sue tre massime fondamentali. Il mondo etico è, invero, caratterizzato dall’affermazione delle prescrizioni che derivano dagli imperativi categorici, nell’inesausta ricerca della realizzazione della libertà interiore, noumenica ed incondizionata; nella sfera etica la libertà e il dovere si compongono in una superiore unità che fonde entrambi grazie alle tre massime dell’imperativo categorico3. Centrale nel prodursi della prassi morale è l’intenzionalità, intesa in senso profondo, come decisione interiore di porre a guida del proprio agire solo la 1 I.KANT, Metafisica dei Costumi, II, Prefazione, trad. di G.Vidari, Laterza, Roma-Bari 1996, 4° ed., p. 225. Come precisa infatti nella Critica della Ragion Pratica, “il principio della felicità può bensì offrire massime, ma non tali da servire come leggi della volontà, se anche si facesse oggetto la felicità universale... questo principio può dare leggi generali, ma mai universali... quindi su di esso non si possono fondare leggi pratiche” (I.KANT, Critica della Ragion Pratica, I, I, par.8, trad. di F.Capra, Laterza 3°ed., Roma-Bari 1974, p.46). 2 Coloro che attualmente riprendono la filosofia pratica in ambito anglosassone sottolineano nella sua etica più la dimensione dell’autonomia che quella del dovere cfr. fra i tanti T.E.J.HILL, Kant on Wrongdoing, Desert, and Punishment, in “Law and Philosophy”, XVIII (1999), pp.407. 3 Sul tema cfr. i contributi contenuti in AA.VV., Introduzione alla morale di Kant, a cura di Giorgio Tognini, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993, S.LANDUCCI, La “Critica della Ragion Pratica”, La Nuova Italia Scientifica Roma 1997, ed ancora M.B.ZELDIN, The summum bonum, the moral law, and the existence of God, in “Kant Studien” 1971, pp.43-54, A.M.MACBEATH, Kant on moral feeling, in “Kant Studien” 1973, pp.283-314, H.HUDSON, Wille, Willkür, and the Imputability of Immoral Actions, in “Kant Studien”, pp.179-196. Ragione Pratica per cercare di realizzare il bene e il giusto indipendentemente dalle immediate conseguenze che si produrranno. L’azione non vale quindi per il risultato a cui perviene, ma per la plausibilità delle ragioni che l’hanno originata. Secondo Kant vi è infatti una profonda differenza fra l’ottemperanza ad un dovere per spirito di legalità o di opportunità, da un lato, e di moralità, dall’altro lato: se in modo fenomenicamente apprezzabile l’azione che ne consegue potrebbe apparire la medesima, ben diverso ne è il motivo informatore ed in quest’ultimo risiede la peculiarità dell’agire morale e della stessa libertà dell’uomo4: “Il concetto del dovere richiede dunque nell’azione, oggettivamente, l’accordo con la legge, ma nella massima di essa, soggettivamente, il rispetto alla legge, come il solo modo di determinazione della volontà mediante la legge. E in ciò consiste la differenza fra la coscienza di aver agito conformemente al dovere e quella di aver agito per il dovere, cioè per il rispetto alla legge: il primo caso (la legalità) è possibile anche se semplicemente le inclinazioni siano state i motivi determinanti della volontà; il secondo caso ( la moralità), il valore morale, dev’esser posto invece soltanto in ciò che l’azione avvenga per il dovere, cioè semplicemente per la legge”5. Caratteristica delle azioni morali sarebbe, quindi, una certa attitudine interiore che porta il soggetto a seguire l’imperativo categorico, ad ottemperare il dovere per il dovere; pertanto, ciò che rende morale un comportamento non è tanto il contenuto in sé dell’azione quanto l’intenzione che la ha originata, ossia l’atteggiamento intimo del soggetto che può essere categorico e quindi morale, o ipotetico e quindi utilitaristico. Tuttavia, l’autonomia kantiana non concede nulla all’arbitrarietà, poiché l’uomo di fronte ai dilemmi morali trova doveroso soccorso nelle tre massime fondamentali della Ragion Pratica, ovvero: I) “Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni diventi legge universale”; II) “Agisci in modo da trattare sempre l’umanità tanto nella tua persona, quanto nella persona di ogni altro, come un fine e mai solo come un mezzo”; III) “Agisci in modo che la tua volontà possa essere legislatrice universale”. L’autonomia individuale non può pertanto prescindere da un preciso riferimento al bene universale. Autonomia non significa, pertanto, per Kant insindacabilità; è la Ragione, con la R maiuscola, che impone di rispondere 4 Per una esauriente trattazione del concetto di libertà in Kant rinvio al fondamentale F.CHIEREGHIN, Il problema della libertà in Kant, Verifiche, Trento 1991. 5 I.KANT, Critica della Ragion Pratica, cit., p.100 ; cfr. altresì Lezioni di Etica, trad. di A.Guerra, Laterza 3°ed., Roma-Bari 1998, pp.39-41. all’imperativo che da essa ci proviene e di conformare la propria azione in modo che essa possa essere universalizzabile. Le tre massime sono, tuttavia, di principio e da esse non è possibile immediatamente derivare regole puntuali di comportamento quotidiano: sono infatti innegabili, in quanto negarle risulterebbe contraddittorio, ma indeterminate nel loro contenuto. Quindi, avverte Kant, il rapporto fra i principi universali e le singole regole non può certo essere di carattere deduttivo per l’indeterminatezza contenutistica dei principi stessi che discende, necessariamente, dalla loro medesima universalità. Scrive: “I principi pratici sono proposizioni che contengono una determinazione universale della volontà, la quale ha sotto di sé parecchie regole pratiche”6. Tali regole, per apparire plausibili, devono non porsi in contraddizione con i dettami di principio e risultarne la miglior applicazione possibile nel caso concreto7. Il problema dell’etica kantiana è, in verità, quello relativo alle modalità di passaggio dai principi alle regole dell’agire. Dalle massime, infatti, non può essere tratto un decalogo né dedotta una regola univoca per qualsivoglia caso puntuale; tuttavia esse funzionano egregiamente da scriminanti e in base ad esse possono essere confutate pretese di violenza, di solipsismo e di radicalismo individualistico. Il doveroso ricorso alle massime fondamentali scongiura altresì il rischio di una degenerazione formalistica dell’etica kantiana. Indubbiamente, ciò che rende morale un’azione è la sua categoricità e non la sua esteriorità. E’ l’intenzione, e non l’azione, ciò che distingue un piano noumenico da un piano fenomenico dell’agire. Ciò non significa tuttavia che il contenuto dell’azione sia indifferente e che qualsivoglia comportamento voluto in sé sia categorico e, quindi, morale. Per essere morale un’azione deve rispettare i dettami delle tre massime fondamentali e, inoltre, deve essere voluta in sé e per sé. Il cosiddetto formalismo kantiano non è da confondersi pertanto con il relativismo etico. 6 I.KANT, Critica della Ragion Pratica, cit., p.23. Per una condivisibile ricostruzione critica del rapporto fra principi e regole cfr. F.CAVALLA, Sul fondamento delle norme etiche, in AA.VV., Problemi di etica: fondazione norme orientamenti, Gregoriana, Padova 1990, pp.143-202. 7 La filosofia morale kantiana è richiamata nell’attuale dibattito per fondare una dottrina bioetica dei principi, attenta più all’ottemperanza ai doveri che al proclama dei diritti8. In particolare, il concetto kantiano di persona e del necessario rispetto a lei dovuto parrebbe in grado di fondare sotto il profilo argomentativo alcune scelte bioetiche. La tutela ad oltranza della dignità della persona imporrebbe, infatti, di riconoscere “la liceità della rinuncia a terapie sproporzionate e la liceità di somministrare analgesici in fase terminale con l’effetto collaterale di affrettare la morte del paziente”9. Ma soprattutto, il filosofo dell’imperativo categorico offre dei principi alla prassi medica che risultano fecondi laddove vengano innestati, come suggerisce Corrado Viafora, in un contesto, appunto, personalistico10. Secondo lo studioso padovano, vi sarebbero tre principi i cui dettami combinati parrebbero in grado di offrire un puntuale orientamento di fronte alle scelte che gli operatori debbono compiere in ambito biotecnologico: i principi di autonomia, beneficenza e giustizia. Essi non ammettono alcuna violazione, pena l’inesorabile mancanza di razionalità di ogni decisione, fosse anche presa a maggioranza11. Il principio di autonomia in ambito bioetico, riletto alla luce dei canoni interpretativi kantiani potrebbe così recitare, secondo Viafora: “Agisci in maniera tale da trattare il paziente come persona a cui, nella normalità dei casi, spetta la competenza di decidere della propria vita, sia in situazione di salute che in situazione di malattia”12. Quello di beneficenza, o beneficialità che dir si voglia, impone: “Agisci in maniera tale che le conseguenze della tua azione risultino a vantaggio del bene del paziente nella sua integralità”13. Infine, il principio di giustizia ordina: “Agisci in maniera tale che vantaggi e oneri provenienti da una certa situazione siano distribuiti equamente e cioè senza 8 Il c.d. “principialismo” è una delle principali correnti della bioetica anglosassone, fortemente impregnata tuttavia di componenti utilitaristiche; cfr. a titolo d’esempio T.L.BEAUCHAMP-J.F.CHILDRESS, Principles of Biomedical Ethics, Oxford University Press, Oxford 1983. Per una prima disamina di questa tesi cfr. R.SALA, Bioetica, cit., pp.112 e ss. 9 M.REICHLIN, L’etica e la buona morte, Comunità, Torino 2002, p.210. 10 C.VIAFORA, Fondamenti, cit., passim; dello stesso autore cfr. C.VIAFORA, La prospettiva personalistica in bioetica per risignificare le parole della vita, in AA.VV., Centri di bioetica in Italia. Orientamenti a confronto, a cura di C.Viafora, Gregoriana, Padova 1993, pp.321-355 e C.VIAFORA, La bioetica alla ricerca della persona negli “stati di confine”, in AA.VV., La bioetica alla ricerca della persona negli stati di confine, a cura di C.Viafora, Gregoriana, Padova 1994, pp.21-42. 11 Cfr.C.VIAFORA, Fondamenti, cit., pp.XV e ss. 12 Op.ult.cit., p.XV. 13 Op.ult.cit., p.XVI. fare differenze, salvo a dimostrare che tali differenze siano rilevanti per il trattamento in questione” 14. I tre principi si richiamano a valori altamente condivisi e considerati nel dibattito contemporaneo; tali valori vengono, tuttavia, coniugati in un modo peculiare che rende il loro appello diverso da quello che potrebbe caratterizzare un orizzonte di discorso utilitaristico. Il principio di autonomia, ad esempio, pone come centrale la figura del paziente inteso in sé e per sé come persona, in ogni espressione e manifestazione della malattia; il principio di beneficenza sottolinea la necessità di promuovere il bene del paziente, cercando di cogliere quest’ultimo nella sua integralità; infine, il principio di giustizia si richiama al problema della allocazione delle risorse, richiedendo tuttavia che l’equità predomini anche a scapito del mero perseguimento dell’utilità collettiva e a favore del successo del trattamento del paziente. E’ facile raccogliere il consenso teorico su questi principi poiché essi esprimono tipici éndoxa; più difficile, semmai, è comprenderne e conciliarne i dettati di fronte ad un caso concreto15. Secondo Viafora, una buona via per rintracciare un criterio di applicazione pratica è rintracciabile nella interpretazione che di tali principi può esser fatta muovendo da una antropologia personalistica, ispiratrice fra l’altro, della nostra Carta Costituzionale. Scrive: “In chiave personalistica i tre principi potrebbero essere così ridefiniti come il principio della dignità della persona, per cui la persona mai può essere ridotta a mezzo ; il principio del bene integrale della persona, per cui mai la persona si riduce alla sola dimensione fisico-naturale ; il principio della solidarietà, per cui l’impegno a realizzare tutto l’uomo non va disgiunto dall’impegno a realizzare questa pienezza in tutti gli uomini”16. Sono massime edificanti poiché contengono innegabili principi, ma immediatamente non offrono una soluzione puntuale agli angoscianti quesiti che i casi al “confine della vita” ci presentano. 14 Op.ult.cit., p.XVI. Come osserva Roberta Sala, riferendosi alle tesi dei nord-americani, “il fatto che i principi siano universali non significa però che essi siano assoluti. Si tratta infatti di principi prima facie, che cioè configurano un obbligo da osservare a meno che, in determinate circostanze, tale obbligo non entri in conflitto con un altro di forza uguale o maggiore… Per decidere quale dovere debba essere osservato per primo è necessario mettere a punto strategie di bilanciamento…La strategia del bilanciamento è integrata da un ulteriore metodo, detto di specificazione, che ha lo scopo di rendere le norme più specifiche, più adatte quindi a determinare l’agire nei contesti particolari… Tuttavia neppure la specificazione è priva di ambiguità: non infatti escluso il rischio che i principi, anche dopo che siano stati specificati, dopo cioè che si sia definito un contenuto che li renda utilizzabili, possano nuovamente escludersi a vicenda. Non è cioè sempre detto che si riesca ad eliminare il conflitto fra i principi” (R.SALA, Bioetica, cit., pp.117-119). La causa dello “scacco” è da rintracciarsi in un puntuale errore: “L’errore dei principialisti sta nell’aver fatto riferimento alla morale di senso comune senza però essere riusciti a darne una reale sistemazione, ovvero senza costruire su di essa un sistema morale condiviso, limitandosi a darne un resoconto eclettico e confuso” (Ibid., p.149). 16C.VIAFORA, Fondamenti, cit., p.XVI. 15 Resta il problema di comprendere quali regole possiamo trarre da tali principi e soprattutto sapere quale procedimento può assisterci nel passaggio dall’astratto al concreto, dal teorico al contingente. Inoltre, come rileva lo stesso Viafora, non sempre il ricorso a tali principi consente di reperire una soluzione poiché può sorgere un conflitto fra gli stessi come accade, ad esempio, nell’ambito della sperimentazione biomedica sull’uomo17 Al di là di queste considerazioni, per comprendere la plausibilità della via indicataci da questa rilettura kantiana è opportuno riflettere proprio sul concetto di autonomia propostoci dal filosofo di Königsberg e, quindi, sulla sua concezione antropologica e gnoseologica, per quanto ovviamente è consentito nell’ambito di questo scritto. Kant, come si è visto, proclama la sua opposizione alla mentalità utilitaristica; tuttavia, le sue proposte si sottraggono indubbiamente all’ingenuo meccanicismo e all’edonismo moderno ma non all’individualismo e al razionalismo che pervadono questa epoca18. In realtà, l’uomo kantiano è inesorabilmente individualista perché il suo pensiero è gravato da una componente razionalista. Kant infatti rifiuta l’eudaimonismo moderno, la concezione dello uomo e della natura ridotti a fascio di fenomeni, ma sottoscrive pienamente l’adesione moderna al primato del metodo analitico-deduttivo. Per lui conoscere significa de-monstrare e, pertanto, ogni conoscenza razionalmente accertabile e comunicabile agli altri uomini è solo fenomenica, ovvero sia basata sulla verificabilità scientifica, oppure è coerente, ovvero imperniata sul procedimento, appunto, analitico-deduttivo. Quando la ragione affronta l’ambito che va al di là dei fenomeni, ossia il noumenico, si “incaglia”, infatti, in contraddizioni, antinomie e paralogismi, come Kant pretende di dimostrare nella Dialettica trascendentale19. Questo accade poiché quella che è stata autorevolmente definita “eccezionale capacità di tensione dialettica e problematica è stata inceppata dall’accoglimento 17 Riferendosi al “Belmont Report” Viafora scrive: Sono i principi etici di base che il rapporto della commissione individua nel principio del rispetto per la persona, nel principio di beneficità, nel principio di giustizia. Se il ricorso ai principi fa guadagnare un livello più generale rispetto al livello delle norme, in molte situazioni problematiche create dal crescente ampliamento della sperimentazione biomedica non basta neanche questo livello, dal momento che il conflitto che si verifica è tra i principi stessi. In questi casi, solo un esplicito ricorso alle teorie etiche, e alle rispettive immagini antropologiche che esse sottendono, sarà in grado di giustificare un’effettiva gerarchia fra i principi”(C.VIAFORA, Giustificazione morale, cit., p.160). 18 Il concetto di ente naturale organizzato risulta, in effetti, nelle pagine di Kant ben diverso da quello di macchina : “Un ente organizzato non è dunque una mera macchina: questa, infatti, non ha che forza motrice e quello, invece, possiede in sé forza formante e tale, invero, da comunicarla alle materie che non l’hanno (da organizzarle): dunque, una forza formante propagatesi, che non può essere spiegata mediante la facoltà del movimento (il meccanismo) soltanto” (I.KANT, Critica del giudizio, Rizzoli, Milano 1995, p.597) . 19 La ragione, che pretende di sottrarsi al fenomenico, è paragonata da Kant alla colomba che pensa di volare meglio senza l’attrito dell’aria senza rendersi però conto che è proprio l’aria che le consente di stare in volo; cfr. I.KANT, Critica della Ragion Pura, trad. di G.Gentile e G.Lombardo-Radice, Laterza 9°ed., Roma-Bari 1996, passim. sostanzialmente dogmatico della scienza newtoniana”20. Tale pregiudizio non gli ha certo precluso, come vorrebbe una vetusta e superata interpretazione, di sondare razionalmente il campo metafisico e di utilizzare altri metodi di indagine oltre a quello “sintetico a priori”21; tuttavia, ha fatto sì che per Kant sia “vera e propria scienza ... solo quella la cui certezza è apodittica e che risulta di conoscenze razionali a priori ridotte a unità sistematica”22. Per questo la Ragione di fronte alle grandi idee metafisiche nulla può dire di concludente, di cogente dal punto di vista logico, razionale; può solo dire tutto e il contrario di tutto, conscia però che i due non si possono dire insieme, sotto lo stesso punto di vista e con la stessa accezione dei termini23. L’uomo riconosce questo suo limite e così rifugge un ingenuo scientismo; però si ritrova con “le mani legate” nel senso che deve ammettere di poter conoscere solo ciò che gli impone la logica analitica deduttiva. Per ottenere questo tipo di conoscenze non c’è, tuttavia, bisogno di relazionarsi autenticamente con l’altro. Il criterio della coerenza, se pienamente rispettato, consente di giungere a conclusioni necessarie all’interno dell’ipotesi convenzionalmente assunta senza alcun bisogno di interrogare l’altro, di cercare con lui una mediazione. L’altro è quindi anche per Kant un optional, un ostacolo, al massimo un piacevole compagno di strada; non è mai un essenziale interlocutore per quanto attiene gli ambiti sottomessi al dominio della Ragion Pura. In ambito pratico, non vi è possibilità da parte della Ragione di dedurre le regole dalle grandi massime dell’imperativo categorico, come riconosce lo stesso 20 M.GENTILE, Breve Trattato, cit., p.91. Il Maestro padovano riconosce che in Kant “pur essendo fortissima la persuasione del valore delle scienze, è più chiara e rigorosa la consapevolezza della funzione dell’intelligenza (per lui ha nome di ragione), in quanto ne è dimostrata in maniera drammatica ma teoreticamente incontrovertibile l’imprescindibile presenza regolativa” (op.ult.cit., p.132-3). 21 Per una critica della diffusa interpretazione di un Kant “sentimentalmente” disposto ad accogliere una teoria metafisica di cui la Ragione rifiuterebbe il fondamento cfr. P.FAGGIOTTO, La Metafisica kantiana dell’analogia, Verifiche, Trento 1996. Il filosofo padovano sottolinea che “Kant ha sì negato che la realtà noumenica sia conoscibile in sé, nella sua intima costituzione (questo richiederebbe l’uso del procedimento sintetico il cui risultato sarebbe peraltro fenomenico), ma non ha mai negato, anzi ha espressamente affermato che essa può essere conosciuta nella sua relazione con altro da sé, attraverso un procedimento di natura analitica ed analogica” (op.ult.cit., p.39). Pertanto, la condanna nei confronti dell’impossibilità della metafisica sarebbe riservata da parte del filosofo di Königsberg a quella “ordine geometrico demonstrata” tipica del pensiero moderno e, principalmente, di Spinoza (cfr. op.ult.cit., p.54). Analoga posizione critica era stata precedentemente assunta in M.GENTILE, Breve Trattato, cit., pp.67-68. 22 G.SOLARI, Scienza e metafisica del diritto in Kant, in “RIFD”, VI (1926), p.503. 23 In questo modo Kant rispetta alla lettera il dettato del principio di non contraddizione ma ne impoverisce il potere accertante; cfr. fra i tanti scritti al riguardo l’ormai classico E.BERTI, Il principio di non contraddizione come criterio supremo di significanza nella metafisica aristotelica, in “Studi Aristotelici”, L’Aquila 1975, pp.61-88. Sulla capacità del principio di non contraddizione di fondare l’argomentazione cfr. F.CAVALLA, Della possibilità di fondare la logica giudiziaria sulla struttura del principio di non contraddizione, in “Verifiche”, XII (1983), pp.1-30. Kant. Tuttavia, l’aver negato il potere accertante della dialettica pregiudica, a mio giudizio pesantemente, la possibilità di scoprire quelle indicazioni per la prassi che paiano rispettare i fondamentali principi. L’uomo kantiano è solo nel suo agire categorico in un duplice significato. Innanzitutto, la profonda verità del suo operare è preclusa all’altro che ne può apprezzare solo la dimensione fenomenica e quindi meramente apparente; inoltre, è solo poiché non può ricorrere al potere accertante del dialogo. Il razionalismo e l’individualismo kantiano impediscono, per di più, l’impostazione di un corretto rapporto fra principi e regole. Solo l’attività dialettica consente di rapportare questi due “indicatori” morali senza cadere nell’illusione di una impossibile deduzione “more geometrico demonstrata”. Chi si affida solo alla logica analitico-deduttiva e al criterio della coerenza ben presto si accorge che dalle tre grandi massime fondamentali, proprio perché sono massime di principio innegabili ed universali, non è possibile dedurre una regola univoca ma, piuttosto, tante regole quante sono le dimensioni evocative e poliedriche insite nei termini ivi richiamati. Kant, come si è visto, è consapevole di ciò, però sembra ignorarne le conseguenze, che sono tuttavia non sottovalutabili. Se tante sono le possibili deduzioni, o inferenze che dir si voglia, è inevitabile e benefico che fra i sostenitori di queste tante regole nasca una diatriba, un conflitto. Inevitabile poiché le conseguenze di una scelta sul piano pratico ricadono sulla libertà esteriore altrui, contrariamente a quanto pretendono ingenui sostenitori di un principio di tolleranza tout-court; benefico poiché l’opposizione dell’altro impedisce di confondere il parziale con l’assoluto e quindi di pretendere di spacciare per unica regola valida una delle tante possibili determinazioni del principio. Il conflitto, tuttavia, è produttivo solo se sfugge alla tentazione di trasformarsi in violenta contrapposizione e si evolve in controversia24. Solo il ragionamento dialettico consente di comporre il conflitto fra opinioni, trasformandolo in controversiale ricerca di ciò che accomuna le parti pur nella diversa interpretazione del bene, del giusto, dell’opportuno. Ma l’attività dialettica è possibile solo laddove si sia immuni dal razionalismo e si pensi ad un uomo necessariamente vocato, dalla sua strutturale indigenza di verità, al dialogo, all’incontro con l’altro. Questa via è quindi preclusa al razionalista e all’individualista. Pertanto, anche la concezione dell’autonomia propostaci da Kant è insoddisfacente, proprio per il significato che viene dato alla soggettività. Se è altamente apprezzabile nell’attimo in cui pretende che criterio di orientamento 24 Mi sia consentito rinviare a quanto scritto al riguardo nel mio Conflitto e controllo sociale, cit., pp.13-16. dell’agire sia costituito da un nomos fondato in termini di necessità e di universalità, del tutto insoddisfacente appare quando pretende che questo nomos sia svelato e tradotto in pratica da un soggetto irrelato.