L’antropologia kantiana L’antropologia è il modo di intendere l’uomo e la sua natura e come tale è presente, esplicitamente o meno, in tutti i sistemi filosofici. In Kant, però, il termine assume un significato più circoscritto, indicando lo studio dell’uomo nel suo contesto storico, in relazione alla specificità che la morale assume presso i diversi popoli e nei diversi contesti di vita, mentre la morale propriamente detta si occupa dei princìpi fondati razionalmente e quindi universali. Nei Fondamenti della metafisica dei costumi, del 1785, Kant distingueva appunto, all’interno dell’etica, la «metafisica dei costumi», orientata alla definizione dei princìpi universali, oggetto della morale, e lo studio dei costumi particolari dei diversi popoli, oggetto dell’antropologia pratica. Il suo interesse era rivolto alla prima, che tratterà in modo approfondito nella Critica della ragion pratica. Nella Metafisica dei costumi (1797) parla di «antropologia morale», dedicata all’individuazione delle condizioni empiriche (leggi, ordinamenti, istituzioni), che possono diffondere e consolidare i princìpi morali, fondati comunque sulla ragione e quindi universali. Le norme morali, in altri termini, non devono dipendere dal costume, dalla tradizione, dal contesto sociale e politico, ma, una volta stabilite razionalmente, si può studiare quali contesti le favoriscono (ad esempio, istituzioni politiche di tipo liberale) e quali no. Nel 1798 Kant torna sui temi antropologici con uno scritto che li affronta da un diverso punto di vista, l’Antropologia dal punto di vista pragmatico. Quest’opera si allontana dalle due precedenti, non considerando più l’antropologia come la dimensione empirica della morale, ma come lo studio della natura umana, dell’uomo naturale e dei cambiamenti che derivano dalla nascita della società. Il titolo sottolinea lo scopo dell’opera: non la descrizione di come è fatto l’uomo («punto di vista fisiologico»), ma l’individuazione di ciò che l’uomo può e deve fare per plasmare se stesso. «La conoscenza fisiologica dell’uomo – scrive Kant – si propone di indagare ciò che la natura fa dell’uomo, la pragmatica ciò che l’uomo, in quanto essere libero, fa o può fare di se stesso». (I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatici, in Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Torino, UTET, 1970, p. 541) L’opera è divisa in due parti, la prima intitolata Didattica antropologica. Del modo di conoscere l’interno e l’esterno dell’uomo, la seconda La caratteristica antropologica. Intorno al modo di conoscere l’interno dell’uomo dal suo esterno. Nella Didattica, come suggerisce questo termine, sulla descrizione della natura umana prevale l’esigenza di valutarne i diversi aspetti. Kant condanna prima di tutto l’egoismo, sentimento naturale ma negativo, che occorre superare. Trattando poi delle passioni, le definisce «cancri della ragion pura pratica, per lo più inguaribili» (Ivi, p. 688) Anche le emozioni sono negative, secondo Kant, ma mentre esse sono «disposizioni infelici dell’animo, foriere di molti mali» (Ivi, p. 689), probabili ma non inevitabili, le passioni sono «cattive incondizionatamente» (Ibidem). Non mancano, comunque, descrizioni dei sentimenti umani circostanziate e approfondite, che sottolineano anche gli aspetti positivi di alcuni. La seconda parte intende analizzare i metodi per conoscere l’interiorità mediante segni esterni. Kant tratta in modo approfondito, ad esempio, la fisiognomica, che fa corrispondere a tratti del volto aspetti del carattere. Il carattere viene posto in relazione al sesso, al popolo, alle diverse razze. Accanto all’analisi delle differenze, Kant insiste sulla necessità che l’umanità tenda verso una sempre maggiore coesione, verso una società universale. Tale fine è inteso, però, più come un principio regolativo che come una prospettiva concreta, sia pure nel lungo periodo. Infatti, Kant manifesta un certo pessimismo. Alla domanda: «il genere umano è da considerarsi una razza buona o cattiva?» (Ivi, p. 755), risponde che «la follia ha una parte ancora maggiore della cattiveria nei tratti caratteristici della nostra specie» (Ibidem) e che «la dissimulazione parziale dei propri pensieri, che ogni uomo avveduto trova necessaria, rivela abbastanza chiaramente che nella nostra razza tutti ritengono saggio stare in guardia e non scoprirsi interamente». (Ibidem) L’opera, però, si chiude con un messaggio di speranza, poiché Kant sottolinea «un’esigenza innata della ragione a opporsi a quella tendenza [il giudizio negativo], quindi a non rappresentarci l’umanità come cattiva, ma come una specie di esseri ragionevoli che si sforza, fra mille ostacoli, di progredire costantemente dal male verso il bene» (Ivi, pp. 756-757), verso l’unione di tutti i «cittadini della terra». (Ibidem) Il cosmopolitismo di Kant e la marginalità con cui tratta i diversi popoli lo porranno, per questo aspetto, in contrasto con il Romanticismo e, nell’immediato, con Johann Gottfried Herder, che nelle Idee sulla filosofia della storia dell’umanità (1784-1791), e ancor prima con il Saggio sull’origine del linguaggio (1772), era andato elaborando, accanto al concetto di Humanität e ad esso complementare, quello di «popolo», caratterizzato da un linguaggio e da un modo di pensare che ne caratterizzano l’identità specifica. Tale identità non deve essere superata per giungere a una società cosmopolitica, ma deve conservarsi per arricchire, nella pluralità di espressioni, l’umanità nel suo insieme. Herder polemizza con Kant proprio su questi temi, e in particolare sulla dimensione pura e universale della ragione, che si forma invece a suo parere in contesti storici e in tradizioni linguistiche specifiche (Metacritica, 1799). Herder sottolinea tra l’altro il ruolo del linguaggio – che è una costruzione storica e diversa da popolo a popolo – nella formazione del pensiero. La sua antropologia è anche studio della poesia popolare, delle tradizioni e delle caratteristiche dei diversi popoli, non l’affermazione di un ideale di uomo conforme alla ragione universale. Anche Johann Georg Hamann (1730-1788) rimprovera a Kant (Metacritica sul purismo della ragione, pubblicata postuma nel 1800) l’esaltazione della ragione e la sua «purificazione» da tre componenti che sono invece fondamentali: i sentimenti, il linguaggio, la tradizione. La ragione è storica perché si esprime attraverso le diverse lingue, che costituiscono i diversi modi in cui gli uomini si pongono di fronte alla realtà. Più tardi, questa analisi verrà ripresa e approfondita da Fichte, che considererà il linguaggio l’aspetto fondamentale dell’identità dei diversi popoli. Il pensiero plurale, vol. II, p. 629