Crisippo da Soli Frammenti dell`etica (SVF, III)

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Crisippo da Soli Frammenti dell’etica (SVF, III):
‘La morte conforme a ragione:’
(traduzione R. Radice)
[C.e]757 – Affermano <gli Stoici> che il saggio, secondo ragione, si esporrà alla morte per la
patria e per gli amici, e anche nel caso che sia vittima di dolori acuti, o di menomazioni o di malattie
insanabili.
[C.e]758 – In molti casi è un preciso dovere del saggio andarsene dalla vita, mentre per lo stolto è
preferibile restar vivo, anche se non diventerà mai saggio. Non è vero che la virtù trattiene in vita e
che il vizio ne allontana, piuttosto è il dovere e il comportamento conforme al dovere a dare la
misura del vivere e del morire.
[C.e]759[1] – A quanto si dice, Crisippo crede che né il rimanere in questa vita dipende
totalmente dai beni, né l’uscirne dipende dai mali, ma tutt’al più da realtà interrnedie conformi a
natura. Pertanto, talvolta sarà doveroso per chi è felice andarsene da questa vita, e invece per chi è
infelice rimanerci.
[C.e]759[2] – Queste dunque sono le prescrizioni degli Stoici, <con le quali> essi spingono molti
saggi al suicidio, quasi che la miglior cosa fosse smettere di essere felici; e al contrario trattengono dal
suicidio molti degli stolti, come se per loro fosse doveroso continuare a vivere da infelici. Eppure,
<per gli Stoici> il saggio è ricco, felice, beato in tutti sensi, sicuro e al riparo da ogni rischio, mentre
lo stolto è dissennato, al punto da esclamare:
«Sono così pieno di mali da non saper più dove metterli!».
Ma, nonostante ciò, per lo stolto pensano sia giusto restare in questa vita, e per a saggio
andarsene. E a giusta ragione – sostiene Crisippo –, perché la vita non deve essere valutata sulla
base dei beni e dei mali, ma di ciò che è contro natura o conforme a natura.
[C.e]760[1] – Nel terzo libro de La natura, dopo aver affermato che «per lo stolto è meglio
vivere piuttosto che morire, anche se non gli riuscirà mai di diventare saggio», aggiunge:
«I beni per gli uomini sono tali che in un certo modo i mali precedono le cose intermedie».
[C.e]760[2] – ... i cosiddetti intermedi per loro non sono né beni né mali.
[C.e]760[3] – Volendo dunque attenuare tale assurdità fa questa aggiunta: «L’essenziale non sta
in ciò, ma nella ragione, con la quale conviene vivere anche se fossimo stolti».
Una prima volta, dunque, chiama male il vizio e ciò che ha parte del vizio, e solamente questo; ma
il vizio ha a che fare con la ragione: più precisamente è la ragione che sbaglia...
[C.e] 761 – Nello scritto L’esortare, criticando l’affermazione di Platone: per chi non sa vivere o
non ha imparato a vivere sarebbe meglio non vivere affatto, dice testualmente
«Un tale ragionamento è autocontradditorio e non ha alcun carattere protrettico. In primo luogo,
mostrando che per noi è molto meglio non vivere e in un certo senso è preferibile morire, ci volge ad
altri interessi e non alla filosofia: chi non vive, infatti, non può certo darsi alla filosofia e d’altra parte
non è possibile giungere alla saggezza se non dopo un lungo periodo trascorso nel vizio e
nell’ignoranza».
In seguito aggiunge:
«Agli stolti conviene restare in vita»
e poi testualmente:
«In primo luogo la virtù pura e semplice non influisce sul restare in vita, così come il vizio non
influisce sul dover lasciare questa vita».
[C.e]762[1] – Certo, dicono, anche ad Eraclito e Ferecide, se ne avessero avuta la possibilità,
sarebbe convenuto perdere la virtù e la saggezza pur di liberarsi dei pidocchi e della idropisia. E se
Circe avesse versato due pozioni, una che rende stolti i saggi, e l’altra che rende gli uomini asini, ad
Odisseo sarebbe convenuto bere quella della stoltezza, piuttosto che mutare il suo aspetto in quello
di una bestia, mantenendo a senno (ma con il senno non avrebbe dovuto senza dubbio conservare
anche la felicità?). E afferma pure che sia la stessa saggezza a pretendere ciò quando dice: «Lasciamí,
non ti preoccupare se io muoio e mi dissolvo nella forma di un asino».
[C.e]762[2] – Eccellente l’osservazione di M. Tullio. Certo, se non esiste alcuno che non
preferirebbe morire piuttosto che veder trasformato il suo aspetto in quello di una bestia, pur
mantenendo la coscienza di uomo, quanto più misera sarà la condizione di chi ha in un corpo da
uomo un’animo da bestia? Direi che sarebbe tanto più misera quanto più l’animo supera in valore il
corpo.
[C.e]763 – Siccome tutti i doveri traggono origine da questi principi, non è avventato sostenere,
che a tali principi vada ricondotto ogni nostro pensiero, ivi compresa anche la decisione di vivere o
di morire. L’uomo in cui prevalgono i tratti che sono conformi a natura ha il dovere di restare in vita;
invece quello in cui prevalgono gli aspetti che sono o minacciano di essere contrari a natura, ha il
dovere di lasciare questa vita. Da ciò si deduce che può essere dovere del sapiente andarsene dalla
vita pur essendo beato, e viceversa dovere dello stolto restare in vita pur essendo infelice. Infatti,
quel bene e quel male... sono conseguenze: ciò che cade inizialmente sotto il giudizio e la scelta del
saggio è il concetto di naturalità, cioè se una cosa sia conforme o contraria a natura: è questo
l’oggetto, per così dire, la materia specifica della saggezza. Pertanto, il criterio per decidere se vivere
o morire deve essere affidato a quei principi di cui abbiamo detto. Infatti, chi possiede la virtù non è
tenuto in vita dalla sua virtù, né chi è privo di virtù deve solo per questo desiderare la morte. E
spesso è dovere del saggio lasciare questa vita pur nel pieno della sua felicità, se può farlo nella
maniera dovuta. Questo loro pensano: che Popportunità consista nel vivere felicemente e cioè nel
vivere in consonanza con la natura; e pertanto la saggezza può persino intimare al saggio di lasciarla,
se questo è utile. Ora, siccome i vizi non hanno il potere di indurre a darsi volontariamente la morte,
è evidente che è dovere degli stolti restarsene in vita, anche se in sommo grado infelici, se per la
maggior parte di sé si trovano nella condizione che noi definiamo in accordo con la natura. E, dato
che lo stolto, che viva o che muoia, resta sempre infelice allo stesso modo, né un eventuale
prolungamento della vita gliela renderebbe più odiosa, non è immotivata la loro affermazione che chi
ha la prospettiva di fruire ancora di molti beni naturali deve restare in vita.
[C.e]764 – In generale, se la virtù da sola basta ad assicurarci una vita in sommo grado felice e
beata, per quale ragione mai, chi si trova a vivere beatamente per il fatto di possedere la virtù
dovrebbe voler lasciare questa vita? Come sarebbe insensato dire che Zeus desidera morire, così è
insensato sostenere che chi vive non meno di lui felicemente possa ragionevolmente lasciare questa
vita, tanto più che tutti i beni del corpo e quelli esterni sono indifferenti e non possono né dare né
togliere felicità, e la virtù, che è la sola realtà che assicura la felicità della vita e ne garantisce una
presenza stabile, non può mai lasciare il saggio... Ebbene, come può essere logico che la virtù indichi
al saggío una tale scelta?
[C.e]765 – Anche i filosofi sono d’accordo nel ritenere che per il saggio è ragionevole suicidarsi,
qualora sia a tal punto impedito nell’azione da non avere più neppure la speranza di poter agire.
[C.e]766 – Se la virtù si realizza nella scelta delle cose che sono conformi a natura e in sintonia
con essa e nel rifiuto e nel ripudio di quelle contrarie, bisogna chiaramente che esista un oggetto della
scelta. Solo che non sempre questo c’è, e quindi, quando esso viene a mancare, colui che detiene la
virtù si toglie da questa vita. E in tal caso il suicidio non è determinato dall’incapacità di scegliere,
perché questo è il compito specifico della virtù, ma dall’assenza dell’oggetto proprio della scelta.
[C.e]767 – L’uomo virtuoso potrebbe in certe circostanze lasciare volontariamente la sua vita,
che pure è improntata a virtù, scegliendo una morte ragionevole.
[C.e]768 – Ma anche i filosofi stoici... considerarono la filosofia come un esercizio di morte
fisica, per cui hanno descritto cinque tipi di suicidio conforme a ragione. La vita, dicono, è come un
grande banchetto al quale, si direbbe, anche l’anima è invitata, e tanti sono i modi in cui si può
concludere un banchetto, altrettanti sono i modi in cui si può terminare in modo ragionevole una vita.
E banchetto, dunque, si conclude in cinque modi: per il verificarsi di un fatto improvviso e
significativo, come la comparsa tardiva di un amico: per la gioia gli amici si alzano e il banchetto si
scioglie. Ma il banchetto può interrompersi anche se fa irruzione una compagnia vociante e senza
ritegno, o perché le portate sono malsane e guaste; oppure per la scarsezza dei cibi, o per
l’ubriachezza <dei commensali>.
Allo stesso modo, sono di cinque tipi i suicidi secondo ragione. O per effetto di una grave
emergenza, come. se la Pizia comandasse a qualcuno di uccidersi per la sua propría città, in quanto
su di essa incombe una sciagura... oppure perché i tiranni perdono ogni ritegno e ci costringono a
compiere azioni immorali, o a dire quello che non va detto.... oppure perché una grave malattia
impedisce all’anima per un lungo periodo di fare un uso strumentale del corpo: in tal caso è
ragionevole che questa anima sia fatta uscire dal corpo. Per questo motivo anche Platone non accetta
la medicina dietetica che tende a lenire le malattie e le cronicizza, e preferisce invece gli interventi
chirurgici e farinacologici di cui si serviva il medico militare Archigene. Dice anche Sofocle:
«Non è da medico saggio
intonare formule a ferita aperta».
Inoltre <la vita, come il banchetto, può interrompersi> a causa della povertà – come ben dice
Teognide: «Bisogna che fuggendo la povertà ... » –, o per effetto della pazzia: difatti, come
l’ubriachezza era un motivo per concludere il banchetto, così anche in questo caso la follia è un buon
motivo per uccidersi, dato che essa altro non è che una ubriachezza dovuta a cause naturali, e
viceversa, l’ubriachezza non è che una forma di pazzia volontaria. E questo è tutto sull’argomento.
David Hume: ‘Sul suicidio’
(traduzione U. Forti)
Un notevole vantaggio dovuto alla filosofia è l’antidoto sovrano che offre contro la superstizione e la
falsa religione. Tutti gli altri rimedi contro codesta peste sono vani, o almeno incerti. Il semplice
buon senso e la pratica del mondo, sufficienti di solito nei frangenti della vita, restano qui
inefficienti. La storia e l’esperienza quotidiana forniscono esempi di uomini dotati di ottime capacità
negli affari, la cui vita è guasta dalla schiavitù di gravissime superstizioni. Anche la gaiezza e
dolcezza di carattere, che stillano un balsamo in ogni altra piaga, non offrono alcun rimedio contro un
veleno così virulento; lo si può osservare specialmente nel bel sesso, che sebbene dotato in genere
dalla natura dei più ricchi doni, si vede guastate molte gioie da questa intrusa importuna. Ma quando
una sana filosofia prende possesso della mente, la superstizione ne è veramente esclusa; e si può ben
affermare che il suo trionfo sopra questa nemica è più completo che non sui molti difetti e
imperfezioni della natura umana. Amore e ira, ambizione e avarizia hanno la loro radice nel carattere
e negli affetti, e perfino la più sana ragione è appena capace di correggerli dei tutto; ma la
superstizione, fondata com’è su false opinioni, deve subito dileguarsi non appena la vera filosofia
ispiri più giusti sentimenti circa i poteri superiori. La contesa fra il male e la medicina è qui ad armi
pari, e nulla può impedire a quest’ultima di riuscire efficace, se non è falsa e sofisticata.
Sarebbe superfluo esagerare i meriti della filosofia, sottolineando la perniciosa tendenza di questo
vizio ch’essa sradica dalla mente umana. L’uomo superstizioso, dice Tullio1, è infelice in ogni
occasione, in ogni frangente della vita; perfino il sonno, che libera da tutte le cure gli infelici mortali, è
per lui causa di nuovo terrore; egli esamina i suoi sogni e trova nelle visioni notturne pronostici di
future calamità. Potrei aggiungere che sebbene la morte soltanto possa porre fine alle sue miserie, egli
non osa rifugiarvisi; prolunga la sua miserevole esistenza, vanamente temendo che offenderebbe il
creatore, se usasse il potere di cui questo benefico essere lo ha dotato. I doni di Dio e della natura ci
sono rapiti da questa nemica crudele; e sebbene un sol passo possa trarci in salvo dalla pena e dal
dolore, le sue minacce ci incatenano all’odiata esistenza, che essa soprattutto contribuisce a render
miserevole.
Si è osservato che coloro i quali, a causa delle calamità della vita, debbono ricorrere a questo fatale
rimedio – se l’inopportuna cura degli amici li salva dalla morte che avevano scelto di fare – raramente
ritentano, o ritrovano, per la seconda volta tanta risolutezza da mettere in pratica il loro proposito.
1 Cicerone, Sulla divinazione, II, 72, 150.
Ed il nostro orrore della morte è tale, che quando questa ci si presenta sotto qualsiasi forma, diversa
da quella con la quale ci siamo sforzati di riconciliare la nostra immaginazione, un nuovo terrore
l’accompagna e sopraffà il nostro debole coraggio: ma quando le minacce della superstizione si
aggiungono alla timidezza naturale, non è meraviglia che privino gli uomini d’ogni potere sulla loro
vita; infatti anche molti piaceri e molte gioie, cui siamo fortemente inclinati, ci sono sottratti da
questa tiranna inumana. Permetteteci dunque di restituire gli uomini alla loro nativa libertà,
esaminando gli argomenti correnti contro il suicidio, e mostrando che quest’azione può essere
scagionata da ogni imputazione o accusa, conformemente all’opinione di tutti gli antichi filosofi.
Se il suicidio fosse un delitto, dovrebbe essere una trasgressione del nostro dovere verso Dio, il
prossimo, o noi stessi. Per provare che il suicidio non è una trasgressione del nostro dovere verso
Dio, possono forse bastare le con siderazioni seguenti. Per governare il mondo materiale,
l’onnipotente creatore ha istituito leggi generali e immutabili che conservano tutti i corpi, dai pianeti
più grandi alle più piccole particelle di materia, nella loro sfera e nella loro funzione. Per governare il
mondo animale ha dotato tutte le creature viventi di poteri fisici e mentali: sensi, passioni, desideri,
memoria e discernimento, dai quali le creature stesse sono spinte e guidate nel corso della vita cui
sono destinate. Questi due princìpi distinti del mondo materiale e animale interferiscono
continuamente l’uno con l’altro, si limitano o si rafforzano a vicenda nel loro agire. I poteri degli
uomini e di tutti gli altri animali sono governati e diretti dalla natura e dalle qualità dei corpi
circostanti; e le modificazioni e azioni di questi corpi sono incessantemente alterate dall’interazione
di tutti gli animali. L’uomo, quando percorre la superficie terrestre, è ostacolato dai fiumi; e i fiumi,
opportunamente sfruttati, forniscono forza per muovere macchine che servono all’uomo. Ma
sebbene i domìni dei poteri materiali e animali non siano del tutto distinti, non ne risulta alcuna
discordia o disordine nel creato; anzi, dalla mescolanza, dall’unità e dal contrasto dei vari poteri dei
corpi inanimati e delle creature viventi, sorge una sorprendente armonia e proporzione, che offre la
più sicura riprova della suprema saggezza. La provvidenza della divinità non affiora immediatamente
in ogni operazione, ma governa ogni cosa con le leggi generali e immutabili istituite fin dall’inizio dei
tempi. Tutto ciò che accade si può dire, in certo modo, opera dell’onnipotente; tutto dipende dai
poteri di cui egli ha dotato le sue creature. Una casa che cade per il suo stesso peso non è ridotta in
rovina dalla provvidenza divina, più di quanto non lo sia una distrutta dalla mano dell’uomo; né le
facoltà umane sono opera sua meno delle leggi del moto e della gravitazione. Le passioni che seguono
il loro corso, il giudizio che ci guida, le membra che ubbidiscono sono tutti opera di Dio, e su questi
princìpi del mondo animato, come su quelli del mondo inanimato, egli ha fondato il governo
dell’universo. Ogni avvenimento è ugualmente importante agli occhi dell’essere infinito che abbraccia
con un solo sguardo le più lontane regioni dello spazio e le più remote età del tempo. Non esiste
alcun evento, per quanto importante per noi, che egli abbia sottratto alle leggi generali dell’universo o
abbia particolarmente riservato alla propria azione immediata. Le rivoluzioni degli stati e degli imperi
dipendono dal minimo capriccio o dalla passione di un uomo; e la vita degli uomini è resa più breve o
più lunga dai minimi accidenti dell’aria o della dieta, dallo splendore del sole o dalla tempesta. La
natura procede sempre nel suo corso e nella sua opera, e se le leggi generali talvolta sono infrante dal
volere della divinità, ciò accade in un modo che sfugge completamente all’osservazione dell’uomo.
Come, da un lato, gli elementi e le altre parti inanimate del creato compiono la loro opera senza alcun
riguardo al particolare interesse e alla particolare situazione degli uomini, cosi gli uomini debbono
affidarsi al proprio giudizio e alla propria discrezione nella lotta contro la materia, e possono usare
ogni facoltà di cui sono dotati per provvedere alla propria comodità, felicità e salvezza.
Che cosa significa dunque l’opinione che un uomo, il quale, stanco della vita e perseguitato dai
dolori e dalle miserie, vinca coraggiosamente i terrori naturali della morte ed esca da questa scena
crudele; che un tale uomo, dico, incorra nell’indignazione del creatore per aver violato l’opera della
provvidenza e turbato l’ordine dell’universo? Dobbiamo noi ritenere che l’onnipotente abbia
riserbato per sé in particolare il potere di disporre della vita degli uomini, e non abbia sottoposto
questo evento, come tutti gli altri, alle leggi generali dell’universo? Affermare questo sarebbe
affermare il falso; la vita degli uomini è soggetta alle stesse leggi cui è soggetta la vita di tutti gli altri
animali; e tutte queste esistenze sono soggette alle leggi generali della materia e del moto. La caduta
di una torre o un infuso di sostanze velenose distruggeranno un uomo come la più meschina creatura,
un’inondazione porta via indistintamente tutto ciò che trova alla portata della sua furia.
Se dunque la vita degli uomini dipende dalle leggi generali della materia e del moto, è forse
criminale un uomo che dispone della sua vita, perché in ogni modo è criminoso violare queste leggi o
turbarne l’azione? Ma ciò pare assurdo; gli animali sono affidati alla propria prudenza e capacità per
condursi nel mondo, ed hanno ogni diritto di alterare le operazioni della natura, nella misura in cui
possono farlo. Senza esercitare questo diritto non potrebbe sussistere neppure un momento; ogni
azione, ogni movimento di un uomo muta l’ordine di qualche parte della materia, e svia dal loro corso
ordinario le leggi generali del moto. Mettendo insieme queste conclusioni, troviamo dunque che la
vita umana dipende dalle leggi generali della materia e del moto, e che disturbare o alterare queste
leggi generali non significa usurpare l’opera della provvidenza. Non può ciascuno disporre dunque
liberamente della propria vita? E non può legittimamente usare la facoltà di cui la natura lo ha
dotato? Per distruggere l’evidenza di questa conclusione, dovremmo addurre un motivo che
giustificasse un’eccezione relativa a questo caso particolare; forse perché la vita umana è così
importante, è presunzione per la prudenza umana disporne? Ma per l’universo la vita di un uomo
non è più importante di quella di un’ostrica. E se anche fosse molto importante, l’ordine della natura
umana l’ha sottoposta alla prudenza umana, e ci costringe a prendere decisioni in ogni circostanza.
Se disporre della vita umana fosse una prerogativa peculiare dell’onnipotente, al punto che per gli
uomini disporre della propria vita fosse un’usurpazione dei suoi diritti, sarebbe egualmente
criminoso salvare o preservare la vita. Se cerco di scansare un sasso che mi cade sulla testa, disturbo
il corso della natura e invado il dominio peculiare dell’onnipotente, prolungando la mia vita oltre il
periodo che, in base alle leggi generali della materia e del moto, le era assegnato.
Un capello, una mosca, un insetto può distruggere questo essere potente, la cui vita è tanto
importante. È assurdo supporre che la prudenza umana abbia legittima facoltà di disporre di ciò che
dipende da cause così insìgnificanti? Non sarebbe un delitto per me deviare il Nilo o il Danubio dal
loro corso, se fossi capace di farlo. È dunque un delitto distogliere dai loro canali naturali poche once
di sangue? Immaginate che mi lamenti della provvidenza o maledica il fatto d’esser stato creato
semplicemente perché abbandono la vita, e pongo termine a un’esistenza che, se dovesse continuare,
mi renderebbe miserabile? Lungi da me tali sentimenti; sono soltanto convinto di un fatto, che voi
stessi potete ben considerare plausibile: la vita umana può essere infelice, e la mia esistenza,
prolungata più a lungo, può diventare insopportabile. Ma ringrazio la provvidenza sia del bene che
ho già goduto, sia della facoltà di fuggire il male che mi minaccia2. Lagnarsi della provvidenza è affar
vostro, se ritenete stoltamente di non avere tale potere, e di dover ancora prolungare una vita odiosa,
piena di pene ed infermità, vergogne e miserie.
Non insegnate forse che se un male mi colpisce, sia pure per la malvagità dei miei nemici, debbo
rassegnarmi alla provvidenza, e che le azioni degli uomini sono opera dell’onnipotente così come
quelle degli esseri inanimati? Quando mi getto sulla punta della mia spada ricevo dunque la morte
dalla divinità, come se la ricevessi da un leone, da un precipizio, da una febbre. La sottomissione alla
provvidenza, che esigete in ogni calamità che mi colpisce, non esclude l’uso della perizia e
dell’industria umana, che rendessero possibile evitare o fuggire la calamità stessa. E perché dovrei
adottare un certo rimedio anziché un altro? Se la mia vita non fosse del tutto mia, sarebbe delittuoso
per me sia porla in pericolo, sia disporne. Come non può meritare il nome di eroe un uomo che per
amor di gloria o per amicizia si esponesse ai più gravi pericoli, così non merita l’insulto di miserabile
o scellerato un altro che pone termine alla propria vita per gli stessi o per simili motivi.
2 ‘Ringraziamo Dio che nessuno può tenerci in vita’: Seneca, Lettera a Lucilio, 12.
Non esiste essere dotato di poteri o facoltà che non ne sia debitore al suo creatore; non ne esiste
alcuno che possa compiere un’azione così irregolare da interferire con i disegni della provvidenza o
scardinare l’universo. Le azioni di ciascun individuo sono dovute al creatore, come pure la catena di
eventi con la quale l’individuo interferisce; e se un elemento prevale, dobbiamo trarne la conclusione
che è prescelto da Dio. Si tratti di un essere animato o inanimato, ragionevole o irragionevole, non
importa: il suo potere deriva dal supremo creatore e rientra nell’ordine della divina provvidenza.
Quando la ripugnanza dal dolore prevale sull’amore della vita, quando un atto volontario anticipa gli
effetti di cause cieche, ciò è soltanto una conseguenza dei poteri e principi che l’onnipotente ha
posto nelle sue creature. La divina provvidenza resta inviolata, ben al di là dei misfatti umani. È
un’empietà, dice la vecchia superstizione romana3, deviare i fiumi dal loro corso, usurpare le
prerogative della natura. È un’empietà, dice la superstizione francese, innestare il vaiuolo, o usurpare
l’opera della provvidenza provocando volontariamente affezioni o malattie. È un’empietà, dice la
moderna superstizione europea, porre fine alla nostra vita e ribellarsi in tal modo al creatore; e
perché non è un’empietà dico io, costruire case, coltivar la terra, o navigare sul mare? In tutte queste
azioni noi usiamo le nostre facoltà fisiche e morali per mutare il corso della natura; in nessuna di esse
facciamo nulla di più. Sono dunque tutte egualmente innocenti o egualmente delittuose. Ma la
provvidenza ti ha affidato, come ad una sentinella, una certa postazione, e quando la diserti senza
esserne richiesto sei reo di ribellione contro il tuo onnipotente sovrano e incorri nella sua collera.
Mi domando: perché ritenete che la provvidenza mi abbia posto in questo luogo? Per parte mia,
trovo che debbo la mia nascita ad una lunga catena dì cause, molte delle quali dipendono dalle azioni
volontarie degli uomini. Ma la provvidenza guida tutte queste cause, e nulla accade nell’universo
senza il suo consenso e la sua cooperazione. Se è così, neppure la mia morte, per quanto volontaria,
accade senza il suo consenso; e quando le pene e i dolori sopraffanno la mia pazienza al punto da
rendermi stanco della vita. posso concludere che sono richiamato dal luogo in cui sono stato posto,
nei termini più chiari ed espliciti. Certo, è la provvidenza che mi ha posto in questo momento in
questa stanza; ma non la posso lasciare quando voglio, senza correre il rischio di essere accusato di
diserzione? Quando sarò morto, gli elementi dei quali sono composto avranno ancora la loro
funzione nell’universo, saranno egualmente utili nella grande fabbrica come quando componevano
questa creatura. La differenza, rispetto al tutto, non sarà più grande di quella che corre fra l’essere in
una camera o all’aria aperta. Per me il cambiamento è importante, ma non lo è per l’universo.
3 Tacito, Annali, I, 79.
È blasfemo immaginare che un essere creato possa disturbare l’ordine del mondo o interferire con
l’opera della provvidenza! Ciò implicherebbe che quest’essere disponesse di poteri e facoltà non
dovuti al suo creatore e non subordinati al dominio ed all’autorità di questo. Senza dubbio un uomo
può disturbare la società e incorrere nella collera dell’onnipotente: ma il governo del mondo è al di là
della sua portata e lungi dalla sua violenza. E come sappiamo se l’onnipotente è offeso dalle azioni
che disturbano la società? Ce ne accorgiamo dai princìpi che ha posto nella natura umana, che ci
ispirano rimorso se siamo colpevoli di tali azioni, biasimo e disapprovazione se le osserviamo negli
altri. Esaminiamo ora, secondo il metodo proposto, se il suicidio appartenga a questo genere di
azioni, e se infranga gli obblighi che abbiamo verso il nostro prossimo e la società.
Un uomo che abbandona la vita non nuoce alla società: cessa soltanto di fare del bene; ma se
questo è un delitto, è ben lieve. Tutti i nostri obblighi di far del bene alla società sembrano implicare
una reciprocità. Ricevo benefizi dalla società e perciò debbo promuoverne gli interessi; ma quando
mi ritiro dei tutto dalla società, posso avere ancora obblighi verso di essa? Ma anche ammettendo
che i nostri obblighi di far del bene fossero perpetui, debbono certo avere dei limiti; io non sono
obbligato a fare un piccolo bene alla società a spese di un gran danno personale. Perché dunque
dovrei prolungare una miserevole esistenza per qualche futile vantaggio, che il pubblico potrebbe
forse ricevere da me? Se per l’età avanzata e le infermità mi è lecito lasciare ogni ufficio o dedicarmi
tutto alla difesa dalle calamità, ad evitare per quanto è possibile le miserie dell’avvenire, perché non
farla finita subito con un atto non dannoso per la società?
Ma supponete che io non sia più in grado di agire nell’interesse della società; supponete che sia
soltanto un peso; supponete che la mia vita impedisca ad altre persone di essere utili alla società. In
tali casi la mia rinunzia alla vita può essere non solo innocente, ma lodevole. E la maggior parte delle
persone tentate di abbandonare l’esistenza si trovano in una situazione del genere; coloro che hanno
salute, potere, autorità, hanno in genere ragioni migliori di trovarsi bene a questo mondo.
Un uomo partecipa ad una cospirazione in nome del pubblico interesse; si comincia a sospettare
di lui; è minacciato di tortura, e sa che per la sua debolezza il segreto gli sarà estorto. Può un tale
uomo perseguire l’interesse pubblico meglio che ponendo rapida fine ad una vita miserabile? Tale fu
il caso del famoso e coraggioso Strozzi di Firenze. Ancora, supponete che un malfattore sia
giustamente condannato a una morte vergognosa; si può immaginare per quale ragione non debba
anticipare la punizione e risparmiarsi le angosce del suo pauroso approssimarsi? Egli cosi non
interferisce con l’opera della provvidenza più di quanto non faccia il magistrato che ordina
un’esecuzione; e la sua morte è egualmente vantaggiosa alla società perché la libera di un membro
pernicioso. Nessuno può negare che questo suicidio può spesso coincidere con il nostro interesse e
con il dovere che abbiamo verso noi stessi, se si ammette che l’età, le malattie o le sventure possono
far della vita un peso, e renderla anche peggiore dell’annichilimento. Io credo che nessun uomo abbia
mai fatto getto della vita, finché valeva la pena di conservarla. Perché è tale il nostro orrore naturale
per la morte, che motivi troppo lievi non potranno mai riconciliarci con essa; e se anche le condizioni
di salute o fortuna di un uomo non sembrano richiedere tale rimedio, possiamo per lo meno esser
certi che chi vi abbia fatto ricorso senza ragioni apparenti era affetto da un’incurabile depravazione o
tristezza di carattere, che gli avvelenava ogni gioia e lo rendeva infelice come se avesse subìto le più
gravi disgrazie. Se si suppone che il suicidio sia un delitto, soltanto la codardia ci potrebbe spingere a
commetterlo. Se non è un delitto, il coraggio e la prudenza insieme dovrebbero indurci a liberarci
dell’esistenza non appena diventasse un peso. È l’unico modo di essere utili alla società, dando un
esempio che, imitato, riserverebbe a ciascuno la sua parte di felicità nella vita e lo libererebbe da tutti
i rischi dell’infelicità4
4 Sarebbe facile dimostrare che il suicidio è legittimato dalla religione cristiana, come pure da quella pagana. Non
c’è un sol testo della Scrittura che lo proibisca. La grande e infallibile prova della fede e della pratica, che sottopone a
esame ogni filosofia ed ogni umano raziocinio, afferma che noi siamo completamente liberi in questo caso. Tuttavia la
Scrittura raccomanda la rassegnazione alla provvidenza: ma ciò riguarda soltanto i mali irrimediabili, non quelli che
possono essere evitati con la prudenza e con il coraggio. Non uccidere, è un comandamento che riguarda solo l’uccidere
altri, sui quali non abbiamo autorità. Che questo precetto, come molti altri precetti della Scrittura, debba esser
modificato dalla ragione e dal senso comune, è reso evidente dal comportamento dei magistrati, che puniscono di morte
i criminali nonostante la lettera del comandamento. Ma se tale comandamento dovesse valere contro il suicidio, non
avrebbe più autorità: perché tutte le leggi di Mosè sono abolite, con l’eccezione di quelle che trovano conferma nella
legge naturale. E noi abbiamo cercato di provare che il suicidio non è proibito dalla legge di natura. Ad ogni modo,
cristiani e pagani si trovano esattamente sullo stesso piano; Catone e Bruto, Arria e Porzia agirono eroicamente; chi
oggi li imitasse verrebbe lodato egualmente dai posteri. Plinio pensa che la facoltà di suicidarsi sia un vantaggio che
rende l’uomo superiore agli dei: ‘Anche se vuole, Dio non può mettere se stesso a morte, che è la migliore delle cose
che Egli a dato agli uomini, tra le tante sofferenze della vita’: Storia naturale, lib. II, cap. 5.
Lettera di Piergiorgio Welby
al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano:
Caro Presidente,
scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità di ascoltare
queste mie parole, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile
per questo nostro Paese.
Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per
qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche,
incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita.
La giornata inizia con l’allarme del ventilatore polmonare mentre viene cambiato il filtro
umidificatore e il catheter mounth, trascorre con il sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni
delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni,
bevute di pulmocare. Una volta mi alzavo al più tardi alle dieci e mi mettevo a scrivere sul pc. Ora la
mia patologia, la distrofia muscolare, si è talmente aggravata da non consentirmi di compiere
movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario. A mezzogiorno con l’aiuto di mia
moglie e di un assistente mi alzo, ma sempre più spesso riesco a malapena a star seduto senza aprire
il computer perchè sento una stanchezza mortale. Mi costringo sulla sedia per assumere almeno per
un’ora una posizione differente di quella supina a letto. Tornato a letto, a volte, mi assopisco, ma mi
risveglio spaventato, sudato e più stanco di prima. Allora faccio accendere la radio ma la ascolto
distrattamente. Non riesco a concentrarmi perché penso sempre a come mettere fine a questa vita.
Verso le sei faccio un altro sforzo a mettermi seduto, con l’aiuto di mia moglie Mina e mio nipote
Simone. Ogni giorno vado peggio, sempre più debole e stanco. Dopo circa un’ora mi accompagnano
a letto. Guardo la tv, aspettando che arrivi l’ora della compressa del Tavor per addormentarmi e non
sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina. Io amo la vita, Presidente. Vita è la
donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è
anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un
malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più
vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il
mio corpo non è più mio ... è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Montanelli mi
capirebbe. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono
italiano e qui non c’è pietà.
Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una “morte dignitosa”. No, non si tratta di
questo. E non parlo solo della mia, di morte.
La morte non può essere “dignitosa”; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in
special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili.
La morte è altro. Definire la morte per eutanasia “dignitosa” è un modo di negare la tragicità del
morire. È un continuare a muoversi nel solco dell’occultamento o del travisamento della morte che,
scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei
gerontocomi, appare essere ciò che non è. Cos’è la morte? La morte è una condizione indispensabile
per la vita. Ha scritto Eschilo: “Ostico, lottare. Sfacelo m'assale, gonfia fiumana. Oceano cieco,
pozzo nero di pena m'accerchia senza spiragli. Non esiste approdo”.
L’approdo esiste, ma l’eutanasia non è “morte dignitosa”, ma morte opportuna, nelle parole
dell’uomo di fede Jacques Pohier. Opportuno è ciò che “spinge verso il porto”; per Plutarco, la
morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto e Leopardi la definisce il
solo “luogo” dove è possibile un riposo, non lieto, ma sicuro.
In Italia, l’eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non “esista”: vi sono richieste di eutanasia
che non vengono accolte per il timore dei medici di essere sottoposti a giudizio penale e viceversa,
possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso informato di pazienti coscienti. Per esaudire
la richiesta di eutanasia, alcuni paesi europei, Olanda, Belgio, hanno introdotto delle procedure che
consentono al paziente “terminale” che ne faccia richiesta di programmare con il medico il percorso
di “approdo” alla morte opportuna.
Una legge sull’eutanasia non è più la richiesta incomprensibile di pochi eccentrici. Anche in Italia,
i disegni di legge depositati nella scorsa legislatura erano già quattro o cinque. L’associazione degli
anestesisti, pur con molta cautela, ha chiesto una legge più chiara; il recente pronunciamento dello
scaduto (e non ancora rinnovato) Comitato Nazionale per la bioetica sulle Direttive Anticipate di
Trattamento ha messo in luce l’impossibilità di escludere ogni eventualità eutanasia nel caso in cui il
medico si attenga alle disposizioni anticipate redatte dai pazienti. Anche nella diga opposta dalla
Chiesa si stanno aprendo alcune falle che, pur restando nell’alveo della tradizione, permettono di
intervenire pesantemente con le cure palliative e di non intervenire con terapie sproporzionate che
non portino benefici concreti al paziente. L’opinione pubblica è sempre più cosciente dei rischi insiti
nel lasciare al medico ogni decisione sulle terapie da praticare. Molti hanno assistito un famigliare, un
amico o un congiunto durante una malattia incurabile e altamente invalidante ed hanno maturato la
decisione di, se fosse capitato a loro, non percorrere fino in fondo la stessa strada. Altri hanno
assistito alla tragedia di una persona in stato vegetativo persistente. Quando affrontiamo le
tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore
della vita e chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non morire. Chi condivide, con
amore, il percorso obbligato che la malattia impone alla persona amata, desidera la sua guarigione. I
medici, resi impotenti da patologie finora inguaribili, sperano nel miracolo laico della ricerca
scientifica. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il passare del tempo, le
speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa desiderio di abbreviare un percorso di
disperazione, prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione e i macchinari
che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a spostare sempre più in avanti nel tempo. Per
il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, verrà un giorno che dai centri di
rianimazione usciranno schiere di morti-viventi che finiranno a vegetare per anni. Noi tutti
probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è anche un processo di apprendimento,
e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza.
Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che “di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare
la sofferenza, ricorrendo perfino all'eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana,
dal concepimento al suo termine naturale”. Ma che cosa c’è di “naturale” in una sala di rianimazione?
Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine?
Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni?
Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori
artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morteartificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole,
ma non credo che per le stesse ragioni si possa “giocare” con la vita e il dolore altrui. Quando un
malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere
fine ad una sopravvivenza crudelmente ‘biologica’ – io credo che questa sua volontà debba essere
rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico. Sono
consapevole, Signor Presidente, di averle parlato anche, attraverso il mio corpo malato, di politica, e
di obiettivi necessariamente affidati al libero dibattito parlamentare e non certo a un Suo intervento o
pronunciamento nel merito. Quello che però mi permetto di raccomandarle è la difesa del diritto di
ciascuno e di tutti i cittadini di conoscere le proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite che,
come la mia, sono investite da questo confronto.
Il sogno di Luca Coscioni era quello di liberare la ricerca e dar voce, in tutti i sensi, ai malati. Il
suo sogno è stato interrotto e solo dopo che è stato interrotto è stato conosciuto. Ora siamo noi a
dover sognare anche per lui.
Il mio sogno, anche come co-Presidente dell’Associazione che porta il nome di Luca, la mia
volontà, la mia richiesta, che voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie è oggi
nella mia mente più chiaro e preciso che mai: poter ottenere l’eutanasia. Vorrei che anche ai cittadini
italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi.
Piergiorgio Welby
Data: 21 Settembre, 2006 - 12:00
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