Eutanasia L’eutanasia è un argomento di grande attualità che ormai da circa un decennio infiamma l’opinione pubblica nazionale. Questo termine, che suscita forti contrasti ogni volta che viene pronunciato, significa letteralmente porre fine alla vita di una persona, gravemente ammalata e incapace di sopportare oltre la sofferenza, attraverso la somministrazione di sostanze velenose che portano alla cosiddetta dolce morte. E’ una pratica non consentita nel nostro Paese che se attuata è perseguibile penalmente. Molti fatti che si sono manifestati durante questo decennio hanno portato l’eutanasia ad essere argomento quotidiano, tutti ne discutono e ci si chiede se si tratti di una pratica giusta o meno. Spesso non ci mettiamo nei panni di chi affronta la malattia ed una decisione di questo genere, è sicuramente non facile da prendere. L’eutanasia è nota nell’ordinario comune come suicidio assistito. Si tratta infatti di una tecnica medica che permette al paziente di decidere quando morire. Ovviamente parliamo di una pratica che può essere effettuata solo in estremi casi clinici, dove la morte è ormai un dato certo. Quando si è di fronte ad una malattia che non ti lascia scampo e ti impone un preciso tempo di vita sta a te decidere come affrontarlo. Davanti a questo bivio c’è chi decide di vivere e fare tutto ciò che non si è fatto in precedenza, altri scelgono semplicemente di godere dei propri cari fino al momento dell’addio, mentre alcuni preferiscono l’eutanasia come mezzo per andarsene dal mondo terreno. Molte volte , sopratutto nel nostro Paese, si cerca di tenere il paziente in vita per più tempo possibile e il più delle volte in coma. Su questa scelta incide inevitabilmente la nostra cultura. Noi abbiamo un’educazione di base cristiano cattolica che ci avverte che la sfera del razionale non spiega tutto, che la vita umana possiede un valore incommensurabile che nessun dolore può scalfire e un'aura misteriosa, ineffabile, sacra, di cui magari ci sfugge il senso, che soltanto oscuramente intuiamo. In alcuni momenti ci scopriamo a pensare, insomma, che non possiamo escludere l'esistenza di un Dio cui dobbiamo rendere conto e a cui dobbiamo la vita. Sentiamo il suicidio (e l'eutanasia è una forma di suicidio) come peccato. Fare una scelta non è, però, compito facile. Spesso la sintesi e l'equilibrio raggiunti sono provvisori e soggetti a ripensamenti. Il dolore e la morte, poi, sono temi con cui l'uomo contemporaneo non ama intrattenersi e preferisce rimuovere ed esorcizzare, evitando di pensarci. Paradossalmente ciò rende il nostro approccio a queste esperienze immaturo. Ripetute ricerche confermano, ad esempio, che i medici, in Italia in particolare, tendono a trattare il dolore fisico dovuto alle malattie in maniera inadeguata, irrazionale, "sottodosata". Altri studi sottolineano come l'esperienza della morte, sempre più spesso relegata nell'indifferenza di una corsia di ospedale, non sia mai stata così negata, respinta, impoverita come nelle moderne società. Ecco, forse essere a favore dell'eutanasia, della "buona morte", significa oggi principalmente ridare significato e dignità ad esperienze come il dolore, la morte, la solidarietà fra gli uomini. Significa farsi responsabile carico dei problemi generati dalla sofferenza dei malati terminali di cancro o di qualche altra grave patologia, di chi è costretto a condurre un'esistenza ai limiti dell’umano. Ma i distinguo da operare sono tanti e difficilissimo è generalizzare. Alla società vengono richiesti sensibilità e un diffuso e sviluppato senso di responsabilità. Le cose in questo ultimo decennio si stanno evolvendo, modificando, e l’eutanasia è già pratica medica legale in molti paesi Europei. Sull’eutanasia il discorso è molto più complesso del “vivere o morire” si tratta di affidare ad un individuo il diritto di poter decidere della propria vita. Il diritto che si vuole riconoscere è quello di permettere a ogni persona di indicare le cure e i trattamenti che ritiene accettabili per se stesso, se un giorno diventerà incapace di intendere e di volere. In altre parole, il diritto di richiedere ai medici la sospensione o la non attivazione di procedure e terapie anche nei casi più estremi e tragici di sostegno vitale, un diritto che oggi ogni paziente consapevole esercita attraverso il meccanismo del consenso informato, accettato da tutti e obbligatorio per legge. Per essere ancora più chiari, le direttive anticipate di vita, meglio conosciute come testamento biologico, e il rifiuto dell'accanimento terapeutico, altro non sono che un allargamento dello spazio di libertà individuale già sancito nel nostro Paese. Il fondatore del San Raffaele di Milano, Don Luigi Verzè, in un’intervista sull’argomento, precisa di essere contrario all'eutanasia ma sottolinea come sia necessario, quando "si e' tentato tutto" per salvare il malato, evitare l'accanimento terapeutico. "Vorrei essere chiaro sottolinea - sono contro l'eutanasia ovvero il 'fare' morire un paziente, magari per interrompere le sue sofferenze. Così come sono contro l'accanimento terapeutico ovvero il moltiplicarsi di cure e atti medici, a volte anche invasivi, che prolungano artificialmente la vita. Ritengo sia più giusto che quando si è tentato tutto, ma proprio tutto, i medici si arrendano, 'lascino' che la vita faccia il suo corso, che il malato torni fra le braccia del Padre, questo è un atto di amore e di responsabilità'. Non un atto medico contro la vita, ma la constatazione che l'uomo ha una sua dignità, soprattutto negli ultimi istanti della sua vita (…) Regolamentare questo argomento per legge e' impossibile, anche perché ogni caso è singolo ed irripetibile, come ogni uomo. Siamo in una zona grigia in cui la legge e le regole rischiano di peggiorare la situazione, di renderla sterile.” Tanti sono i casi che potremmo citare, forse, il più noto fra tutti è quello di Eluana Englaro, mantenuta in stato vegetativo permanente dal 1992, nonostante i ripetuti sforzi della famiglia per fare rimuovere il tubo dell'alimentazione e sospendere tutte le altre terapie, non giustificabili data l'impossibilità di guarigione o anche solo di un minimo miglioramento della ragazza. Ma pensiamo anche agli altri 1.500 corpi che, come lei, sono stati abbandonati da quello che possiamo definire vita, con funzioni vitali prolungate artificialmente solo attraverso l'ausilio di macchinari. Questo si chiama accanimento terapeutico, eppure se oggi un medico in Italia decidesse di staccare la spina, correrebbe il rischio di essere accusato di omicidio volontario. Di fronte a tutto questo non si può negare la necessità di una legge. Diritto o non diritto a morire come abbiamo notato è un argomento di difficile trattazione che sopratutto nel nostro Paese troverà risoluzione molto più in avanti con i tempi. Pedrotti Daniel, Leonardelli Simone 2CTE