03/11/2016 Referendum: il risultato non influenzerà l'economia A CURA DEL CENTRO STUDI CONFIMPRENDITORI CONFIMPRENDITORI a cura del CENTRO STUDI CONFIMPRENDITORI Referendum: il risultato non influenzerà l'economia 1. Introduzione Il referendum costituzionale che si svolgerà nei prossimi mesi rappresenta un fatto politico fondamentale per lo scenario politico italiano. Negare che il suo esito non influirà sugli andamenti finanziari nel breve periodo significherebbe sostenere il falso. L’esito del referendum rappresenta un rischio politico per i mercati internazionali perché a seconda del risultato cambieranno rapporti di forza ed equilibri parlamentari e governativi. Tuttavia da qui a sostenere, come argomentato dal Centro Studi di Confindustria (CSC), che una eventuale vittoria del “no” al referendum determinerebbe ricadute di lunga durata sull’economia reale è quantomeno azzardato. 2. L’analisi di Confindustria La vittoria del “no” causerebbe, secondo il CSC, “caos politico”, il che si tradurrebbe nelle seguenti variazioni di grandezze e parametri macroeconomici: aumento di 300 punti base del costo del servizio sui titoli a 10 anni; “difficoltà” di collocamento (non quantificato nei documenti); fuga di capitali dal paese (non quantificato nei documenti); -1% di propensione al consumo (per effetto crollo di fiducia); svalutazione dell’Euro (non quantificato). Per effetto della variazione di tali esogene, il PIL si contrarrebbe dello 0,7% nel 2017, dell’1,2% nel 2018, per poi virare in positivo nel 2019 (+0,2). Rispetto ad uno scenario tendenziale, ipotizzato in caso di vittoria del Sì al referendum, si tratta di una contrazione cumulata pari a circa 4 punti di PIL. La contrazione cumulata dell’investimento privato al 2019, rispetto allo scenario “vittoria del si”, sarebbe di circa 17 punti percentuali. Tutto ciò significherebbe, per il CSC e all’orizzonte 2019, una contrazione di reddito pro-capite pari a 589 euro, un aumento di poveri pari a 530 mila unità, circa 600 mila occupati in meno, un aumento di circa 12 punti percentuali nel rapporto tra debito pubblico e PIL (deficit al 4%). E’ difficile valutare la scientificità di tale previsione, poiché gli andamenti delle esogene non sono del tutto specificati, né chi scrive conosce la struttura del modello e la validità delle stime dei suoi parametri. Ciò che comunque colpisce è la volontà del CSC, o molto più probabilmente della Confindustria, di deviare dalla prassi prima richiamata, quella di convergere alle stime di altri.Una tale previsione potrebbe essere più il risultato di un atto politico che non di un esercizio scientifico emerge dall’unicità, e dall’opacità, dello scenario adottato per tradurre lo shock politico in variazioni delle esogene. Qualora si volesse, con un atto di estrema fiducia, ammettere che ciò sia ragionevolmente possibile, una linea ammissibile sul piano scientifico sarebbe quella di mostrare la sensibilità dei risultati del modello a diverse calibrazioni delle esogene e dei suoi parametri di interesse, ossia impostare un set di simulazioni di scenario. E’ difficile credere che il CSC, a differenza di altri studi in materia, abbia idee così chiare da ritenere superfluo produrre informazione su questi aspetti. Che il CSC abbia fatto un utilizzo politico del suo modello macroeconometrico è solo una possibilità, ma le sue predizioni potranno essere messe sul banco di prova a breve: con le statistiche sulla dinamica del commercio internazionale, già allo scadere del 2016, e nel caso di una vittoria del “no” al referendum, con l’andamento del costo del servizio del debito, dei consumi e del prodotto allo scadere del 2017. Tuttavia, dimostrare solo le debolezze del modello di Confindustria renderebbe questo studio parziale ed incompleto. Considerata l’enfasi del CSC sul ritorno ad uno scenario fosco e pericoloso, simile a quello che nel 2011 portò lo spread a livelli insostenibili, alle dimissioni per l’andamento dell’economia nazionale del governo Berlusconi e all’insediamento del governo tecnico, possiamo qui effettuare un confronto tra la situazione politica e macroeconomica di oggi con quella dell’epoca. 3. Il mancato collegamento tra riforme istituzionali ed economia reale. Il 2016 come il 2011? Due scenari molto diversi per indicatori, numeri e contesto. Per la nostra analisi mettiamo a confronto i dati economici del 2011 con quelli del 2016. Prendiamo come riferimento il 2011 perché è l’anno della crisi dei conti pubblici italiani e quello in cui andamento economico e pressioni internazionali hanno determinato le dimissioni del premier Berlusconi a favore del Governo tecnico di Mario Monti. Il 2011, dunque, si attaglia bene ad uno scenario simile a quello ipotizzato dal CSC nel caso di bocciatura del referendum con ricadute finanziarie, politiche ed economiche di medio-lungo periodo. Per questo lavoro di comparazione consideriamo sia variabili legate all’economia domestica che alcuni fattori economici internazionali. Debito Pubblico. Nel 2011 il debito pubblico è aumentato del 2,97% per una somma pari a 1.897.946 miliardi. Per quanto riguarda il saldo tra entrate e uscite la perdita è stata di 64 miliardi, con uscite che superavano i 500 miliardi. A metà del 2016 il livello del debito si assesta a circa 2.218 miliardi, mentre il saldo tra entrate e uscite registra un miglioramento con una perdita di solo 6,4 miliardi. Pil e rapporto deficit/pil. Nel 2011 la crescita del PIL è stata dello 0,4%, il rapporto debito/pil del 120,6%. Nel 2016 la crescita del PIL è quantificata 0,8%, mentre il rapporto debito/pil è cresciuto al 135,4% nel primo semestre. Il deficit di bilancio nel 2011 è stato del 3,9% mentre per il 2016 è previsto un 2,4%. Disoccupazione e consumi. Cinque anni fa il tasso di disoccupazione era pari all’8,9%, mentre oggi è pari all’11,7%. I consumi registrano un lieve aumento, nel 2011 la spesa media per famiglia era di 2488 euro mentre a luglio 2016 lo stesso dato registrava 2499 euro. Produzione industriale. Nel 2011 non si è registrate crescita della produzione industriale (0%) rispetto all’anno precedente. A luglio 2016, la crescita complessiva della produzione industriale da gennaio è stata dello 0,3%. Spread. Il 2011 è stato l’anno nero dello spread, cioè del rapporto tra titoli di Stato italiani e tedeschi. In questo periodo lo spread a raggiunto il suo massimo storico con 574 punti base e ha iniziato a scendere da Novembre 2011 al seguito dell’insediamento del governo Monti. Fino ad oggi nel 2016 lo spread non ha mai superato i 160 punti base. Questo dato così ribassato è dovuto anche all’effetto del quantitative easing prodotto dall’acquisto dei titoli di Stato da parte della BCE. Prezzo del petrolio. Dopo aver toccato i massimi storici poco oltre i 140 dollari al barile, nel 2014 viene inaugurata una nuova fase ribassista che ha portato il WTI a toccare i minimi a 27 dollari, visti l’ultima volta 13 anni prima. Nel 2016 il prezzo del petrolio non ha mai superato i 55 dollari al barile. Con gli anni le tecnologie sono avanzate e i costi di estrazione del petrolio sono diminuiti. Il boom della tecnica del fracking, che permette di perforare la roccia per l’estrazione del greggio, ha portato alla nascita dell’industria dello shale oil - che è cresciuta vertiginosamente in pochi anni. Il salto della produzione statunitense ha fatto sì che gli Stati Uniti non avessero più bisogno di comprare petrolio da altri Paesi per soddisfare il proprio fabbisogno domestico, innescando così un meccanismo ribassista e di squilibrio tra la domanda e l’offerta mondiale. Il basso prezzo del petrolio rappresenta un buon vantaggio economico soprattutto per i paesi importatori come l’Italia. 4. Conclusioni Cosa mostrano questi indicatori economici? Da un lato che le condizioni economiche generali dell’Italia non evidenziano una crescita sostanziosa né un netto miglioramento degli indicatori macroeconomici negli ultimi cinque anni. Dall’altro che alcune variabili prese in considerazione, come lo spread e il prezzo del petrolio fortemente ribassati, mostrano una maggiore stabilità rispetto al 2011 grazie a dinamiche economiche internazionali. Possiamo dunque concludere che, a livello internazionale, si è usciti dalla fase di recessione e che le forti instabilità sui mercati finanziari europei fronteggiate cinque anni fa sono per il momento state stabilizzate, allo stesso tempo però la crescita economica non sta arrivando (disoccupazione, produzione industriale, PIL) così come alcune variabili della finanza pubblica (debito pubblico record) del nostro Paese non sono in totale sicurezza e controllo. Resta ora un’ultima domanda da rispondere: possono tutte queste variabili macroeconomiche, dipendenti da fattori nazionali ed internazionali, essere influenzate dalla scelta politica dei cittadini italiani al referendum costituzionale? La risposta è no. Se vincesse il no al referendum, e si dimettesse il governo presieduto da Matteo Renzi, è probabile che per alcuni giorni i mercati internazionali possano dare segni di instabilità finanziaria. Tuttavia, ad ogni evento il mercato risponde positivamente o negativamente con oscillazioni, anche di una certa rilevanza, pressoché continue. Questo accade ogni volte che vengono comunicati i risultati delle competizioni elettorali delle maggiori democrazie occidentali così come a seguito di attacchi terroristici, catastrofi naturali e fatti geopoliticamente rilevanti. In questo caso parliamo di instabilità finanziaria e contrariamente a quanto sostenuto dal Centro Studi di Confindustria non crediamo affatto che un respingimento della riforma costituzionale da parte dei cittadini possa determinare effetti di medio-lungo periodo sull’economia reale. Ciò per un serie di motivi. Il primo è che nelle democrazie, ed in particolare nei regimi politici parlamentari come quello italiano, il respingimento di riforme istituzionali e formazione di nuovi governi sono una prassi perfettamente normale e consolidata. Quest’informazione è nota ai mercati e alle imprese. I primi non avrebbero interesse ad un’instabilità finanziaria prolungata (alzamento dello spread, taglio del rating del debito pubblico) in questo quadro macroeconomico europeo e per la bocciatura di una riforma priva di effetti sull’economia e la finanza. Le seconde non smetterebbero certo d’investire e produrre per la bocciatura di una legge costituzionale. Il secondo motivo è, come dicevamo, che lo scenario economico-finanziario è ben diverso, a livello macro, rispetto a situazioni come quella del 2011 in cui lo spread schizzò in alto minando la sanità dei conti pubblici italiani. L’azione della BCE, attraverso il quantitative easing, sta mantenendo basso lo spread e garantendo maggiore liquidità al sistema bancario. Il PIL aggregato dell’Unione Europea è passato dal -0,5% del 2010 al +1,8% del 2016. Oggi, inoltre, il livello del deficit italiano è sotto controllo e più basso rispetto al 3% del rapporto deficit/pil stabilito dai trattati europei e anche il PIL domestico, come si è visto, va leggermente meglio rispetto al 2011. Da ultimo, è crollata la pesante ipoteca sull’economia industriale del pezzo del petrolio che oggi è inferiore ai 50 dollari al barile, uno sconto non da poco per un Paese importatore come l’Italia. Il terzo, e ultimo motivo, è dato dall’osservazione della realtà con lenti comparate. La Spagna è senza un governo, dopo due elezioni, da oltre otto mesi eppure non c’è stata alcuna fibrillazione finanziaria significativa e ancor meno economica considerato che la crescita del PIL prevista per il 2016 è del 2,7%. Lo stesso Regno Unito, dopo alcuni giorni di perturbazione finanziaria a seguito di un evento storico dagli enormi riflessi politici come la Brexit, è andato verso una stabilizzazione sia del cambio della sterlina che dei propri titoli di Stato. Ad oggi ci sono opinioni diverse tra gli esperti sulle conseguenze economiche della Brexit, fatto ben più grave di una riforma costituzionale bocciata come potrebbe essere nel caso italiano, tuttavia anche le simulazioni peggiori (low-growth scenario) segnalano una massima perdita potenziale del PIL UK non superiore al 6,3% del PIL nei prossimi dieci anni mentre quelli più ottimistici (highgrowth scenario) prevedono un guadagno dal 3 al 5% del PIL nello stesso periodo grazie all’uscita dall’Unione Europea. Questi esempi servono a mostrare come legare l’andamento dell’economia reale all’esito di una riforma istituzionale e al prolungamento del governo in carica è palesemente una forzatura. Per recuperare credibilità e fiducia agli occhi degli investitori internazionali sarebbe, invece, opportuno concentrarsi su questioni economiche fondamentali come il livello di tassazione sulle imprese, l’equilibrio pensionistico, la spesa pubblica e la riduzione del debito. *I dati riportati sono stati prodotti da Istat, Banca d’Italia e Ministero dell’Economia e Finanza.