Il counseling e la relazione d’aiuto di Raffaella DiSavoia Da qualche tempo in Italia si sente parlare di una nuova figura professionale, il counselor: figura che s’inserisce in una vasta gamma di professionisti che operano nel campo dell’aiuto alla persona: psicologo, psicoterapeuta, psicanalista, psichiatra. Vorrei provare a definire in cosa consiste questa nuova professione, anche in riferimento alle altre figure che operano a diverso titolo nello stesso ambito. Da dove nasce la crescente domanda di figure professionali di questo tipo? Naturalmente non esiste una risposta univoca: la questione è estremamente ampia e sfaccettata, e necessariamente include elementi sociali, socio-culturali, antropologici. Vorrei però focalizzarmi su un aspetto particolare, che riguarda direttamente il counseling. Ovvero, e mi collego direttamente alle teorie di Maslow, l’uomo per sua natura ha dei bisogni: e sono proprio questi bisogni che lo spingono a progredire, a cercare di migliorare, a trovare soluzioni nuove. I bisogni umani sono progressivi: soddisfatto uno ne appare un altro, in una scala pressoché illimitata. Alla base, chiaramente, ci sono i bisogni fisiologici, primo fra tutti il bisogno di sopravvivere: ed è evidente che colui che deve lottare quotidianamente per procurarsi il cibo rivolge ogni sforzo, ogni azione, ogni pensiero al soddisfacimento di questo bisogno primario; questa è la sua priorità, ciò che lo spinge e lo motiva in ogni gesto. Soddisfatti i bisogni fisiologici, ne insorgono altri, ad esempio il bisogno di sicurezza: di avere un tetto sopra la testa, di essere protetto dalle intemperie, di sapere che la vita è ragionevolmente al sicuro. Anche qui, è chiaro che chi vive in un paese in guerra ha ben altre priorità che non andare dall’analista. E così via, appagato un bisogno ne emerge un altro: finché si arriva al momento in cui pare di avere tutto e questo, ritengo, è il punto che ci riguarda direttamente. Abbiamo cibo, vestiti, viviamo nel superfluo, in qualche modo abbiamo un lavoro, una casa, una famiglia, non ci manca niente ma non siamo soddisfatti. Abbiamo tutto ma qualcosa manca, e spesso non riusciamo nemmeno bene a capire cosa. L’essere umano per sua natura è insoddisfatto, aspira sempre a qualcosa d’altro, a qualcosa in più: appagati i bisogni di base, subentra quello che Maslow chiama bisogno di Autorealizzazione, ovvero il bisogno di realizzare se stessi, di esprimere la propria natura più vera, di sentire che ciò che facciamo ha un senso per noi. In altre parole, il bisogno di “diventare ciò che siamo”. Realizzare se stessi non ha a che vedere con fama, successo, o ricchezza. Realizzare se stessi significa espandere le proprie possibilità, essere protagonisti della propria vita, esprimere la propria unicità. La psicologia umanistica, in cui il counseling affonda le radici, sostiene che l’uomo tende spontaneamente alla crescita, all’espansione, allo sviluppo di sé; al centro di questa visione c’è l’essere umano e le sue potenzialità di crescita e di trasformazione, più forti di qualunque condizionamento. Il naturale processo di crescita a volte s’inceppa, subentrano ostacoli che impediscono l’espressione di sé. Ecco che si può avvertire la necessità di chiedere aiuto a qualcuno per capire, per cambiare, per superare un blocco, per indagare un’insoddisfazione: in una parola, per crescere. E credo che questa sia la domanda di fondo che spinge molte persone a rivolgersi ad un professionista, che sia uno psicologo, uno psicoterapeuta, o un counselor. Naturalmente, ci sono disagi profondi che hanno origini diverse, che richiedono interventi mirati e approfonditi, e che non sono di competenza del counselor. Di fatto, il counseling s’inserisce proprio in quest’area di crescita, di facilitazione allo sviluppo personale. Si usa dire che il counselor sia come una levatrice, cioè una figura che assiste un processo naturale, pronta ad intervenire con la sua esperienza e le sue capacità nel caso ci siano difficoltà o problemi: il processo è spontaneo, e la levatrice può solo guidarlo affinché le cose vadano nel modo migliore. Questo è un counselor: un professionista che facilita il naturale processo di crescita di un altro essere umano. Il counseling nasce attorno agli anni ’30 negli Stati Uniti, in risposta ad un problema specifico, ovvero il rientro in patria dei reduci di guerra. Questi uomini avevano subito traumi terribili, e si rese necessario offrire loro un sostegno efficace per superare quelle esperienze e reinserirli nella società: qui la figura del counselor trovò la sua prima collocazione. In breve tempo, il counseling si diffuse a macchia d’olio, e oggi è presente in tutti i paesi occidentali, dove ha trovato applicazioni diverse: nelle scuole, nelle comunità, nelle aziende, negli ospedali, e naturalmente in ambito privato. Gli ambiti d’intervento del counseling sono numerosissimi, e per questo lo si definisce una “professione trasversale”: perché le competenze di counseling possono essere applicate a qualunque attività che comporti contatto e relazione con altre persone. Il counseling, prima di essere qualunque altra cosa, è una relazione umana. Siamo continuamente in relazione, col partner, coi figli, con i genitori e gli amici; ma anche con il barista, il vicino di casa, la commessa del negozio. Ci sono vari livelli di relazione, e il counseling si propone di essere una relazione nel senso più alto del termine: un contatto fra due esseri umani, che s’incontrano nella loro essenza, nella loro profonda umanità. In counseling non trovano spazio giudizi, valutazioni, aspettative. Un counselor non dà consigli, direttive o interpretazioni: per quanto sincero e profondo sia lo sforzo di comprendere l’altro, in realtà solo la persona che ci sta davanti sa cosa è meglio per lei; solo lei può trovare la sua soluzione, la sua risposta. Al centro del rapporto di counseling c’è la persona, non il suo problema: c’è un essere umano che viene ascoltato e rispettato profondamente, nella sua totalità e unicità, e che viene “aiutato ad aiutarsi”, partendo dal presupposto che ha già in sé le risorse necessarie, e che occorre soltanto creare le condizioni per farle emergere. La competenza del counselor, quindi, è nella relazione umana. Per capire i limiti e le possibilità dell’intervento di counseling, occorre delineare le altre figure professionali che a diverso titolo operano in quest’ambito. Vediamole una per una: Psichiatra: è un laureato in medicina con specializzazione in psichiatria, e cura le malattie mentali con interventi di tipo farmacologico. Il suo ambito d’elezione sono le psicosi, sia quelle di origine organica che quelle di matrice funzionale, come la depressione psicotica, la schizofrenia, la psicosi maniaco-depressiva. Psicoterapeuta: è un laureato in psicologia o medicina che, dopo la laurea, ha conseguito una specializzazione quadriennale in una scuola riconosciuta. Cura il paziente con mezzi e strumenti diversi, a seconda della propria formazione: ad esempio, dialogo, lavoro corporeo, espressione artistica. Se non diversamente autorizzato non può somministrare farmaci. Fra gli psicoterapeuti - ovvero coloro che curano la psiche con mezzi non farmacologici - troviamo anche lo Psicoanalista / analista: cioè un professionista che, dopo la laurea, ha conseguito una specializzazione in psicoanalisi freudiana, post-freudiana o junghiana. Psicologo: è un laureato in psicologia che, dopo un anno di tirocinio, ha sostenuto l’esame di stato ed è iscritto all’albo dell’Ordine degli psicologi. Ha una vasta e approfondita formazione teorica che comprende, ad esempio, i processi di sviluppo affettivi, cognitivi e sociali, i processi di apprendimento, memoria e linguaggio, la psicopatologia; la sua formazione lo abilita a fare diagnosi, a somministrare test, a fare valutazioni, prevenzione e sostegno. Non può fare terapia, né somministrare farmaci. E il counselor? Il counselor ha seguito un corso di formazione teorico-pratico almeno triennale. È un esperto nella relazione d’aiuto, e non può fare terapia, né diagnosi, né prescrivere farmaci. La formazione di un counselor comprende tre aspetti diversi: Sapere: cioè la conoscenza teorica. Ovvero, un counselor acquisisce nozioni di psicologia, basate sul modello di riferimento di ogni singola scuola. Deve avere nozioni di psicopatologia, di psicologia generale e di psicologia dello sviluppo. Deve essere in grado di orientarsi nell’ambito delle teorie psicologiche. Saper fare: ovvero la pratica. Durante la formazione, il counselor impara e sperimenta concretamente come gestire le dinamiche interpersonali, come condurre un colloquio, come accogliere e rispecchiare il cliente, come leggere il linguaggio corporeo, come utilizzare le tecniche. Saper essere: questo è il punto più delicato, e riguarda la persona stessa del counselor, il suo grado di consapevolezza, le sue doti personali, il suo bagaglio di esperienza. Riguarda la capacità del counselor di essere in relazione con un’altra persona, e richiede innanzitutto di conoscere bene se stesso e le proprie dinamiche interiori. Il counselor potrà accompagnare il cliente verso una crescita solo nella misura in cui egli stesso avrà operato sul proprio sviluppo personale. Saper essere è il punto essenziale, nel counseling: la relazione profonda con un altro essere umano riguarda quello che si è, nell’intimo, non i libri letti né le tecniche apprese. Per questo, le scuole di formazione più serie puntano moltissimo sul lavoro di crescita personale degli allievi. Esistono alcuni requisiti fondamentali, che sono alla base del lavoro stesso del counselor: capacità di ascoltare: ascolto profondo significa essere completamente attenti alla persona che si ha davanti, accoglierla nella sua interezza, ascoltare con il cuore, mettendo da parte giudizi, valutazioni, opinioni. È un ascolto sincero e partecipato, una capacità di aprirsi e mettersi a disposizione dell’altro. capacità di empatia: ovvero cogliere e comprendere l’esperienza soggettiva dell’altro, mettendosi nei suoi panni, guardando le cose dal suo punto di vista. Non significa identificarsi con il cliente, né sovrapporre la propria esperienza alla sua. Significa sentire quello che sente l’altro, ma mantenendo la propria obiettività. capacità di accettazione incondizionata: rispettare ed accettare l’altro per quello che è, forse intravedendo quello che potrà diventare. Ogni persona è unica, ogni esperienza è unica, e va affrontata senza pregiudizi e senza generalizzazioni, senza risposte preconfezionate. Ascolto, empatia, accettazione, sono le parole fondamentali in counseling, e hanno molto a che vedere con quello che il counselor è, piuttosto che con quello che sa: spesso basta la sola presenza di una persona accogliente e accettante per iniziare un processo di cambiamento. Infine, un punto importante: come scegliere un professionista? Da chi farsi aiutare? In assenza di problematiche specifiche che richiedono un intervento mirato, e naturalmente dopo aver verificato la serietà e la preparazione del professionista, ritengo che la scelta vada fatta un po’ istintivamente. Ciò che davvero conta, in tutte queste professioni, è la relazione fra due esseri umani: quindi è importante percepire, a qualche livello, che quella particolare persona ci può aiutare. In queste professioni entra in campo l’essere umano, molto più delle sue tecniche o delle sue specializzazioni. Le credenziali, i titoli, le qualifiche, sono certamente importanti per garantire la serietà del professionista. Ma anche l’esperto più apprezzato può non essere adatto a tutti: occorre scegliere soprattutto la persona. Poi, starà alla coscienza ed al senso di responsabilità del professionista indirizzare chi gli si rivolge ad altre figure professionali se lo ritiene necessario o opportuno.