Layout 3 - Legambiente

annuncio pubblicitario
il libro
del
mare
in collaborazione con
il libro
del
mare
in collaborazione con
illibro
del
mare
testi
Roberto Giangreco
illustrazioni
Francesco Cometto
grafica
www.kromosoma.com
stampa
Grafiche Vieri
stampato in carta ecologica
2008 Legambiente
www.legambiente.eu
indice
prefazione
introduzione
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cap 1 elementi di ecologia
cap 2 elementi di oceanografia di base
i fattori abiotici
i fattori biotici
cap 3 caratteristiche degli ecosistemi marini
cap 4 gli ambienti del mare
cap 5 il Mediterraneo, le sue caratteristiche e specificità
cap 6 la prateria di posidonia
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cap 7 le coste
sistema dunale
macchia mediterranea
stagni salmastri e laghi costieri
cap 8 la pressione dell’uomo sugli ecosistemi marini
l’inquinamento
la pesca incontrollata e la pesca abusiva
il turismo selvaggio
la pressione sulle coste
cap 9 i cambiamenti climatici
il cambiamento climatico e il mare
la meridionalizzazione del Mediterraneo
la tropicalizzazione del Mediterraneo
l’invasione delle specie aliene
cap 10 il futuro che ci aspetta
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appendice
gli abitanti del mare
il mare d’inverno
attività per i ragazzi
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Il mare non è mai stato amico dell’uomo.
Tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza
(Joseph Conrad)
Vascelli pirati e mostri marini, terre di conquista e tesori da scoprire.
Il mare delle imprese avventurose di Conrad, delle fantastiche esplorazioni del Nautilus e del
suo Capitano, re dei nostri sogni di bambini, non più complice ma amico, oggi affida la sua
sorte proprio a noi.
Superate le ancestrali paure abbiamo imparato ad usarlo, talvolta nel peggiore dei modi.
Rubandogli l’ossigeno, uccidendo i suoi predatori, scaricando nei suoi fondali rifiuti di ogni genere.
Nel lungo viaggio di questi anni ho visto recuperare in pochi metri d’acqua le cose più
assurde. Lavatrici, pneumatici, motorini, batterie esauste, lattine e plastica ma anche armi, bombe
di profondità, siluri. Rifiuti che il tempo di una vita non riuscirà a cancellare, ma che in soli 50
anni attaccati dalla ruggine diventeranno pericolosi. Se è vero come dicono che la natura sviluppa
i suoi anticorpi e risponde ai veleni producendone di nuovi per difendersi, non voglio immaginare
cosa sarà il futuro del nostro pianeta blu.
Ma il mare come sta? Ci chiediamo in continuazione.
Sopravvive, rispondiamo. Anzi risponde agli sforzi che, grazie all’infaticabile missione di
associazioni ambientaliste come Legambiente a cui dobbiamo essere grati, sono stati fatti in
questi anni per la sua tutela.
Non c’è riserva o Area Marina Protetta dove l’effetto parco non abbia dato straordinari risultati.
La rete di Amp di cui il nostro Paese si è dotato ha confermato che la strada della tutela integrale
di alcune zone è quella giusta, moltiplicando in pochi anni la risorsa, reintroducendo specie
oramai scomparse, riproducendo l’indispensabile biodiversità.
Gestione integrata della fascia costiera, controllo della cementificazione, organismi di
coordinamento e controllo internazionali, rispetto delle regole internazionali e degli accordi siglati
dagli Stati più sensibili all’emergenza ambientale, sono le nuove sfide da sostenere.
Ho imparato in Galizia, durante il disastro del Prestige, che ognuno di noi deve fare la sua
parte. A Finisterre, Roberto Giangreco, in veste di esperto per il Servizio Difesa Mare del Ministero
dell’Ambiente, mi ha mostrato una piccola pallina nera galleggiante. Era una infinitesima parte
della marea nera che stava invadendo le coste spagnole, francesi e portoghesi, una minuscola
goccia di greggio che portata dalla corrente avrebbe potuto arrivare ovunque e come quella
milioni di altre. Anche quella andava rimossa e per farlo bastava una sola persona.
Li voglio vivi è un inno alla consapevolezza. È il risultato di una vita dedicata alla natura,
all’ambiente, al mare.
È il libro giusto per chi ha voglia di trovare la propria goccia di mare da difendere.
Donatella Bianchi
Giornalista, conduttrice di Linea blu
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Li Voglio Vivi compie dieci anni
Nel corso del tempo la campagna ha posto all’attenzione del grande pubblico e delle scuole l’affascinante mondo
del mare e delle coste italiane; ha cercato di presentarne, in modo divulgativo ma scientificamente corretto, un quadro
completo, partendo dalla storia naturale degli organismi che lo popolano e dalla descrizione dell’ambiente fisico, della
dinamica e del funzionamento degli ecosistemi marino-costieri, analizzando le minacce che ne mettono in pericolo la
sopravvivenza e gli scenari futuri che il cambiamento climatico prospetta al Mare Nostrum.
Per non disperdere il patrimonio di esperienza accumulato nel corso di questi anni, patrimonio che ha dimostrato
di essere ampiamente gradito ed apprezzato dai ragazzi e dagli adulti che sono entrati in contatto con questa campagna,
abbiamo pensato insieme al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, di raccogliere e riorganizzare
il materiale realizzato in un unico volume, che possa consentire al lettore di approfondire in modo sistematico la
conoscenza del nostro mare e delle nostre coste e di comprendere, oltre i pericoli che ne minacciano il futuro, anche
i comportamenti virtuosi che ognuno di noi potrà in prima persona praticare.
Allo scopo di approfondire le tematiche trattate, abbiamo pensato di integrare il testo con delle schede che
consentiranno di penetrare più a fondo i problemi del nostro mare e delle nostre coste, suggerendo percorsi di
sperimentazione seguendo la metodologia dell’inchiesta. Questo lo rende un utile strumento didattico a disposizione
di tutte quelle scuole che hanno seguito nel corso del tempo il nostro progetto.
Buona lettura!!
Sebastiano Venneri
Responsabile Mare Legambiente
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ELEMENTI DI ECOLOGIA
Il nostro pianeta brulica di vita che colonizza ogni spazio disponibile e che assume miriadi di forme tanto diverse
quanto affascinanti. Batteri, alghe, piante, microrganismi, molluschi, crostacei, vertebrati e l’uomo stesso dipendono
per la loro esistenza da fattori legati alla natura dell’ambiente in cui vivono e ai rapporti che instaurano tra loro. La
scienza che si occupa dello studio di queste relazioni si chiama ecologia.
L'ecosistema è alla base dello studio dell’ecologia e rappresenta proprio il sistema dei rapporti tra le comunità
viventi e il territorio che le ospita, quale che sia la sua dimensione. In un ecosistema abbiamo quindi due distinte
componenti che interagiscono strettamente tra loro: l’ambiente fisico o biotopo e l’insieme dei suoi abitanti, chiamato
biocenosi o comunità. Il biotopo è un ambiente delimitato da caratteristiche omogenee -come può essere ad esempio
un prato o uno stagno- ed è caratterizzato dal supporto inorganico (suolo, acqua) e da tutti gli aspetti chimico-fisici
(temperatura, luce, nutrienti) che ad esso sono collegati. Tutti gli esseri viventi che popolano un determinato biotopo
costituiscono pertanto nel loro insieme una comunità o biocenosi.
Il termine habitat è un’altra parola che indica l’ambiente fisico, ma è riferita ad una singola specie (ad esempio,
l’habitat del cavalluccio marino è la prateria di posidonia) quindi è come se fosse l’indirizzo in cui è possibile trovare
un determinato organismo, mentre in un biotopo troveremo numerose specie collegate tra loro.
Sia le singole componenti che l’intero ecosistema funzionano grazie alla presenza di una fonte di energia, che viene
trasformata e trasferita all’interno dell’ecosistema stesso, che si comporta quasi come una macchina il cui scopo è
produrre vita. Salvo poche eccezioni, la fonte di energia di un ecosistema è la luce solare, ma a volte l’energia necessaria
per consentire la sopravvivenza di un ecosistema è prodotta da reazioni chimiche, come nel caso dei batteri chemiotrofi,
che possono così vivere in ambienti privi di luce come gli abissi marini. L’energia proveniente dal sole viene catturata
mediante la fotosintesi dagli organismi autotrofi (chiamati anche produttori primari), ovvero le piante verdi e le alghe
che sono per questo alla base dell’intero ecosistema. L’energia catturata viene usata dalle piante per crescere,
immagazzinando il flusso proveniente dai raggi solari attraverso la produzione di glucosio e altre sostanze organiche,
a partire dall’anidride carbonica presente nell’aria o disciolta nell’acqua e utilizzando i minerali inorganici a disposizione.
Questa materia organica (biomassa) diventa quindi cibo per gli altri componenti del sistema: gli eterotrofi, cioè
organismi che non sono in grado di ottenere il loro fabbisogno di energia direttamente dal sole ma che devono quindi
cibarsi o di piante, come gli erbivori (chiamati quindi consumatori primari), oppure di altri animali come i carnivori (detti
invece consumatori secondari); un’ultima categoria è infine costituita dai decompositori che si cibano della materia
organica disciolta o dispersa nell’ambiente.
Questa struttura composta dagli organismi autotrofi e dai successivi livelli di organismi eterotrofi è chiamata struttura
trofica e ogni suo livello prende il nome di livello trofico. La struttura trofica è una caratteristica di tutti gli ecosistemi.
Il primo livello è costituito dalle piante o dagli altri produttori, che catturano l’energia e la immagazzinano sotto forma
di materia vivente. Il secondo livello dagli erbivori ed il terzo dai carnivori. Man mano che si passa da un livello all’altro
gran parte dell’energia viene persa attraverso il metabolismo degli organismi e la perdita di calore in una percentuale
che va dall’80 al 95% . La struttura trofica assume quindi una configurazione simile a una piramide a gradoni -per questo
chiamata piramide trofica- con gradoni che diventano sempre più piccoli procedendo verso l’alto, perché il flusso di
energia che passa da un livello inferiore al superiore può sostentare un numero di organismi molto minore. I carnivori
possono a loro volta essere preda di carnivori più grandi, i cosiddetti superpredatori (come leoni, lupi, aquile o squali)
che possono pertanto formare un quarto gradino, il più piccolo. In quest’ultimo gradino possiamo includere anche gli
onnivori, come l’uomo, che si nutrono sia di vegetali che di animali. A completare il funzionamento della struttura
trofica di un ecosistema troviamo i decompositori, che sono organismi (principalmente batteri) che si nutrono dei resti
la struttura
trofica di un
ecosistema
ha una
configurazione
simile a una
piramide a
gradoni
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l'ecosistema
è costituito
da biotopo
e biocenosi
il pesce
pagliaccio vive
in simbiosi con
l'anemone
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ELEMENTI DI ECOLOGIA
degli organismi vegetali e animali. I decompositori operano a tutti i livelli della piramide trofica
restituendo all’ambiente le sostanze organiche che verranno poi riutilizzate dalle piante dando
di nuovo avvio al ciclo.
Il trasferimento di energia all’interno di un ecosistema può seguire diversi percorsi; ogni
percorso che trasferisce energia a partire da una sorgente fotosintetica e attraverso una serie
successiva di livelli di consumatori (primari e secondari, cioè erbivori e carnivori) viene chiamato
catena alimentare. La combinazione di tutte le catene alimentari presenti in un ecosistema (un
piccolo gamberetto appartenente allo zooplancton può essere mangiato da una sardina come da
un grande squalo filtratore) è chiamata rete alimentare, che è quindi la somma di tutti i percorsi
che l’energia compie da un livello all’altro di una comunità o di un ecosistema.
Componenti abiotici indispensabili della struttura trofica sono una sorgente di energia (luce
solare o altro), i nutrienti inorganici e l’acqua. Gli organismi fotosintetici infatti non possono
fissare l’energia e produrre molecole organiche complesse senza la luce solare e senza i nutrienti
inorganici, come i nitrati e i fosfati, mentre l’acqua è indispensabile come mezzo in cui far
avvenire molte reazioni necessarie alla vita.
All’interno di un ecosistema, gli elementi chimici e i componenti organici che compongono
il corpo delle piante e degli animali sono continuamente in circolo tra l’ambiente esterno e gli
organismi stessi: il carbonio che le piante utilizzano per produrre glucosio durante la fotosintesi,
viene prelevato sotto forma di CO2 presente nell’aria o disciolta nell’acqua, e viene poi restituito
all’ambiente attraverso la respirazione o la decomposizione; l’ossigeno viene assunto
direttamente dall’aria o dall’acqua per la respirazione e reinserito nell’ambiente legato al carbonio
sotto forma di CO2; anche l’azoto, il fosforo e gli altri minerali utilizzati dagli organismi per le
complesse reazioni chimiche che sono alla base della vita, sono soggette a questo scambio. I
continui trasferimenti tra organismi e ambiente di queste sostanze vengono chiamati cicli chimici
(ciclo chimico del fosforo, ciclo chimico del carbonio…) e sono fondamentali per la sopravvivenza
dell’ecosistema.
L'ecosistema, con questa complessa struttura che abbiamo descritto, funziona quindi nel
suo insieme come una macchina che si basa su un equilibrio dinamico e che è dotata di capacità
di autoregolazione. Equilibrio dinamico vuol dire che un ecosistema subisce un continuo
cambiamento dettato dalla necessità di adattarsi ai diversi fattori ambientali, ai loro mutamenti
e alle interazioni tra questi e la grande quantità e varietà di specie animali e vegetali, in perenne
competizione per la conquista di spazi e risorse. Un ecosistema quindi, non rimane identico nel
tempo ma, per effetto delle stesse interazioni che si verificano tra i suoi componenti, è destinato
ad evolversi. Ogni ecosistema vive pertanto delle trasformazioni nel tempo, perché tende ad
adattarsi alle condizioni ambientali del momento. La sequenza delle trasformazioni
dell’ecosistema (parliamo di periodi di tempo molto lunghi, da decenni a millenni) costituisce
quella che viene chiamata successione ecologica, che tende a raggiungere prima o poi un punto
di stabilità quando l’ecosistema è in equilibrio stabile con quel tipo di condizioni climatiche e
fisiche, questo stadio finale è chiamato comunità climax.
Un ecosistema è in grado di reagire alle sollecitazioni esterne grazie alla sua capacità di
autoregolazione, ovvero la sua capacità di tamponare le variazioni determinate da fattori esterni,
ripristinando il suo equilibrio. Ciò naturalmente vale solo entro certi limiti e al di fuori di questi
l'equilibrio tra le componenti del sistema può spostarsi in modo irreversibile, determinando
l'alterazione o la morte dell'ecosistema stesso. Quando ad esempio una comunità viene alterata
dall’inquinamento, da un incendio, dalla scomparsa di una specie o dall’invasione di nuove
specie, si possono creare grandi cambiamenti nella sua struttura e nella sua capacità di interagire
con l’ambiente, che portano inevitabilmente al formarsi di nuove associazioni sia vegetali che
animali, generalmente molto differenti dalle preesistenti, spesso costituite da poche specie
dominanti, caratterizzate da una grande resistenza e adattabilità e dalla presenza di molti
individui. Questa nuova comunità, che nascendo a seguito di un trauma tende ad essere poco
stabile, troverà con il tempo un proprio equilibrio. Con il ripristinarsi delle condizioni originarie,
questa nuova associazione tenderà a recuperare la struttura e la condizione che aveva
precedentemente, che era funzionale alle condizioni fisiche in cui si era formata. Se però lo
stress iniziale è troppo forte, anche le grandi capacità di autoregolazione di un ecosistema sono
a quel punto vane per cui si arriverà inevitabilmente alla morte dell’ecosistema.
Tra gli organismi che compongono una biocenosi si instaurano relazioni che influenzano la
composizione e la struttura della comunità; tra queste riveste un ruolo fondamentale la
competizione che nasce dal fatto che le risorse alimentari e di spazio in un determinato habitat
non sono infinite e che le specie, quindi, dovranno competere tra loro per assicurarsele. La
competizione può avvenire tra individui di una stessa specie (competizione intraspecifica) o tra
specie diverse (competizione interspecifica) e può risolversi in diversi modi. Quello più cruento
consiste nella sopraffazione di una specie mediante l’eliminazione o l’allontanamento della specie perdente. Un tempo
si riteneva che questa risoluzione fosse la norma nella competizione, dando luogo al principio della sopravvivenza del
più forte, ora sostituito dal concetto di sopravvivenza del più adatto. Nella realtà non sempre le cose si concludono
attraverso un meccanismo di sopraffazione e molto più spesso le specie (o anche gli individui nel caso della
competizione intraspecifica), sotto la spinta della competizione, si diversificano e cercano di evitare la concorrenza
specializzandosi e creandosi una propria nicchia ecologica, termine con cui si definisce il ruolo di una specie nella
comunità. La nicchia ecologica costituisce pertanto l’insieme delle opportunità offerte ad una specie di accedere ad una
particolare risorsa alimentare o di spazio (luoghi di nidificazione, territori), evitando la concorrenza di altre specie.
Secondo una vecchia ma efficace definizione utilizzata in ecologia, che può servire a chiarire questo concetto, mentre
l’habitat è l’indirizzo di una specie, la nicchia ecologica rappresenta la sua professione all’interno dell’ecosistema. In
una biocenosi si avranno specie dominanti che per la loro importanza o per la loro numerosità caratterizzano l’intero
ecosistema -come ad esempio il bosco di faggio per la faggeta o la Posidonia oceanica per la prateria di posidonia- e
specie in cui il numero di individui è assai più basso, ma che sono tuttavia ugualmente importanti per l’equilibrio
dell’ecosistema stesso.
Le altre relazioni tra le specie sono basate sulla predazione, sul parassitismo -che in fondo è anch’esso una forma
di predazione e che consiste in un rapporto tra due specie, generalmente per scopi alimentari che alla fine porta alla
morte o al deperimento di uno dei due individui ad opera dell'altro- e su altre forme di relazioni via via più pacifiche
ed al contempo più complesse che vanno dall’inquilinismo, in cui due o più specie occupano pacificamente lo stesso
spazio, al commensalismo, che è un rapporto tra due o più specie in cui una guadagna molti benefici mentre le altre
non ne traggono particolari vantaggi o svantaggi. Riguardo il commensalismo in mare ne esistono moltissimi esempi,
basti pensare alle grandi spugne che al loro interno possono contenere più di mille individui: piccoli gamberetti,
gobidi, gasteropodi, ofiure e granchi, cui garantiscono protezione e rifugio. Passando attraverso vari stadi di
cooperazione sempre più complessi, si arriva alla simbiosi, che è una associazione tra specie da cui tutti traggono
reciproco vantaggio e di cui uno degli esempi più famosi è costituito dal rapporto tra il pesce pagliaccio e l’anemone
di mare. In questo caso infatti il pesce pagliaccio viene protetto dai predatori dalla barriera costituita dai tentacoli
urticanti dell’anemone, mentre questo ne riceve in cambio pulizia dai parassiti e residui alimentari. Esistono poi anche
altre relazioni che possono essere considerate di tipo più sociale, come il territorialismo, ovvero la difesa di un territorio
per scopi alimentari o di riproduzione da cui vengono scacciati gli intrusi della stessa specie, o la tendenza, molto diffusa
in mare, a formare raggruppamenti anche numerosissimi, allo scopo di difendersi dai predatori, o di facilitare il
reperimento del cibo (come avviene per i gruppi organizzati di cetacei quali orche o delfini) o anche per scopi
riproduttivi.
Ovviamente più gli elementi che compongono questo complesso equilibrio sono numerosi, più esso sarà solido e
stabile. Basti pensare ad uno sgabello: su uno a due gambe possiamo sederci solo se ci puntelliamo a qualcosa, uno
a tre gambe sarà indubbiamente molto più solido, uno con sei gambe ci sosterrebbe anche se una delle gambe venisse
segata via. Allo stesso modo funzionano gli ecosistemi, in cui le specie costituiscono le gambe dello sgabello; è per
questo che la biodiversità, che in pratica è il numero delle differenti specie che compongono un ecosistema, è così
importante: più specie sono presenti, più gambe sostengono lo sgabello, più questo sarà stabile e continuerà a
funzionare. Per questo motivo è così importante difendere la biodiversità del nostro pianeta, perché è su essa che si
regge lo sgabello che sostiene l’intera Terra.
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ELEMENTI DI OCEANOGRAFIA DI BASE
Studiando il mare, una delle cose più affascinanti è scoprire che i fattori alla base della vita nelle sue acque seguono
ovunque gli stessi principi e le stesse regole, tanto nelle calde acque della barriera tropicale quanto nelle gelide
profondità dell’Antartide. Questi fattori che regolano la formazione e lo sviluppo delle comunità viventi possono essere
suddivisi in due grandi gruppi, i fattori abiotici, non legati cioè direttamente alla vita, ed i fattori biotici.
L’insieme dei fattori abiotici e di quelli biotici determina la composizione degli ecosistemi e delle comunità marine.
I fattori abiotici
La temperatura: può variare dai - 2,5°C raggiunti in alcuni punti dei fondali oceanici, ai 30 e oltre delle barriere
coralline. Bisogna rammentare che ad eccezione degli uccelli, dei mammiferi marini e di alcuni pesci che sono a sangue
caldo o omeotermi, le creature marine sono generalmente ectoterme, ovvero a sangue freddo e quindi molto influenzate
dalla temperatura esterna. In mare troveremo organismi, detti euritermi, in grado di sopportare grandi variazioni di
temperatura ed altri, detti stenotermi, che invece possono sopravvivere solo in un piccolo intervallo di temperatura.
La salinità: l’acqua di mare contiene una percentuale di sali disciolti, in media 35 gr per litro, costituiti in gran
parte da cloruro di sodio (il comune sale da cucina); questa percentuale, pur essendo abbastanza costante, subisce
notevoli variazioni in presenza di estuari di fiumi o di acque basse soggette a forte evaporazione. Non tutti gli
organismi reagiscono a queste variazioni allo stesso modo; esistono specie eurialine in grado di tollerare variazioni
di salinità dell’acqua e specie stenoaline che invece tollerano intervalli molto ristretti di salinità. Esistono poi specie
in grado di passare indifferentemente da un ambiente salato a uno dolce, come i salmoni che nascono e si riproducono
in acqua dolce, ma trascorrono tutta la vita adulta in mare, o le anguille che fanno il percorso inverso, nascendo
nell’oceano e trascorrendo la vita adulta nelle acque dei fiumi e dei laghi. Le specie come i salmoni sono dette
anadrome, quelle come le anguille catadrome. Infine ci sono pesci come i cefali che vivono tra estuari, laghi costieri
e mare aperto e passano indifferentemente da un ambiente all’altro.
I gas disciolti: l’ossigeno e l’anidride carbonica, CO2, sono alla base della respirazione e della fotosintesi e quindi
indispensabili per la vita; la loro percentuale nell’acqua, che non è uniformemente diffusa dalla superficie al fondo e che
varia anche in funzione della temperatura, influenza la distribuzione degli organismi e la composizione delle comunità.
I nutrienti: le sostanze inorganiche come il fosforo e l’azoto servono agli organismi che si trovano alla base della
catena alimentare (i produttori primari, come le alghe e le piante superiori) per formare molecole complesse (nucleotidi,
aminoacidi e proteine) e creare la biomassa, riuscendo così a trasformare minerali inorganici, anidride carbonica e luce
del sole in sostanza organica, attraverso la fotosintesi.
La luce e la trasparenza dell’acqua: nell’acqua torbida può diminuire di molto la profondità raggiunta dai raggi solari;
la zona costituita dagli strati più superficiali della colonna d’acqua, dove c’è luce sufficiente per gli organismi vegetali
superiore, è chiamata zona eufotica e può giungere sino ad una profondità che va dai 40 – 50 m sino ai 100 m nei mari
più trasparenti. La zona fotica, dove c’è ancora un fievole barlume di luce, si spinge sino ai 200 m, mentre al di sotto di
questa si estende la zona afotica, il regno dell’oscurità perenne, dove non possono quindi sopravvivere gli organismi
produttori che si basano sulla fotosintesi per la produzione primaria. Gli organismi, in funzione del grado di tolleranza o
dipendenza dalla luce, possono a loro volta essere suddivisi in fotofili -termine che alla lettera significa amanti della lucee sciafili, ovvero specie che preferiscono minore quantità di luce se non addirittura il buio vero e proprio.
La pressione: in superficie è di 1 atmosfera e aumenta di una ogni 10 metri di profondità (questo vuol dire che a
1.000 metri di profondità avremo una pressione di 101 atmosfere, sufficiente a schiacciare anche un sottomarino). Le
specie che vivono alle profondità abissali sono prive di vesciche natatorie (quindi prive di spazi contenenti gas al loro
interno) e riescono così a sopportare la grande pressione, poiché i loro liquidi corporei e i tessuti sono incomprimibili.
I pesci che vivono a profondità meno elevate, ma comunque notevoli, sono invece dotati di questo organo di equilibrio:
trasportati rapidamente in superficie, la vescica natatoria, adattata alla enorme pressione del fondo, scoppia come
un palloncino!
Anche il pH (l’indice che misura il grado di acidità del mare), la tipologia dei fondali, la viscosità, la densità e il
movimento delle acque, influenzano la vita negli oceani.
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I fattori biotici
Oltre ai fattori abiotici, alla composizione degli ecosistemi contribuiscono altri fattori legati
alla vita stessa e alle relazioni tra le forme di vita. Tra gli organismi si instaurano quindi relazioni
di cui abbiamo già parlato e che influenzano la composizione e la struttura della comunità: la
competizione tra le specie per le risorse presenti nel biotopo, la creazione di nicchie ecologiche
e l’affermarsi di specie dominanti, che caratterizzano il biotopo stesso e le relazioni tra specie
che sono alla base delle catene alimentari, ovvero predazione, parassitismo, commensalismo,
simbiosi.
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2
ELEMENTI DI OCEANOGRAFIA DI BASE
Le onde, la cui causa prima è legata al vento, sono i movimenti della superficie.
Le maree, che nelle nostre acque sono poco avvertite, sono movimenti periodici che si
ripetono con cicli precisi, dovuti all’attrazione esercitata dai corpi celesti, dalla luna in particolare,
sulla massa d’acqua, che deforma la superficie del mare innalzandola rispetto al livello normale.
Sono quattro le fasi di marea: l’innalzamento, o flusso di marea; l’alta marea, in cui l’altezza
raggiunge il suo apice; il riflusso di marea, fase di abbassamento del livello della superficie
marina; e la bassa marea, in cui l’altezza del mare raggiunge il livello minimo. Il tutto accade in
un arco di tempo di 24 ore e 50 minuti, che corrisponde al tempo impiegato dalla luna per
compiere una rivoluzione attorno al nostro pianeta. Le maree più alte, dette sigiziali, si verificano
durante particolari allineamenti della terra con il sole e la luna e possono raggiungere
un’escursione di parecchi metri. In Mediterraneo il fenomeno è meno imponente rispetto a quello
che accade nel Mare del Nord o negli oceani, dove l’escursione di marea raggiunge diversi metri,
mettendo giornalmente allo scoperto estesissimi tratti di fondale marino, influendo quindi
pesantemente sulla composizione e sulla struttura delle comunità che vivono in questa fascia.
Le correnti, infine, hanno una notevole importanza biologica sia perché influiscono su tanti
parametri fisico-chimici (come la temperatura, la salinità e i nutrienti) sia perché assicurano il
ricambio dell’acqua e l’apporto di nutrienti e di cibo ai vegetali e agli animali bentonici che si
nutrono di particelle in sospensione. Le correnti di risalita dai fondali oceanici, dette correnti di
upwelling, assicurano la risalita dei nutrienti derivanti dalla decomposizione ad opera degli
organismi dei fondali. Anche le correnti dunque permettono la distribuzione geografica delle
specie, svolgendo un ruolo fondamentale sia per la regolazione della temperatura delle acque
superficiali e profonde, che per il trasporto di sostanze nutritive e di stadi giovanili di organismi
marini. Le correnti sono generate in gran parte dalle variazioni di temperatura e sono quindi al
tempo stesso un utile indicatore dei cambiamenti climatici e uno dei fattori a risentirne
maggiormente, a volte anche in modo imprevedibile.
le correnti di
upwelling
assicurano
la risalita del krill
di cui si nutrono
le balene
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3
CARATTERISTICHE DEGLI ECOSISTEMI MARINI
Scorrendo la lista dei fattori che influenzano la vita nel mare è a questo punto, abbastanza facile immaginare che
pur basandosi sulle stesse leggi generali, le differenze tra gli ecosistemi marini e terrestri sono notevoli.
Alcuni fattori molto importanti in mare, pressione, salinità, gas disciolti, sulla terra non rivestono alcuna importanza,
mentre la luce, come abbiamo visto, svolge un ruolo molto diverso. Le biocenosi marine presentano rispetto a quelle
terrestri delle differenze legate ad una maggiore complessità dovuta alla peculiarità degli organismi autotrofi marini e
dalla enorme quantità di sostanze organiche in sospensione o che si depositano sul fondo, che danno origine a catene
trofiche basate sul detrito. Gli ecosistemi terrestri sono dominati da grandi piante caratterizzate da una vita spesso
lunghissima, in quelli marini i produttori, fatta eccezione per alcune grandi alghe come il Kelp, sono di piccole o
microscopiche dimensioni, pur rappresentando complessivamente una enorme biomassa. Per questo fatto gli erbivori
in senso stretto in mare sono assai pochi rispetto agli ecosistemi terrestri; nelle nostre acque, per esempio, la salpa è
uno dei pochissimi pesci erbivori, la maggior parte degli altri pesci sono planctofagi o carnivori, o specializzati nel cibarsi
di molluschi o in mille altre cose. In mare i consumatori primari sono quindi principalmente a livello dello zooplancton,
perchè le alghe del fitoplancton, in gran parte unicellulari sono troppo piccole per essere predate da organismi delle
dimensioni di un pesciolino. Esattamente al contrario di quanto accade negli ecosistemi terrestri; gli animali più grandi
non sono erbivori, ma carnivori, nella fattispecie filtratori visto che sia il mammifero più grande -la balenottera azzurrasia i più grandi tra i pesci -lo squalo balena, lo squalo elefante, ed il megamouth- si nutrono filtrando zooplancton e
krill, attraverso i fanoni o le branchie.
Anche gli organismi che vivono in mare si differenziano in modo diverso rispetto a quelli terrestri e possono essere
raggruppati in differenti categorie:
Plancton. Costituisce l’insieme degli organismi che vive in sospensione nella massa d’acqua degli oceani, sono
dotati di poca capacità di movimento autonomo e affidano i loro spostamenti alle correnti. Il plancton si suddivide
ulteriormente in fitoplancton costituito dagli organismi vegetali come le alghe unicellulari e in zooplancton formato dagli
organismi animali (piccoli crostacei, meduse). In quest’ultima categoria vengono generalmente compresi anche gli stadi
larvali di molte specie appartenenti ad altre categorie come crostacei, pesci e molluschi.
Necton. È costituito dagli organismi che si muovono attivamente nell’acqua, vincendo la forza della corrente. Vi
appartengono molluschi cefalopodi, pesci e selaci pelagici, tartarughe marine e mammiferi marini.
Benthos. Categoria che raggruppa gli organismi che vivono a contatto o fissati sul fondo marino o comunque sul
substrato. Comprende pesci come la sogliola, selaci come le razze o certi squali, molluschi, stelle marine, filtratori
come gorgonie e coralli.
Da quel che abbiamo potuto vedere finora è quindi facile capire che le catene alimentari e la rete trofica in mare
saranno quindi molto più complesse di quelle terrestri. Nelle acque marine pertanto possiamo trovare:
Produttori primari, che possono essere batteri autotrofi o in maggior parte i vegetali autotrofi, sia planctonici, come
le alghe azzurre e alghe verdi unicellulari, sia bentonici come le fanerogame marine. Tutti questi organismi nel loro
insieme rappresentano i produttori che costituiscono la base della piramide trofica, la differenza principale negli
ecosistemi terrestri sta nelle relativamente piccole dimensioni degli organismi.
Sospensivori o sestonofagi. Si tratta di organismi microfagi che si nutrono di minuscole particelle sospese in acqua.
Possono essere sia organismi plantonici, come i copepodi, sia organismi sessili (cioè che aderiscono a un substrato)
come spugne, coralli, ascidie e gorgonie.
Filtratori. Alcuni organismi filtratori sono i più grandi organismi mai vissuti sulla terra, le grandi balene infatti si
nutrono filtrando lo zooplancton attraverso i fanoni e così fanno anche i più grandi tra gli squali, come lo squalo
balena, lo squalo elefante, che vive anche in Mediterraneo e il misterioso megamouth, recentemente scoperto, che per
filtrare il cibo utilizzano le branchie. Anche la manta, la più grande delle razze è un filtratore planctofago.
15
La composizione delle reti trofiche in mare dipenderà da molti fattori come la profondità, la
presenza di luce e le correnti marine che daranno vita a comunità e biocenosi differenti a seconda
dell’influenza dei diversi fattori.
L’esistenza di una rete trofica, pur rappresentando un sistema molto efficace per sfruttare
l’energia che giunge sulla terra sotto forma di radiazione solare, presenta alcuni inconvenienti
che possono creare problemi anche all’uomo: alcuni tipi di sostanze tossiche infatti, come il
mercurio, il PCB, il DDT, tendono ad accumularsi e a concentrarsi all’interno delle catene
alimentari e delle catene trofiche; si tratta di due fenomeni distinti che spesso possono combinarsi.
Il primo è il bioaccumulo, che è costituto dalla concentrazione all’interno di un organismo di
sostanze tossiche presenti nell’ambiente in cui esso vive. Queste sostanze vengono assunte
attraverso l’alimentazione o in altri modi quali la respirazione o la penetrazione attraverso
l’epidermide. Queste concentrazioni possono anche essere decine di volte maggiori rispetto
all’ambiente esterno.
Il secondo fenomeno è chiamato magnificazione biologica, parola complicata che non descrive
ahimè qualcosa di magnifico, ma il processo in cui le sostanze tossiche presenti nell’ambiente
vengono concentrate attraverso la catena alimentare in forti quantità man mano che si sale nei
gradini superiori della piramide trofica, giungendo sino al punto di poter essere pericolose per
i consumatori finali come i superpredatori e l’uomo. In pratica se il mercurio è presente nell’acqua
del mare in quantità limitate, esso sarà concentrato nell’organismo di alcuni vegetali
fitoplanctonici che verranno ingeriti da crostacei dello zooplancton, che concentreranno nel loro
organismo tutto il mercurio accumulato dal fitoplancton. I crostacei verranno mangiati dalle
sardine e così via salendo lungo le catene alimentari sino al tonno, superpredatore che si nutre
di altri carnivori e che può quindi avere accumulato quantità di mercurio tali da renderlo tossico,
per arrivare infine al superpredatore più in alto di tutti nella catena alimentare, l’uomo.
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le salpe sono tra le
poche specie di pesci
quasi esclusivamente
erbivore
il cetorino è uno
squalo che si nutre
di plancton
3
CARATTERISTICHE DEGLI ECOSISTEMI MARINI
Detritivori microfagi. Sono animali generalmente bentonici che si nutrono dei detriti organici
presenti sul fondo marino, oltre che di larve e di batteri o altri microrganismi. Ne fanno parte
alcuni bivalvi, le oloturie e crostacei come anfipodi e isopodi.
Limivori. Sono animali bentonici che si cibano ingurgitando grandi quantità di limo e
sedimento da cui poi estraggono nel canale digerente le particelle nutrienti e i residui organici.
Appartengono a questo gruppo molti policheti (arenicola, tremolina).
Erbivori. Corrispondono ai consumatori primari terrestri e si nutrono di vegetali. Ne fanno parte
pesci come le salpe, i ricci di mare, alcuni molluschi come l’occhio di santa lucia e l’opistobranco
aplysia, detto anche lepre di mare. Rispetto all’ambiente terrestre questo gruppo non è molto
abbondante per specie e per numero di individui, anche perchè gli animali che nello zooplancton si
nutrono di fitoplancton, pur essendo in un certo senso erbivori, vengono considerati filtratori.
Onnivori o spazzini. Macrofagi che si nutrono sia di vegetali che di carogne, oltre che di
prede vive. Ne fanno parte crostacei decapodi, policheti, e gasteropodi come la nassa ed il
buccino, oltre a diverse specie di pesci.
Carnivori. Macrofagi (in grado di ingerire cibo di notevoli dimensioni) che si nutrono di altri
animali. Alcuni di essi si nutrono degli organismi appartenenti ai gruppi già menzionati, altri, veri
e propri superpredatori, si nutrono anche di altri carnivori. Appartengono a questo gruppo molti
pesci, i selaci (squali e razze anche se alcuni sono filtratori), cefalopodi, mammiferi marini,
meduse, stelle marine e molti molluschi gasteropodi come i nudibranchi.
Parassiti. Gruppo molto numeroso di animali appartenenti a phyla molto diversi e che
presentano specializzazioni molto accentuate. I parassiti abbandonano la vita libera,
generalmente limitata alla sola fase larvale, per legarsi ad un ospite. Realizzano delle strutture
che gli consentono di accedere all’ospite sia internamente (endoparassiti come nematodi, cestodi
ed alcuni crostacei) o esternamente (ectoparassiti) aderendo alla superficie della vittima, come
diverse specie di crostacei.
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4
GLI AMBIENTI
DEL MARE
Per cercare di descrivere meglio l’enorme massa degli oceani e delle creature che li popolano, gli ambienti del mare
possono essere raggruppati in base a diversi criteri e suddivisioni, sia orizzontalmente che verticalmente. L’intera zona del
mare aperto costituisce il Dominio Pelagico, che comprende l’intera massa d’acqua dove vivono gli organismi che popolano
le acque, che nel loro insieme sono detti Pelagos. Al pelagico si contrappone il Dominio Bentonico, che è costituito dall’intero
fondale marino e in cui vivono gli organismi del Benthos.
Dal punto di vista orizzontale il Dominio Pelagico può essere suddiviso in due provincie: la Provincia Neritica, costituita
dalle acque aperte che sovrastano la piattaforma continentale e la Provincia Oceanica che comprende le acque aperte sopra
i bacini oceanici.
In funzione della luce possiamo dividere invece l’ambiente oceanico in due zone:
La Zona fotica: chiamata anche zona epipelagica, va dalla superficie fino al limite di penetrazione della luce solare che
in media è attorno ai 200 m di profondità e in cui vivono le comunità basate sulla produzione di energia dagli organismi
autotrofi. Lo strato più superficiale, sino ai 50 m di profondità è chiamato zona eufotica.
La Zona afotica: si estende al di sotto del limite di penetrazione della luce. In essa vivono comunità basate in gran parte
su organismi eterotrofi: carnivori decompositori e detritivori e pochi batteri autotrofi.
Alcuni scienziati individuano una zona di transizione tra queste due chiamata Zona disfotica, in cui non c‘è abbastanza
luce per la fotosintesi ma ce n’è ancora a sufficienza per consentire la vista e che si spinge dai 200 sino ai 1.000 m di
profondità.
Un'altra suddivisione verticale del mare prevede da 0 a 200 m una prima fascia epipelagica che coincide come abbiamo
visto con la zona fotica; una seconda fascia mesopelagica che coincide con la zona disfotica, fino a circa 1.000 m di profondità;
una terza fascia batipelagica dai 1.000 ai 2.000 – 4.000 m di profondità; una quarta fascia abissopelagica sino ai 6.000 m
ed infine l’ultima, presente solo in poche zone degli oceani, la più profonda di tutte, la fascia adopelagica dai 6.000 ai 10.000
m di profondità.
Il Dominio Bentonico comprende invece il Sistema litorale o fitale suddiviso in piano sopralitorale, che comprende le zone
normalmente non sommerse ma raggiunte dall’acqua solo tramite gli spruzzi delle mareggiate o nelle maree sigiziali; piano
mediolitorale compreso tra i limiti della normale alta e bassa marea, piano che nel Mediterraneo è piuttosto ristretto; piano
sublitorale che arriva fin dove vivono le piante fotofile. Nelle nostre acque, il piano sublitorale viene considerato il limite che
può raggiungere la posidonia, ovvero una cinquantina di metri di profondità in caso di acque estremamente limpide. Troviamo
poi il piano circalitorale che si spinge sino all’estremo limite della vita vegetale (popolato da alghe sciafile) e il Sistema
profondo o afitale, in cui non esiste più fotosintesi, suddiviso a sua volta in piano batiale lungo le scarpate continentali, piano
abissale e piano adale, che rappresenta il fondo delle fosse più profonde, oltre i 7.000 m di profondità.
gli ambienti
marini possono
essere
individuati in base
a diversi criteri e
suddivisi sia
orizzontalmente che
verticalmente
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5
IL MEDITERRANEO,
LE SUE CARATTERISTICHE E SPECIFICIT à
Racchiuso tra tre continenti il Mediterraneo con oltre 46.000 km di coste, isole comprese, è il più grande bacino
semichiuso del mondo. È caratterizzato da uno scarso ricambio delle sue acque che hanno un tempo di rinnovamento di
circa 100 anni per le acque superficiali, ma che sale a 7.000 anni se si prende in esame l’intero volume d’acqua in esso
contenuto. La sua lunghezza massima misurabile tra Gibilterra e la Siria è di 3.800 km mentre raggiunge la larghezza
massima tra Francia ed Algeria con circa 900 km. La profondità media è di circa 1.500 m, con punte di oltre 4.000 m nello
Ionio, ma esistono vasti tratti di piattaforma continentale con valori assai minori di profondità, come nel caso dell’Adriatico
in cui la profondità nella parte settentrionale non supera i 200 m e non arriva ai 50 nella porzione più a nord.
Il Mar Mediterraneo è un mare oligotrofico, cioè ricco di ossigeno e povero di nutrienti, con una temperatura media
annuale di circa 15°C nel bacino occidentale e di 21°C in quello orientale, con una salinità media tra il 36,2 e il 39 ‰ (è
quindi un mare piuttosto salato).
L’elevata salinità del Mediterraneo deriva dal fatto che il bacino ha un bilancio idrico negativo: gli apporti dei grandi
fiumi e dei corsi d’acqua che vi sboccano sono cioè insufficienti a rimpiazzare le perdite dovute all’evaporazione (destinata
ad aumentare con l’innalzamento della temperatura). Il mantenimento del livello del mare dipende dal flusso di acqua in
entrata attraverso lo stretto di Gibilterra, proveniente dall’Oceano Atlantico; secondo alcuni oceanografi una goccia d’acqua
entrata dallo stretto impiega più di 150 anni a compiere tutto il giro del Mediterraneo!
Le correnti vi svolgono un ruolo fondamentale, sia per la regolazione della temperatura delle sue acque superficiali e
profonde, che per il trasporto di sostanze nutritive e di stadi giovanili di organismi marini.
Le correnti mediterranee possono distinguersi in correnti superficiali, correnti intermedie e correnti profonde. Le correnti
superficiali traggono origine dal flusso d’acqua che penetra dall’Atlantico attraverso lo stretto di Gibilterra e hanno
generalmente un andamento antiorario: l’acqua proveniente dall’oceano è più fredda e meno salata di quella presente nel
bacino e rimane pertanto sulla superficie lambendo le coste nordafricane e generando la corrente algerina che a sua volta
si biforca in diverse altre correnti che conservano l’andamento antiorario. La corrente intermedia invece interessa lo strato
di acqua compreso tra i 200 e i 600 metri di profondità ed origina dal Mar di Levante, la porzione di Mediterraneo dalle
acque più salate che possono raggiungere il 39,1 per mille di salinità; l’origine di questa corrente ricorda un po’ l’effetto di
una saponetta bagnata stretta nella mano. D’inverno, con il calo della temperatura dello strato superficiale, l’acqua diventa
più densa e comprime lo strato d’acqua inferiore che viene spinto via originando la corrente intermedia. Questa corrente
ha un andamento in direzione opposta a quella delle correnti superficiali, ed è divisa in un ramo principale che percorre
l’intero Mediterraneo e in due rami secondari: uno che attraversa il golfo della Sirte e uno che attraversa lo Ionio e giunge
quasi fino a Trieste per poi ridiscendere attraversando nuovamente lo stretto di Otranto.
Le correnti di profondità interessano solo due aree del Mediterraneo -il bacino ligure provenzale e il Mar Ionio- e sono
originate in inverno dal rapido raffreddamento delle acque superficiali provocato dal vento. Le acque più fredde e pesanti
diventano più dense e sprofondano generando la risalita delle acque profonde, ricche di nutrienti. È proprio a causa di questo
fenomeno generato dal gelido mistral, che soffia in inverno nel golfo del Leone, che la popolazione di cetacei nel Mar
Ligure è così abbondante: le correnti di risalita che si formano, le cosiddette correnti di upwelling, sono ricchissime di
nutrienti che richiamano una grande quantità di krill, piccoli crostacei che costituiscono un eccellente cibo per le grandi
balenottere.
Il Mediterraneo è un mare ricchissimo di biodiversità che contiene ben il 7% di tutte le specie marine conosciute al
mondo. Sono presenti 580 specie di pesci, tra cui 48 di squali e 36 di razze, 21 specie di mammiferi marini e 5 di tartarughe,
oltre a 1.289 specie vegetali marine. Proprio per la sua straordinaria ricchezza e per l’alta presenza di endemismi, Il
Mediterraneo è stato indicato dall’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) come global biodiversity
hotspot, cioè uno dei posti non solo più ricco di biodiversità, ma anche più vulnerabile.
Una delle specie più caratteristiche del nostro mare è indubbiamente la posidonia (Posidonia oceanica) fanerogama
marina endemica del Mediterraneo, le cui praterie con una superficie di oltre 37.000 kmq, costituiscono uno degli ecosistemi
più importanti del bacino.
nel mar
Mediterraneo le
correnti svolgono
un ruolo
fondamentale
sia per la regolazione
della temperatura,
che per il trasporto
di sostanze nutritive
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6
La PRATERIA Di POSIDONIA
La Posidonia oceanica, specie esclusiva del Mediterraneo, discende da vegetali terrestri che oltre 120 milioni di anni
fa conquistarono i fondali marini. Anche se molti pensano sia un’alga, in realtà è una fanerogama, ovvero una pianta
superiore, del tutto simile a quelle terrestri, dotata quindi di fusto, foglie e radici, che si è magnificamente adattata a
vivere sul fondo marino.
Le foglie della posidonia, di colore verde brillante, hanno una caratteristica forma a nastro, con l’estremità tondeggiante;
sono larghe circa 1 cm e lunghe fino a 1 metro ma possono, in alcuni casi, raggiungere e superare i 150 cm di altezza. Sono
raggruppate in ciuffi di 4 – 8 foglie disposte a ventaglio: le più vecchie, anche più lunghe, sono situate all’esterno e le più
giovani, più piccole, all’interno del fascio stesso. Con il sopraggiungere della stagione autunnale e delle prime grandi
mareggiate, si verifica una massiccia caduta di foglie adulte, all’origine dei grandi ammassi che si formano sulle spiagge,
detti banquettes, cui segue una nuova produzione di foglie nel periodo invernale.
Una caratteristica fondamentale della posidonia è costituita dalla presenza di due differenti tipi di rizomi, una sorta di
radici che in realtà sono fusti modificati, adattati all’ambiente sotterraneo:
• Il primo tipo di rizoma, detto tracciante, ha uno sviluppo orizzontale, che rende possibile alla posidonia di ancorarsi
al fondale grazie a una miriade di radici che si sviluppano sul lato inferiore; esso ha anche una importante funzione nella
riproduzione asessuale della pianta, poiché origina stoloni che daranno vita a nuove piante in grado, a loro volta, di formare
altri stoloni;
• l’altro tipo di rizoma, quello da cui si originano le foglie, è invece caratterizzato da uno sviluppo verticale, in grado
di contrastare la tendenza all’insabbiamento dovuta al continuo depositarsi di sedimento tra le foglie e i rizomi. Ciò permette
alla pianta di continuare ad innalzarsi rispetto al fondo marino.
Questa complessa organizzazione di ogni singola pianta è alla base della formazione di quello straordinario sistema
vivente che è la prateria di posidonia, in grado di modificare in maniera molto significativa il fondo del mare.
La crescita sia orizzontale che verticale della pianta origina le mattes, tipiche formazioni a terrazza, un complicato
intreccio di rizomi e radici, che nel corso del tempo imprigionano i residui delle piante e degli animali morti, il sedimento
e la sabbia, compattandoli e provocando negli anni un consistente innalzamento del fondo marino. È stato stimato che le
mattes crescono mediamente di circa un metro ogni secolo, e possono continuare a crescere per periodi molto lunghi.
La riproduzione della posidonia può essere sia sessuale, con fiori e frutti (le cosiddette olive di mare), che vegetativa.
Nel secondo caso la riproduzione può avvenire mediante la formazione di stoloni o per formazione di talee. In questo
caso assistiamo alla formazione di radici da parte di frammenti di stoloni dotati di almeno una gemma fogliare, strappati
alla prateria da correnti e mareggiate, che daranno vita, se riusciranno ad attecchire nel fondale adatto a una nuova pianta
in grado poi, con il lento processo di stolonizzazione, di accrescersi dando origine col tempo ad una nuova prateria.
Ma la capacità della posidonia di propagarsi colonizzando nuovi territori è affidata anche alla riproduzione sessuale. I
suoi fiori, non molto facili da osservare, sono di colore verdastro e raggruppati in numero variabile da quattro a dieci in
infiorescenze, attorno ad uno stelo che spunta proprio al centro del ciuffo fogliare e che è avvolto per tutta la lunghezza
da brattee, una sorta di sottili scaglie con funzione protettiva.
Nelle praterie sino a 15 metri di profondità la fioritura può avvenire in settembre o in ottobre, mentre i frutti raggiungono
la piena maturazione verso marzo - aprile.
Nelle praterie più profonde, oltre i 15 metri, tutto il processo avviene con un paio di mesi di ritardo.
Il frutto è chiamato oliva di mare per l’aspetto, le dimensioni e il colore simili all’oliva terrestre. Quando il frutto, ricco
di sostanze oleose, giunge a piena maturazione, si stacca dalla pianta e galleggia sulla superficie del mare, affidato a onde
e correnti che favoriscono quindi la dispersione dei semi in luoghi anche lontanissimi dalla prateria di origine. Cadono sul
fondo solo dopo l’apertura del pericarpo che li avvolge, quindi dopo aver galleggiato per un discreto periodo di tempo. Se
il seme cade su un fondale adatto, potrà colonizzarlo dando origine a una nuova prateria, in aree altrimenti inaccessibili
con la semplice riproduzione vegetativa.
La posidonia presenta una marcata stagionalità sia nei ritmi di crescita che nella produzione di nuove foglie; quest’ultima
presenta un massimo a primavera e un minimo coincidente con la stagione estiva, quando la temperatura dell’acqua è
23
La prateria di posidonia costituisce un ambiente di straordinaria rilevanza per il Mediterraneo per
molti motivi, tutti ugualmente importanti: l'elevata produzione primaria, ovvero la capacità di
produrre la materia organica mediante la fotosintesi a partire dal carbonio e dalla luce solare; la
grande biodiversità delle comunità animali e vegetali che ad essa sono associate; l’enorme contributo
che offre alla difesa delle coste sabbiose dall’erosione.
La prateria di posidonia infatti
• produce ossigeno: grazie al notevole sviluppo di superficie fogliare, un metro quadro di prateria
in buona salute può produrre 20 litri di ossigeno al giorno con un saldo attivo, sottraendo quello
consumato dalla pianta per la respirazione, che va dai 14 ai 16 litri di ossigeno giornalieri;
• contribuisce a difenderci dall’effetto serra: produce materiale organico (biomassa) in elevata
quantità, intrappolando anidride carbonica (CO2). La produttività di una prateria può arrivare a 21
tonnellate di peso secco per ettaro, comparabile a quella delle foreste temperate. Una prateria in
buona salute, come tutta la vegetazione terrestre e marina, toglie anidride carbonica dall’atmosfera
contribuendo a rallentare l’effetto serra. Questo è infatti dovuto alle grandi quantità di CO2 immesse
nell’atmosfera dalle attività umane, principalmente dall’utilizzo dei motori a scoppio e dai processi
industriali;
• trasferisce biomassa ad altri ecosistemi: si calcola che circa il 30% della produzione di biomassa
(materia organica) venga esportato in ecosistemi distanti e molto più profondi sotto forma di detrito
fogliare utilizzato come cibo da altri organismi;
• difende la linea costiera: fissa i fondali mobili, così come sulla terraferma le radici degli alberi
e dei cespugli rendono stabili versanti e crinali prevenendo le frane;
• protegge le spiagge dall’erosione: l’accumulo di foglie morte sulle spiagge durante l’inverno
protegge la sabbia dalle mareggiate, mentre la presenza in sospensione in acqua di grandi quantità
di detrito fogliare e di fibre smorza l’effetto delle onde. È stato dimostrato che la scomparsa di un
metro di mattes può causare l’arretramento della linea di costa, nel caso di un litorale sabbioso, di
circa 15 -18 metri.
La posidonia è caratterizzata da una lenta propagazione vegetativa e da una capacità
relativamente bassa di resistere agli effetti della degradazione dell'habitat. Il crescente impatto
antropico (pressione demografica, urbanizzazione, industrializzazione, inquinamento) minaccia
sempre più gli ecosistemi litorali e la regressione della Posidonia oceanica è testimoniata ormai in
tutta l'area mediterranea. La prateria è un ambiente estremamente ricco di vita e di specie che
scompaiono con la sua regressione.
Una delle protezioni più importanti che la prateria offre è la marcata diminuzione del movimento
dell’acqua in prossimità del fondo, a livello dei rizomi. La decisa riduzione dell’idrodinamismo offre
un ambiente più tranquillo e più stabile rispetto al substrato circostante. La prateria è infatti riparo
dai predatori, zona di riproduzione e fonte di cibo per molti pesci, cefalopodi e crostacei, fungendo
da vera e propria nursery per avannotti e giovanili di specie molto importanti per la pesca
professionale.
La costruzione di moli e porti ha un forte impatto sulla possibilità di sopravvivenza delle praterie,
sia per gli effetti immediati legati all’aumento di torbidità per l’azione di scavo o messa in opera,
sia per quelli a lungo termine, dovuti alla modifica del movimento di onde e correnti e, di
conseguenza, dei delicati processi di trasporto litorale che presiedono alla distribuzione dei sedimenti
lungo le linee di costa. A questi fattori si aggiunge la massiccia immissione in mare di inquinanti,
con conseguente alterazione del delicato equilibrio chimico–fisico alla base della crescita di una
comunità vegetale, sia per l’effetto tossico diretto di alcuni elementi, sia per la mancanza di ossigeno
dovuta all’eccessivo apporto di nutrienti, sia infine per la diminuzione della trasparenza dell’acqua
con conseguente carenza di luce per la fotosintesi.
24
la prateria di
posidonia
costituisce un
ecosistema che
ospita un gran numero di specie
animali ed è molto
importante per la
produzione di
ossigeno
il frutto della
posidonia
6
LA PRATERIA DI POSIDONIA
maggiore. Le foglie presentano una lunghezza diversa a seconda della stagione in cui sono spuntate,
con il risultato che la prateria può apparire molto diversa nei diversi periodi dell’anno. In estate le
foglie sono lunghe e dal colore bruno o rosato, mentre in autunno, dopo i primi temporali e le
prime mareggiate, si ha una caduta massiccia delle foglie più vecchie e più lunghe, e i ciuffi di
posidonia, costituiti ormai solo dalle foglie più giovani, appaiono più bassi e di un colore verde
brillante.
Generalmente una prateria può estendersi da un metro di profondità (in alcuni casi le foglie di
praterie, in aree particolarmente riparate, in condizioni di bassa marea possono fuoriuscire
parzialmente dall’acqua) sino a 30 - 35 metri, raggiungendo anche i 40 – 50 in presenza di acque
particolarmente limpide, come quelle di Lampedusa e Linosa o di alcune zone della Sardegna. La
posidonia è un importante indicatore biologico, molto sensibile agli agenti inquinanti e, proprio per
questo, purtroppo in forte regressione nelle aree di costa mediterranea.
Altra grande minaccia è l’azione meccanica di sfregamento causata dalla pesca a strascico e da quella dei molluschi.
Pesca illegale, dovremmo meglio dire, perché questo tipo di attività di cattura è consentito solo oltre le tre miglia dalla costa
e a profondità superiori ai cinquanta metri, proprio con lo scopo di difendere le praterie che a quella profondità non sono
certo presenti. Tuttavia, per la difficoltà dei controlli e la miopia di alcuni pescatori che in questo modo distruggono il loro
stesso futuro, la pesca a strascico sulle praterie continua ad essere un significativo elemento di minaccia.
Essa è infatti altamente produttiva nell’immediato (poiché consente il prelievo di specie pregiate come sparidi, scorfani,
labridi, serranidi, polpi e persino aragoste) ma distrugge un ambiente insostituibile dove trovano rifugio gli stadi giovanili
e gli avannotti di specie importanti, compromettendo seriamente lo sviluppo di numerose popolazioni animali e provocando
un generale impoverimento dei nostri mari.
Anche le ancore delle barche da pesca e da diporto, strappando i ciuffi, creano delle zone di diradamento su cui agisce
l’erosione provocando la distruzione della prateria. Questa è infatti difesa dai fenomeni erosivi, dovuti alle correnti, dalla
struttura compatta che abbiamo descritto, ma la presenza di zone nude facilita l’azione distruttiva delle correnti provocando
la formazione di chiazze denudate sempre più ampie. Lo stesso fenomeno, ma su scala più vasta, è stato osservato sulle
arature prodotte dalle reti per la pesca a strascico.
25
7
LE COSTE
Le nostre coste, anche se molto frequentate, non sono in realtà molto conosciute dal punto di vista naturalistico.
Eppure i litorali sabbiosi, con i relativi sistemi dunali, gli specchi d’acqua e la macchia mediterranea costituiscono uno
degli ambienti più importanti del nostro Paese. Nonostante l’attacco devastante della speculazione edilizia, degli
incendi, dell’assalto dei turisti concentrati nei pochi mesi estivi, conserva ancora vasti tratti di naturalità che possono
essere un eccellente laboratorio per iniziare a conoscere le dinamiche degli ecosistemi naturali. La presenza delle
specie pioniere sulla duna, la ricchezza di interazioni nella macchia mediterranea e l’adattamento a lunghi periodi di
siccità della sua vegetazione, la grande abbondanza di avifauna nei laghi costieri offrono molte possibilità a chi vuol
verificare sul campo le affascinanti nozioni apprese sui libri.
Sistema dunale
Sui circa 7.000 km di coste che circondano la nostra penisola, quasi 3.000 sono costituiti da litorali sabbiosi, un
ambiente molto interessante per le nostre osservazioni, anche se, purtroppo, è sempre più raro trovarne di intatti.
Se paragonate ad altri ambienti o anche ad altri tipi di coste, la spiaggia sabbiosa e le dune che sorgono alle spalle
del litorale potrebbero sembrare a prima vista una specie di deserto dal punto di vista biologico. Eppure, anche se è un
ambiente decisamente ostile per la vita, la duna ospita una flora e una fauna assolutamente straordinarie. Per quello
che riguarda la flora, quelli che a prima vista appaiono ciuffi miseri e stentati, sono in realtà degli autentici pionieri, in
grado di conquistare un territorio reso estremamente difficile dal sale, dal sole fortissimo, dal vento e dalla sabbia che
questo trasporta, dal terreno assai povero e dall’acqua salmastra che diviene dolce solo a grande profondità.
Se l’arma dei pionieri del far-west era il fucile, queste incredibili piante ricorrono ad altri strumenti, decisamente
meno cruenti, come ad esempio radici dotate di una buona elasticità e resistenza, molto estese sia in profondità, per
raggiungere l’acqua, che in larghezza, per ancorarsi meglio e resistere al vento; superfici tormentate e contorte, per poter
resistere al disseccamento; spine che diminuiscono la superficie esposta alla traspirazione; strutture in grado di
trattenere l’acqua come foglie e radici succulente.
Il vento ha una fortissima influenza sulla vita e sulla formazione delle dune, che potremmo definire come delle
vere e proprie figlie del vento, così come la spiaggia può essere considerata figlia del mare e delle sue onde e correnti.
Le dune infatti non sono altro che cumuli di materiale sabbioso formati dall’azione del vento che, trasportando la
sabbia verso riva ed incontrando un ostacolo, la deposita dando vita alla duna e continuando nel tempo ad
accrescerne le dimensioni.
Per questo motivo e per il fatto che la vegetazione può iniziare a svilupparsi solo a una certa distanza dalla costa,
al di là della fascia raggiunta dalle maree e dalle mareggiate, normalmente le dune litoranee si sviluppano
parallelamente alla costa. È per la continua azione di modellamento operata dal vento, fatta di fasi di deposizione
alternate a fasi di erosione, che generalmente tutte le dune hanno una struttura che presenta il lato sopravvento con
una inclinazione molto minore rispetto a quello sottovento (di norma rivolto verso l’entroterra). Infine, in presenza di
venti molto variabili le dune possono assumere un andamento sinuoso, invece che parallelo alla costa, formando veri
e propri golfi e insenature.
Per loro stessa natura le dune sono estremamente mobili e, in assenza di qualcosa che ne cementi in qualche modo
la struttura, tenderebbero a spostarsi verso l’interno sino a giungere alla barriera costituita dalla vegetazione costiera
che, come una siepe di confine, ne blocca l’avanzata verso terra.
Sono proprio le piante pioniere che iniziano l’opera di compattamento e consolidamento della duna, permettendo
non solo la stabilizzazione ma anche l’attecchimento di ulteriore vegetazione che, in un processo dinamico fatto di
progressi e regressioni, conduce alle formazione delle dune coperte di rigogliosa vegetazione che ancora oggi si possono
osservare nei tratti di costa più integri.
La prima fascia della duna sabbiosa, ad almeno una cinquantina di metri dalla costa, viene inizialmente colonizzata
da specie vegetali in grado di svilupparsi rapidamente, generalmente piante erbacee annuali a ciclo breve con un
periodo vegetativo di pochi mesi come il ravastrello marino, l’euforbia delle spiagge o l’erba cali, piccole piante dotate
27
28
le coste costituiscono
uno degli ambienti
più importanti
del nostro Paese
la calcatreppola è
una delle specie più
frequenti del
sistema dunale
7
LE COSTE
di radici e rizomi succulenti in grado di trattenere l’acqua, che danno vita ad una associazione
vegetale detta cakileto la quale, terminato il ciclo naturale, si secca e muore, dopo aver disperso
i semi. Questi possono germogliare sulla stessa duna o, trasportati dal vento, germinare altrove.
Le piante in grado di formare un ambiente più stabile e di sovrapporsi alle prime pioniere sono
delle graminacee perenni dotate di lunghe e robuste radici superficiali, che formano una fitta rete
sopra e sotto la sabbia: sono l’Agropyrum junceum o gramigna marina (questa associazione
vegetale viene infatti detta agropireto) e, nella parte della duna più lontana dal mare, lo sparto
Ammophila littoralis dai caratteristici cespugli a ciuffo, che origina l’associazione vegetale detta
ammofileto. Sono proprio le radici di queste piante che riescono a rendere compatto un materiale
cedevole come la sabbia e a far sì che le dune non siano disperse dal vento.
Poiché l’acqua disponibile al di sotto della duna è fortemente salmastra, queste piante
traggono il loro fabbisogno idrico, oltre che dalla umidità notturna, dalle precipitazioni che sono
in grado di trattenere e di economizzare a lungo.
In questa fase la duna può crescere fino a diversi metri di altezza con la sabbia che si
deposita sugli strati e sulle piante preesistenti e, man mano che si prosegue verso l’entroterra
e che aumenta il numero di specie colonizzatrici, la duna si stabilizza sempre di più ospitando
una complessa comunità vegetale che si arricchisce di arbusti all’apparenza stentati e striscianti,
ma che in realtà possono vivere centinaia di anni e diventare veri e propri alberi, come il ginepro
coccolone, che si alterna con i primi cespugli di lentischi e a piccoli pinastri contorti dal vento,
creando una vegetazione che continua a infoltirsi e inverdirsi mescolandosi alla fillirea, all’erica,
alla palma nana, alle tamerici e all’edera spinosa. Su questa vegetazione vive una fauna
composta da detritivori, erbivori e predatori, dando vita a un ecosistema complesso,
caratterizzato da condizioni estreme e dalla particolarità dei suoi componenti.
Le piante dunali hanno generalmente forme strane, spesso spinose, per resistere al meglio
alla forte brezza marina e per ridurre la perdita d’acqua; sono resistentissime agli sbalzi di
temperatura che farebbero morire la maggior parte degli altri vegetali.
Tra questi pionieri i più comuni sono il ravastrello, la calcatreppola, pianta spinosa dal
caratteristico colore verde tendente al bluastro, dai fiori bianco azzurri e dalle radici ricche
d’acqua; il convolvolo, la soldanella dai grandi fiori rosa, lo sparto, che forma i caratteristici
ciuffi di erba alta che possono raggiungere il metro e mezzo di altezza e che svolge un ruolo
fondamentale per stabilizzare la duna; la carota spinosa e poi il bellissimo pancrazio o giglio di
mare, dal profumo penetrante che fiorisce tra luglio e agosto.
Spesso ci si può imbattere in stagni retrodunali, generalmente salmastri, generati da
depressioni più basse del livello del mare in cui l’acqua si infiltra o dalla presenza di terreni
argillosi impermeabili che causano il ristagno dell’acqua piovana.
Questo ambiente particolare è ricco di vita animale. Senza parlare della complessa fauna
che vive al di sotto della sabbia: crostacei, come le pulci di mare che popolano i detriti di
posidonia e gli onischi, molluschi rappresentati da alcune specie di chiocciole; insetti, come
sempre molto numerosi, tra i quali spiccano diverse specie di farfalle e di falene come la bella
falena del pancrazio, gli scarabei stercorari, le cicindele, coleotteri predatori caratterizzati dalla
livrea verde metallico ornata di puntolini bianchi, o il feroce formicaleone, un neurottero la cui
grossa larva armata di enormi mandibole uncinate scava delle trappole a imbuto nella sabbia,
che franano al passaggio delle prede lungo i bordi trascinando i malcapitati verso le fauci del
predone in agguato sul fondo dell’imbuto. Anche alcune grosse cavallette frequentano la
vegetazione dunale e se ne possono trovare in grande quantità quando sciami di locuste
migratorie terminano il loro viaggio precipitando esauste in mare.
Danno la caccia a questi invertebrati gli anfibi come il rospo smeraldino e numerosi rettili
come il curioso gongilo, una sorta di grossa lucertola dal corpo forte e muscoloso, serpentiforme,
ma dalle zampette minuscole; qualche volta si avvicina alle dune costiere anche l’elegante biacco,
il più comune dei serpenti italiani, lungo sino a due metri, mentre frequentatrice abituale della
parte della duna confinante con la macchia è la testuggine terrestre, sia la Testudo hermani che
la T. graeca e la T. marginata. Anche la tartaruga marina Caretta caretta frequenta le spiagge
sabbiose, risalendole faticosamente per deporre le uova, anche se ormai nel nostro Paese sembra
farlo solo in pochissimi siti, tra cui la famosa Spiaggia dei Conigli sull’isola di Lampedusa.
Sono molte le specie di uccelli che frequentano spiaggia e duna. I più numerosi sono gli
uccelli limicoli, ovvero quelli che si nutrono catturando con il becco, generalmente lungo e
appuntito, i vermi e i molluschi che vivono nella sabbia umida lasciata scoperta dalla marea: il
piovanello tridattilo, il corriere grosso, il voltapietre, il fratino o la rara beccaccia di mare,
inconfondibile per il corpo dalla vistosa colorazione bianca e nera e con le zampe e il lungo becco
rosso corallo. Anche uccelli marini come il gabbiano reale o le sterne si riposano la notte sulle
spiagge e al mattino è facile ritrovare i segni della loro sosta: impronte e qualche penna.
Frequentano la duna molti passeriformi diffusi anche nella macchia, come il pettirosso, il merlo, il tordo, la capinera,
l’occhiocotto, il colorato gruccione e la bella ghiandaia marina.
Tra i mammiferi il coniglio selvatico, diffuso ormai in parecchi punti delle nostre coste, l’onnipresente ratto e
l’ubiquitario topolino campagnolo. Tra i predatori insettivori i pipistrelli, la talpa ed il toporagno, presente con diverse
specie, e alcuni visitatori occasionali provenienti dalla vicina macchia come l’istrice, il tasso e la donnola, oltre a
predatori opportunisti come la faina e la volpe, che frequentano la spiaggia in cerca di rifiuti e di facili prede come
pesci spiaggiati.
Macchia mediterranea
Alle spalle della duna ecco sorgere quello che forse è il più tipico degli ambienti del nostro Paese, che prende il
nome dal mare stesso che ci avvolge: la macchia mediterranea.
Nei luoghi in cui l’azione dell’uomo si è fatta meno sentire, esiste evidente continuità tra la vegetazione dunale e
la macchia mediterranea vera e propria.
Dove la duna si consolida e si stabilizza, cominciano ad apparire le avanguardie della macchia mediterranea,
caratterizzata anch’essa da un forte adattamento ad ambienti piuttosto duri e non certo abbondanti di acqua. Inizia
con dei bassi cespugli di cisto, fillirea e ginepro coccolone; si intrica man mano che si procede verso l’interno
mescolandosi a mirto, corbezzolo, rosmarino, ginestra, lentisco, erica, alloro e ginepro; si intreccia, continuando il
cammino, ad alberi di alto fusto come lecci, pini marittimi e pini di Aleppo, querce da sughero e querce spinose.
Qua e là possono formarsi delle zone allagate, durante tutto l’anno o solo in inverno, le cosiddette piscine, un tempo
molto più frequenti nelle grandi foreste planizie costiere -di cui abbiamo solo pochi resti- e che ospitano una ricca fauna
di anfibi e rettili.
La macchia mediterranea ha una grande variabilità geografica legata a fattori quali il microclima e la composizione
del suolo con conseguenti differenze nella composizione della vegetazione, con prevalenza o assenza di alcune specie
rispetto ad altre; potremo quindi imbatterci di volta in volta nella macchia a erica, a leccio, a corbezzolo, a rosmarino,
a euforbia, a oleastro, a ginestra, ognuna differente per specie dominanti, ma assai simili tra di loro come struttura.
Anche se questo ambiente è quello maggiormente rappresentato in tutto il Mediterraneo, in realtà la macchia non
può essere considerata come un ambiente realmente naturale, quanto piuttosto il frutto dell’interazione durata millenni
tra la nostra specie e le grandi foreste del Mediterraneo e poiché, come diceva Chateaubriand, i boschi precedono l’uomo
e i deserti lo seguono, questa interazione si è concretizzata con incendi, disboscamenti, pascolo eccessivo di ovini e
caprini, taglio degli alberi d’alto fusto per il legname da costruzione, per case o imbarcazioni. Il risultato dopo millenni
è questo straordinario ambiente, verde tutto l’anno, ricco di aromi e profumi penetranti, ma dall’aspetto ruvido e
scostante dovuto al gran numero di piante che si proteggono con spine o foglie appuntite e che in primavera, durante
la fioritura diviene un vero e proprio spettacolo di colori e profumi. Un’esperienza indimenticabile è l’arrivo in nave in
Sardegna all’alba, quando il buio non permette di distinguere ancora chiaramente la linea della costa, ma i profumi
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una volpe nella
macchia
mediterranea
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LE COSTE
della macchia, con i penetranti sentori del rosmarino, dell’erica e del mirto annunciano che la
terra è ormai vicina.
La presenza della macchia mediterranea, sia alta che bassa, è comunque legata a precise
condizioni climatiche e alla tipologia del terreno; questo tipo di ambiente si sviluppa infatti in
situazioni in cui le precipitazioni sono irregolari e concentrate principalmente nel tardo autunno
e nell’inverno. La vegetazione che la compone deve quindi essere in grado di superare un lungo
periodo di aridità estiva e di conseguenza, anche le specie che la popolano sono perfettamente
adattate a queste condizioni: perdita delle foglie in estate, come accade alla ginestra spinosa e
all’euforbia arborea; sviluppo di foglie persistenti e coriacee, dalla cuticola spessa adatta a
trattenere l’umidità, come nel leccio, tipico albero della macchia alta e della foresta mediterranea.
Da questo punto di vista, la macchia mediterranea bassa -costituita da associazioni vegetali
di modesta altezza, per lo più fino a 1,5 o 2 m, tra cui lentischi, filliree, alaterni, ginepri, cisti- e
la macchia alta -con piante alte fino a 4 o 5 m in cui sono presenti anche leccio, corbezzolo,
sughero, pini marittimi, pini di Aleppo- costituirebbero due tappe di una successione che
dovrebbe condurre alla sua comunità climax, ovvero alla lecceta o alla foresta sempreverde
mediterranea, intricate e impenetrabili con alberi ad alto fusto (a predominanza di lecci nel primo
caso, o con lecci misti ad altre essenze arboree nel secondo caso, in funzione del tipo di suolo
e del microclima in cui si sviluppa) entrambe con un fittissimo sottobosco interrotto da piscine
e piccole radure dovute a incendi o alla caduta di giganti della foresta giunti al termine del loro
ciclo vitale.
In realtà l’azione dell’uomo ha finito con lo spezzare il meccanismo della successione, facendo
sì che la macchia cosiddetta primaria, quella cioè sviluppatasi esclusivamente in base alle
caratteristiche fisiche reali dell’ambiente e del clima dove sorge, è assai rara nel nostro Paese,
se non assente. Di conseguenza, le varie tipologie di macchia mediterranea in cui ci si imbatte
sono, più che forme in evoluzione, forme di regressione dovute all’intervento umano sulla
vegetazione originaria.
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Il fuoco è sempre stato un fenomeno tipico dell’ambiente Mediterraneo e ha condizionato fortemente le
caratteristiche e i cicli vitali delle specie vegetali di questo ambiente. Gli incendi di tipo occasionale non avrebbero di
per sé grandi effetti permanenti nella macchia, poiché le specie vegetali che la costituiscono sono in grado, grazie
all’emissione di polloni, di ricostituire abbastanza rapidamente la comunità incendiata. In assenza di altri fattori, nel
giro di una decina di anni la vegetazione si ricostituirebbe naturalmente nel suo aspetto originario, rinascendo in un
certo senso dalle radici stesse delle piante superstiti.
Se però gli incendi sono, come purtroppo accade, ripetuti e ravvicinati nel tempo, la ripresa della comunità diviene
impossibile e finisce con l’instaurarsi un ciclo negativo, detto pirogeno, ovvero generato dal fuoco, che può portare
alla regressione definitiva della macchia, trasformando una splendida foresta con lecci, sughere e farnie, con un fitto
sottobosco popolato di centinaia di specie animali e vegetali, in un’arida gariga sterposa.
È questa al giorno d’oggi la principale minaccia, insieme ovviamente alle altre forme di disturbo e di interazione
legate alla nostra specie, come il pascolo, l’urbanizzazione, l’abusivismo edilizio e la creazione di nuove strade costiere
che interrompono la continuità tra macchia e sistema dunale, mettendo in pericolo la sopravvivenza dell’ambiente più
caratteristico del nostro Paese e della ricca e variegata fauna che lo popola.
Anche se non paragonabile per diversità e abbondanza a quella dei boschi delle zone più ricche d’acqua, la fauna
della macchia mediterranea presenta un elevato numero di specie, che occupano la grande varietà di nicchie offerte
da questo ambiente, nei tre livelli costituiti dal terreno, dalla fascia arbustiva del sottobosco e dagli alberi più alti. Molte
le specie di uccelli presenti, quasi tutte non esclusive di questo ambiente. Oltre a quelle già ricordate per le dune, si
incontrano la ghiandaia, l’upupa, il picchio rosso maggiore e minore, il picchio verde maggiore e minore e il torcicollo;
tra i numerosi rapaci ricordiamo il biancone, specializzato nella cattura di serpenti, piuttosto abbondanti in questo
ambiente; oltre al falco pecchiaiolo e al lodolaio, tra i rapaci notturni, non molto abbondanti nella macchia fitta,
troviamo la civetta, il piccolo assiolo, l’allocco, frequentatore della lecceta e il barbagianni, che occupa spesso i ruderi.
Ricchissima la fauna di invertebrati che comprende numerosi insetti tipici di questo ambiente che costituisce, tra l’altro,
un habitat molto favorevole alle scolopendre e agli scorpioni (non preoccupatevi! a dispetto della loro cattiva fama,
non hanno niente a che vedere con i loro pericolosi cugini tropicali). Tra gli anfibi si vedono le raganelle, piccole rane
arboricole dalla voce penetrante, e il rospo smeraldino; tra i rettili, che in questo ambiente trovano il loro paradiso,
oltre a tutte le specie italiane di gechi e di lucertole (compresi ramarro e lucertola ocellata) scinchi e gongili, orbettini,
il biacco, serpente che preferisce la macchia bassa e le radure, il cervone, che è il più grande serpente nostrano (supera
i 2,5 m), il saettone dalle abitudini più arboricole degli altri (quindi frequentatore anche della macchia alta), la vipera
comune, facile da osservare su rocce e muretti. Nel sud troviamo anche il bellissimo colubro leopardiano, uno dei più
bei serpenti italiani. Frequentatrice abituale di questo ambiente è la testuggine terrestre, sia l’autoctona Testudo
hermani che le meno abbondanti T. graeca e T. marginata.
Numerosi i mammiferi: piccoli roditori come arvicole, ratti, topolini campagnoli, insettivori come i toporagni, le
talpe che frequentano le radure e pascoli aridi, il riccio e diverse specie di pipistrelli; un abitante caratteristico è l’istrice,
che contende alla marmotta il record di più grande roditore italiano; sono poi presenti la lepre e il coniglio selvatico.
Altri piccoli mammiferi arboricoli sono lo scoiattolo rosso, il moscardino e il quercino, attivamente cacciati dalla sempre
più rara martora, unico predatore arboricolo. Tra gli altri predatori, oltre all’onnivoro tasso, troviamo la faina, la donnola,
la puzzola e l’ubiquitaria volpe. Tra gli ungulati, originari di questo ambiente sono il capriolo e il cervo, ai quali si è
aggiunto il daino, importato in epoca storica dall’Asia minore, che ha spesso un effetto devastante sulla vegetazione
della macchia. A questo proposito un cenno a parte merita il cinghiale, la cui varietà italiana piccola, rustica e poco
prolifera sarebbe assai adatta a questo ambiente in cui si è evoluta; purtroppo è stata soppiantata, in gran parte del
nostro Paese, da sciagurati ripopolamenti con esemplari dell’est europeo, adattati ai boschi di latifoglie ricchi di cibo,
di dimensioni e prolificità doppie rispetto a quelle dei cinghiali nostrani, con conseguenti devastanti effetti sulla
vegetazione mediterranea e sulle colture confinanti.
Stagni salmastri e laghi costieri
Nei lunghi tratti di costa pianeggiante, spesso il confine tra la terra e l’acqua non è così netto come potrebbe
apparire: con una certa frequenza alle spalle delle dune sabbiose si formano lagune, laghi e stagni costieri. Sono
ambienti umidi di straordinaria importanza, in cui la vita è fortemente condizionata dalla presenza più o meno
significativa del sale.
Anche se in alcuni casi le lagune sono create da movimenti di sprofondamento del territorio costiero, nella maggior
parte la presenza di questi ambienti può essere ascritta all’azione delle onde marine.
Le stesse onde che creano spesso problemi per la forte azione erosiva, in punti della linea costiera depositano quello
che in altre parti hanno strappato.
Il litorale lagunare si sviluppa quindi nei punti dove il moto ondoso può scaricare i sedimenti che derivano o dal
trasporto di fiumi (spesso le lagune si sviluppano in connessione con le aree fluviali) oppure provenienti dall’erosione
operata su altre aree costiere.
Questo fenomeno si verifica in particolare quando il moto ondoso non è diretto in modo perpendicolare alla costa,
ma la colpisce in modo obliquo, creando un flusso di sedimenti che vengono trasportati parallelamente alla costa e
che finiscono per depositarsi ed accumularsi dove le onde, per diversi motivi, perdono la loro energia e forza.
Questo può avvenire per l’esistenza di fondali con pendii molto dolci o per la presenza di ostacoli come secche,
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Anche le anguille rientrano a buon diritto tra la fauna tipica di questi luoghi. Pesci dal corpo
serpentiforme e dalla straordinaria capacità di resistenza fuori dall’acqua (respirano oltre che con
le branchie anche attraverso la pelle umida) nascono in mare aperto dove le larve dalla tipica
forma a foglia compiono i vari stadi della loro metamorfosi; a tre anni di età risalgono i fiumi e
i corsi d’acqua, insediandosi anche nei laghi sia salmastri che di acqua dolce. Le anguille
mediterranee nascono in pieno Oceano Atlantico, nel Mar dei Sargassi, penetrano attraverso
Gibilterra, allungando il loro viaggio di un anno rispetto alle anguille nord europee.
Per raggiungere la loro destinazione compiono un viaggio incredibile; durante la migrazione,
che sembra sia guidata dall’olfatto e che le conduce a specchi d’acqua dove risiedono già anguille
adulte, sono addirittura in grado di uscire fuori dall’acqua, strisciando come serpenti durante la
notte sul terreno molto umido, per raggiungere stagni o laghetti isolati.
I maschi trascorrono in questi luoghi dai 10 ai 12 anni mentre le femmine, molto più grandi,
dai 10 ai 18 anni per poi migrare di nuovo in mare aperto per riprodursi, sempre nel Mar dei
Sargassi. Alcuni esemplari, invece, trascorrono tutto il resto della loro vita nelle acque dolci e
finiscono con il raggiungere dimensioni veramente considerevoli: le femmine possono superare
1,5 m di lunghezza e i 5 kg di peso. La vita di questi esemplari può essere molto lunga e si
conoscono casi di anguille allevate in acquario o in piccoli stagni vissute oltre 80 anni!
Tra gli altri vertebrati troviamo rane e raganelle, oltre alla bellissima biscia d’acqua, e alle
tartarughe palustri mentre numerosi mammiferi frequentano le rive, alcuni tipici come il toporagno
acquaiolo, altri presenti anche nella macchia circostante.
Una nuova specie da qualche tempo popola le acque di fiumi, laghi e lagune italiane. Parliamo
della nutria, o castorino americano, grosso roditore originario del Sud America dall’aspetto simile
a un gigantesco ratto, con la lunga coda scagliosa. Parecchi esemplari, fuggiti dagli allevamenti
(o liberati volontariamente) hanno finito con il colonizzare molti corsi e specchi d’acqua. Altre
specie esotiche arrivate nel nostro Paese sono il topo muschiato e il visone. Anche i ratti,
ovviamente, frequentano le rive degli specchi d’acqua costieri, con una particolarità: vicino
all’acqua, invece di fare il nido scavando gallerie nel terreno, costruiscono sui rami degli alberi
più grandi dei complessi nidi di foglie dalla forma più o meno sferica!
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un airone cinerino
nel lago costiero
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LE COSTE
isole o promontori. Si creano così zone di calma che consentono alle correnti di scaricare
sedimenti e accumularli, dando luogo a delle barre sabbiose sommerse che possono innalzarsi
sino a emergere, formando dei cordoni sabbiosi paralleli alla costa. In altri casi questi possono
congiungere la costa alle isole o ai promontori: sono i tomboli, come quelli che si possono
ammirare sul promontorio dell’Argentario e che delimitano la laguna di Orbetello.
Con il tempo queste barre, che modificano a loro volta l’andamento delle correnti, finiscono
con il saldarsi alla costa intrappolando al loro interno spazi di mare più o meno ampi, dando
vita così a lagune, laghi costieri e stagni salsi e salmastri.
Spesso, con il continuo depositarsi della sabbia e con la formazione di dune grazie all’azione
del vento, diminuiscono gli apporti di acqua salata, dando vita a laghi di acqua dolce.
Questo ambiente è generalmente caratterizzato da una notevole variabilità di fattori
fondamentali come l’ossigenazione delle acque, la salinità e la quantità d’acqua presente nel
bacino; variabilità che si genera in relazione alla tendenza all’insabbiamento, all’eventuale
apporto d’acqua dolce, alle infiltrazioni di acqua salata, all’evaporazione (alcuni bacini si
prosciugano nel periodo estivo).
Questi specchi d’acqua costituiscono ambienti ricchissimi di vita, sia vegetale che animale.
La vegetazione varia ovviamente a seconda delle caratteristiche dei suoli circostanti e del
contenuto salino dell’acqua. Potremo dunque avere lungo le rive piante come lo statice, la suaeda
marina o la salicornia che, come è facile intuire dal suo stesso nome, è amante delle alte
concentrazioni saline, oppure una fitta distesa di canneti, carici, giunchi, tife, felci palustri, con
una vegetazione sommersa che sfuma da alghe tipicamente marine come l’ulva alla vegetazione
tipica dei laghi di acqua dolce.
Il canneto può essere presente sia nelle paludi d’acqua dolce che negli stagni, nelle lagune
e nei laghi salmastri, perché esistono specie tolleranti al sale (eurialine) e altre meno tolleranti
(stenoaline).
Questi ambienti, che un tempo venivano considerati plaghe desolate da bonificare e
prosciugare, hanno in realtà una ricchissima fauna ittica, tanto che ai nostri giorni sono diventati
importanti per la piscicoltura. Tra le diverse specie presenti spiccano pesci come le orate, le
spigole o i cefali, in grado di vivere indifferentemente sia in mare che in acqua dolce. I cefali,
che sono per questo annoverati tra le specie eurialine, a primavera entrano in gran numero nelle
lagune e nei laghi comunicanti con il mare per poi uscirne in autunno, prima degli accoppiamenti
invernali.
Ma lo spettacolo realmente straordinario è quello offerto dagli uccelli acquatici, a partire dal grande elegante
fenicottero rosa. Negli stagni salmastri della Sardegna nidifica ormai dal 1994; forma grandi stormi di centinaia di
individui che si nutrono di artemie saline (piccoli crostacei) che filtrano con il loro particolarissimo becco. Oggi si
possono avvistare anche nel resto d’Italia. Gli eleganti aironi, il grigio, il rosso, la garzetta e il tarabuso, le tante specie
di anatre, germani reali, folaghe, tuffetti, svassi, porciglioni, cormorani, cavalieri d’Italia, martin pescatori, il falco di
palude, trasformano questi luoghi in autentici paradisi per i bird watchers di ogni età, purché forniti di un binocolo, di
una macchina fotografica e di un buon manuale di identificazione.
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8
LA PRESSIONE DeLL’UOMO
SUGLI ECOSISTEMI MARINI
L’inquinamento
Che vuol dire inquinamento
Una delle principali conseguenze che le attività di una società industrializzata hanno sugli oceani, da sempre utilizzati
come discarica finale, è l'inquinamento. Secondo gli esperti dell’ONU che si occupano di mare, l’inquinamento marino si
può definire come «l’introduzione diretta o indiretta da parte umana, di sostanze o energia nell’ambiente marino... che
provochi effetti deleteri quali danno alle risorse viventi, rischio per la salute umana, ostacolo alle attività marittime compresa
la pesca, deterioramento della qualità dell’acqua e riduzione delle attrattive». Secondo questa definizione, quindi,
l’inquinamento non è solo quello causato dalla fuoriuscita di petrolio durante un incidente oppure prodotto da attività illegali
di scarico in mare di rifiuti, magari tossici, ma può assumere molte differenti forme, dalla immissione nel mare di acque
calde per il raffreddamento di impianti industriali o delle centrali -che possono alterare la composizione delle comunità viventi
presenti- al rumore prodotto dalle attività umane civili o militari che disturba i cetacei, all’immissione nell’ambiente marino
di tutte le varie sostanze prodotte dall’uomo, come quelle presenti negli scarichi industriali o negli scarichi fognari urbani
non depurati, che provocano inquinamento microbiologico o eutrofizzazione, o la dispersione in acqua dei pesticidi e dei
fertilizzanti usati in agricoltura o delle altre miriadi di sostanze chimiche che usiamo ogni giorno come medicine, lubrificanti,
detersivi, prodotti di bellezza, ritardanti antifiamma, isolanti elettrici, oppure gli scarti delle lavorazioni minerarie, o i rifiuti
radioattivi ospedalieri, o gli indistruttibili cotton fioc che gettati nel water intasano i depuratori sino a tutta la plastica che
produciamo: buste, barattoli e bottigliette. Tutti oggetti che se non vengono correttamente smaltiti e riciclati molto spesso
finiscono in mare.
L’accumulo degli inquinanti
Gli inquinanti possono essere assorbiti dagli organismi in maniera diretta (per contatto o per ingestione della sostanza
inquinante) o indiretta, attraverso la catena trofica con il consumo di animali e piante che a loro volta sono entrati in
contatto con la sostanza inquinante e l’hanno accumulata o concentrata nel proprio organismo. Alcuni tipi di sostanze
tossiche, come il mercurio, il PCB, il DDT, tendono ad accumularsi e a concentrarsi all’interno delle catene alimentari e delle
catene trofiche a causa di due fenomeni, il bioaccumulo e la magnificazione biologica, di cui abbiamo già parlato e che
possono combinarsi insieme con effetti disastrosi per l’ambiente.
Magnificazione
biologica:
il fitoplancton viene
ingerito dallo
zooplancton di cui si
nutre la sardina, che
viene a sua volta
predata dal tonno.
Seguendo la catena
alimentare, le
sostanze tossiche si
possono accumulare
in quantità via via
maggiori fino a
divenire pericolose
anche per l'uomo
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Inquinamento di origine marina.
Secondo l’Organizzazione Marittima Internazionale delle Nazioni Unite tra le fonti di
inquinamento delle acque solo il 23% è costituito da sorgenti marine e tra queste la percentuale
del 12% è quella legata all’inquinamento dovuto al trasporto marittimo, alle attività di discarica
a mare e alle attività di perforazione delle piattaforme petrolifere. Il 44% delle sostanze inquinanti
arriva invece dalla terraferma e il 33% dall'atmosfera. Secondo l’UNEP, il programma ambientale
delle Nazioni Unite che si occupa di protezione dell’ambiente, finiscono in mare ogni anno oltre
121 milioni di barili di petrolio provenienti sia da fonti terrestri che marine. Di questa enorme cifra,
oltre 12 milioni di barili sono dovuti al solo traffico navale e di questi solo una parte relativamente
piccola, circa 600.000 barili è prodotta da incidenti.
Il resto proviene tutto o da operazioni illegali, come il lavaggio delle cisterne o da operazioni
cosiddette di routine, cioè di scarichi in mare di miscele oleose che non solo sono perfettamente
legali ma sono anche legati alla normale attività operazionale della nave, come per esempio lo
scarico dell’acqua di sentina.
Dati forniti dal Piano D’azione Mediterraneo delle Nazioni Unite ci dicono che da 100.000 a
150.000 tonnellate di idrocarburi finiscono ogni anno nelle acque del mare nostrum (oltretutto per
restarci visto che, come abbiamo già detto, il Mediterraneo impiega 100 anni circa per rinnovare le
sue acque), in gran parte per inquinamenti legati a operazioni di routine. Si tratta di una quantità
da 5 a 8 volte maggiore del petrolio fuoriuscito nel corso degli incidenti dell’Erika e del Prestige che
causarono le due ultime terribili maree nere in Francia e Spagna e questo accade ogni anno!
Oltre alle maree nere ci sono poi altre forme di inquinamento provocate dalla attività di una
nave. Per esempio gli scarichi degli impianti igienici (pensate che alcune grandi navi da crociera
hanno a bordo migliaia di persone, ovvero tanta gente quanta ce n’è in una piccola città!) e i
rifiuti di bordo: rifiuti organici dalle cucine o plastica, vetro e scatolame provenienti dagli
imballaggi del cibo e delle bevande che spesso finiscono con l’essere smaltiti semplicemente
gettandoli in mare. Poi c’è l'inquinamento atmosferico: a differenza di tutti gli altri mezzi di
trasporto, infatti, le navi fino ad oggi hanno adoperato carburanti in cui il contenuto in zolfo e
in ossidi di azoto (NOx) non era sottoposto ad alcuna limitazione (anzi diciamo che hanno
adoperato quello che era troppo sporco per essere usato a terra!). Solo adesso sia a livello
europeo che internazionale stanno entrando in vigore norme per diminuire l’impatto delle
emissioni delle navi. La presenza di zolfo nei carburanti è all’origine delle piogge acide mentre
un'altra fonte non trascurabile del fenomeno è rappresentata dalla deposizione atmosferica di
ossidi di azoto (NOx) derivanti dalle loro emissioni.
Particolarmente grave è il problema dell'introduzione di specie esotiche nell'ecosistema marino
attraverso le acque di zavorra, ma di questo parleremo in seguito con maggiore attenzione.
Inquinamento di origine terrestre
Come abbiamo visto, secondo le Nazioni Unite circa l’80% di tutto l'inquinamento che troviamo
nei mari e negli oceani deriva dalle attività a terra. Molte sostanze pericolose penetrano nell'ambiente
marino in seguito allo scarico, all'emissione e alla fuoriuscita connessi a processi industriali, mentre
un’altra serie impressionante di sostanze provengono dall’agricoltura intensiva che utilizza grandi
quantità di pesticidi e fertilizzanti. Ma anche le normali attività commerciali o domestiche possono
contribuire moltissimo! Spesso non ci si rende conto di tutto quello che noi stessi immettiamo
giornalmente nell’ambiente e che finirà poi in mare, basti pensare agli amanti del fai da te che si
cambiano da soli l’olio della macchina o del motorino e versano nello scarico l’olio esausto, spesso
non sapendo che un litro di olio esausto può contaminare migliaia di litri di acqua di mare. Pensiamo
poi alle medicine scadute o ai residui di sciroppi e antibiotici che laviamo via dal cucchiaio e facciamo
finire in mare. O a tutte le centinaia di prodotti per la pulizia della casa, sempre più specializzati,
anche se in realtà contengono sempre le stesse sostanze, detersivi che finiscono comunque in mare,
e poi prodotti insospettabili, sostanze utilizzate come isolanti o ritardanti antifiamma nelle
apparecchiature elettroniche, come i policlorobifenili o PCB una sostanza che per la sua caratteristica
di persistenza ormai troviamo ovunque, persino nel latte materno e di cui non conosciamo ancora
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molti dei rifiuti che
finiscono in mare
liberano sostanze
altamente inquinanti
e nocive per la
salute
ogni anno
più di 100.000 t di
idrocarburi finiscono
nel Mediterraneo
per operazioni
illegali o di routine,
senza contare gli
sversamenti per
incidenti
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LA PRESSIONE DELL’UOMO
SUGLI ECOSISTEMI MARINI
Tipologie di inquinamento
Possiamo distinguere tre differenti tipi di inquinamento marino:
inquinamento sistematico causato dall’immissione continua nel tempo di inquinanti: scarichi
fognari, reflui industriali, dilavamento terreni,
inquinamento operativo causato dall’esercizio di natanti: lavaggio cisterne, scarico delle acque
di zavorra e di sentina, ricaduta fumi, vernici antifouling,
inquinamento accidentale causato da incidenti: naufragi, operazioni ai terminali, blow-out da
piattaforme, rottura condotte,
gli effetti sulla nostra salute. Data l’intrinseca tossicità, persistenza e tendenza al bioaccumulo, molte sostanze naturali e
artificiali sono in grado di danneggiare i processi biologici negli organismi acquatici e possono anche finire con il penetrare
nel nostro organismo.
La natura degli inquinanti
L'impatto dell'inquinamento sul mare assume varie forme. L'inquinamento che deriva dai liquami delle fognature
non sufficientemente depurate può creare problemi di inquinamento microbiologico, con presenza di virus come quello
dell’epatite e batteri coliformi fecali. Ciò dipende dal mancato o insufficiente trattamento delle acque reflue. Gli scarichi
urbani, la presenza di alcune sostanze presenti nei detersivi e gli scarti dell'agricoltura sono alla base del fenomeno
chiamato eutrofizzazione, causata da un eccessivo apporto di nutrienti (azoto e fosforo). Un'altra fonte d’inquinamento
non trascurabile è rappresentata dalla deposizione atmosferica di ossidi di azoto derivante dalle emissioni delle navi,
che favorisce, in prossimità delle coste, la proliferazione di alghe che sottraggono ossigeno all'acqua. L'inquinamento
industriale peggiora spesso la situazione, perché alcune delle sostanze che dagli scarichi delle industrie finiscono in
mare contribuiscono anch’esse a sottrarre ossigeno all'acqua. Del petrolio abbiamo già parlato ma ci sono altre sostanze
chimiche che minacciano la salute degli oceani. Sono infatti circa 100.000 i composti chimici impiegati in tutto il mondo,
un numero alto che aumenta continuamente con un ritmo di oltre mille nuove sostanze immesse ogni anno sul mercato.
Di queste, oltre 4500 sono potenzialmente pericolose per la salute dell’uomo e degli organismi marini; sono i cosiddetti
POP, Persistent Organic Pollutant, ovvero inquinanti organici persistenti, una definizione complicata per descrivere una
cosa molto semplice: si tratta di sostanze che non solo sono tossiche, ma non vengono degradate nell’ambiente marino
e tendono ad accumularsi nei tessuti degli organismi provocando conseguenze gravi come alterazioni del sistema
ormonale, tumori, sviluppo embrionale alterato, inversione sessuale, difficoltà riproduttive, alterazioni del processo di
crescita e del sistema immunitario. Alcuni esempi sono le diossine, i PCB insieme a molti tipi di insetticidi e al DDT.
Come se non bastasse i POP possono essere trasportati lungo grandi distanze in atmosfera attraverso il meccanismo
dell’evaporazione e della precipitazione delle piogge, con una tendenza a rimanere in maggiore quantità nelle regioni
più fredde, dove l’evaporazione è meno intensa. Il risultato è che troviamo DDT -che ormai è usato solo da alcuni Paesi
cosiddetti sottosviluppati per combattere il flagello della malaria- nei tessuti del salmone scozzese, nel grasso delle
foche artiche e nell’organismo dei cacciatori inuit che di quelle foche si nutrono! La cosa più preoccupante, perché può
darci una idea concreta di quanto persistenti siano questi composti, è che alcune delle sostanze più pericolose, da
tempo ormai non utilizzate, continuano ad essere rinvenute in abbondanza nell'ambiente marino che ne conserva così
la memoria. Quello che non bisogna mai dimenticare è che gli esseri umani sono in cima alla catena alimentare e
quindi rischiano di essere i recettori finali di contaminanti che tendono al bioaccumulo e alla bioamplificazione.
L'incremento delle attività umane lungo la costa (ad es. sviluppo dei porti, lavori di protezione del litorale, bonifica
dei terreni, attività turistiche, estrazione della sabbia e della ghiaia) ha un grave impatto sugli habitat costieri e sui
relativi processi ecologici, che può ripercuotersi anche a notevole distanza dalla riva. In particolare tra le attività
industriali destano preoccupazione e necessitano di particolare regolamentazione le industrie minerarie (anche le
piattaforme petrolifere) e le industrie di lavorazione dei metalli: la quantità di mercurio rilasciato nell'ambiente dalle
attività industriali è quattro volte quella imputabile ai processi naturali come le eruzioni vulcaniche. L'inquinamento da
macrorifiuti (plastica, polistirolo, lattine, bottiglie) è un problema che è purtroppo divenuto comune in tutti i mari del
globo. Secondo un rapporto dell’UNEP ogni anno circa 6,4 milioni di tonnellate di macrorifiuti vengono scaricati in mare,
con una media di oltre 8 milioni di pezzi al giorno! Di questi oltre 5.000.000 proverrebbero dalle navi. Nel Mare del
Nord alcuni scienziati tedeschi hanno contato 110 pezzi di rifiuti (barattoli, bottiglie, plastica) per chilometro quadrato
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20.000 bombe in fondo al mar
Come se tutto quello che abbiamo detto del nostro mare non fosse già abbastanza, si resta
sconcertati nello scoprire che nelle sue profondità si cela anche un vero e proprio arsenale:
bombe a grappolo, bombe a mano, ordigni chimici contenenti agenti letali o altamente tossici,
proiettili all’uranio impoverito; la guerra continua in fondo al mare. Tutto è cominciato durante
la prima guerra mondiale quando alcuni paesi belligeranti iniziarono una grande produzione di
armi chimiche. Nonostante il trattato di Versailles del 1922 e la convenzione di Ginevra del ’25
avessero messo al bando il loro uso, molte nazioni, tra cui l’Italia, continuarono a produrne in
grandi quantità e a lungo. Dove credete che siano finite tutte le bombe di cui gli stati dovettero
poi liberarsi? Ma in fondo al mare naturalmente! In ossequio al caro vecchio concetto del mare
pattumiera che può assorbire e nascondere tutto, dalle bombe chimiche a quelle sganciate dagli
aerei che tornavano carichi dalle missioni di guerra in Kossovo e che non potevano atterrare con
le bombe innescate. Basta chiedere ai pescatori che ogni tanto con le reti ne tirano su qualcuna.
Per non parlare di tutti i rifiuti tossici che sono finiti in fondo al mare con le vecchie carrette, le
famose navi dei veleni che le trasportavano, affondate in base al principio dei due piccioni con
una fava: non solo mi sbarazzo di rifiuti pericolosi che avrei dovuto smaltire con grandi spese,
ma prendo anche i soldi dell’assicurazione!!
Conseguenze dell’inquinamento sull’ambiente marino e sull’uomo
Gli effetti degli inquinamenti in mare possono essere acuti, ovvero immediatamente percepibili
e generalmente provocano la morte degli organismi animali e/o vegetali. Comportano grandi e visibili
modificazioni immediate all’ecosistema. Un esempio tipico di effetto acuto è quello costituito da una
marea nera di petrolio: in mare il greggio forma una sottile pellicola che impedisce la penetrazione
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LA PRESSIONE DELL’UOMO
SUGLI ECOSISTEMI MARINI
di fondale: 600mila tonnellate solo nel Mare del Nord. Questi rifiuti possono soffocare i fondali
e uccidere le forme di vita che li abitano. Ma è la plastica la minaccia maggiore: ogni anno
vengono prodotte quasi dieci milioni di tonnellate di plastica, il 10% delle quali finisce in mare.
Una buona fetta della plastica (fino al 70%) è più pesante dell'acqua e finisce sui fondali, come
ben sanno i nostri pescatori a strascico: basterebbe dotare tutti i porti pescherecci di isole
ecologiche per consentire ai pescatori di smaltire i rifiuti raccolti con le reti anziché rigettarli a
mare, per raccoglierne migliaia di tonnellate all’anno. Conseguenze della presenza di questi
rifiuti in mare sono l'annegamento degli uccelli, che rimangono intrappolati nei sacchetti di
plastica, e la morte delle tartarughe, degli uccelli e dei cetacei per ingestione. Secondo le
Nazioni Unite la plastica che finisce nei nostri mari uccide ogni anno fino a 1 milione di uccelli
marini, 100.000 mammiferi marini e un numero incalcolabile di pesci. E la plastica non si
decompone, se non in migliaia di anni. Il mare, il moto ondoso, il sole e l'abrasione meccanica
riducono la plastica in minuscoli frammenti: ogni singola bottiglia può essere ridotta in tanti
piccoli pezzi che rimarranno in mare per centinaia di anni. E questo rende ancora più grave il
problema perché le creature del mare si decompongono ma non si decompone la plastica che
le ha uccise, che rimane nell'ecosistema ed è perciò potenzialmente in grado di uccidere altre
creature e di farlo più volte.
Come se non bastasse, molti studi hanno dimostrato che la plastica assorbe magnificamente i
contaminanti concentrandoli, diffondendoli e rendendoli ancora più micidiali per le creature che
dovessero ingerirli. Inoltre i rifiuti di plastica trasportano vari tipi di organismi che li usano come una
sorta di zattera per arrivare ed espandersi in zone che altrimenti non sarebbero in grado di
raggiungere.
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, in ogni km quadrato dei mari del mondo galleggiano
13.000 pezzi di plastica. I rifiuti di plastica tendono inoltre ad accumularsi in quelle aree di mare dove
i venti e le correnti sono deboli. Ci sono così aree oceaniche di enormi dimensioni che diventano
una sorta di isola di plastica galleggiante con concentrazioni tali che per ogni kg di plancton ne
troviamo 6 di rifiuti!!
Solo adesso si cominciano a prendere iniziative a livello internazionale per affrontare il problema,
ma ciascuno di noi può fare la sua parte, sia cercando di evitare o limitare l'acquisto di prodotti che
contengano parti in plastica (in particolare dei prodotti usa e getta) sia gestendo i propri rifiuti in
maniera responsabile. D'altra parte, occorre sensibilizzare i proprietari di barche, i gestori delle
piattaforme e chi lavora nel settore della pesca sulle conseguenze ambientali che ha l'abitudine
irresponsabile di gettare oggetti di plastica in mare. E possiamo fare anche dell’altro: è stato calcolato
un consumo medio annuo procapite di circa 300 g di pile nel nostro Paese, 300 g che contengono
almeno 1 g di mercurio, quantità sufficiente a contaminare 1.000 metri cubi di acqua e rendere
immangiabili 200 quintali di alimenti. Usare batterie ricaricabili e riciclare negli appositi contenitori
le batterie usate aiuta il nostro mare.
TEMPI MEDI DI DEGRADO DI RIFIUTI GETTATI IN MARE
Fazzolettino di carta: 3 mesi Fiammifero: 6 mesi Mozzicone di sigaretta: da 1 a 5 anni
Gomma da masticare: 5 anni Busta di plastica: da 10 a 20 anni Cotton-fioc: da 20 a 30 anni
Prodotti di nylon: da 30 a 40 anni Accendino di plastica: da 100 a 1.000 anni
Bottiglia di vetro: 1.000 anni Polistirolo: 1.000 anni
dell’ossigeno atmosferico nell’acqua provocando condizioni di anossia, ovvero mancanza di ossigeno, limita la penetrazione
della luce con ripercussioni sull’attività fotosintetica di alghe, fanerogame marine e fitoplancton, provocando una sensibile
diminuzione della produzione primaria; infine aderisce agli organismi che vivono o interagiscono con la superficie -mammiferi
marini, uccelli, organismi bentonici che vivono nelle aree periodicamente esposte dalla marea (intertidali), alghe, stadi
larvali, gameti- impedendone le normali funzioni vitali.
L’effetto di un inquinamento può invece divenire di tipo cronico, assumendo una forma molto più subdola e insidiosa.
Questo avviene quando la tossicità rimane ad un livello tale da non uccidere immediatamente gli organismi, ma le sostanze
inquinanti sono presenti ad un livello di concentrazione tale da provocare alterazioni sostanziali delle condizioni chimicofisiche dell’ambiente che con tempi più o meno lunghi si ripercuotono sull’ecosistema. Questa forma di inquinamento
finisce con il provocare effetti ritardati ma prolungati nel tempo come malattie croniche o tumori, che possono manifestarsi
anche dopo diverso tempo, oppure danneggiare il patrimonio genetico, provocando una diminuzione della capacità di
riprodursi, o di generare prole sana o ancora provocare effetti a livello dell’ecosistema come modificazioni della composizione
in specie delle comunità colpite dall’inquinamento o modificazioni delle interazioni ecologiche (es. preda-predatore) per cui
spesso si verifica una drastica riduzione della biodiversità.
Il costo dell’inquinamento: l’impronta ecologica
L’impronta ecologica è un modo suggestivo per misurare l’impatto della nostra specie sul nostro pianeta ed è costituito
in pratica dalla risposta a questa domanda: quanta Terra una persona richiede per poter sopravvivere? L'impronta ecologica
non è altro che uno strumento statistico che, pur essendo tutt’altro che preciso poiché non è in grado di tenere conto di
tutti gli impatti correlati alla nostra attività e presenza sul pianeta, tuttavia è in grado di dare una buona approssimazione
(sottostimata!) dell’'impatto ambientale dei nostri consumi e del nostro peso sul pianeta. Il concetto di base è che ogni
bene o attività umana comporta dei costi ambientali -cioè prelievi di risorse naturali- quantificabili in termini di metri quadri
o ettari di superficie. A seconda del tipo di consumo si farà riferimento a un tipo di superficie piuttosto che a un altro.
Confrontando l'impronta di un individuo o di uno stato (il discorso può ovviamente essere fatto semplicemente
moltiplicando i valori ottenuti per un singolo cittadino di un determinato paese per il numero di cittadini), con la quantità
di Terra effettivamente disponibile per ciascuno di noi (cioè il rapporto tra superficie totale e popolazione mondiale) si può
capire se il livello di consumi preso in esame è più o meno sostenibile. L'intera superficie delle terre emerse è composta
da foreste ed aree boschive, pascoli, terra coltivata o coltivabile, aree costruite, distese di rocce, ghiacciai e deserti non
utilizzabili per il sostentamento o la produzione di energia. Anche gli oceani e la loro capacità produttiva entrano in questa
misurazione. Il risultato di questo calcolo è il peso che ognuno di noi ha sulle risorse del pianeta. Quello che possiamo
scoprire è che l’impronta mondiale è leggermente superiore alla capacità produttiva del nostro pianeta, ovvero che stiamo
consumando più risorse di quanto la Terra è in grado di fornirci e che quindi stiamo intaccando il capitale naturale. Inoltre,
a fronte di una capacità sostenibile di 1.9 ettari procapite, la media mondiale è di 2.2 ettari e a creare questo squilibrio non
contribuiamo tutti allo stesso modo! Si va infatti dai 9.6 ettari che servono per sostentare i consumi di un cittadino USA o
di un cittadino austriaco, all’unico ettaro che deve bastare a un cittadino indiano, o allo 0.7 di un etiope, passando attraverso
i 4.2 dell’Italia, i 5.3 della Francia e gli oltre 6 della Svezia. E sono dati del 1995 che vedono per esempio la Cina pesare
per soli 1.4 ettari a testa, mentre sappiamo come in questi anni i consumi e lo stile di vita cinesi così come quelli indiani,
si siano molto avvicinati ai nostri. Quindi vuol dire che il nostro peso è ancora aumentato e che il nostro pianeta non potrà
mai sostenere una popolazione mondiale che abbia tutta lo stesso stile di vita e di consumi. L'Impronta ecologica di uno
statunitense medio è quasi il doppio di quella richiesta da un europeo occidentale, e circa 5 volte più grande di quella di
un abitante di un paese in via di sviluppo. Se attualmente ogni essere umano consumasse tante risorse naturali ed emettesse
tanta CO2 quanto un americano, avremmo bisogno di una superficie complessiva pari ad altri due pianeti come la Terra!
.
la pesca incontrollata e la pesca abusiva
Quando parliamo di pesca parliamo di un mondo molto variegato e complesso in cui il 90% dei pescatori mondiali è
coinvolto nella piccola pesca artigianale costiera, ma in cui il restante 10% è responsabile di oltre il 50% del prelievo. Più
di 3.5 miliardi di persone dipendono dall'oceano per la loro fonte primaria di alimento, ed è un numero che si prevede possa
raddoppiare nei prossimi 20 anni.
Il 95% del pescato mondiale proviene dalle acque costiere (80 milioni di tonnellate) che sono quelle soggette ai
maggiori rischi derivanti dall’inquinamento e dal disturbo costituito dalle attività umane.
Molti stock di specie ittiche d'importanza commerciale, come il merluzzo e il nasello, hanno raggiunto livelli critici; la
maggior parte delle specie oggetto di pesca è sfruttata ben oltre i limiti della sostenibilità. Secondo la FAO più del 70%
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il bycatch minaccia
tartarughe, cetacei,
uccelli e altri
animali non
commerciabili
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LA PRESSIONE DELL’UOMO
SUGLI ECOSISTEMI MARINI
delle specie marine pescate sono sfruttate fino o addirittura oltre il loro limite sostenibile e la
consistenza delle popolazioni di grandi pesci commercialmente importanti, quali il tonno, il merluzzo,
i pesci spada ed il marlin, è diminuita sino al 90% rispetto al secolo passato. Il 52% delle zone di
pesca devono essere considerate come sfruttate al massimo della loro possibilità mentre il 25% è
sovrasfruttato, con la conseguenza di rendere queste zone impoverite e vicine al collasso. Oltre 100
milioni di squali sono uccisi ogni anno per la loro carne e per le pinne usate per la famosa zuppa
considerata una vera prelibatezza in tutta l’Asia. Spesso i pescatori, per stivare una maggiore quantità
del carico più prezioso, si limitano a tagliare le pinne all’animale ancora vivo rigettandolo in mare
dove poi morirà. Ci si domanda per quale motivo continuiamo ad avere paura degli squali,
responsabili di poche decine di attacchi all’anno nei mari di tutto il mondo, di cui fortunatamente
pochi mortali, a fronte della strage che viene provocata dalla nostra specie, l’unico vero spietato
predatore degli oceani.
La pesca eccessivamente intensa causa gravi danni anche a specie ittiche non commerciali e ad
altre specie animali, come i cetacei, le foche, gli uccelli e le tartarughe, si tratta del cosiddetto
bycatch ovvero la cattura non voluta di specie che non interessano ai fini della pesca commerciale,
causata dall'uso di attrezzature di pesca non selettiva, quali reti a circuizione, palamiti e derivanti
ed ammonta alla spaventosa cifra di 20 milioni di tonnellate l'anno, con una cattura annuale di
oltre 300.000 cetacei tra delfini, focene e altre specie.
La pesca del gambero con il 2% del pescato globale, da sola provoca un terzo della cattura
secondaria totale. Con un rapporto tra pescato e cattura accidentale che va da 5:1 nelle zone
temperate al 10:1 e più nei tropici.
Oltre all'impatto diretto sulle specie, la pesca commerciale condotta senza rispettare le leggi è
responsabile dei danni ad alcuni tipi di habitat sensibili, come le praterie di posidonia e le scogliere
coralline d’alto mare, mentre la pesca di specie situate sempre più in basso nella catena alimentare
provoca alterazioni della struttura e del funzionamento dell'ecosistema marino.
I governi che aderiscono al programma mondiale di sviluppo sostenibile hanno sottoscritto
l’impegno di cercare di ristabilire urgentemente e possibilmente entro il 2015 la consistenza degli
stock ittici nell’ottica di uno sfruttamento sostenibile delle specie maggiormente importanti dal punto
di vista commerciale ma questo programma cozza contro l’azione di uno dei più gravi problemi
connessi al mondo della pesca: la pratica della pesca illegale.
Le comunità di pesca artigianale, che raccolgono la metà del pescato mondiale, stanno
vedendo le loro vite sempre più minacciate dalle flotte commerciali illegali che utilizzando
bandiere di comodo (perché è ai governi che spetta far rispettare le leggi ai propri pescatori,
anche in acque internazionali) e, utilizzando le scappatoie purtroppo presenti nelle norme
internazionali, sfuggono ai regolamenti per la gestione e la conservazione del patrimonio ittico
e alle norme sulla sicurezza e sui diritti dei lavoratori che sono trattati spesso come autentici
schiavi. La pesca pirata devasta gli ecosistemi marini e danneggia comunità costiere che fanno
affidamento sulla pesca locale per il proprio sostentamento. Ogni anno, la pesca illegale mediante
palamiti lunghi fino a 80 miglia, con migliaia di ami innescati provoca l’uccisione di oltre 300.000
uccelli marini tra cui 100.000 albatros.
I governi che aderiscono al programma mondiale di sviluppo sostenibile si sono impegnati a
perseguire l’eliminazione delle pratiche della pesca globale e a diminuire le sovvenzioni alla pesca
che non siano mirate a garantirne la sostenibilità. Le sovvenzioni di governo -valutate da 15 a 20
miliardi di dollari all’anno- rappresentano quasi il 20% complessivo dei redditi all'industria della
pesca in tutto il mondo e finiscono con il promuovere la pesca eccessiva e accelerare l’esaurimento
delle risorse ittiche
Il turismo selvaggio
L’urbanizzazione eccessiva -spesso dovuta a fenomeni di abusivismo edilizio- e l’eccessivo carico antropico localizzato
in periodi ristretti dell’anno possono mettere a dura prova gli ecosistemi marini delle località turistiche. Oltre 175 milioni
sono i turisti che nell’arco dei pochi mesi estivi ed in particolare ad agosto, mese in cui chiudono la maggior parte delle
aziende, si concentrano nei Paesi che affacciano sul Mediterraneo, in particolare lungo le coste; secondo le stime dell’UNEP
a questa enorme massa di presenze sono destinati ad aggiungersi da qui al 2025 altri 137 milioni di turisti.
Il turismo di per sé è un fenomeno positivo, sia per chi lo pratica che ne trae indubbi vantaggi dal punto di vista
dell’accrescimento culturale, dello scambio di vedute e di esperienza o anche semplicemente in termini di riposo, sia per i
Paesi che dal turismo traggono importanti fette della propria ricchezza nazionale. Basti pensare che nella sola Italia il
fatturato turistico nel 1997 ha rappresentato circa il 12% del PIL, una percentuale notevole di cui il 56% è stato generato
direttamente dai consumi dei turisti. Un turismo sostenibile può quindi essere un importante volano di sviluppo ed una
valida alternativa ad uno scriteriato sviluppo industriale in zone ancora poco industrializzate del mondo e del nostro stesso
Paese. Ma in questo caso la sostenibilità della risorsa è ancora più importante perché un turismo dissennato fatto di
cementificazione delle coste e di una pressione eccessiva e troppo concentrata della presenza umana, finisce con il
distruggere la fonte stessa di attrattiva nei confronti del turista, sempre più alla ricerca di naturalità, di ambienti integri, di
riscoperta di tradizioni e abitudini differenti, di gastronomia basata su prodotti locali, di paesi caratterizzati da una propria
identità e non solo di divertimentifici tutti uguali, che finiscono con il ricreare in piccolo tutte le condizioni urbane da cui
si cerca di fuggire. Un’importante battaglia da condurre è quindi quella dell’allungamento della stagione turistica delle
località di mare sia per diluire nel tempo gli impatti che per rendere più fruibili questi luoghi per i turisti e per i residenti.
Gran parte di questi flussi si concentrano infatti nella stagione estiva, con un’affluenza che registra nel mese di agosto picchi
vicini al 55% creando problemi di sostenibilità sia a livello ambientale in senso stretto che di funzionalità di servizi come
la disponibilità d’acqua, la gestione dei rifiuti, la depurazione dei reflui, la gestione del territorio, i trasporti e le emissioni
in atmosfera.
In questo panorama, un’attività come il turismo subacqueo, una forma di turismo inizialmente considerata di nicchia,
ma che sta nel tempo assumendo una dimensione sempre più di massa, può costituire non solo un utile stimolo alla
crescita dell’offerta turistica e di tutto l’indotto susseguente, ma anche un importante contributo alla delocalizzazione
stagionale dei flussi turistici. Secondo dati presenti in uno studio commissionato dall’Assosub, l’associazione che
riunisce gli operatori del settore subacqueo, industrie, importatori, diving, tour operator, didattiche e imprese editoriali,
in Italia tra praticanti dello snorkeling e subacquei che adoperano l’erogatore si possono contare circa 2.500.000
persone, ed in questo quadro le aree marine protette possono rivestire un ruolo importante contribuendo a sviluppare
forme sempre più evolute di turismo sostenibile, sia per quello che riguarda la subacquea o il diporto nautico, che per
tutte le altre forme di fruizione del mare.
La pressione sulle coste
Sulle sponde del nostro mare vivono quasi 400 milioni di abitanti, dei quali circa 130 milioni, pari al 35%, vive nelle
aree costiere.
I dati forniti dal Piano di Azione Mediterranea delle Nazioni Unite sono impressionanti: lungo le coste del nostro mare
troviamo 584 città, 750 porti turistici e 286 commerciali, 13 impianti di produzione di gas: 55 raffinerie, 180 centrali
termoelettriche, 112 aeroporti e 238 impianti per la dissalazione delle acque. Oltre 200.000 navi solcano ogni anno le acque
del Mediterraneo, tra cui molte petroliere: le acque mediterranee sono tra le più inquinate al mondo da residui catramosi.
Pur rappresentando solo lo 0,7% del totale della superficie delle acque del pianeta, nel Mediterraneo transita il 23% del
traffico mondiale marittimo di prodotti petroliferi. Secondo molte stime, proseguendo con il trend attuale, altri 20 milioni
di persone andranno ad aggiungersi alla popolazione residente entro il 2025, così come ulteriori 137 milioni di turisti si
uniranno ai 175 milioni che già oggi frequentano i paesi mediterranei nei mesi estivi. Questo territorio costiero così sotto
pressione, diventa via via sempre più ridotto perché il fenomeno erosivo delle coste rosicchia ogni anno nuove fette di
territorio. La cementificazione del letto di fiumi e torrenti assieme alla costruzione di dighe e la deviazione artificiale dei
corsi d’acqua ha, infatti, negli ultimi 50 anni diminuito del 90% la quantità di sedimento che raggiunge il mare. Questo
impedisce l’apporto di sabbia e detrito necessario a mantenere vitali le nostre spiagge, il risultato è che ogni anno spariscono
dai 30 centimetri ai 10 metri di litorale sabbioso, e che si spendono milioni di euro per cercare di contrastare il fenomeno.
Italia, Spagna e Grecia hanno il poco piacevole primato Mediterraneo per l’erosione costiera: le loro spiagge si sono ridotte
del 40% nell’ultimo mezzo secolo.
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I CAMBIAMENTI CLIMATICI
La terra è un sistema in continua evoluzione: milioni di specie sono apparse sul nostro pianeta e si sono estinte; la sua
superficie è in continuo movimento a causa dei continenti che, nel corso di milioni di anni, se ne sono andati a spasso sul
globo. Anche il clima da questo punto di vista non fa eccezione; basti pensare che, qualche decina di migliaia di anni fa,
mammut e rinoceronti lanosi percorrevano in lungo e largo la nostra penisola durante le ere glaciali, per essere
temporaneamente sostituiti da leoni e giraffe. Lo stesso livello del Mediterraneo ha subito continui cambiamenti e in un
periodo della sua esistenza il nostro mare è stato addirittura completamente in secca, ridotto a una sterminata distesa di
sale. Anche il clima dunque è tutt’altro che stabile ed immutabile, subendo nel corso delle ere cambiamenti notevoli, dovuti
a oscillazioni dell’asse terrestre, al cambiamento della composizione dell’atmosfera, a mutamenti dell’intensità della
radiazione solare, a eruzioni vulcaniche che hanno avvolto la terra con nuvole di polvere impalpabile in grado di riflettere
il calore del sole verso lo spazio.
Ma allora perché da un po’ di tempo a questa parte si fa un gran parlare di clima, di cambiamenti climatici e di
riscaldamento del nostro pianeta?
Perché non solo ci siamo accorti che qualcosa sta cambiando intorno a noi, ma soprattutto ci siamo accorti che sta
avvenendo molto velocemente, troppo velocemente per consentirci di adattarci al mutamento. Negli ultimi cento anni
la temperatura media superficiale dell’aria è aumentata di 0,6 gradi centigradi a livello mondiale e di quasi un grado
nel nostro continente. Secondo molti scienziati, il XX secolo è stato il secolo più caldo da quando si registrano i dati
climatici, mentre gli anni ’90 hanno il poco piacevole record di essere stati il decennio più caldo degli ultimi 1.000 anni.
Un record, però, che rischia di durare molto poco visto che secondo la NASA quattro dei cinque anni più caldi mai
registrati sono nell’ordine il 2005, il 2002, il 2003 e il 2004. L’anno più caldo dal 1861 -momento in cui si è iniziato a
registrare le misurazioni- è stato il 1998!
Le Nazioni Unite per cercare di comprendere il fenomeno hanno costituito nel 1998 L'Intergovernmental Panel on Climate
Change (IPPC) che riunisce migliaia di esperti del clima di ogni parte del mondo. Tra questi scienziati è andata via via
crescendo la consapevolezza che stiamo attraversando una fase di surriscaldamento del nostro pianeta, attribuibile all’azione
umana. Nel loro ultimo rapporto hanno stimato che la temperatura media globale se non si interviene aumenterà entro il
2100 tra 1,4 e 5,8°C. Può sembrare una cifra insignificante, ma per comprenderla fino in fondo può essere utile sapere che
la temperatura media globale durante l’ultima glaciazione di 11.500 anni fa, quando l’Europa era sepolta sotto uno spesso
manto di ghiaccio, era solo 5°C in meno di quella attuale.
La stragrande maggioranza degli scienziati concorda nell’individuare la causa principale di tutto ciò, nel famoso ed
ormai famigerato effetto serra. Questo è dovuto alla concentrazione sempre maggiore nell’atmosfera dei cosiddetti gas
serra, come il biossido di carbonio (CO2) o il metano, che vengono generati dalle attività umane, in primo luogo dall’utilizzo
dei combustibili fossili e dalla distruzione delle foreste per far posto all’allevamento intensivo o alle colture a sommersione
(per esempio il riso) che rilasciano grandi quantità di metano.
L’effetto serra si chiama così perché è il medesimo fenomeno che si verifica all’interno delle serre utilizzate per la
coltivazione di ortaggi e primizie, che mediante l’impiego di coperture trasparenti ottengono senza altre forme di
riscaldamento un calore decisamente superiore a quello dell’ambiente circostante. La radiazione solare che permette la vita
sul nostro pianeta bombardandone durante il giorno la superficie, viene in parte trattenuta riscaldando la terra ed in parte
irraggiata nuovamente verso lo spazio sotto forma di raggi infrarossi. I gas serra nell’atmosfera svolgono in questo caso la
stessa funzione delle pareti trasparenti delle serre, lasciando passare la luce visibile che entra nell’atmosfera e trattenendo
i raggi infrarossi, provocando un aumento della temperatura al suolo. L’effetto serra non è di per sé un fenomeno negativo,
anzi è alla base dell’esistenza della vita sulla terra così come la conosciamo; senza di esso, la temperatura media globale
sarebbe infatti di circa -18°C, mentre attualmente è di +15°C.
Il problema è che le attività umane stanno aggiungendo all’atmosfera grandi quantità di quei gas che contribuiscono a
generare l’effetto serra: la deforestazione procede a ritmi impressionanti, foreste antichissime che hanno intrappolato nei
tronchi milioni di tonnellate di CO2 vengono bruciate per fare spazio a pascoli o a coltivazioni intensive; quantità ancora
più grandi di CO2 racchiuse sotto terra nei giacimenti di combustibili fossili, come il carbone e il petrolio, vengono liberate
e immesse nell’atmosfera dai motori a combustione, come quelli delle nostre auto.
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Il cambiamento climatico e il mare
Il cambiamento climatico ha gravi conseguenze sull’ecosistema mare: le variazioni possono
interessare la forza e la capacità di trasporto delle correnti oceaniche, la velocità di formazione della
massa d'acqua, il livello del mare, l'intensità e la frequenza dei fenomeni meteorologici, le
precipitazioni e la portata dei corsi d'acqua, con ripercussioni a valle sugli ecosistemi e sulla pesca.
Le attività umane che comportano la perdita di habitat naturali o la loro alterazione, possono
accentuare e moltiplicare gli effetti dei fenomeni naturali, resi già più estremi dal cambiamento
climatico. Basti pensare alle cementificazioni degli alvei dei fiumi, al dissesto idrogeologico in cui
versano per abusivismo ed errato utilizzo del territorio molte zone del nostro Paese e alle devastanti
alluvioni cui abbiamo dovuto assistere negli ultimi anni o alla più grande di tutte le devastazioni
naturali degli ultimi tempi, la tragedia dello tsunami che ha distrutto le coste asiatiche nel dicembre
del 2004. La perdita di ecosistemi naturali, ad esempio le mangrovie, a causa di sfruttamento
intensivo delle coste, come l’acquacoltura per la produzione di gamberi, si è rivelata in questo caso
altamente impattante. Questa forma di acquacoltura così importante commercialmente è però
estremamente distruttiva per l’ambiente: oltre a causare eutrofizzazione e inquinamento per la
grande quantità di mangimi e medicine che viene dispersa in acqua, è stata la principale responsabile
della distruzione di circa un quarto delle mangrovie del mondo, privando le coste di una importante
barriera naturale di difesa in grado di intercettare e attenuare la tremenda forza delle onde generate
dallo tsunami. Lo tsunami è infatti un fenomeno totalmente naturale, ma la sua azione è stata
amplificata dalle alterazioni all’ambiente apportate dall’uomo, con effetti disastrosi sugli ecosistemi
maggiormente intaccati o degradati, che per questo motivo risultavano decisamente più fragili. Nei
luoghi in cui la mangrovia era ancora presente, le devastazioni sono state molto minori; dove erano
state distrutte, l’onda dello tsunami è giunta direttamente sulla costa. Le mangrovie costituiscono
un ambiente importantissimo per la salute del nostro pianeta per molti altri motivi, ad esempio
costituiscono il luogo dove trovano rifugio uova, larve e piccoli per l’ 85% delle specie di pesci
commercialmente importanti dei tropici. Stesso discorso può essere fatto per le barriere coralline,
che negli ultimi anni hanno mostrato una significativa degradazione in ben 93 dei 109 paesi nelle
cui acque sono presenti. Anche se le barriere ricoprono meno dello 0,5% dei fondali, oltre il 90%
delle specie marine dipende direttamente o indirettamente da loro, per non parlare del fatto che circa
4.000 specie vivono nelle barriere, ovvero circa un quarto di tutte le specie ittiche esistenti. La
grande barriera corallina, nell’Australia orientale, lunga oltre 2.000 km è la più grande struttura
vivente sul nostro pianeta, visibile persino dalla luna. Ma il fenomeno dello sbiancamento dei coralli,
dovuto all’espulsione delle alghe simbionti a causa delI’innalzamento della temperatura dell’acqua,
costituisce una seria minaccia alla sopravvivenza di queste straordinarie strutture viventi. Nel 1998
oltre il 75% delle barriere coralline del globo è stato soggetto al fenomeno dello sbiancamento e di
queste il 16% sono morte. Anche il Mediterraneo sta iniziando a mostrare segni di cambiamento,
che si iniziano a percepire anche dalla presenza di specie nuove che popolano il nostro mare
provenienti da acque più calde, dando luogo a due nuovi fenomeni che interessano il mare nostrum:
la meridionalizzazione e la tropicalizzazione.
La meridionalizzazione del Mediterraneo
La meridionalizzazione, pur essendo direttamente legata ai mutamenti climatici, non è un
fenomeno dovuto a specie provenienti da altri mari, ma piuttosto a specie termofile (che preferiscono
cioè acque più calde) già presenti nel Mediterraneo, la cui distribuzione era limitata alle acque più
calde del bacino, situate nella porzione meridionale del mare nostrum.
Con il progressivo innalzarsi della temperatura queste specie hanno iniziato ad ampliare i loro
areali conquistando nuovi territori sempre più a nord e ad aumentare la propria presenza e quantità
dove erano già presenti, come nel caso del barracuda nel Mediterraneo. Ecco allora la possibilità di
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il pesce scorpione
è una delle specie
che potremo un
giorno incontrare
a causa della
tropicalizzazione
delle nostre acque
la caulerpa è
un pericolo per
la prateria di
posidonia
9
I CAMBIAMENTI CLIMATICI
Tutto ciò accentua il processo naturale e contribuisce al surriscaldamento del pianeta, generando
quello che gli scienziati definiscono un effetto serra accelerato. La concentrazione della CO2
nell’atmosfera è aumentata da 290 p.p.m.v (parti per milione in volume) nel 1880 a circa 380 p.p.m.v
nel 2006, e continua ad aumentare ad un ritmo pari a 1,4 p.p.m.v.!
Un primo timido tentativo di porre un freno a questa situazione è stato il protocollo di Kyoto
realizzato in seno alla Convenzione Quadro sul Cambiamento Climatico (UNFCCC). Si tratta di un
accordo internazionale, sottoscritto nel 1997 da 84 Paesi, che indica gli obiettivi per la riduzione dei
gas ad effetto serra, entrato in vigore nel gennaio 2005.
Con il Protocollo di Kyoto i paesi industrializzati si impegnano a ridurre, durante il primo periodo
di applicazione del Protocollo (2008-2012) il totale delle emissioni di sei gas ad effetto serra (CO2,
Metano, Ossido di azoto, Idrofluorocarburi, Perfluorocarburi, Esafluoro di zolfo) almeno del 5%
rispetto ai livelli del 1990.
osservare alcune specie in luoghi decisamente insoliti. È il caso del pesce balestra, del pesce pappagallo, o della
coloratissima donzella pavonina, che fino a dieci, quindici anni fa era presente solo a sud della Sardegna e della Campania
e che ora si può osservare facilmente anche in Liguria. Questi fenomeni si sono accentuati negli ultimi anni, proprio in
conseguenza dell’innalzamento della temperatura del Mediterraneo, cosa che rende la penetrazione di queste specie più
agevole e la loro sopravvivenza e riproduzione più probabile, consentendo alle forme giovanili di superare l’inverno e di
influenzare, di conseguenza, la composizione della fauna e della flora, con risultati al momento non ancora prevedibili.
La tropicalizzazione del Mediterraneo
Poiché il Mediterraneo è un mare chiuso e con una profondità media non elevatissima, è molto sensibile al fenomeno
del surriscaldamento globale, che negli ultimi 20 anni ha fatto registrare un aumento della temperatura media delle acque
superficiali di oltre 1,5°C. Nella terribile estate del 2003 però, in molte nostre località la temperatura dell’acqua superficiale
ha sfiorato i 30°C, come in Polinesia! Abbiamo poi assistito ad un innalzamento delle temperature medie invernali, che in
porzioni sempre più ampie del bacino rimangono per tutto l’anno al di sopra dei 14°C consentendo così la sopravvivenza
e la riproduzione di specie non presenti di norma nel Mediterraneo, che provengono da mari più caldi del nostro. Quando
si parla di tropicalizzazione del Mediterraneo ci si riferisce proprio al processo di colonizzazione di questo bacino da parte
di specie provenienti da mari caldi, tropicali o sub tropicali. Le specie giungono nel Mediterraneo o tramite l’azione dell’uomo
o attraverso vie naturali di comunicazione come il Canale di Suez (queste specie vengono chiamate specie lessepsiane, dal
nome dell'ingegnere francese Ferdinand-Marie de Lesseps, fondatore della società che aprì il Canale di Suez) provenendo
dalle ricchissime acque del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, o attraverso lo stretto di Gibilterra, giungendo dall’Atlantico
orientale dopo aver risalito le coste atlantiche del continente africano.
Questo fenomeno può avere anche origine naturale e si è sempre verificato in natura e nei mari di tutto il mondo dove
bacini con faune diverse entrano in contatto. La stessa fauna del Mediterraneo, pur avendo una importante componente
endemica, proviene in gran parte dai bacini vicini. Quello che appare ora preoccupante è la rapidità e l’intensità con cui il
fenomeno si è verificato negli ultimi anni. Addirittura, secondo l’ICRAM le specie marine aliene penetrate in Mediterraneo
sino ad oggi sono oltre 700, quasi tutte di origine sub tropicale e tropicale fra le quali alcune specie di barracuda, pesci
palla e pesci scorpione ed altri pesci meno noti ma decisamente affascinanti come ad esempio la fistularia o pesce flauto,
oramai avvistato anche nei mari siciliani. Naturalmente il fenomeno delle specie aliene non riguarda solo i pesci ma tutte
le creature marine, dagli invertebrati alle numerose alghe di origine indopacifica che hanno ormai conquistato il nostro
bacino, in alcuni casi espandendosi con una velocità impressionante e minacciando la stabilità degli ecosistemi autoctoni:
è il caso della Caulerpa taxifolia.
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l’invasione delle specie aliene
Quando si parla di specie aliene, con buona pace dei patiti degli UFO, naturalmente non stiamo
parlando di esseri provenienti da lontane galassie ma più semplicemente di specie, sottospecie o
raggruppamenti tassonomici (taxon) che occupano aree al di fuori del loro normale areale conosciuto,
aree che non potrebbero naturalmente raggiungere attraverso la propria capacità di dispersione, o
nelle quali penetrano a seguito dei mutamenti climatici. Insomma sono specie la cui presenza nel
nostro mare è dovuta indirettamente o direttamente all’azione dell’uomo. Per definire queste specie
si usano anche espressioni come specie non native, non indigene, alloctone o esotiche.
Nel momento in cui le specie hanno una grande facilità di insediare popolazioni stabili in nuovi
territori, colonizzandoli rapidamente ed irreversibilmente e diffondendosi velocemente, vengono
dette specie invasive.
Quando una nuova specie si è stabilizzata su un territorio dando vita ad una popolazione in
grado di mantenersi e riprodursi autonomamente senza il supporto dell’uomo, si definisce specie
insediata. Questo avviene più spesso di quanto comunemente si creda e numerose specie che
sembrano ormai far parte stabilmente dei nostri ecosistemi sono state introdotte in epoca storica:
è il caso del daino e dell’istrice introdotti all’epoca dei romani nella macchia mediterranea e della
Caulerpa prolifera, un’alga verde di origine indopacifica, ormai acclimatata e stabilizzatasi nel nostro
bacino.
L’arrivo di specie invasive a rapido accrescimento è sempre problematico, perché una nuova
specie introdotta in un nuovo ambiente, dove magari non incontra predatori o competitori attrezzati,
finisce con l’alterare profondamente un ecosistema provocando veri e propri sconvolgimenti che
possono portare all’estinzione di alcune specie autoctone, determinando disequilibri e perdita di
biodiversità.
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9
I CAMBIAMENTI CLIMATICI
Vettori di diffusione
Ma come arrivano le nuove specie? Oltre a giungere direttamente sulle proprie pinne, possono
arrivare attraverso il trasporto passivo, che può avvenire in molti modi diversi: per esempio aderendo
ad un pezzo di plastica galleggiante, oppure alle zampe di uccelli acquatici, o nello stomaco di
predatori, se si tratta di uova o di forme resistenti. Gli organismi che costituiscono il fouling, ovvero
quegli organismi che incrostano qualunque tipo di substrato duro, possono giungere sugli scafi
delle navi, altri ancora possono arrivare con la melma raccolta in porto dalle ancore. Contribuiscono
al fenomeno della tropicalizzazione anche l’importazione di specie ittiche tropicali per gli acquari,
la ricerca di nuove specie per lo sviluppo dell'acquacoltura e le specie importate come esche vive
per la pesca.
Uno dei vettori principali di diffusione degli organismi alieni è sicuramente costituito dalle acque
di zavorra delle navi. Queste, per potere navigare in sicurezza, debbono avere un assetto stabile sia
quando sono cariche sia quando sono vuote; se proviamo a far galleggiare una bacinella vuota ed
una in cui avremo posto un peso al centro, ci renderemo conto come quella con il peso sia assai
più stabile, anche se muovendo l’acqua simuliamo delle onde. Il principio della zavorra è proprio
questo: quando le navi sono prive del loro carico devono avere comunque a bordo un peso che le
stabilizzi e che permetta di affrontare anche il cattivo tempo in condizioni di sicurezza. Fino a qualche
anno fa questo problema veniva risolto con dei pesi, generalmente pani di piombo, posti nella stiva
della nave lungo l’asse della chiglia. È stata una soluzione adottata per migliaia di anni, molto
adatta per le navi a vela; ancora oggi quelle di altura hanno il bulbo zavorrato sulla deriva, per
bilanciare la spinta del vento sull’albero e sulle vele. Ma una zavorra fissa limita in realtà il carico
utile che può portare un mercantile e così si è escogitato il sistema delle casse di zavorra, che
imbarcano acqua quando la nave è scarica e la rigettano a mare quando hanno un carico pagante.
Il carico e lo scarico delle acque di zavorra avvengono in porto e le pompe movimentano enormi
quantità di acqua: una grossa nave cisterna può imbarcare decine di migliaia di tonnellate di acqua
di zavorra e con esse un bel campione assai rappresentativo della fauna e della flora presente, che
poi scaricherà in un altro porto quando dovrà imbarcare un altro carico.
In questo modo, organismi anche potenzialmente nocivi o pericolosi per la salute oltre che per
l’ambiente, dal porto di Rio de Janeiro potranno giungere nelle calde e buie cisterne di un mercantile
sino al porto di Genova e qui una volta scaricati, nel caso trovassero un ambiente favorevole,
insediarsi e moltiplicarsi. Quando questo fenomeno avviene con specie invasive, le conseguenze per
la biodiversità e anche quelle economiche possono essere catastrofiche, come è accaduto già diverse
volte nel mondo.
La comunità internazionale ha cercato di porvi rimedio con la Ballast Water Convention che
quando sarà a regime imporrà che tutta l’acqua di zavorra dovrà essere trattata prima di venire
scaricata in mare. Passeranno probabilmente parecchi anni prima che tutte le navi si adeguino e nel
frattempo le specie continueranno a trasferirsi da una parte all’altra del mondo, causando
sconvolgimenti negli ecosistemi e nelle economie locali, favoriti dall’innalzamento della temperatura che consente la
sopravvivenza anche a specie provenienti da porti tropicali o sub tropicali.
I flagelli alieni
Come abbiamo visto la penetrazione di specie aliene in un ecosistema può costituire un grosso problema, anche di natura
economica! È abbastanza illuminante a questo proposito ricordare quanto è avvenuto in Mediterraneo con Mnemiopsis Leydi,
un piccolo ctenoforo del sud est asiatico, giunto nel Mar Nero trasportato nell’acqua di zavorra delle navi, e che privo di
predatori si è moltiplicato a dismisura, divenendo uno dei principali responsabili della distruzione degli stock ittici dell’area
con una riduzione di oltre il 75% del pescato annuale. Sempre attraverso l’acqua di zavorra delle navi questo autentico
flagello è penetrato nel Mar Caspio, collegato da canali navigabili al Mar Nero, dove ha avuto la stessa crescita tumultuosa,
con una fortissima pressione predatrice sullo zooplancton, che ha prodotto il cambiamento della composizione qualitativa
e della abbondanza di questo anello fondamentale della catena trofica marina: da quando è stato individuato nel Mar
Caspio la disponibilità di plancton è scesa del 50-80%!
In numerosi Paesi la diffusione del mitilo zebrato Dreissena polymorpha ha prodotto danni molto ingenti perché si
riproduceva a ritmi mostruosi, coprendo banchine portuali, frangiflutti, prese d’acqua di impianti costieri o di centrali
elettriche, costringendo gli stati colpiti (Australia, USA, Canada) a spese rilevanti per controllarne lo sviluppo e per ripulire
porti e impianti.
Altro invasore alieno è la Caulerpa taxifolia cui è stato attribuito il nome di alga killer per la presenza di tossine che la
rendono poco appetibile. Questa specie appartiene al gruppo delle alghe verdi di cui è una delle specie più evolute, insieme
alle altre due caulerpe, la racemosa e la prolifera, anch’esse ormai introdottesi in Mediterraneo attraverso il canale di Suez
o mediante l’acqua di zavorra delle navi. La C. taxifolia, originaria della regione tropicale indopacifica, probabilmente si è
insediata in Mediterraneo grazie ad alcuni frammenti sfuggiti ai filtri degli impianti di ricircolo dell’acqua dell’acquario di
Monaco, dove l’alga era presente in alcune vasche. Fu proprio nelle acque antistanti l’acquario che venne avvistata per la
prima volta nel 1984, con una superficie occupata di circa 1 mq. A distanza di meno di venti anni la sua diffusione ha
raggiunto le acque di numerosi siti in Francia, Spagna e Italia. Di portamento molto gradevole, a dispetto del nome di alga
killer regalatole dai mass media, è caratterizzata da fronde lunghe da 5 a circa 65 cm, di un bel verde brillante, molto simili
alle foglie del tasso, caratteristica questa all’origine della denominazione scientifica (Caulerpa taxifolia significa infatti
caulerpa dalle foglie di tasso). Questa alga si è dimostrata una specie ben adattabile e cresce da zero a oltre 50 metri di
profondità su fondali molli di varia conformazione (sabbia, fango, detriti, ghiaie), entrando in competizione con gli organismi
propri di questi ambienti. Il suo successo riproduttivo è dovuto alla mancanza o allo scarso numero di specie che la predano,
alla grande velocità di crescita e alla fortissima capacità di riprodursi anche per frammentazione, processo in cui da ogni
minuscolo frammento delle sue fronde, può generarsi un intero nuovo individuo. La competizione più importante è proprio
quella nata con le praterie di posidonia: quando questi due appartenenti al mondo vegetale entrano in contatto, si
contendono duramente spazio, luce e ossigeno. Secondo molti studi recenti, nei bordi delle praterie e in condizioni di
indebolimento delle piante di posidonia (come accade per esempio nelle zone soggette a processi erosivi per ancoraggi e
strascico illegale) molto spesso è la caulerpa ad avere la meglio, grazie alla capacità dei talli di raggiungere dimensioni
eccezionali (65 cm di lunghezza) che le consentono di sfruttare al massimo la luce, lasciando all’ombra la sua antagonista,
molto meno flessibile nella capacità di predisporre strategie di risposta.
Infine tra i visitors tristemente assunti agli onori della cronaca possiamo sicuramente annoverare il dinoflagellato
Ostreopsis ovata, la cui presenza ha destato allarme in molte località marine italiane perché associata ad alcuni fenomeni
di intossicazione avvenuti senza contatto diretto con l’acqua. Le fioriture algali marine, in particolare quelle attribuibili ai
dinoflagellati quale l’alga Ostreopsis ovata, sono fenomeni ben noti per la loro pericolosità, perché in grado di rilasciare
nell’ambiente massicce quantità di tossine che possono causare estese morie di organismi marini e, attraverso la catena
alimentare, arrivare ad interessare anche l’uomo. Alcuni dinoflagellati epibentici (che vivono cioè aderenti ad un substrato),
sono in grado di produrre le tossine del gruppo della ciguatera che possono provocare gravi intossicazioni alimentari,
persino mortali: attraverso il fenomeno del bioaccumulo possono concentrarsi in grosse quantità anche nelle carni di pesci
utilizzati per il consumo umano. L’Ostreopsis ovata, che si moltiplica in acque piuttosto stagnanti e ricche di nutrienti, è di
norma ritenuta tossica solo per gli animali marini, ma ha dato luogo a casi di intossicazione in bagnanti che non sono entrati
direttamente in contatto con l’alga o con le tossine, ma che hanno inalato queste ultime attraverso l’aerosol marino generato
dal moto ondoso, anche solo passeggiando in riva al mare. Fenomeni simili sono accaduti negli ultimi anni in diverse
località lungo le coste del nostro Paese, al punto da far ritenere che quest’alga si sia ormai insediata stabilmente in più
punti della nostra costa.
La diffusione di questa come di altre specie aliene nel nostro Paese è con ogni probabilità da attribuirsi al trasporto
attraverso le acque di zavorra o il fouling delle navi, visto che secondo alcuni studi il corredo genetico degli esemplari trovati
lungo le nostre coste sembra sia molto simile alla varietà che vive lungo le coste del Brasile.
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IL FUTURO CHE CI ASPETTA
Parlando di possibili scenari futuri, dobbiamo sempre avere in mente che il clima è governato da una serie di
complesse interrelazioni, per cui è estremamente difficile comprendere come la situazione si evolverà realmente.
Questo naturalmente rende molto difficile riuscire a dare risposte adeguate a ridosso degli eventi e rende quindi
necessario predisporre, invece, degli interventi pianificati. Secondo le proiezioni contenute nei rapporti dell'IPCC, il
cambiamento climatico avrebbe tra gli effetti anche l’innalzamento del livello del mare che, a seconda della variazione
di CO2, potrebbe salire tra gli 8 e gli 88 centimetri! Nel caso si avverasse la peggiore di questa previsione intere
aree del nostro bacino e del nostro Paese sarebbero a rischio di sommersione e dovrebbero essere protette con dighe
come avviene in Olanda. Una città come Venezia poi sarebbe a rischio insieme a tutta la laguna al punto che, se
queste previsioni si rivelassero fondate, il tanto contestato MOSE -il sistema di paratie che dovrebbe salvaguardare
il gioiello della laguna dall’acqua alta- diverrebbe già obsoleto ed inutile ancora prima della sua nascita: è stato infatti
progettato per un livello del mare inferiore a quello che potrebbe raggiungere l’Adriatico.
Altra terribile conseguenza che potrebbe purtroppo verificarsi è la desertificazione di vaste zone della porzione
meridionale del bacino, con una diminuzione della media annuale delle precipitazioni e conseguentemente della
disponibilità d’acqua. Paradossalmente, le precipitazioni potrebbero contemporaneamente crescere di intensità, a
causa del surriscaldamento dell’atmosfera e del mare, dando luogo alla cosiddetta estremizzazione del clima: le
piogge si concentrano in periodi più brevi, ma sono molto più violente; è un fenomeno che abbiamo potuto
constatare noi stessi negli ultimi anni.
Tornando alle specie aliene provenienti da aree tropicali o sub tropicali, la loro facilità di penetrazione aumenterà
con l’aumento delle temperature; apporteranno profonde modificazioni agli ecosistemi marini, già stressati
dall’inquinamento e dal sovrasfruttamento di alcune specie dovuto alla pesca, che potrebbero avere anche
conseguenze assai gravi, fino ad arrivare alla scomparsa di molte specie.
Un’ulteriore grave conseguenza potrebbe essere l’aumento della produzione di mucillagini, un fenomeno di
eutrofizzazione relativamente frequente, specie nell'Adriatico, e che potrebbe aumentare in frequenza e intensità in
presenza di un riscaldamento generalizzato della massa d’acqua, che impedirebbe il rimescolamento invernale.
È necessario agire subito, perché le emissioni dei gas serra più persistenti (biossido di carbonio, protossido di
azoto, perfluorocarburi) hanno purtroppo un effetto assai duraturo sul clima e questa loro caratteristica è aggravata
ulteriormente dalla naturale inerzia termica che ha un enorme sistema come quello costituito dal nostro pianeta e
dai suoi oceani.
Come diminuire le emissioni di CO2
Nell’ultimo rapporto dell’IPCC destinato ai politici e ai decisori, gli scienziati sostengono che i prossimi 20 o 30
anni saranno fondamentali per la lotta contro il surriscaldamento del pianeta e che sarà necessario diminuire le
emissioni mondiali di gas a partire dal 2015, se si vuole sperare di contenere l’aumento della temperatura media
del pianeta fra i 2 e i 2,4°C. Si tratta di un passo avanti rispetto al Protocollo di Kyoto che, se pur giudicato troppo
penalizzante da molti paesi, a poco più di due anni dalla sua entrata in vigore si rivela già largamente insufficiente.
I mezzi da usare sarebbero a portata di mano se solo ci fosse la volontà di agire da parte di tutti i governi: sono
il risparmio energetico, l’uso di energia proveniente da fonti rinnovabili (solare, eolico, idroelettrico, geotermico,
biomasse) che non liberino quindi la CO2 intrappolata nel carbone o negli idrocarburi da milioni di anni; preferire,
fra i combustibili fossili, il gas naturale al petrolio o al carbone (perché la combustione di metano genera meno
biossido di carbonio a parità di energia prodotta); eliminare i clorofluorocarburi (gas che generano anche il buco
dell’ozono); fermare la deforestazione, perché le foreste sono delle enormi pompe di CO2 che viene fissata attraverso
la fotosintesi e trasformata in sostanza vivente. Un grande albero nel corso del tempo ha immagazzinato tonnellate
di anidride carbonica e se venisse bruciato la rilascerebbe di nuovo in atmosfera.
Ma anche ogni singolo cittadino può fare qualcosa e contare; basti pensare che le abitazioni private utilizzano
un terzo dell'energia consumata nell’Unione Europea e che il 70% di questa energia è destinato al riscaldamento
domestico, il 14% alla fornitura di acqua calda e il 12% all'illuminazione e al funzionamento degli apparecchi elettrici.
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Sempre le abitazioni private sono responsabili di circa il 20% delle emissioni di gas ad effetto
serra, mentre le automobili private pesano per un altro 10% sulle emissioni dell’UE. In più, i
consumatori privati acquistano prodotti fabbricati utilizzando energia, viaggiano in aereo,
producono rifiuti, mangiano carne, tutte attività che indirettamente provocano l'emissione di
gas serra.
IL FUTURO CHE CI ASPETTA
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stando alle
proiezioni dell'IPCC
sui mutamenti
climatici,
se l'innalzamento
del mare superasse
gli 80 cm, molte aree
del nostro Paese
andrebbero protette
con dighe, come
avviene in Olanda
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OGNUNO DI NOI PU ò IMPEGNARSI IN QUATTRO AZIONI
SPEGNI
tutte le apparecchiature e le luci non indispensabili,
contribuirai al risparmio energetico e a bruciare meno combustibili
CAMMINA
i muscoli non producono CO2: cammina o vai in bicicletta il più possibile,
ne guadagnerà la tua salute e contribuirai a immettere meno gas e sostanze
nocive in atmosfera
ABBASSA
nella nostra civiltà del consumo troppo spesso siamo abituati ad esagerare,
a tenere riscaldamenti troppo alti, luci troppo forti…
impariamo ad abbassare, ne guadagnerà il nostro pianeta ma anche le nostre tasche
RICICLA
riciclare è importante, non solo per diminuire la montagna di rifiuti che ci sta soffocando,
ma anche per ridurre processi industriali ed estrattivi che contribuiscono ad immettere
gas serra in atmosfera
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GLI ABITANTI DEL MARE
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FITOPLANCTON
È alla base della vita, costituito da miliardi di piccolissime cellule vegetali. Alcuni
organismi sono in grado di utilizzare l’azoto disciolto nell’acqua, rendendolo
disponibile all’interno della catena alimentare. Per contrastare la gravità, che li farebbe
precipitare nelle profondità prive di luce, hanno sviluppato strutture e accorgimenti
per facilitare il galleggiamento, producendo guaine gelatinose o accumulando acqua,
gas o goccioline di grasso all’interno della cellula. Nel fitoplancton troviamo le
diatomee, alghe verdi unicellulari racchiuse in una sorta di scatolina con coperchio
di silicio; i dinoflagellati, dotati di una minima capacità di movimento e responsabili
delle fioriture algali che formano le maree rosse; le cloroficee, alghe unicellulari o
coloniali, con pigmenti verdi simili a quelli delle piante superiori. Il fitoplancton è
abbondante nelle zone ricche di nutrienti, in quelle con forti correnti di risalita e negli
strati più luminosi della zona fotica.
OMBRELLINO DI MARE (Acetabularia acetabulum)
La sua delicata struttura è simile a quella di un ombrellino cinese. La si può scorgere
nella frangia di vegetazione algale, che orna moli e scogliere. Appartiene al gruppo
delle alghe verdi ed ha un colore verde pallido. Cresce su fondali rocciosi anche a più
di 30 m di profondità; misura fino a 5 o 6 cm ed ha un cappello di oltre 1 cm di
diametro. All’inizio della stagione riproduttiva, in primavera, la lunga cellula allungata
si espande verso un’estremità a formare il caratteristico cappello che, con il tempo,
si ricoprirà di incrostazioni calcaree. Il cappello è caratterizzato da solchi profondi su
cui si sviluppano le spore, simili alle lamelle della parte inferiore di alcuni funghi.
Essendo di origine tropicale, preferisce le acque calme e ben illuminate dove forma
popolazioni numerose.
LATTUGA DI MARE (Ulva rigida)
Il nome lattuga di mare già fornisce un’idea molto precisa del suo aspetto. Si tratta,
infatti, di un’alga verde tra le più comuni, diffusa sia nei fondali rocciosi in cui aderisce
al substrato e sia in quelli sabbiosi e nelle lagune dove può crescere anche senza
ancorarsi con il tallo al fondale. Può raggiungere i 30 cm in altezza, mentre la
larghezza oscilla tra i 10 e i 40 cm. La foglia, di un verde brillante, è larga e dentellata;
il tallo alla base è quasi cartilagineo ed ha una notevole consistenza. È presente in
mare tutto l’anno anche se raggiunge il massimo sviluppo nei mesi più caldi. In
condizioni di forte eutrofizzazione può dare luogo a gigantesche fioriture, sviluppando
una enorme quantità di biomassa, che si accumula su spiagge e fondali o galleggia
in superficie, dando luogo a processi di decomposizione che oltre a produrre odori
sgradevoli, possono anche avere gravi conseguenze per l’ambiente, sottraendo
ossigeno alle biocenosi e alterando la composizione degli ecosistemi marini.
ZOOPLANCTON
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Lo zooplancton è costituito da organismi animali che, incapaci di compiere movimenti
consistenti, si lasciano trasportare dalle correnti e dal moto ondoso. Sono organismi
che riducono il loro peso specifico grazie alla presenza di gas o di goccioline di grasso
all’interno della cellula e anche grazie alla presenza di appendici o protuberanze che
ne favoriscono il galleggiamento. Molti di questi organismi sono unicellulari, come i
batteri e rotiferi, di piccole dimensioni, come crostacei quali i copepodi, le dafnie o
il krill. Alcuni possono raggiungere dimensioni notevoli, come la fisalia o caravella
portoghese, specie di medusa con tentacoli filamentosi lunghi anche parecchi metri
o il cesto di Venere, ctenoforo che può superare 1,5 m. Tra lo zooplancton troviamo
la maggior parte dei consumatori primari marini che si nutrono del fitoplancton e
larve di numerose specie che adulte divengono organismi bentonici o nectonici.
LITTORINA (Littorina neritoides)
Dopo una mareggiata la scogliera sembra cosparsa da una miriade di bollicine;
guardando più attentamente ci si accorge che sono delle chioccioline scure, le littorine.
Questo straordinario piccolo mollusco gasteropode dall’aspetto poco appariscente è
in grado, grazie all’opercolo di cui è fornita la sua conchiglia, di resistere all’asciutto,
rinserrato all’interno, anche per alcune settimane. Nelle pareti rocciose molto esposte
si può trovare sino a 10 m sul livello del mare. Le littorine che si radunano in gran
numero nelle umide fessure scavate dalle onde, si nutrono delle alghe che vivono in
questa area, rifugiandosi tra i licheni, organismi frutto della simbiosi tra un fungo e
un’alga, in grado di trovare nutrimento praticamente ovunque. Le littorine si cibano
grattando le alghe dalla roccia con la loro radula, una sorta di lingua coperta da
centinaia di minuscoli denti, una specie di raspa tipica dei molluschi gasteropodi.
CIPREA O PORCELLANA (Luria lurida o Cypraea lurida)
La ciprea lunga da 3 a 6 cm circa, di giorno si nasconde sotto le pietre del fondo,
negli anfratti o all’ingresso delle grotte o sotto spugne e piccoli sassi. Va a caccia di
spugne, coralli e piccoli crostacei su fondali rocciosi e sabbiosi, da pochi metri sino
a 30-40 m di profondità. Il bel colore bruno-rosato della sua conchiglia, con le due
estremità arancione, rendono questo mollusco troppo spesso appetibile ai
collezionisti.
DENTE DI CANE (Chtamalus stellatus)
Questo curioso animaletto è un crostaceo, parente stretto di granchi, gamberi e
aragoste. La larva è libera, ha una vita inizialmente planctonica e si lascia trasportare
dalla corrente per colonizzare nuove scogliere. Quando arriva in un posto adatto, si
fissa al substrato ed emette una sorta di segnale che consente ad altre larve di
raggiungerla, in modo che parecchi individui si trovino molto vicini su una superficie
ristretta. Ha una corazza formata da 6 piastre calcaree, che possono serrarsi quasi
ermeticamente. Si nutre di piccole particelle che intrappola con arti e antenne
dall’aspetto piumoso. In assenza di vento può tranquillamente resistere parecchi
giorni esposto ai raggi del sole. Alcune specie simili si fissano sul carapace delle
tartarughe marine o sulla pelle di grandi cetacei, unendo in questo modo il vantaggio
della vita sedentaria a quello del movimento.
LEPRE DI MARE, ASINO MARINO (Aplysia depilans)
È un mollusco nudibranco di grandi dimensioni, che raggiunge anche i 30 cm di
lunghezza ed è presente, soprattutto in primavera, nelle praterie vicino alla costa. Si
trova fino a 15 o 20 m di profondità. Il suo nome comune è dovuto ai lunghi tentacoli
avvolti a cucchiaio, che ricordano gli orecchi della lepre. Assolutamente innocua,
nonostante le molte credenze sbagliate, è bello osservarla ondeggiare fra le foglie
della zostera.
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MERLETTO DI MARE (Sertella beaniana)
Il merletto di mare appartiene alla classe dei briozoi, animali abbastanza simili ai
coralli. Questa specie preferisce l’oscurità e per questo la si può osservare, a partire
dai 2 m di profondità, nelle zone ombrose dei litorali rocciosi e nelle pareti interne
delle grotte. Vive in colonie che sono delle fragili trine di un bel colore rosa salmone.
FALSO CORALLO (Myriapora truncata)
Molto simile al vero corallo, la miriapora è un briozoo le cui colonie, che hanno un
bel colore rosso corallo, possono raggiungere i 12 cm di altezza e il diametro di una
matita. Proprio come il corallo rosso, è una specie che possiamo trovare sulle pareti
rocciose in penombra e all’ingresso di grotte sottomarine. È un animale molto delicato
e tende facilmente a spezzarsi.
PINNA, NACCHERA (Pinna nobilis, P. squamosa)
È il più grande bivalve del Mediterraneo, caratterizzato da una enorme conchiglia
cuneiforme che può superare gli 80 cm di lunghezza. All’esterno è di colore bruno,
con scaglie più chiare a forma di canali, mentre all’interno è rossiccia. Produce il
bisso, una sostanza filamentosa. Un tempo era diffusa nei fondali sabbiosi e
profondi dai 3 metri in giù, soprattutto in prossimità delle praterie di posidonia.
Oggi è divenuta una specie molto rara e l’Unione Europea ne richiede una
protezione rigorosa.
SPIROGRAFO (Spirographis spallanzani)
Anche se il suo aspetto ricorda un fiore sommerso, la rapida scomparsa della sua
corona al minimo movimento sospetto, ci fa comprendere subito di avere a che
fare con un rappresentante del mondo animale. Lo spirografo è infatti un parente
stretto dell’umile lombrico e trascorre la sua vita in un tubo membranoso, che lui
stesso fabbrica e da cui lascia sporgere i colorati ciuffi branchiali, dalle delicate
forme a spirale, con cui respira e intrappola il cibo. Lo spirografo può misurare sino
a 35 cm di lunghezza ed avere un ciuffo branchiale largo anche 10 o 12 cm. Vive
sia sui fondali rocciosi che su quelli sabbiosi, ma si trova a suo agio anche nelle
praterie di posidonia, ricche di particelle organiche e microrganismi in sospensione
che costituiscono il suo cibo. Molti suoi parenti stretti, che differiscono per le
dimensioni del tubo e per il colore dei ciuffi branchiali, come la protula, la serpula,
il verme pavone, sono osservabili anche a bassissima profondità.
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SEPPIA (Sepia officinalis)
Abili cacciatrici, hanno un corpo piuttosto tozzo ed appiattito con due bordi laterali
espansi a formare una sorta di pinna. Possono raggiungere i 35 cm di lunghezza e i
2 kg di peso; sono dotate di 10 braccia che circondano la bocca, munita di un becco
corneo. Due delle braccia sono molto più lunghe e retrattili, con le estremità allargate
e coperte di ventose. Sono in grado di mutare colore a seconda dell’umore o delle
situazioni, grazie a particolari cellule della pelle, i cromatofori. Nel periodo degli
accoppiamenti, il maschio presenta una vivace livrea zebrata e non abbandona la
compagna prescelta neanche un istante, esibendosi in sgargianti variazioni di colore.
A primavera le femmine si portano vicino alla riva per deporre le uova, fissandole alle
foglie di posidonia o ad altre superfici. Appena nate, le piccole seppie sono in grado
di cacciare autonomamente
POMODORO DI MARE (Actinia equina)
Osservando con attenzione la fascia di marea può capitare di osservare,
immediatamente sopra il pelo dell’acqua, qualcosa di decisamente simile ad un
pomodoro dal brillante colore rosso, fissato alla roccia. Basta attendere che il
livello dell’acqua salga un poco, sommergendolo, per vedere aprirsi una famelica
corona composta da oltre 200 tentacoli disposti in file concentriche. Si tratta del
pomodoro di mare, dalla larga base adesiva, che si fissa alle rocce e si difende
dal disseccamento durante la fase di bassa marea, trasformandosi in una sorta di
palla compatta e intrappolando al suo interno l’acqua necessaria alla respirazione.
Fino a 7 cm di diametro, il pomodoro di mare si nutre di piccole creature che
intrappola tra i suoi tentacoli irti di cellule urticanti che si richiudono fino alla
completa digestione della preda.
GAMBERETTO DI SCOGLIERA (Palaemon serratus)
È un piccolo gambero dal lungo rostro ornato di dentelli, striato di marroncino. È
provvisto di appendici per il nuoto lungo l’addome che in trasparenza consente di
vedere gli organi interni. Vive da 2 m di profondità sino a oltre 10 m; è frequente nelle
praterie di posidonia e nei fondali rocciosi. Si incontra abbastanza frequentemente
nelle pozze di marea su scogliere e frangiflutti. È un animale onnivoro, dalla dieta ricca
e variata, che comprende vegetali, animali, creature morte; svolge un fondamentale
ruolo tenendo pulita la scogliera ed evitando fenomeni di putrefazione che potrebbero
dar luogo a infezioni. Alcune specie di gamberetti assai simili, i cosiddetti pulitori, si
sono addirittura specializzati nel fare toeletta ad altre creature marine, mangiando i
residui di cibo e gli eventuali parassiti che si portano addosso.
GRANCHIO DI SCOGLIERA (Paghygrapsus marmoratus)
È in grado di portare con sé nelle sue rapide escursioni sull’asciutto, delle piccole
riserve d’acqua per tenere umide le branchie e respirare anche all’aria. È importante
quindi, se preso per osservarlo, non tenerlo troppo tempo al sole prima di liberarlo
nuovamente. Ha una corazza appiattita quadrangolare, dal colore bruno verdastro. Il
maschio si differenzia dalla femmina per avere l’addome più stretto. La femmina in
estate porta sull’addome la massa delle uova, piccole e di colore giallastro. A volte
il granchio corridore è preda di un crostaceo parassita, la sacculina, dall’aspetto
stranamente simile alle uova. Il granchio di scogliera si nutre di detriti e di piccoli
animali; praticamente onnivoro, è un utile spazzino. È dotato di una eccellente vista
e avverte la presenza dell’uomo a grande distanza.
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CEFALO (Mugil cephalus)
Ne esistono diverse specie che differiscono per la forma della bocca; hanno tutte un
corpo slanciato ed affusolato con due brevi pinne dorsali, ricoperto sui fianchi di
grandi scaglie che diventano più piccole sul capo; ha bocca piccola, pinne pettorali
inserite molto in alto, dorso bluastro e fianchi argentei. Può raggiungere i 50-70 cm,
raramente anche 120, e può pesare sino a 8 kg. È una specie gregaria, che forma
branchi anche di grandi dimensioni e che predilige le acque temperate, migrando a
primavera nelle acque salmastre delle lagune e degli estuari. Si nutre di organismi
planctonici, molluschi e di materiale vegetale, incluso il detrito. La riproduzione
avviene in mare tra luglio e ottobre; le uova sono piccole (0.75 mm) e molto
numerose, munite di una goccia oleosa che impedisce loro di affondare.
MURENA (Muraena helena)
L’aspetto serpentiforme, il colore brunastro screziato da macchie e variegature biancogiallastre, la bocca sempre spalancata che mette in mostra denti sottili e acuminati
come aghi, hanno regalato a questo grosso anguilliforme (può superare i 150 cm di
lunghezza) una fama di feroce assassino che sicuramente non merita. Nei confronti
della nostra specie, in realtà, la murena è piuttosto timida e inoffensiva, anche se in
grado di dare morsi dolorosi se disturbata; è un efficace e aggressivo predatore,
principalmente di pesci e cefalopodi (il polpo è una delle sue prede favorite). La sua
attività di caccia si svolge soprattutto di notte, mentre trascorre il giorno nelle fessure
della roccia, facendo fuoriuscire la testa con la bocca spalancata per la respirazione.
BAVOSA PAVONE (Blennius pavo)
Trascorre gran parte della sua esistenza a stretto contatto con il fondo del mare, su
cui spesso avanza appoggiandosi sulle pinne ventrali. Generalmente non compie
grandi spostamenti rimanendo sempre nei pressi di tane che utilizza come
nascondiglio dai predatori o per la riproduzione, dove entra sempre infilando la coda
per prima. Non ha scaglie e deve il suo nome alla pelle protetta da un viscido strato
di muco. Esistono parecchie specie di bavose; alcune sono ornate di livree
appariscenti e colorate, come la b. pavone o la b. ruggine. A primavera, le femmine
depongono le uova nelle fenditure utilizzate come tane, ed è il maschio ad
occuparsene con grande efficienza, ossigenandole con la corrente provocata dal
movimento continuo delle pinne. Lunga fino a 12 cm è un predatore, ma può nutrirsi
anche delle alghe che strappa dalle rocce.
TONNO ROSSO (Thunnus thynnus)
Può raggiungere i 3 m di lunghezza e gli oltre 500 kg di peso; è un formidabile
predatore, tra i più grandi del Mediterraneo. La parte dorsale è di un blu scurissimo
mentre fianchi e ventre sono biancoargentei. Molto vorace, si nutre di pesci pelagici
e calamari, cessando di assumere cibo durante il periodo riproduttivo. Compie
lunghissime migrazioni per riprodursi o per cercare cibo, arrivando a percorrere 250
km in un solo giorno. La passata dei grandi tonni maturi sessualmente avviene a
primavera, attraverso lo stretto di Gibilterra. Gli adulti, dopo la riproduzione, tornano
in Atlantico, mentre i giovani restano in Mediterraneo sino a 6-7 anni di vita. Il tonno
è una specie a rischio sia per lo sfruttamento eccessivo dovuto alla pesca sia per la
sua vulnerabilità a inquinanti come il mercurio e il piombo.
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SQUALO BIANCO (Carcharodon carcharias)
È il più grande tra gli squali non planctofagi e può superare i 7 m di lunghezza.
A dispetto del nome, il suo colore è grigio bruno, con il solo ventre bianco e la
punta delle pinne pettorali scura. Nelle nostre coste è presente nelle acque
profonde del mar Ligure, del Tirreno e dello Ionio; recenti avvistamenti si sono
avuti anche in Adriatico. Predilige le acque costiere in prossimità di colonie di
foche o leoni marini, le sue prede favorite; può spingersi a grande profondità.
L’uomo considera gli squali come dei killer, ma in realtà è lui che ne uccide milioni
ogni anno. La maggior parte degli attacchi all’uomo sembrerebbe dovuta ad un
errore di identificazione dell’animale che scambia il nuotatore o il surfista sdraiato
sulla tavola per una delle sue prede abituali.
TARTARUGA MARINA (Caretta caretta)
Questi rettili antichissimi sono perfettamente adattati al mare e tornano a terra solo
per deporre le uova, sino a 200 per volta, in spiagge al riparo da predatori e
dall’uomo. Particolarmente longevi, si nutrono principalmente di meduse, salpe e
cefalopodi, che afferrano con il loro becco corneo dai bordi taglienti. Possono
raggiungere 1 m di lunghezza e sono in grado di compiere lunghe apnee. In acqua
possono raggiungere velocità superiori ai 35 km/h, nuotando agilmente con il
caratteristico movimento sincrono degli arti anteriori. La Caretta caretta si riconosce
dalla Chaelonya midas, per la presenza di cinque placche costali e due paia prefrontali
sul carapace. L’altra tartaruga del Mediterraneo, la gigantesca Dermochelys coriacea,
ha invece un rivestimento cuoioso privo di placche. La cattura accidentale durante la
pesca professionale e la mancanza di spiagge per la riproduzione ne hanno
gravemente minacciato la sopravvivenza; l’ingerimento di sacchetti di plastica provoca
la morte per ostruzione del tubo digerente.
BALENOTTERA COMUNE (Balaenoptera physalus)
Dopo la balenottera azzurra, è la più grande creatura che sia mai vissuta sulla terra.
Le femmine, più grandi dei maschi, possono superare i 24 m di lunghezza e le 50
tonnellate di peso. Vive normalmente in mare aperto, anche se per la ricerca del cibo
può avvicinarsi alla costa. È presente nei mari di tutto il mondo, anche se è meno
presente in quelli tropicali. Molto frequente in estate nel mar Ligure, nel mar di Corsica
e nel mar di Sardegna; meno nel Tirreno e Ionio, è raro vederla nel mar Adriatico.
Nuota solitaria o in piccoli gruppi, ma può formare aggregazioni più grandi nelle aree
dove si alimenta. Si nutre di plancton e piccoli crostacei, in prevalenza di piccolissimi
gamberi come i krill.
CAPODOGLIO (Physeter macrocephalus)
Il capodoglio è capace di immergersi ad oltre 2.500 m di profondità e di cacciare
anche i calamari giganti. Nella testa, lunga quasi un terzo dell’intero corpo, possiede
una particolare struttura, l’organo dello spermaceti, una sorta di massa spugnosa le
cui cavità sono riempite da un olio ceroso e la cui funzione è ancora oggetto di
discussione; potrebbe servire da rilevatore di segnali acustici o da organo di
bilanciamento idrostatico per facilitare il galleggiamento. Può raggiungere e superare
i 18 m di lunghezza e le 50 t di peso. Ha un unico sfiatatoio asimmetrico posto sulla
sinistra del capo, che rende il suo soffio inconfondibile: basso e denso, inclinato in
avanti verso sinistra. I maschi sono molto più grossi delle femmine. È presente in tutti
i mari del mondo. In Mediterraneo, dove si avvista solo ad una discreta distanza
dalla costa, è presente ovunque ma prevalentemente nel Mediterraneo centrale e
occidentale. Vive normalmente in branchi, composti da gruppi familiari o da gruppi
di maschi, che in Mediterraneo non superano generalmente la decina di individui.
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GLOBICEFALO (Globicephala melas)
È chiamato balena o delfino pilota per la sua abitudine di formare gruppi che seguono
fedelmente un individuo più anziano. Trascorre molto tempo nuotando pigramente
in superficie, formando branchi anche piuttosto grandi, ma è in grado di trasformarsi
rapidamente in un nuotatore veloce capace di immergersi oltre i 600 m di profondità.
Insieme alla pseudorca è la specie più soggetta a spiaggiamenti, forse per la forte
coesione gregaria del branco. È lungo fino a 5 o 6 m e può raggiungere un peso di
quasi 2 t. Il corpo è allungato e muscoloso, di colore nero brillante o grigio, con un
caratteristico capo tondeggiante e una pinna dorsale che ricorda un berretto frigio.
Frequenta le acque dalla profondità superiore ai 2.000 m delle zone temperato fredde
e lo si può osservare ad una distanza media dalla costa superiore ai 40 km. Nel
Mediterraneo è abbastanza comune, più diffuso nella porzione occidentale del bacino
e facilmente osservabile nel mar Ligure e nelle acque a ovest della Sardegna.
TURSIOPE (Tursiops truncatus)
Di colore grigio uniforme, più chiaro sul ventre, misura sino 4 m. Nuotatore abilissimo,
ama esibirsi in salti ed esercizi acrobatici che esegue per puro piacere o per
comunicare con gli altri membri della sua specie. Può superare i 30 km/h
immergendosi sino a 600 m e rimanendo sott’acqua anche 8 minuti. Ha un
comportamento molto complesso e tra i diversi individui si formano complicati rapporti
sociali. Vive in piccoli gruppi di 8-10 esemplari, di norma formati da femmine con i
piccoli non ancora svezzati. I maschi adulti a volte formano coppie che si riuniscono
alle femmine solo nella fase della riproduzione, mentre i giovani svezzati possono
formare vere e proprie bande. La femmina partorisce generalmente un solo piccolo
ogni tre o quattro anni. Si nutre soprattutto di pesci, ma non disprezza calamari e
seppie. È una specie molto sensibile all’inquinamento; i forti rumori delle imbarcazioni
possono disturbare il loro sensibilissimo apparato uditivo (biosonar) fino a spingerli
ad abbandonare l’area.
SQUALO ELEFANTE O CETORINO (Cetorinhus maximus)
È il più grande pesce del Mediterraneo visto che può superare i 12 m di lunghezza;
è dotato di cinque enormi fessure branchiali; il muso è lungo e conico. Ha due pinne
dorsali e una coda grande, falcata e simmetrica. I denti, invece, sono numerosi,
piccoli e ad uncino. Vive nella fascia temperata fredda di Atlantico, Pacifico ed
Indiano; nel Mediterraneo è presente quasi ovunque ad eccezione delle coste sud
orientali e, principalmente, tra il mar Ligure e l’Isola d’Elba e nel medio basso
Adriatico. È presente sia lungo le coste che in mare aperto, prediligendo le zone
ricche di plancton; si spinge a volte molto vicino alla riva o all’interno di baie.
Generalmente solitari o in coppia, possono formare anche gruppi numerosi.
Nonostante l’aspetto minaccioso, questo gigante è in realtà un innocuo filtratore che
si nutre di plancton, uova, larve e stadi giovanili di pesci e crostacei, filtrando grandi
quantità d’acqua attraverso le fessure branchiali. Durante la stagione calda compie
lunghe migrazioni in cerca di acque più fresche.
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CERNIA BRUNA (Ephinephelus marginatus, E. guaza)
Grosso pesce dal corpo massiccio e dalla mandibola inferiore prominente, può
superare anche 1,5 m di lunghezza ed i 50 kg di peso. Il suo colore è generalmente
scuro, verde oliva, bruno o rossiccio, con il dorso bruno a chiazze più chiare, fianchi
chiari e ventre giallastro. È la regina delle tane e degli anfratti e vive in fondali rocciosi,
da pochi metri di profondità ad oltre 200 m. È ormai raro avvistarla a profondità
inferiori ai 40 m. Trascorre l’intera esistenza nei pressi della sua tana, allontanandosi
solo per cacciare prede, in preferenza molluschi cefalopodi come polpi e seppie, ma
anche crostacei e, in età adulta, pesci. La cernia bruna nasce femmina, raggiunge la
maturità sessuale verso i 4 – 5 kg di peso (5 – 6 anni di età) e al raggiungimento dei
circa 10 kg inizia a trasformarsi in maschio. La cernia può vivere sino ai 25 anni, ma
ci sono casi documentati di esemplari più longevi.
DATTERO (Litophaga litophaga )
Mollusco bivalve dalla conchiglia ovale e allungata, e di colorazione lucida bruno
dorata, può raggiungere i 10 cm di lunghezza. Una colonia di datteri conta
normalmente circa 150 individui per metro quadro, ma può arrivare sino ad una
densità doppia, dando alle rocce un caratteristico aspetto di crivello. Il dattero cresce
con estrema lentezza, impiegando più di vent’anni per raggiungere 5 cm di lunghezza;
vive sulle rocce calcaree sino a 35 m di profondità, in cui scava cunicoli fusiformi,
raggiungendo una densità massima di popolazione nei primi 10 m di profondità. Si
incontrano individui sino a 100 m, ma preferisce fondali a forte inclinazione. Il dattero
penetra nelle rocce, praticando fori profondi, e si pensa che ciò avvenga per la
secrezione, da parte di ghiandole del mantello, di sostanze in grado di sciogliere il
calcare. La sua pesca, l’importazione e la commercializzazione è vietata dal 1998. La
specie è protetta dalle Convenzioni internazionali di Barcellona e di Berna.
CAVALLUCCIO MARINO (Hippocampus antiquorum,
brevirostris, H. hippocampus, H. guttulatus)
H.
I cavallucci marini sono pesci di piccole dimensioni, raggiungono al massimo i 15 cm
di lunghezza. Si nutrono di piccoli crostacei e di altri organismi che aspirano con la
bocca a forma di tubo. Frequentano fondali sabbiosi o detritici e si possono osservare
sino ai 30 m di profondità, su ciuffi di alghe o gorgonie cui si attaccano con la coda
prensile. Il cavalluccio si può incontrare a basse profondità tra le praterie di
fanerogame marine, dove scivola fra le piante che offrono loro rifugio, ancorandosi
con la coda che funge anche da timone. Le uova sono trasportate per quattro
settimane dal maschio in una tasca incubatrice, posta sulla parte inferiore del tronco,
in cui la femmina spruzza le uova, sino a 200, al momento dell’accoppiamento. La
nascita di tutti i piccoli avviene nel corso di molte ore, espulsi singolarmente o a
gruppi più o meno numerosi con movimenti a sbalzi del maschio, che proietta in
avanti la coda. Il cavalluccio è una specie a rischio di prelievo ed è protetto dalla
Convenzione internazionale di Berna.
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IL MARE D’INVERNO
Il mare può offrire straordinarie opportunità di osservazione
anche senza dover entrare necessariamente in acqua,
vantaggio assai apprezzabile in inverno. Basta fare una
passeggiata sulla spiaggia dopo una mareggiata per scoprire
tantissime informazioni sul mare e sui suoi abitanti.
SFERE DAL MARE
Alzi la mano chi non si è mai imbattuto in quelle palle fibrose, di colore giallino o
bruno chiaro di varie dimensioni che abbondano in molte spiagge e non le abbia
magari prese a calci, domandandosi in cuor suo cosa fossero. Le misteriose palle
fibrose, tanto leggere quanto tenaci, difficili da spezzare o tagliare, altro non sono
che ammassi di foglie di posidonia (Posidonia oceanica) che si staccano dalle
piante durante il ciclo annuale della pianta e che si formano per l’azione delle onde
e delle correnti, che le spingono infinite volte tra la riva e il mare, tritandole e
sminuzzandole fino a ricompattarle nelle palle di fibra che troviamo sulla spiaggia.
Con il sopraggiungere della stagione autunnale e delle prime grandi mareggiate
infatti, le foglie adulte della posidonia, ormai brunastre e coperte di incrostazioni,
si staccano dalle piante per finire sulle spiagge dove formano grandi ammassi detti
banquettes. Se invece passeggiando sulla spiaggia, vi capita di imbattervi in bizzarre
sfere cave, dal colore verde deciso e dall’aspetto gommoso, allora si tratta di specie
appartenenti al genere Codium, un’alga verde che cresce su fondali sabbiosi, dal
diametro variabile fino a una decina di cm, caratterizzata dalla forma sferica
all’origine del nome palla di mare con cui è comunemente conosciuta.
OGGETTI MISTERIOSI
Sulla battigia si possono trovare anche strani oggetti, simili a sacchetti
semitrasparenti di colore giallo rossastro, oppure quasi neri, con lunghi filamenti
a volte ancora attaccati a rametti di gorgonie o a ciuffi di posidonia o di alghe.
Questi oggetti misteriosi altro non sono che uova di piccoli squali, come il
gattuccio (Scyliorhinus canicola), il gattopardo o il gattuccio maggiore (Scyliorhinus
stellaris) oppure di razze (Raja alba, R. asterias, R. clavata). I gattucci sono gli
squali più diffusi del Mediterraneo: lunghi circa 80 cm, sono caratterizzati dal
colore rossiccio o brunastro con piccoli punti e macchie scure sulle pinne e sul
corpo, mentre il ventre è chiaro. I gattopardi o gattucci maggiori sono meno
comuni; grandi fino a 120 cm, hanno una livrea con macchie tondeggianti e
striature brunastre piuttosto grandi. Tutti vivono su fondali fangosi o sabbiosi, tra
i 20 e i 400 m di profondità e frequentano gli scogli sommersi nutrendosi di
molluschi, crostacei e piccoli pesci.
La caratteristica particolare delle loro uova, deposte in un sacchetto oblungo, consiste
nell’essere dotate di lunghi filamenti, i cosiddetti cirri, alle quattro estremità. Al
momento della deposizione i cirri possono essere lunghi sino ad oltre 1 m, per poi
ritrarsi e contrarsi fino a raggiungere una quindicina di cm di lunghezza, arricciandosi
a molla per potersi impigliare a oggetti sommersi o a rami di gorgonia, ancorando
l’uovo e impedendo alle correnti di trasportarli col rischio di finire in pasto a qualche
predatore. Il periodo riproduttivo del gattuccio, nelle nostre acque, va da novembre
ad aprile ed è in questo periodo quindi che è possibile trovare le uova spiaggiate,
specialmente dopo mareggiate particolarmente violente.
Il gattopardo invece, preferisce deporre in primavera e in estate.
Queste uova sono semitrasparenti, quindi in controluce è possibile vedere
l’embrione e il sacco del tuorlo. Le uova di razza sono, per forma e colore,
abbastanza diverse: generalmente nerastre, ma giallastre nella R. batis, hanno
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una forma più quadrangolare, rigonfia al centro con i quattro lunghi filamenti che
partono dagli angoli. Le razze sono parenti degli squali caratterizzate dal corpo
piatto dalla forma romboidale, dalla bocca posta in posizione ventrale e dalla lunga
coda con aculei, che in alcune specie possono essere velenosi. Durante l’estate le
razze si avvicinano alla costa per accoppiarsi e per deporre le loro uova sui fondali
tra le gorgonie o i ciuffi di posidonia. La razza chiodata (R. clavata), molto comune
nel Mediterraneo, può superare i 110 cm di lunghezza ed è dotata di grosse spine
impiantate su placche poste sul dorso, da cui l’origine del suo nome comune.
Frequenta fondali sabbiosi e fangosi da 0 a 700 m di profondità, e genera da 140
a 170 uova (dette anche capsule ovigere) l’anno, che giungono a maturazione in
circa 5 mesi. La stagione riproduttiva varia molto a seconda della regione
geografica, ma in estate si avvicina molto alla costa, ed è possibile scorgerla anche
in acque bassissime.
CIBO PER CANARINI
Uno dei ritrovamenti più comuni sulla spiaggia è una sorta di pantofolina candida,
leggera leggera, un po’ ruvida al tatto ma talmente fragile e delicata da sembrare
fatta di schiuma di mare o più prosaicamente di polistirolo. Si tratta del cosiddetto
osso di seppia (Sepia officinalis). L’ osso di seppia, spesso utilizzato per arricchire
di calcio la dieta dei canarini in gabbia, è in realtà la conchiglia dell’animale, che i
molluschi cefalopodi conservano internamente. Le mareggiate sono spesso causa
anche del ritrovamento dell’uva di mare, in realtà uova di seppia che per forma e
colore ricordano acini d’uva nera, originariamente deposti tra gorgonie e posidonie.
Le seppie vivono vicino a fondali sabbiosi o detritici, tra le alghe e le praterie marine.
Sono animali in grado di mutare colore a seconda dell’umore o delle situazioni,
riuscendo a mimetizzarsi su fondali anche molto diversi tra loro. Il segreto di questa
loro abilità risiede in particolari cellule della pelle contenenti pigmenti colorati, dette
cromatofori, che ricoprono gli strati superficiali della pelle e che contraendosi o
espandendosi possono far variare il colore della seppia.
UOVA AL POLISTIROLO
Sulla sabbia si trovano a volte degli ammassi leggerissimi di piccole cellette, dal
colore biancastro o giallastro, che sembrano molto fragili al tatto. Si tratta di uova
schiuse di molluschi gasteropodi come i buccini o i murici. Il buccino o tritone
(Tritonium nodiferum, Charonia nodiferum), è un grande mollusco gasteropode
dalla enorme conchiglia alta e robusta, lunga sino a 40 cm. E’ un predatore molto
efficiente in grado di inghiottire prede intere, grazie all’azione della secrezione
acida delle ghiandole salivari che gli permette di predigerire la vittima dissolvendo
il tegumento esterno o l’eventuale guscio calcareo. All’inizio della primavera le
femmine depongono le capsule ovigere, dalla forma a giara, che possono
contenere centinaia di uova, al sicuro nelle spaccature e nei crepacci degli scogli
dove rimangono per circa quattro mesi prima della schiusa. A volte, le femmine si
radunano in gruppi per deporre le uova in una unica grande massa all’interno
della quale le larve si svilupperanno tutte insieme. I murici (Murex brandaris, M.
erinaceus, M. trunculus) sono molluschi gasteropodi con guscio dotato di spuntoni
(che nel murice spinoso assumono la forma di vere e proprie spine), con un
opercolo corneo e un piede ampio e robusto, che depongono uova simili a quelle
del buccino, in una forma più o meno gelatinosa dal colore biancastro e
dall’aspetto simile ad una spugna. Anche le uova di murice, dopo la schiusa, si
possono facilmente rinvenire spiaggiate, umide e mollicce se galleggiano in acqua
o disseccate al sole sulla spiaggia. La riproduzione dei murici avviene tra maggio
e luglio, e in questo periodo, nei fondali sabbiosi e fangosi che costituiscono il
loro habitat, si possono trovare in gruppi anche molto numerosi. Le carni dei
murici, conosciuti anche come sconcigli o con altri nomi dialettali, sono molto
apprezzate, ma questi molluschi sono famosi anche perché nell’antichità venivano
catturati per la produzione della porpora, sostanza scoperta dai fenici, che veniva
estratta dalla cavità di una ghiandola del mantello e utilizzata per colorare le vesti
dei potenti di varie epoche e dei senatori dell’antica Roma.
63
TESORI DAL MARE
Sulla spiaggia meglio avere gli occhi bene aperti: sulle rive infatti possiamo trovare
veri e propri tesori. Non parliamo di monete o gioielli nascosti dai pirati e neppure
di perle, che si trovano solo ben nascoste nelle ostriche perlifere dei mari lontani,
ma dell’occhio di Santa Lucia (Astrea rugosa), un frammento calcareo (opercolo)
che serve all’animale per chiudere l’apertura della conchiglia, facile da trovare, se
si hanno buoni occhi e pazienza, sulle spiagge sabbiose situate davanti a praterie
di posidonia o a zone ricche di alghe. L’astrea vive su fondali rocciosi e fangosi,
nel coralligeno e sulla posidonia dai 10 sino ai 100 m di profondità, nutrendosi
delle parti più tenere delle alghe. La conchiglia ha un diametro di 6 - 7 cm circa,
è di forma conica con aspetto tozzo e ruvido dal colore poco appariscente, spesso
con sfumature violacee o verdastre su fondo grigio o bruno chiaro con superficie
ornata di crestine ondulate. L’astrea è molto comune nel Mediterraneo e l’opercolo,
che è di un colore rosso arancio screziato di giallo e bianco molto appariscente,
appiattito da un lato e convesso dall’altro, è conosciuto da tempo immemorabile
col nome di occhio di Santa Lucia o occhio di gatto. Da sempre apprezzato per la
sua bellezza, viene considerato dai pescatori un buon portafortuna e usato in
gioielleria, non solo per la sua bellezza, ma anche per il suo potere scaramantico.
La riproduzione avviene tra marzo e luglio.
LEGNI SPIAGGIATI
Vecchi legni sbiancati dal mare e dal sole e crivellati di fori possono darci
l’occasione per conoscere uno dei più straordinari tra gli abitanti del mare, la
teredine (Teredo navalis). Le teredini sono molluschi lamellibranchi molto
particolari che si sono adattati ad un ambiente decisamente insolito per un
mollusco marino: il legno. Per questo si possono trovare sulle assi dei relitti
spiaggiati o sui tronchi trasportati dalle correnti. La teredine è infatti un mollusco
bivalve, come una tellina o una vongola, modificato per colonizzare un ambiente
del tutto nuovo. La conchiglia della teredine ha quindi perso l’originale scopo per
cui si era evoluta, ovvero quello di proteggere l’animale, divenendo qualcosa di
completamente diverso: un vero e proprio alieno, lungo dai 15 ai 40 cm, dal corpo
nudo e vermiforme, in cui il mantello a forma di tubo e che termina con due sifoni,
si diparte da una conchiglia molto piccola e tozza, più alta che larga, con le valve
a forma di calice e dai bordi seghettati, simile per effetto e per funzione ad una
vera e propria fresa posta in cima ad un tubo spesso e carnoso. Con questa
formidabile attrezzatura scava profondi fori, lunghi sino a 30 cm, dal diametro di
circa 1 cm e mezzo, nel legno dei pali e degli scafi delle imbarcazioni, nutrendosi
dei frammenti che si liberano nel procedere. La teredine riveste queste gallerie di
uno strato calcareo, al quale rimane collegato dal piede. Quando navi e moli erano
fatti esclusivamente di legno, le teredini erano assai temute per la loro capacità
di provocare falle o il crollo dei pali di sostegno di moli e banchine. Le teredini
vivono in tutti i mari del mondo ed essendo molto resistenti agli sbalzi di salinità,
popolano anche le lagune salmastre. Gli esemplari giovani sono molto diversi
dall’adulto perché il mantello non ha ancora iniziato a crescere e a fuoriuscire
dalla conchiglia e sono molto più simili a normali bivalvi dalla conchiglia piuttosto
tondeggiante.
STRANE SPIRALI
A volte possiamo imbatterci in spirali e tubetti biancastri, generalmente vuoti.
Sono le case di alcuni vermi marini, i policheti tubificidi (Serpula vermicularis,
Protula tubularia) che producono i tubicini che possiamo vedere attaccati a
conchiglie, sassi, tronchi e relitti spiaggiati. I policheti tubificidi, come i lombrichi
terrestri, sono anellidi, vermi sedentari che trascorrono la loro esistenza
interamente all’interno di tubi o gallerie, cementati a conchiglie, alghe piante o
rocce. I tubi calcarei possono essere chiusi da un opercolo rigido che l’animale
aziona come una botola, al primo cenno di pericolo o di situazione insolita. Questi
policheti sedentari sono adattati ad una vita fatta di avanti e indietro fulminei
all’interno del proprio tubo, in cui possono muoversi indisturbati, alternati a
momenti in cui con le splendide branchie espanse catturano e filtrano particelle
di cibo dall’acqua.
I serpulidi che vivono in zone di marea, grazie all’opercolo sono in grado di
sopravvivere all’asciutto. Gli insediamenti massivi possono contribuire
64
significativamente a compattare i fondali molli. La Protula tubularia è il più grande
serpulide del Mediterraneo e raggiunge i 10 cm di lunghezza con un tubo che si erge
per più di ? della propria lunghezza dal substrato, ornato da una grande corona di
branchie colorate di un rosso splendente.
CONCHIGLIE PERFORATE
Raccogliendo le conchiglie di bivalvi sulla spiaggia, è facile imbattersi in qualche
conchiglia che presenta su una delle valve un foro tondo, molto regolare di pochi
mm di diametro. Si tratta della testimonianza di un vero e proprio dramma
sottomarino, la scena di un delitto in cui l’assassino è una piccola conchiglia tonda
dall’aspetto innocente che in realtà è un efficiente e spietato predatore: la natica
o maruzza (Naticarius hebraeus), un mollusco gasteropode lungo sino a 4 – 4,5
cm con una conchiglia liscia e globosa di colore chiaro con grandi macchie e
screziature marroni e color ruggine. La natica vive sui fondi sabbiosi ed è un vero
e proprio killer di vongole e telline che avvolge con i lembi del piede per praticare
sul guscio una apertura grazie alla radula, un organo dei molluschi gasteropodi,
costituito da una struttura muscolare rivestita da dentelli curvi posizionata vicino
all’apparato boccale, alla base di una specie di proboscide. In circa sei ore di
paziente ed instancabile lavoro, grazie alla secrezione acida in grado di sciogliere
il carbonato di calcio di cui sono costituite le conchiglie, la natica riesce a formare
un foro perfettamente circolare di 1 o 2 mm. di diametro in cui poi inserisce la
proboscide per divorare la vittima.
Le uova delle maruzze o natiche, chiamate dai pescatori collari di mare, vengono
deposte in nastri ricurvi lunghi una decina di cm e larghi circa 4, e in aprile dopo
le mareggiate, possono trovarsi in grande quantità nelle zone di risacca dei litorali
sabbiosi. Anche il Murex brandaris, il M. erinaceus e il M. trunculus hanno un
modo di predare molto simile a quello della natica, anche se si nutrono molto
volentieri anche di pesci o molluschi morti. Tra le altre creature in grado di produrre
fori sulle conchiglie che troviamo sulla battigia, troviamo le spugne perforanti
(Cliona celata). La cliona è in grado di sciogliere il calcare delle rocce e delle
conchiglie mediante secrezioni acide, ma a differenza della natica o del murice
non provoca questi fori per nutrirsi dell’animale che vive all’interno, ma solo per
prepararsi un substrato adatto su cui insediarsi. La piccola spugna infatti ha
bisogno di insediarsi su substrati calcarei, rocce o conchiglie o anche alghe
calcaree, e a seconda dei casi può crescere e svilupparsi all’interno della roccia o
fuoriuscire parzialmente. La sua colorazione è generalmente gialla ma può essere
anche rossastra o rosa.
65
ATTIVITà
PER I RAGAZZI
Le attività che proponiamo sono rivolte ai ragazzi per approfondire le tematiche trattate,
per consentire una comprensione più profonda delle complesse dinamiche dell’ambiente
marino e costiero, per stimolare, attraverso la sperimentazione e la metodologia dell’inchiesta, l’interesse e l’attenzione sulla difesa del mare e sui corretti comportamenti per
la sua salvaguardia.
Conoscere i suoi abitanti, le relazioni fra il mare e le attività umane, dalle più semplici
alle più complesse, capire i meccanismi di scambio fra questi mondi è forse il modo più
idoneo per imparare ad amare il mare e fare in modo chei ragazzi lo sentano e lo vivano
come un loro patrimonio da preservare.
Le attività si potranno svolgere in classe e a casa.
67
MISURAZIONE DELLA IMPRONTA ECOLOGICA
Prova a calcolare la tua impronta ecologica e quella della tua famiglia: se è molto grande forse è il caso di cominciare
ad adottare comportamenti diversi per diminuirla!
Per farlo, rispondi alle domande che seguono e, alla fine, somma i punteggi ottenuti.
Alcune domande, anche se poste in maniera diretta, fanno riferimento al contesto familiare (per es. gli acquisti).
CASA
1 Quante persone vivono con te?
●
●
●
●
●
1 (+30 punti)
2 (+25 punti)
3 (+20 punti)
4 (+15 punti)
5 o più (+10 punti)
2 In che modo è riscaldata la casa?
●
●
●
●
Gas naturale (+30 punti)
Elettricità (+40 punti)
Olio combustibile (+50 punti)
Energia rinnovabile (+0 punti)
3 Quanti punti di acqua (bagno, cucina, lavanderia, balcone) ci sono?
●
●
●
●
●
Meno di 3 (+5 punti)
3-5 (+10 punti)
6-8 (+15 punti)
8-10 (+20 punti)
Più di 10 (+25 punti)
4 In che tipo di casa abiti?
● Appartamento/condominio (+20 punti)
● Villetta (+40 punti)di individui.
ALIMENTAZIONE
5 Quante volte alla settimana mangi carne o pesce?
●
●
●
●
●
0 (+0 punti)
1-3 (+10 punti)
4-6 (+20 punti)
7-10 (+35 punti)
Più di 10 (+50 punti)
6 Quanti pasti cucinati in casa consumi (compresi quelli portati a scuola)?
●
●
●
●
Meno di 10 (+25 punti)
10-14 (+20 punti)
14-18 (+15 punti)
Più di 18 (+10 punti)
7 Quando acquisti alimenti preferisci prodotti locali?
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●
●
●
●
●
Si (+5 punti)
No (+10 punti)
Qualche volta (+15 punti)
Raramente (+20 punti)
Non lo so (+25 punti)
ACQUISTI
8 Quanti acquisti importanti (stereo, televisore, computer, automobile,
mobili, elettrodomestici) sono stati fatti nel corso degli ultimi 12 mesi?
● 0 (+0 punti)
● 1-3 (+15 punti)
● 4-6 (+30 punti)
● Più di 6 (+45 punti)
9 Sono stati acquistati articoli a risparmio energetico negli ultimi 12 mesi?
● Si (+0 punti)
● No (+25 punti)
TRASPORTI
10 Quale mezzo usi per gli spostamenti?
●
●
●
●
●
●
Bicicletta (+15 punti)
Utilitaria (+35 punti)
Vettura intermedia (+60 punti)
Berlina (+75 punti)
Macchina sportiva, monovolume o familiare (+100 punti)
Van, utility vehicle o fuoristrada (+130 punti)
11 Come vai a scuola?
●
●
●
●
●
In automobile (+50 punti)
Con i mezzi pubblici (+25 punti)
Con uno scuolabus (+20 punti)
A piedi (+0 punti)
In bicicletta o pattini a rotelle (+0 punti)
12 Dove hai passato le vacanze nel corso dell'ultimo anno?
●
●
●
●
●
Niente vacanze (+0 punti)
Nella mia regione (+10 punti)
In Italia (+30 punti)
In Europa (+40 punti)
In un altro continente (+70 punti)
13 Quante volte nell’anno utilizzi l'automobile per il fine settimana?
●
●
●
●
●
0 (+0 punti)
1-3 (+10 punti)
4-6 (+20 punti)
7-9 (+30 punti)
Più di 9 (+40 punti)
69
RIFIUTI
14 Fai la riduzione dei rifiuti (per esempio: preferisci imballaggi ridotti, rifiuti l'invio di posta pubblicitaria, preferisci contenitori riutilizzabili)?
● Sempre (+0 punti)
● Qualche volta (+10 punti)
● Raramente (+15 punti)
● Mai (+20 punti)
15 Quanti sacchi della spazzatura produci ogni settimana?
●
●
●
●
●
0 (0 punti)
Mezzo sacco (+5 punti)
1 sacco (+10 punti)
2 sacchi (+20 punti)
Più di 2 sacchi (+30 punti)
16 Ricicli i giornali, le bottiglie di vetro e quelle di plastica?
●
●
●
●
Sempre (+5 punti)
Qualche volta (+10 punti)
Raramente (+15 punti)
Mai (+20 punti)
17 Prepari il compost con i rifiuti della frutta e della verdura?
●
●
●
●
Sempre (+5 punti)
Qualche volta (+10 punti)
Raramente (+15 punti)
Mai (+20 punti)
RISULTATI
MENO DI 150 PUNTI
impronta ecologica inferiore a 2 ettari
150 - 350
tra 2 e 4 ettari (la maggior parte degli italiani)
350 - 550
tra 4 e 6 ettari
550 - 750
tra 6 e 10 ettari
L'impronta media mondiale richiesta dagli scienziati è di 1,9 ettari a persona.
Ottenere un punteggio inferiore a 2 è indice di un comportamento eco-sostenibile
test tratto da www.worldsocialagenda.org
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Costruzione del ciclo degli inquinanti e del ciclo dei rifiuti
Costruisci degli esempi di come le sostanze inquinanti arrivano in mare e il ciclo che poi compiono
nell’ecosistema marino.
Per esempio per i POP potresti illustrare le vie con cui essi arrivano in mare (fiumi, dispersione in atmosfera)
e poi le varie fasi di evaporazione e ricaduta tramite la pioggia, fino al loro confinamento nelle zone fredde
del nostro pianeta, in cui l’evaporazione non è così forte da farli tornare nell’atmosfera.
Oppure potresti rappresentare come una sostanza inquinante penetra nella catena alimentare, con le fasi
di bioaccumulo e di magnificazione biologica.
O ancora, realizza un manifesto per mostrare le varie vie con cui i diversi tipi di rifiuti e di inquinanti
pervengono al mare (da terra, dalle navi, dalle fabbriche, dai campi coltivati, dai fiumi….) magari adattandolo
alla situazione della tua città o della tua regione, dopo aver fatto una inchiesta su quali sono le fonti di
inquinamento presenti nella zona.
Individuazione dei comportamenti corretti
Nell’affrontare i problemi che minacciano il nostro pianeta, abbiamo suggerito comportamenti che
possono contribuire a diminuire gli impatti sull’ecosistema. Comincia con l’individuare tutti quelli che trovi
nel testo e poi insieme alla tua classe, divisi in gruppi, scopri e segnala in una scheda gli altri modi di agire
che possono aiutarci a difendere il nostro mare.
71
Il nostro mondo e il clima cui siamo abituati cambiano e questo cambiamento sembra
avvenire sempre più velocemente; si tratta di un fenomeno che possiamo provare a
verificare con una serie di attività da realizzare con la classe. I risultati potranno essere
raccolti in una mostra o in un video montato sul modello delle inchieste giornalistiche,
per sensibilizzare genitori e altri studenti su quanto sta accadendo.
LA SCHEDA DEL TEMPO
NON CI SONO PIù LE STAGIONI DI UNA VOLTA
Questa frase, insieme all’altra forse ancora più abusata “non ci sono più le mezze
stagioni” imperversa nelle conversazioni, fino ad essere diventata il luogo comune
per eccellenza…..ma è davvero solo questo o c’è un fondo di verità?
Proviamo a scoprirlo insieme e per farlo rivolgiamoci a chi conserva nello scrigno
della propria memoria le informazioni che possono aiutarci.
La proposta è quella di intervistare i nonni e le persone più anziane, per capire
se e come il tempo e le stagioni siano cambiati rispetto alla loro giovinezza.
È importante scegliere delle domande che possano aiutarci a costruire un racconto
in grado di restituirci la sensazione di quello che sta accadendo.
Nei sussidiari che si usavano nelle scuole elementari di 40 anni fa, il tempo e le
stagioni erano molto ben rappresentate, con l’autunno, l’inverno, la primavera e
l’estate identificate non solo da date, ma anche da avvenimenti e da condizioni
climatiche ben precise, che ora appaiono molto più confuse.
Prova quindi a chiedere cosa per i nostri nonni segnava il passaggio dall’estate
all’autunno, per esempio, o quando si faceva il cambio di stagione, quanti giorni
nevicava (se nevicava) durante l’inverno, o se si usavano (e quali erano) gli abiti
di mezza stagione.
Con un lavoro da veri e propri giornalisti di inchiesta, metti insieme i dati che
ricaverai per costruire il quadro delle condizioni climatiche di 50 o 60 anni fa, da
mettere a confronto con quelle di oggi, costruendo una specie di macchina del
tempo che viaggia nella memoria dei nostri anziani.
72
LE SCHEDE DEL MARE
Uno dei segni più visibili dei mutamenti climatici è costituito, come abbiamo visto,
da variazioni nella fauna e nella flora dei nostri mari.
Come fare per capire quanto e in che modo il mare sta cambiando?
Poiché non ci sarà possibile esplorare direttamente i fondali (anche se un po’ di
snorkeling con maschera e pinne può mostrarci tante cose) dobbiamo rivolgerci a
quei soggetti che con il mare hanno a che fare di continuo e che potranno fornirci
indicazioni molto utili su quello che sta realmente accadendo: pescatori e subacquei.
AL MERCATO DEL PESCE
Molte delle specie che stanno penetrando in Mediterraneo o che stanno ampliando la
loro distribuzione nel nostro bacino sono specie commerciabili, in alcuni casi di ottimo
sapore; inevitabile che prima o poi finiscano sui banchi del mercato del pesce.
Molte informazioni potranno quindi essere acquisite intervistando gli operatori,
riferendosi naturalmente ai prodotti della piccola pesca ed al pescato locale, per
scoprire se e come sono cambiati i prodotti di questa attività; per acquisire notizie in
merito alla commercializzazione di specie che magari prima venivano pescate
occasionalmente e che adesso si trovano molto più di frequente sui banchi del mercato;
oppure che prima venivano importate dall’estero o da porti molto più a sud.
MONITORAGGIO DELLE SPECIE ALIENE
Pescatori e subacquei escono tutto l’anno e possono essere considerati delle vere
e proprie sentinelle dei nostri mari; potremo intervistare cooperative di pesca,
singoli pescatori, diving, scuole e circoli subacquei, mostrando la scheda che
segue, chiedendo se hanno mai incontrato le specie riportate.
Potremo così costruire una vera e propria mappa delle specie aliene presenti.
Molti sub praticano fotografia subacquea e sono eccellenti fotografi: chiediamo i
loro scatti sia per illustrare la mappa, sia per inviarli a Legambiente, assieme a
data e luogo di incontro, che li farà pervenire all’ICRAM, l’istituto di ricerca che
sta raccogliendo dati su questo argomento.
Legambiente Mare - Via Salaria, 403 - 00199 Roma
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LE SPECIE ALIENE
Fistularia commersonii
Pesce penetrato dal Mar Rosso, è molto lungo tanto da essere chiamato pesce
flauto, fa parte della famiglia dei pesci ago, corpo cilindrico e coda con filamento
centrale. Vive in ambiente pelagico costiero. Il colore normalmente è grigioverdastro sul dorso ed argentato sui fianchi. Negli adulti sono presenti righe e
macchie blu. Generalmente è lungo da 20 a 100 cm ma può raggiungere 1,5 m.
Siganus luridus e Siganus rivulatus
Proveniente dal Mar Rosso. Il corpo è alto e compresso ai fianchi, ellissoidale. La
bocca è piccola con labbra distinte. La coda è triangolare a volte forcuta e la pinna
dorsale è lunga con grossi aculei terminanti con raggi sottili. La differenza
macroscopica tra le due specie è data dal colore che per la prima specie varia tra il
marrone scuro ed il verde, mentre per S. rivulatus è grigio-verde, con sfumature
marroni nella parte posteriore e superiore, marrone chiaro-giallo sul ventre con bande
giallo-oro, spesso sbiadite sulla metà inferiore del corpo; entrambe le specie non
superano i 25 centimetri. Sono specie erbivore quindi si ritrovano prevalentemente
in acque superficiali entro i 20 metri, su fondi ricchi di vegetazione.
Sparisoma cretense
È una specie mediterranea termofila presente sino a pochi anni fa solamente nelle
isole Pelagie; è conosciuta come pesce pappagallo. Vive normalmente in harem
costituiti da un maschio più grande colore grigio e verdastro e 4 o 5 femmine più
piccole di colore rosso bruno e giallo. Ha comportamento territoriale e vive in
ambiente costiero su fondali ricchi di vegetazione, di cui si nutre.
Percnon gibbesi
È un granchio proveniente dal Mar Rosso caratterizzato da un carapace piatto e
circolare, con il margine anteriore tridentato; sui giunti degli arti ambulanti sono
visibili anelli giallo dorato. La dimensione comune del carapace è di tre centimetri.
Vive in pochi metri d’acqua in anfratti nelle rocce, si rinviene anche in ambito
portuale e in barriere frangiflutti; vale la pena cercarlo in fase di decompressione
o in sosta cautelativa con buone possibilità di trovarlo giacché si sta diffondendo
ovunque molto rapidamente.
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Seriola fasciata
È una specie di pesce proveniente dall’Oceano Atlantico congenere della ricciola
mediterranea con la quale può essere scambiata nelle fasi giovanili e dalla quale
si distingue per avere le bande scure e un corpo meno affusolato. È grigia con
bande scure quasi nere sul corpo, visibili anche negli individui adulti che non
superano i 4 kg. È spesso catturata insieme alla ricciola mediterranea di taglia
omogenea e si osserva spesso associata a corpi galleggianti come i cannizzati
che i pescatori usano per la pesca alla lampuga, boe o oggetti alla deriva sotto i
quali vive da giovane insieme alla ricciola mediterranea. Segnalata per la prima
volta in Mediterraneo nel 1995 è oggi presente quasi ovunque.
Balistes carolinensis
Conosciuto come pesce balestra o pesce grilletto è una specie mediterranea
termofila, presente nei mari meridionali ed oggi in rapida espansione verso nord.
Caratteri distintivi sono la bocca piccola a forma di becco con labbra carnose e la
forma del corpo appiattita lateralmente. Colorazione da verde brunastro a grigio;
raggiunge una lunghezza massima di 40 cm. Nel periodo riproduttivo scava un
nido nella sabbia dove la femmina depone le uova che vengono sorvegliate a
turno con il maschio; i giovani sono spesso osservati associati a corpi galleggianti.
Caulerpa taxifolia e Caulerpa racemosa
Sono tristemente note per avere rapidamente invaso il mare. Sono alghe tropicali
indopacifiche probabilmente sfuggite dagli acquari, dove vengono usate per il loro
aspetto grazioso. La loro capacità invasiva è dovuta al fatto che il tallo spezzato
è in grado di rigenerare un nuovo individuo. La Caulerpa taxifolia è così chiamata
per la somiglianza delle sue fronde alle foglie dell’albero del tasso, lunghe circa
5 cm o poco più, di un bel colore smeraldo. La Caulerpa racemosa si riconosce
per le fronde color verde brillante a forma di acini d’uva.
75
Scheda di segnalazione specie aliene
Nome e cognome____________________________________________________
Indirizzo____________________________________________________________
E-mail______________________________________________________________
Telefono____________________________________________________________
Scuola-Circolo-Diving center____________________________________________
___________________________________________________________________
Cooperativa di pesca_________________________________________________
Punto di immersione o pesca__________________________________________
___________________________________________________________________
Profondità massima raggiunta__________________________Data____________
AMBIENTE DOVE È STATO AVVISTATO L’ESEMPLARE
SABBIOS0
ROCCIOSO
POSIDONIA
ALTR0
FAI UN SEGNO SULLA SCHEDA DANDO UNA STIMA DEL NUMERO AVVISTATO
Fistularia commersonii
Siganus luridus e Siganus rivulatus
Sparisoma cretense
Percnon gibbesi
Seriola fasciata
Balistes carolinensis
Caulerpa taxifolia e Caulerpa racemosa
Unico Raro Frequente Abbondante
76
LA
SCOGLIERA
Costruire una scogliera in classe con le varie specie (granchi, mitili, patelle, pesci, alghe) osservate sul campo, indicando le
loro relazioni trofiche e spaziali. L’attività proposta viene condotta direttamente sul campo e riguarda lo studio di un
ambiente particolare. Con una serie di uscite condotte durante l’arco dell’anno scolastico i ragazzi dovranno identificare e
classificare, con l’aiuto anche di manuali, tutte le differenti specie appartenenti ai vari taxa (le diverse categorie della
classificazione tassonomica: specie, genere, famiglia, ordine, classe, phylum, regno) che riescono ad osservare nella scogliera
e nelle acque sottostanti (piccoli pesci come bavose, tordi, saraghi, castagnole, occhiate, piccoli cefali, donzelle, possono
essere individuate osservandole dalla superficie anche senza immergersi). Durante l’attività di esplorazione e rilevamento
è importante riportare sulle schede la posizione esatta sulla scogliera (in una pozza, fuori dalla superficie, in acqua) in cui
l’animale o il vegetale (alghe come Padina pavonia, Ulva lactuca, acetabularia sono comuni in questi ambienti) sono stati
trovati. Il prodotto finale sarà uno spaccato della scogliera con l’indicazione di tutte le specie trovate, il loro numero totale
(un elevato numero di specie è indice di un buono stato ambientale), la loro posizione spaziale (sopralitorale, infralitorale...)
e il loro posto nella catena trofica; potrà essere utile aiutarsi con dei simboli e delle frecce che ne contraddistinguano i
rispettivi ruoli e rapporti, in modo da ricostruire le biocenosi della scogliera.
Scheda di rilevamento per la scogliera
compilare una scheda per ogni specie
Nome del raccoglitore________________________________ Data____________
Condizioni atmosferiche (sole, cielo coperto, molto nuvoloso, vento)_____________________
Marea (alta/bassa)___________________ Vegetale o animale___________________
Nome comune della specie____________________________________________
Nome scientifico_____________________________________________________
Descrizione_________________________________________________________
Indicazione del luogo dove si è trovata
(libera in acqua, aderente al fondo o alla scogliera, fuori dall’acqua sulla scogliera, in una pozza di marea .....)
___________________________________________________________________
Quantità di individui osservati_________________________________________
Descrizione delle attività compiute
(nel caso sia una specie animale)
___________________________________________________________________
Descrizione delle sue abitudini_________________________________________
Posizione nella catena alimentare
(produttore, consumatore primario)
___________________________________________________________________
Schizzo o fotografia
77
Legambiente
Nata nel 1980, è oggi l’associazione ambientalista italiana più diffusa sul territorio: oltre
mille gruppi locali, venti comitati regionali, più di 115 mila tra soci e sostenitori. Obiettivo
di Legambiente è fare della cultura ambientalista, delle sue ragioni e dei suoi princìpi, uno
dei criteri fondanti di uno sviluppo e di un benessere di tipo nuovo, dimostrare che il
miglioramento della qualità ambientale, la lotta contro ogni forma d’inquinamento, un uso
parsimonioso delle risorse naturali, la costruzione di un rapporto più equilibrato dell’uomo con gli altri esseri viventi
sono sì un valore in sé, ma anche una via efficace per rispondere alle grandi sfide del nostro tempo: quelle della
modernizzazione dell’economia, dell’impegno per battere la disoccupazione, della lotta per la pace e contro ogni forma
di terrorismo, dello sforzo perché la globalizzazione sia non solo merci ma soprattutto migliore qualità della vita e più
diritti per quei miliardi di uomini e donne costretti a vivere nella miseria.
Legambiente è un’associazione apartitica, aperta ai cittadini di tutte le convinzioni politiche e religiose; è riconosciuta
dal ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare come associazione d’interesse ambientale; fa parte
del Bureau européen de l’environnement, l’organismo che raccoglie tutte le principali associazioni ambientaliste europee,
e della Iucn (The International Union for Conservation of Nature).
Campagne, iniziative, proposte
Queste le iniziative più popolari di Legambiente: le campagne nazionali di analisi e informazione sull’inquinamento
(Goletta Verde, Treno Verde, Fiuminforma, Salvalarte), che ogni anno fotografano lo stato di salute dei mari, delle città,
dei fiumi, dei monumenti; Mal’aria, la campagna delle lenzuola contro lo smog; Cambio di clima, programma di azioni
per ottenere l’applicazione in Italia del Protocollo di Kyoto contro i mutamenti climatici e per favorire il risparmio
energetico e lo sviluppo delle fonti rinnovabili; Piccola grande Italia, iniziativa per la difesa e la valorizzazione dei
piccoli comuni; i grandi appuntamenti di volontariato, gioco e turismo ambientale per il recupero e la valorizzazione
di spiagge, parchi e giardini pubblici, piazze, boschi (Spiagge pulite, Puliamo il mondo/Clean-up the world, Festa
dell’albero, Cento strade per giocare, Nontiscordardimé/Operazione scuole pulite, campi estivi); le iniziative e proposte
per promuovere la modernizzazione e la riconversione ecologica dell’economia e per realizzare una grande alleanza tra
interessi dell’ambiente e del lavoro; l’attività di ricerca dell’Osservatorio su ambiente e legalità, che raccoglie e diffonde
dati ed informazioni sui fenomeni d’illegalità che danneggiano l’ambiente e sulle ecomafie; l’impegno per una piena
valorizzazione delle aree protette e delle economie territoriali basate sulla qualità; Legambiente per un’agricoltura
italiana di qualità, campagna per promuovere le produzioni agroalimentari tipiche e pulite; le campagne e le iniziative
per promuovere un nuovo modello di globalizzazione (Clima e povertà, progetti di cooperazione allo sviluppo); i
Rapporti annuali sullo stato dell’ambiente: Ambiente Italia, Ecosistema urbano, Guida blu al turismo balneare,
Ecosistema scuola.
Legambiente per la scuola
Legambiente Scuola e Formazione rivolge al mondo della scuola numerose proposte di lavoro il cui punto di forza
è la connessione tra apprendimenti disciplinari, costruzione di competenze trasversali e formazione alla cittadinanza
attiva. Numerosi i percorsi educativi: Un libro per l’ambiente, Rifiuti, Energia, TeatrAmbiente, Tesori d’Italia. Offre ai suoi
soci occasioni di dibattito politico e culturale, consulenza per la realizzazione di progetti educativi nazionali e
internazionali, materiali didattici e informativi. Oltre ai progetti educativi e alle iniziative rivolte ai ragazzi e agli adulti,
l’associazione propone, attraverso la rete dei Centri di Educazione Ambientale, gemellaggi con le scuole dei piccoli
Comuni italiani con il progetto La scuola adotta un Comune e proposte di turismo educativo, opportunità di incontro
per confrontarsi con i coetanei e con realtà diverse.
Legambiente Scuola e Formazione è ente qualificato a svolgere formazione per il personale scolastico.
[email protected]
Gli strumenti di lavoro
Legambiente si avvale nella sua azione di diversi strumenti: un Comitato scientifico composto da scienziati e tecnici;
i Centri di azione giuridica, impegnati in iniziative giudiziarie per la tutela dell’ambiente e in attività di studio, formazione,
proposta; l’Istituto di ricerche Ambiente Italia, che opera nel settore della ricerca applicata e cura ogni anno il rapporto
Ambiente Italia, edito a partire dal 1995 dalle Edizioni Ambiente di Milano; il mensile La Nuova Ecologia, inviato in
abbonamento ai soci dell’associazione.
Legambiente - Via Salaria, 403 - 00199 Roma
tel. +39.06862681 - fax +39.0686218474
www.legambiente.eu - [email protected]
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