il libro del mare in collaborazione con il libro del mare in collaborazione con illibro del mare testi Roberto Giangreco illustrazioni Francesco Cometto grafica www.kromosoma.com stampa Grafiche Vieri stampato in carta ecologica 2008 Legambiente www.legambiente.eu indice prefazione introduzione 4 5 cap 1 elementi di ecologia cap 2 elementi di oceanografia di base i fattori abiotici i fattori biotici cap 3 caratteristiche degli ecosistemi marini cap 4 gli ambienti del mare cap 5 il Mediterraneo, le sue caratteristiche e specificità cap 6 la prateria di posidonia 6 10 11 12 14 18 20 22 cap 7 le coste sistema dunale macchia mediterranea stagni salmastri e laghi costieri cap 8 la pressione dell’uomo sugli ecosistemi marini l’inquinamento la pesca incontrollata e la pesca abusiva il turismo selvaggio la pressione sulle coste cap 9 i cambiamenti climatici il cambiamento climatico e il mare la meridionalizzazione del Mediterraneo la tropicalizzazione del Mediterraneo l’invasione delle specie aliene cap 10 il futuro che ci aspetta 26 27 29 31 34 35 39 41 41 42 44 44 45 46 48 appendice gli abitanti del mare il mare d’inverno attività per i ragazzi 52 62 66 3 Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza (Joseph Conrad) Vascelli pirati e mostri marini, terre di conquista e tesori da scoprire. Il mare delle imprese avventurose di Conrad, delle fantastiche esplorazioni del Nautilus e del suo Capitano, re dei nostri sogni di bambini, non più complice ma amico, oggi affida la sua sorte proprio a noi. Superate le ancestrali paure abbiamo imparato ad usarlo, talvolta nel peggiore dei modi. Rubandogli l’ossigeno, uccidendo i suoi predatori, scaricando nei suoi fondali rifiuti di ogni genere. Nel lungo viaggio di questi anni ho visto recuperare in pochi metri d’acqua le cose più assurde. Lavatrici, pneumatici, motorini, batterie esauste, lattine e plastica ma anche armi, bombe di profondità, siluri. Rifiuti che il tempo di una vita non riuscirà a cancellare, ma che in soli 50 anni attaccati dalla ruggine diventeranno pericolosi. Se è vero come dicono che la natura sviluppa i suoi anticorpi e risponde ai veleni producendone di nuovi per difendersi, non voglio immaginare cosa sarà il futuro del nostro pianeta blu. Ma il mare come sta? Ci chiediamo in continuazione. Sopravvive, rispondiamo. Anzi risponde agli sforzi che, grazie all’infaticabile missione di associazioni ambientaliste come Legambiente a cui dobbiamo essere grati, sono stati fatti in questi anni per la sua tutela. Non c’è riserva o Area Marina Protetta dove l’effetto parco non abbia dato straordinari risultati. La rete di Amp di cui il nostro Paese si è dotato ha confermato che la strada della tutela integrale di alcune zone è quella giusta, moltiplicando in pochi anni la risorsa, reintroducendo specie oramai scomparse, riproducendo l’indispensabile biodiversità. Gestione integrata della fascia costiera, controllo della cementificazione, organismi di coordinamento e controllo internazionali, rispetto delle regole internazionali e degli accordi siglati dagli Stati più sensibili all’emergenza ambientale, sono le nuove sfide da sostenere. Ho imparato in Galizia, durante il disastro del Prestige, che ognuno di noi deve fare la sua parte. A Finisterre, Roberto Giangreco, in veste di esperto per il Servizio Difesa Mare del Ministero dell’Ambiente, mi ha mostrato una piccola pallina nera galleggiante. Era una infinitesima parte della marea nera che stava invadendo le coste spagnole, francesi e portoghesi, una minuscola goccia di greggio che portata dalla corrente avrebbe potuto arrivare ovunque e come quella milioni di altre. Anche quella andava rimossa e per farlo bastava una sola persona. Li voglio vivi è un inno alla consapevolezza. È il risultato di una vita dedicata alla natura, all’ambiente, al mare. È il libro giusto per chi ha voglia di trovare la propria goccia di mare da difendere. Donatella Bianchi Giornalista, conduttrice di Linea blu 4 Li Voglio Vivi compie dieci anni Nel corso del tempo la campagna ha posto all’attenzione del grande pubblico e delle scuole l’affascinante mondo del mare e delle coste italiane; ha cercato di presentarne, in modo divulgativo ma scientificamente corretto, un quadro completo, partendo dalla storia naturale degli organismi che lo popolano e dalla descrizione dell’ambiente fisico, della dinamica e del funzionamento degli ecosistemi marino-costieri, analizzando le minacce che ne mettono in pericolo la sopravvivenza e gli scenari futuri che il cambiamento climatico prospetta al Mare Nostrum. Per non disperdere il patrimonio di esperienza accumulato nel corso di questi anni, patrimonio che ha dimostrato di essere ampiamente gradito ed apprezzato dai ragazzi e dagli adulti che sono entrati in contatto con questa campagna, abbiamo pensato insieme al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, di raccogliere e riorganizzare il materiale realizzato in un unico volume, che possa consentire al lettore di approfondire in modo sistematico la conoscenza del nostro mare e delle nostre coste e di comprendere, oltre i pericoli che ne minacciano il futuro, anche i comportamenti virtuosi che ognuno di noi potrà in prima persona praticare. Allo scopo di approfondire le tematiche trattate, abbiamo pensato di integrare il testo con delle schede che consentiranno di penetrare più a fondo i problemi del nostro mare e delle nostre coste, suggerendo percorsi di sperimentazione seguendo la metodologia dell’inchiesta. Questo lo rende un utile strumento didattico a disposizione di tutte quelle scuole che hanno seguito nel corso del tempo il nostro progetto. Buona lettura!! Sebastiano Venneri Responsabile Mare Legambiente 5 1 ELEMENTI DI ECOLOGIA Il nostro pianeta brulica di vita che colonizza ogni spazio disponibile e che assume miriadi di forme tanto diverse quanto affascinanti. Batteri, alghe, piante, microrganismi, molluschi, crostacei, vertebrati e l’uomo stesso dipendono per la loro esistenza da fattori legati alla natura dell’ambiente in cui vivono e ai rapporti che instaurano tra loro. La scienza che si occupa dello studio di queste relazioni si chiama ecologia. L'ecosistema è alla base dello studio dell’ecologia e rappresenta proprio il sistema dei rapporti tra le comunità viventi e il territorio che le ospita, quale che sia la sua dimensione. In un ecosistema abbiamo quindi due distinte componenti che interagiscono strettamente tra loro: l’ambiente fisico o biotopo e l’insieme dei suoi abitanti, chiamato biocenosi o comunità. Il biotopo è un ambiente delimitato da caratteristiche omogenee -come può essere ad esempio un prato o uno stagno- ed è caratterizzato dal supporto inorganico (suolo, acqua) e da tutti gli aspetti chimico-fisici (temperatura, luce, nutrienti) che ad esso sono collegati. Tutti gli esseri viventi che popolano un determinato biotopo costituiscono pertanto nel loro insieme una comunità o biocenosi. Il termine habitat è un’altra parola che indica l’ambiente fisico, ma è riferita ad una singola specie (ad esempio, l’habitat del cavalluccio marino è la prateria di posidonia) quindi è come se fosse l’indirizzo in cui è possibile trovare un determinato organismo, mentre in un biotopo troveremo numerose specie collegate tra loro. Sia le singole componenti che l’intero ecosistema funzionano grazie alla presenza di una fonte di energia, che viene trasformata e trasferita all’interno dell’ecosistema stesso, che si comporta quasi come una macchina il cui scopo è produrre vita. Salvo poche eccezioni, la fonte di energia di un ecosistema è la luce solare, ma a volte l’energia necessaria per consentire la sopravvivenza di un ecosistema è prodotta da reazioni chimiche, come nel caso dei batteri chemiotrofi, che possono così vivere in ambienti privi di luce come gli abissi marini. L’energia proveniente dal sole viene catturata mediante la fotosintesi dagli organismi autotrofi (chiamati anche produttori primari), ovvero le piante verdi e le alghe che sono per questo alla base dell’intero ecosistema. L’energia catturata viene usata dalle piante per crescere, immagazzinando il flusso proveniente dai raggi solari attraverso la produzione di glucosio e altre sostanze organiche, a partire dall’anidride carbonica presente nell’aria o disciolta nell’acqua e utilizzando i minerali inorganici a disposizione. Questa materia organica (biomassa) diventa quindi cibo per gli altri componenti del sistema: gli eterotrofi, cioè organismi che non sono in grado di ottenere il loro fabbisogno di energia direttamente dal sole ma che devono quindi cibarsi o di piante, come gli erbivori (chiamati quindi consumatori primari), oppure di altri animali come i carnivori (detti invece consumatori secondari); un’ultima categoria è infine costituita dai decompositori che si cibano della materia organica disciolta o dispersa nell’ambiente. Questa struttura composta dagli organismi autotrofi e dai successivi livelli di organismi eterotrofi è chiamata struttura trofica e ogni suo livello prende il nome di livello trofico. La struttura trofica è una caratteristica di tutti gli ecosistemi. Il primo livello è costituito dalle piante o dagli altri produttori, che catturano l’energia e la immagazzinano sotto forma di materia vivente. Il secondo livello dagli erbivori ed il terzo dai carnivori. Man mano che si passa da un livello all’altro gran parte dell’energia viene persa attraverso il metabolismo degli organismi e la perdita di calore in una percentuale che va dall’80 al 95% . La struttura trofica assume quindi una configurazione simile a una piramide a gradoni -per questo chiamata piramide trofica- con gradoni che diventano sempre più piccoli procedendo verso l’alto, perché il flusso di energia che passa da un livello inferiore al superiore può sostentare un numero di organismi molto minore. I carnivori possono a loro volta essere preda di carnivori più grandi, i cosiddetti superpredatori (come leoni, lupi, aquile o squali) che possono pertanto formare un quarto gradino, il più piccolo. In quest’ultimo gradino possiamo includere anche gli onnivori, come l’uomo, che si nutrono sia di vegetali che di animali. A completare il funzionamento della struttura trofica di un ecosistema troviamo i decompositori, che sono organismi (principalmente batteri) che si nutrono dei resti la struttura trofica di un ecosistema ha una configurazione simile a una piramide a gradoni 7 8 l'ecosistema è costituito da biotopo e biocenosi il pesce pagliaccio vive in simbiosi con l'anemone 1 ELEMENTI DI ECOLOGIA degli organismi vegetali e animali. I decompositori operano a tutti i livelli della piramide trofica restituendo all’ambiente le sostanze organiche che verranno poi riutilizzate dalle piante dando di nuovo avvio al ciclo. Il trasferimento di energia all’interno di un ecosistema può seguire diversi percorsi; ogni percorso che trasferisce energia a partire da una sorgente fotosintetica e attraverso una serie successiva di livelli di consumatori (primari e secondari, cioè erbivori e carnivori) viene chiamato catena alimentare. La combinazione di tutte le catene alimentari presenti in un ecosistema (un piccolo gamberetto appartenente allo zooplancton può essere mangiato da una sardina come da un grande squalo filtratore) è chiamata rete alimentare, che è quindi la somma di tutti i percorsi che l’energia compie da un livello all’altro di una comunità o di un ecosistema. Componenti abiotici indispensabili della struttura trofica sono una sorgente di energia (luce solare o altro), i nutrienti inorganici e l’acqua. Gli organismi fotosintetici infatti non possono fissare l’energia e produrre molecole organiche complesse senza la luce solare e senza i nutrienti inorganici, come i nitrati e i fosfati, mentre l’acqua è indispensabile come mezzo in cui far avvenire molte reazioni necessarie alla vita. All’interno di un ecosistema, gli elementi chimici e i componenti organici che compongono il corpo delle piante e degli animali sono continuamente in circolo tra l’ambiente esterno e gli organismi stessi: il carbonio che le piante utilizzano per produrre glucosio durante la fotosintesi, viene prelevato sotto forma di CO2 presente nell’aria o disciolta nell’acqua, e viene poi restituito all’ambiente attraverso la respirazione o la decomposizione; l’ossigeno viene assunto direttamente dall’aria o dall’acqua per la respirazione e reinserito nell’ambiente legato al carbonio sotto forma di CO2; anche l’azoto, il fosforo e gli altri minerali utilizzati dagli organismi per le complesse reazioni chimiche che sono alla base della vita, sono soggette a questo scambio. I continui trasferimenti tra organismi e ambiente di queste sostanze vengono chiamati cicli chimici (ciclo chimico del fosforo, ciclo chimico del carbonio…) e sono fondamentali per la sopravvivenza dell’ecosistema. L'ecosistema, con questa complessa struttura che abbiamo descritto, funziona quindi nel suo insieme come una macchina che si basa su un equilibrio dinamico e che è dotata di capacità di autoregolazione. Equilibrio dinamico vuol dire che un ecosistema subisce un continuo cambiamento dettato dalla necessità di adattarsi ai diversi fattori ambientali, ai loro mutamenti e alle interazioni tra questi e la grande quantità e varietà di specie animali e vegetali, in perenne competizione per la conquista di spazi e risorse. Un ecosistema quindi, non rimane identico nel tempo ma, per effetto delle stesse interazioni che si verificano tra i suoi componenti, è destinato ad evolversi. Ogni ecosistema vive pertanto delle trasformazioni nel tempo, perché tende ad adattarsi alle condizioni ambientali del momento. La sequenza delle trasformazioni dell’ecosistema (parliamo di periodi di tempo molto lunghi, da decenni a millenni) costituisce quella che viene chiamata successione ecologica, che tende a raggiungere prima o poi un punto di stabilità quando l’ecosistema è in equilibrio stabile con quel tipo di condizioni climatiche e fisiche, questo stadio finale è chiamato comunità climax. Un ecosistema è in grado di reagire alle sollecitazioni esterne grazie alla sua capacità di autoregolazione, ovvero la sua capacità di tamponare le variazioni determinate da fattori esterni, ripristinando il suo equilibrio. Ciò naturalmente vale solo entro certi limiti e al di fuori di questi l'equilibrio tra le componenti del sistema può spostarsi in modo irreversibile, determinando l'alterazione o la morte dell'ecosistema stesso. Quando ad esempio una comunità viene alterata dall’inquinamento, da un incendio, dalla scomparsa di una specie o dall’invasione di nuove specie, si possono creare grandi cambiamenti nella sua struttura e nella sua capacità di interagire con l’ambiente, che portano inevitabilmente al formarsi di nuove associazioni sia vegetali che animali, generalmente molto differenti dalle preesistenti, spesso costituite da poche specie dominanti, caratterizzate da una grande resistenza e adattabilità e dalla presenza di molti individui. Questa nuova comunità, che nascendo a seguito di un trauma tende ad essere poco stabile, troverà con il tempo un proprio equilibrio. Con il ripristinarsi delle condizioni originarie, questa nuova associazione tenderà a recuperare la struttura e la condizione che aveva precedentemente, che era funzionale alle condizioni fisiche in cui si era formata. Se però lo stress iniziale è troppo forte, anche le grandi capacità di autoregolazione di un ecosistema sono a quel punto vane per cui si arriverà inevitabilmente alla morte dell’ecosistema. Tra gli organismi che compongono una biocenosi si instaurano relazioni che influenzano la composizione e la struttura della comunità; tra queste riveste un ruolo fondamentale la competizione che nasce dal fatto che le risorse alimentari e di spazio in un determinato habitat non sono infinite e che le specie, quindi, dovranno competere tra loro per assicurarsele. La competizione può avvenire tra individui di una stessa specie (competizione intraspecifica) o tra specie diverse (competizione interspecifica) e può risolversi in diversi modi. Quello più cruento consiste nella sopraffazione di una specie mediante l’eliminazione o l’allontanamento della specie perdente. Un tempo si riteneva che questa risoluzione fosse la norma nella competizione, dando luogo al principio della sopravvivenza del più forte, ora sostituito dal concetto di sopravvivenza del più adatto. Nella realtà non sempre le cose si concludono attraverso un meccanismo di sopraffazione e molto più spesso le specie (o anche gli individui nel caso della competizione intraspecifica), sotto la spinta della competizione, si diversificano e cercano di evitare la concorrenza specializzandosi e creandosi una propria nicchia ecologica, termine con cui si definisce il ruolo di una specie nella comunità. La nicchia ecologica costituisce pertanto l’insieme delle opportunità offerte ad una specie di accedere ad una particolare risorsa alimentare o di spazio (luoghi di nidificazione, territori), evitando la concorrenza di altre specie. Secondo una vecchia ma efficace definizione utilizzata in ecologia, che può servire a chiarire questo concetto, mentre l’habitat è l’indirizzo di una specie, la nicchia ecologica rappresenta la sua professione all’interno dell’ecosistema. In una biocenosi si avranno specie dominanti che per la loro importanza o per la loro numerosità caratterizzano l’intero ecosistema -come ad esempio il bosco di faggio per la faggeta o la Posidonia oceanica per la prateria di posidonia- e specie in cui il numero di individui è assai più basso, ma che sono tuttavia ugualmente importanti per l’equilibrio dell’ecosistema stesso. Le altre relazioni tra le specie sono basate sulla predazione, sul parassitismo -che in fondo è anch’esso una forma di predazione e che consiste in un rapporto tra due specie, generalmente per scopi alimentari che alla fine porta alla morte o al deperimento di uno dei due individui ad opera dell'altro- e su altre forme di relazioni via via più pacifiche ed al contempo più complesse che vanno dall’inquilinismo, in cui due o più specie occupano pacificamente lo stesso spazio, al commensalismo, che è un rapporto tra due o più specie in cui una guadagna molti benefici mentre le altre non ne traggono particolari vantaggi o svantaggi. Riguardo il commensalismo in mare ne esistono moltissimi esempi, basti pensare alle grandi spugne che al loro interno possono contenere più di mille individui: piccoli gamberetti, gobidi, gasteropodi, ofiure e granchi, cui garantiscono protezione e rifugio. Passando attraverso vari stadi di cooperazione sempre più complessi, si arriva alla simbiosi, che è una associazione tra specie da cui tutti traggono reciproco vantaggio e di cui uno degli esempi più famosi è costituito dal rapporto tra il pesce pagliaccio e l’anemone di mare. In questo caso infatti il pesce pagliaccio viene protetto dai predatori dalla barriera costituita dai tentacoli urticanti dell’anemone, mentre questo ne riceve in cambio pulizia dai parassiti e residui alimentari. Esistono poi anche altre relazioni che possono essere considerate di tipo più sociale, come il territorialismo, ovvero la difesa di un territorio per scopi alimentari o di riproduzione da cui vengono scacciati gli intrusi della stessa specie, o la tendenza, molto diffusa in mare, a formare raggruppamenti anche numerosissimi, allo scopo di difendersi dai predatori, o di facilitare il reperimento del cibo (come avviene per i gruppi organizzati di cetacei quali orche o delfini) o anche per scopi riproduttivi. Ovviamente più gli elementi che compongono questo complesso equilibrio sono numerosi, più esso sarà solido e stabile. Basti pensare ad uno sgabello: su uno a due gambe possiamo sederci solo se ci puntelliamo a qualcosa, uno a tre gambe sarà indubbiamente molto più solido, uno con sei gambe ci sosterrebbe anche se una delle gambe venisse segata via. Allo stesso modo funzionano gli ecosistemi, in cui le specie costituiscono le gambe dello sgabello; è per questo che la biodiversità, che in pratica è il numero delle differenti specie che compongono un ecosistema, è così importante: più specie sono presenti, più gambe sostengono lo sgabello, più questo sarà stabile e continuerà a funzionare. Per questo motivo è così importante difendere la biodiversità del nostro pianeta, perché è su essa che si regge lo sgabello che sostiene l’intera Terra. 9 2 ELEMENTI DI OCEANOGRAFIA DI BASE Studiando il mare, una delle cose più affascinanti è scoprire che i fattori alla base della vita nelle sue acque seguono ovunque gli stessi principi e le stesse regole, tanto nelle calde acque della barriera tropicale quanto nelle gelide profondità dell’Antartide. Questi fattori che regolano la formazione e lo sviluppo delle comunità viventi possono essere suddivisi in due grandi gruppi, i fattori abiotici, non legati cioè direttamente alla vita, ed i fattori biotici. L’insieme dei fattori abiotici e di quelli biotici determina la composizione degli ecosistemi e delle comunità marine. I fattori abiotici La temperatura: può variare dai - 2,5°C raggiunti in alcuni punti dei fondali oceanici, ai 30 e oltre delle barriere coralline. Bisogna rammentare che ad eccezione degli uccelli, dei mammiferi marini e di alcuni pesci che sono a sangue caldo o omeotermi, le creature marine sono generalmente ectoterme, ovvero a sangue freddo e quindi molto influenzate dalla temperatura esterna. In mare troveremo organismi, detti euritermi, in grado di sopportare grandi variazioni di temperatura ed altri, detti stenotermi, che invece possono sopravvivere solo in un piccolo intervallo di temperatura. La salinità: l’acqua di mare contiene una percentuale di sali disciolti, in media 35 gr per litro, costituiti in gran parte da cloruro di sodio (il comune sale da cucina); questa percentuale, pur essendo abbastanza costante, subisce notevoli variazioni in presenza di estuari di fiumi o di acque basse soggette a forte evaporazione. Non tutti gli organismi reagiscono a queste variazioni allo stesso modo; esistono specie eurialine in grado di tollerare variazioni di salinità dell’acqua e specie stenoaline che invece tollerano intervalli molto ristretti di salinità. Esistono poi specie in grado di passare indifferentemente da un ambiente salato a uno dolce, come i salmoni che nascono e si riproducono in acqua dolce, ma trascorrono tutta la vita adulta in mare, o le anguille che fanno il percorso inverso, nascendo nell’oceano e trascorrendo la vita adulta nelle acque dei fiumi e dei laghi. Le specie come i salmoni sono dette anadrome, quelle come le anguille catadrome. Infine ci sono pesci come i cefali che vivono tra estuari, laghi costieri e mare aperto e passano indifferentemente da un ambiente all’altro. I gas disciolti: l’ossigeno e l’anidride carbonica, CO2, sono alla base della respirazione e della fotosintesi e quindi indispensabili per la vita; la loro percentuale nell’acqua, che non è uniformemente diffusa dalla superficie al fondo e che varia anche in funzione della temperatura, influenza la distribuzione degli organismi e la composizione delle comunità. I nutrienti: le sostanze inorganiche come il fosforo e l’azoto servono agli organismi che si trovano alla base della catena alimentare (i produttori primari, come le alghe e le piante superiori) per formare molecole complesse (nucleotidi, aminoacidi e proteine) e creare la biomassa, riuscendo così a trasformare minerali inorganici, anidride carbonica e luce del sole in sostanza organica, attraverso la fotosintesi. La luce e la trasparenza dell’acqua: nell’acqua torbida può diminuire di molto la profondità raggiunta dai raggi solari; la zona costituita dagli strati più superficiali della colonna d’acqua, dove c’è luce sufficiente per gli organismi vegetali superiore, è chiamata zona eufotica e può giungere sino ad una profondità che va dai 40 – 50 m sino ai 100 m nei mari più trasparenti. La zona fotica, dove c’è ancora un fievole barlume di luce, si spinge sino ai 200 m, mentre al di sotto di questa si estende la zona afotica, il regno dell’oscurità perenne, dove non possono quindi sopravvivere gli organismi produttori che si basano sulla fotosintesi per la produzione primaria. Gli organismi, in funzione del grado di tolleranza o dipendenza dalla luce, possono a loro volta essere suddivisi in fotofili -termine che alla lettera significa amanti della lucee sciafili, ovvero specie che preferiscono minore quantità di luce se non addirittura il buio vero e proprio. La pressione: in superficie è di 1 atmosfera e aumenta di una ogni 10 metri di profondità (questo vuol dire che a 1.000 metri di profondità avremo una pressione di 101 atmosfere, sufficiente a schiacciare anche un sottomarino). Le specie che vivono alle profondità abissali sono prive di vesciche natatorie (quindi prive di spazi contenenti gas al loro interno) e riescono così a sopportare la grande pressione, poiché i loro liquidi corporei e i tessuti sono incomprimibili. I pesci che vivono a profondità meno elevate, ma comunque notevoli, sono invece dotati di questo organo di equilibrio: trasportati rapidamente in superficie, la vescica natatoria, adattata alla enorme pressione del fondo, scoppia come un palloncino! Anche il pH (l’indice che misura il grado di acidità del mare), la tipologia dei fondali, la viscosità, la densità e il movimento delle acque, influenzano la vita negli oceani. 11 I fattori biotici Oltre ai fattori abiotici, alla composizione degli ecosistemi contribuiscono altri fattori legati alla vita stessa e alle relazioni tra le forme di vita. Tra gli organismi si instaurano quindi relazioni di cui abbiamo già parlato e che influenzano la composizione e la struttura della comunità: la competizione tra le specie per le risorse presenti nel biotopo, la creazione di nicchie ecologiche e l’affermarsi di specie dominanti, che caratterizzano il biotopo stesso e le relazioni tra specie che sono alla base delle catene alimentari, ovvero predazione, parassitismo, commensalismo, simbiosi. 12 2 ELEMENTI DI OCEANOGRAFIA DI BASE Le onde, la cui causa prima è legata al vento, sono i movimenti della superficie. Le maree, che nelle nostre acque sono poco avvertite, sono movimenti periodici che si ripetono con cicli precisi, dovuti all’attrazione esercitata dai corpi celesti, dalla luna in particolare, sulla massa d’acqua, che deforma la superficie del mare innalzandola rispetto al livello normale. Sono quattro le fasi di marea: l’innalzamento, o flusso di marea; l’alta marea, in cui l’altezza raggiunge il suo apice; il riflusso di marea, fase di abbassamento del livello della superficie marina; e la bassa marea, in cui l’altezza del mare raggiunge il livello minimo. Il tutto accade in un arco di tempo di 24 ore e 50 minuti, che corrisponde al tempo impiegato dalla luna per compiere una rivoluzione attorno al nostro pianeta. Le maree più alte, dette sigiziali, si verificano durante particolari allineamenti della terra con il sole e la luna e possono raggiungere un’escursione di parecchi metri. In Mediterraneo il fenomeno è meno imponente rispetto a quello che accade nel Mare del Nord o negli oceani, dove l’escursione di marea raggiunge diversi metri, mettendo giornalmente allo scoperto estesissimi tratti di fondale marino, influendo quindi pesantemente sulla composizione e sulla struttura delle comunità che vivono in questa fascia. Le correnti, infine, hanno una notevole importanza biologica sia perché influiscono su tanti parametri fisico-chimici (come la temperatura, la salinità e i nutrienti) sia perché assicurano il ricambio dell’acqua e l’apporto di nutrienti e di cibo ai vegetali e agli animali bentonici che si nutrono di particelle in sospensione. Le correnti di risalita dai fondali oceanici, dette correnti di upwelling, assicurano la risalita dei nutrienti derivanti dalla decomposizione ad opera degli organismi dei fondali. Anche le correnti dunque permettono la distribuzione geografica delle specie, svolgendo un ruolo fondamentale sia per la regolazione della temperatura delle acque superficiali e profonde, che per il trasporto di sostanze nutritive e di stadi giovanili di organismi marini. Le correnti sono generate in gran parte dalle variazioni di temperatura e sono quindi al tempo stesso un utile indicatore dei cambiamenti climatici e uno dei fattori a risentirne maggiormente, a volte anche in modo imprevedibile. le correnti di upwelling assicurano la risalita del krill di cui si nutrono le balene 13 3 CARATTERISTICHE DEGLI ECOSISTEMI MARINI Scorrendo la lista dei fattori che influenzano la vita nel mare è a questo punto, abbastanza facile immaginare che pur basandosi sulle stesse leggi generali, le differenze tra gli ecosistemi marini e terrestri sono notevoli. Alcuni fattori molto importanti in mare, pressione, salinità, gas disciolti, sulla terra non rivestono alcuna importanza, mentre la luce, come abbiamo visto, svolge un ruolo molto diverso. Le biocenosi marine presentano rispetto a quelle terrestri delle differenze legate ad una maggiore complessità dovuta alla peculiarità degli organismi autotrofi marini e dalla enorme quantità di sostanze organiche in sospensione o che si depositano sul fondo, che danno origine a catene trofiche basate sul detrito. Gli ecosistemi terrestri sono dominati da grandi piante caratterizzate da una vita spesso lunghissima, in quelli marini i produttori, fatta eccezione per alcune grandi alghe come il Kelp, sono di piccole o microscopiche dimensioni, pur rappresentando complessivamente una enorme biomassa. Per questo fatto gli erbivori in senso stretto in mare sono assai pochi rispetto agli ecosistemi terrestri; nelle nostre acque, per esempio, la salpa è uno dei pochissimi pesci erbivori, la maggior parte degli altri pesci sono planctofagi o carnivori, o specializzati nel cibarsi di molluschi o in mille altre cose. In mare i consumatori primari sono quindi principalmente a livello dello zooplancton, perchè le alghe del fitoplancton, in gran parte unicellulari sono troppo piccole per essere predate da organismi delle dimensioni di un pesciolino. Esattamente al contrario di quanto accade negli ecosistemi terrestri; gli animali più grandi non sono erbivori, ma carnivori, nella fattispecie filtratori visto che sia il mammifero più grande -la balenottera azzurrasia i più grandi tra i pesci -lo squalo balena, lo squalo elefante, ed il megamouth- si nutrono filtrando zooplancton e krill, attraverso i fanoni o le branchie. Anche gli organismi che vivono in mare si differenziano in modo diverso rispetto a quelli terrestri e possono essere raggruppati in differenti categorie: Plancton. Costituisce l’insieme degli organismi che vive in sospensione nella massa d’acqua degli oceani, sono dotati di poca capacità di movimento autonomo e affidano i loro spostamenti alle correnti. Il plancton si suddivide ulteriormente in fitoplancton costituito dagli organismi vegetali come le alghe unicellulari e in zooplancton formato dagli organismi animali (piccoli crostacei, meduse). In quest’ultima categoria vengono generalmente compresi anche gli stadi larvali di molte specie appartenenti ad altre categorie come crostacei, pesci e molluschi. Necton. È costituito dagli organismi che si muovono attivamente nell’acqua, vincendo la forza della corrente. Vi appartengono molluschi cefalopodi, pesci e selaci pelagici, tartarughe marine e mammiferi marini. Benthos. Categoria che raggruppa gli organismi che vivono a contatto o fissati sul fondo marino o comunque sul substrato. Comprende pesci come la sogliola, selaci come le razze o certi squali, molluschi, stelle marine, filtratori come gorgonie e coralli. Da quel che abbiamo potuto vedere finora è quindi facile capire che le catene alimentari e la rete trofica in mare saranno quindi molto più complesse di quelle terrestri. Nelle acque marine pertanto possiamo trovare: Produttori primari, che possono essere batteri autotrofi o in maggior parte i vegetali autotrofi, sia planctonici, come le alghe azzurre e alghe verdi unicellulari, sia bentonici come le fanerogame marine. Tutti questi organismi nel loro insieme rappresentano i produttori che costituiscono la base della piramide trofica, la differenza principale negli ecosistemi terrestri sta nelle relativamente piccole dimensioni degli organismi. Sospensivori o sestonofagi. Si tratta di organismi microfagi che si nutrono di minuscole particelle sospese in acqua. Possono essere sia organismi plantonici, come i copepodi, sia organismi sessili (cioè che aderiscono a un substrato) come spugne, coralli, ascidie e gorgonie. Filtratori. Alcuni organismi filtratori sono i più grandi organismi mai vissuti sulla terra, le grandi balene infatti si nutrono filtrando lo zooplancton attraverso i fanoni e così fanno anche i più grandi tra gli squali, come lo squalo balena, lo squalo elefante, che vive anche in Mediterraneo e il misterioso megamouth, recentemente scoperto, che per filtrare il cibo utilizzano le branchie. Anche la manta, la più grande delle razze è un filtratore planctofago. 15 La composizione delle reti trofiche in mare dipenderà da molti fattori come la profondità, la presenza di luce e le correnti marine che daranno vita a comunità e biocenosi differenti a seconda dell’influenza dei diversi fattori. L’esistenza di una rete trofica, pur rappresentando un sistema molto efficace per sfruttare l’energia che giunge sulla terra sotto forma di radiazione solare, presenta alcuni inconvenienti che possono creare problemi anche all’uomo: alcuni tipi di sostanze tossiche infatti, come il mercurio, il PCB, il DDT, tendono ad accumularsi e a concentrarsi all’interno delle catene alimentari e delle catene trofiche; si tratta di due fenomeni distinti che spesso possono combinarsi. Il primo è il bioaccumulo, che è costituto dalla concentrazione all’interno di un organismo di sostanze tossiche presenti nell’ambiente in cui esso vive. Queste sostanze vengono assunte attraverso l’alimentazione o in altri modi quali la respirazione o la penetrazione attraverso l’epidermide. Queste concentrazioni possono anche essere decine di volte maggiori rispetto all’ambiente esterno. Il secondo fenomeno è chiamato magnificazione biologica, parola complicata che non descrive ahimè qualcosa di magnifico, ma il processo in cui le sostanze tossiche presenti nell’ambiente vengono concentrate attraverso la catena alimentare in forti quantità man mano che si sale nei gradini superiori della piramide trofica, giungendo sino al punto di poter essere pericolose per i consumatori finali come i superpredatori e l’uomo. In pratica se il mercurio è presente nell’acqua del mare in quantità limitate, esso sarà concentrato nell’organismo di alcuni vegetali fitoplanctonici che verranno ingeriti da crostacei dello zooplancton, che concentreranno nel loro organismo tutto il mercurio accumulato dal fitoplancton. I crostacei verranno mangiati dalle sardine e così via salendo lungo le catene alimentari sino al tonno, superpredatore che si nutre di altri carnivori e che può quindi avere accumulato quantità di mercurio tali da renderlo tossico, per arrivare infine al superpredatore più in alto di tutti nella catena alimentare, l’uomo. 16 le salpe sono tra le poche specie di pesci quasi esclusivamente erbivore il cetorino è uno squalo che si nutre di plancton 3 CARATTERISTICHE DEGLI ECOSISTEMI MARINI Detritivori microfagi. Sono animali generalmente bentonici che si nutrono dei detriti organici presenti sul fondo marino, oltre che di larve e di batteri o altri microrganismi. Ne fanno parte alcuni bivalvi, le oloturie e crostacei come anfipodi e isopodi. Limivori. Sono animali bentonici che si cibano ingurgitando grandi quantità di limo e sedimento da cui poi estraggono nel canale digerente le particelle nutrienti e i residui organici. Appartengono a questo gruppo molti policheti (arenicola, tremolina). Erbivori. Corrispondono ai consumatori primari terrestri e si nutrono di vegetali. Ne fanno parte pesci come le salpe, i ricci di mare, alcuni molluschi come l’occhio di santa lucia e l’opistobranco aplysia, detto anche lepre di mare. Rispetto all’ambiente terrestre questo gruppo non è molto abbondante per specie e per numero di individui, anche perchè gli animali che nello zooplancton si nutrono di fitoplancton, pur essendo in un certo senso erbivori, vengono considerati filtratori. Onnivori o spazzini. Macrofagi che si nutrono sia di vegetali che di carogne, oltre che di prede vive. Ne fanno parte crostacei decapodi, policheti, e gasteropodi come la nassa ed il buccino, oltre a diverse specie di pesci. Carnivori. Macrofagi (in grado di ingerire cibo di notevoli dimensioni) che si nutrono di altri animali. Alcuni di essi si nutrono degli organismi appartenenti ai gruppi già menzionati, altri, veri e propri superpredatori, si nutrono anche di altri carnivori. Appartengono a questo gruppo molti pesci, i selaci (squali e razze anche se alcuni sono filtratori), cefalopodi, mammiferi marini, meduse, stelle marine e molti molluschi gasteropodi come i nudibranchi. Parassiti. Gruppo molto numeroso di animali appartenenti a phyla molto diversi e che presentano specializzazioni molto accentuate. I parassiti abbandonano la vita libera, generalmente limitata alla sola fase larvale, per legarsi ad un ospite. Realizzano delle strutture che gli consentono di accedere all’ospite sia internamente (endoparassiti come nematodi, cestodi ed alcuni crostacei) o esternamente (ectoparassiti) aderendo alla superficie della vittima, come diverse specie di crostacei. 17 4 GLI AMBIENTI DEL MARE Per cercare di descrivere meglio l’enorme massa degli oceani e delle creature che li popolano, gli ambienti del mare possono essere raggruppati in base a diversi criteri e suddivisioni, sia orizzontalmente che verticalmente. L’intera zona del mare aperto costituisce il Dominio Pelagico, che comprende l’intera massa d’acqua dove vivono gli organismi che popolano le acque, che nel loro insieme sono detti Pelagos. Al pelagico si contrappone il Dominio Bentonico, che è costituito dall’intero fondale marino e in cui vivono gli organismi del Benthos. Dal punto di vista orizzontale il Dominio Pelagico può essere suddiviso in due provincie: la Provincia Neritica, costituita dalle acque aperte che sovrastano la piattaforma continentale e la Provincia Oceanica che comprende le acque aperte sopra i bacini oceanici. In funzione della luce possiamo dividere invece l’ambiente oceanico in due zone: La Zona fotica: chiamata anche zona epipelagica, va dalla superficie fino al limite di penetrazione della luce solare che in media è attorno ai 200 m di profondità e in cui vivono le comunità basate sulla produzione di energia dagli organismi autotrofi. Lo strato più superficiale, sino ai 50 m di profondità è chiamato zona eufotica. La Zona afotica: si estende al di sotto del limite di penetrazione della luce. In essa vivono comunità basate in gran parte su organismi eterotrofi: carnivori decompositori e detritivori e pochi batteri autotrofi. Alcuni scienziati individuano una zona di transizione tra queste due chiamata Zona disfotica, in cui non c‘è abbastanza luce per la fotosintesi ma ce n’è ancora a sufficienza per consentire la vista e che si spinge dai 200 sino ai 1.000 m di profondità. Un'altra suddivisione verticale del mare prevede da 0 a 200 m una prima fascia epipelagica che coincide come abbiamo visto con la zona fotica; una seconda fascia mesopelagica che coincide con la zona disfotica, fino a circa 1.000 m di profondità; una terza fascia batipelagica dai 1.000 ai 2.000 – 4.000 m di profondità; una quarta fascia abissopelagica sino ai 6.000 m ed infine l’ultima, presente solo in poche zone degli oceani, la più profonda di tutte, la fascia adopelagica dai 6.000 ai 10.000 m di profondità. Il Dominio Bentonico comprende invece il Sistema litorale o fitale suddiviso in piano sopralitorale, che comprende le zone normalmente non sommerse ma raggiunte dall’acqua solo tramite gli spruzzi delle mareggiate o nelle maree sigiziali; piano mediolitorale compreso tra i limiti della normale alta e bassa marea, piano che nel Mediterraneo è piuttosto ristretto; piano sublitorale che arriva fin dove vivono le piante fotofile. Nelle nostre acque, il piano sublitorale viene considerato il limite che può raggiungere la posidonia, ovvero una cinquantina di metri di profondità in caso di acque estremamente limpide. Troviamo poi il piano circalitorale che si spinge sino all’estremo limite della vita vegetale (popolato da alghe sciafile) e il Sistema profondo o afitale, in cui non esiste più fotosintesi, suddiviso a sua volta in piano batiale lungo le scarpate continentali, piano abissale e piano adale, che rappresenta il fondo delle fosse più profonde, oltre i 7.000 m di profondità. gli ambienti marini possono essere individuati in base a diversi criteri e suddivisi sia orizzontalmente che verticalmente 19 5 IL MEDITERRANEO, LE SUE CARATTERISTICHE E SPECIFICIT à Racchiuso tra tre continenti il Mediterraneo con oltre 46.000 km di coste, isole comprese, è il più grande bacino semichiuso del mondo. È caratterizzato da uno scarso ricambio delle sue acque che hanno un tempo di rinnovamento di circa 100 anni per le acque superficiali, ma che sale a 7.000 anni se si prende in esame l’intero volume d’acqua in esso contenuto. La sua lunghezza massima misurabile tra Gibilterra e la Siria è di 3.800 km mentre raggiunge la larghezza massima tra Francia ed Algeria con circa 900 km. La profondità media è di circa 1.500 m, con punte di oltre 4.000 m nello Ionio, ma esistono vasti tratti di piattaforma continentale con valori assai minori di profondità, come nel caso dell’Adriatico in cui la profondità nella parte settentrionale non supera i 200 m e non arriva ai 50 nella porzione più a nord. Il Mar Mediterraneo è un mare oligotrofico, cioè ricco di ossigeno e povero di nutrienti, con una temperatura media annuale di circa 15°C nel bacino occidentale e di 21°C in quello orientale, con una salinità media tra il 36,2 e il 39 ‰ (è quindi un mare piuttosto salato). L’elevata salinità del Mediterraneo deriva dal fatto che il bacino ha un bilancio idrico negativo: gli apporti dei grandi fiumi e dei corsi d’acqua che vi sboccano sono cioè insufficienti a rimpiazzare le perdite dovute all’evaporazione (destinata ad aumentare con l’innalzamento della temperatura). Il mantenimento del livello del mare dipende dal flusso di acqua in entrata attraverso lo stretto di Gibilterra, proveniente dall’Oceano Atlantico; secondo alcuni oceanografi una goccia d’acqua entrata dallo stretto impiega più di 150 anni a compiere tutto il giro del Mediterraneo! Le correnti vi svolgono un ruolo fondamentale, sia per la regolazione della temperatura delle sue acque superficiali e profonde, che per il trasporto di sostanze nutritive e di stadi giovanili di organismi marini. Le correnti mediterranee possono distinguersi in correnti superficiali, correnti intermedie e correnti profonde. Le correnti superficiali traggono origine dal flusso d’acqua che penetra dall’Atlantico attraverso lo stretto di Gibilterra e hanno generalmente un andamento antiorario: l’acqua proveniente dall’oceano è più fredda e meno salata di quella presente nel bacino e rimane pertanto sulla superficie lambendo le coste nordafricane e generando la corrente algerina che a sua volta si biforca in diverse altre correnti che conservano l’andamento antiorario. La corrente intermedia invece interessa lo strato di acqua compreso tra i 200 e i 600 metri di profondità ed origina dal Mar di Levante, la porzione di Mediterraneo dalle acque più salate che possono raggiungere il 39,1 per mille di salinità; l’origine di questa corrente ricorda un po’ l’effetto di una saponetta bagnata stretta nella mano. D’inverno, con il calo della temperatura dello strato superficiale, l’acqua diventa più densa e comprime lo strato d’acqua inferiore che viene spinto via originando la corrente intermedia. Questa corrente ha un andamento in direzione opposta a quella delle correnti superficiali, ed è divisa in un ramo principale che percorre l’intero Mediterraneo e in due rami secondari: uno che attraversa il golfo della Sirte e uno che attraversa lo Ionio e giunge quasi fino a Trieste per poi ridiscendere attraversando nuovamente lo stretto di Otranto. Le correnti di profondità interessano solo due aree del Mediterraneo -il bacino ligure provenzale e il Mar Ionio- e sono originate in inverno dal rapido raffreddamento delle acque superficiali provocato dal vento. Le acque più fredde e pesanti diventano più dense e sprofondano generando la risalita delle acque profonde, ricche di nutrienti. È proprio a causa di questo fenomeno generato dal gelido mistral, che soffia in inverno nel golfo del Leone, che la popolazione di cetacei nel Mar Ligure è così abbondante: le correnti di risalita che si formano, le cosiddette correnti di upwelling, sono ricchissime di nutrienti che richiamano una grande quantità di krill, piccoli crostacei che costituiscono un eccellente cibo per le grandi balenottere. Il Mediterraneo è un mare ricchissimo di biodiversità che contiene ben il 7% di tutte le specie marine conosciute al mondo. Sono presenti 580 specie di pesci, tra cui 48 di squali e 36 di razze, 21 specie di mammiferi marini e 5 di tartarughe, oltre a 1.289 specie vegetali marine. Proprio per la sua straordinaria ricchezza e per l’alta presenza di endemismi, Il Mediterraneo è stato indicato dall’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) come global biodiversity hotspot, cioè uno dei posti non solo più ricco di biodiversità, ma anche più vulnerabile. Una delle specie più caratteristiche del nostro mare è indubbiamente la posidonia (Posidonia oceanica) fanerogama marina endemica del Mediterraneo, le cui praterie con una superficie di oltre 37.000 kmq, costituiscono uno degli ecosistemi più importanti del bacino. nel mar Mediterraneo le correnti svolgono un ruolo fondamentale sia per la regolazione della temperatura, che per il trasporto di sostanze nutritive 21 6 La PRATERIA Di POSIDONIA La Posidonia oceanica, specie esclusiva del Mediterraneo, discende da vegetali terrestri che oltre 120 milioni di anni fa conquistarono i fondali marini. Anche se molti pensano sia un’alga, in realtà è una fanerogama, ovvero una pianta superiore, del tutto simile a quelle terrestri, dotata quindi di fusto, foglie e radici, che si è magnificamente adattata a vivere sul fondo marino. Le foglie della posidonia, di colore verde brillante, hanno una caratteristica forma a nastro, con l’estremità tondeggiante; sono larghe circa 1 cm e lunghe fino a 1 metro ma possono, in alcuni casi, raggiungere e superare i 150 cm di altezza. Sono raggruppate in ciuffi di 4 – 8 foglie disposte a ventaglio: le più vecchie, anche più lunghe, sono situate all’esterno e le più giovani, più piccole, all’interno del fascio stesso. Con il sopraggiungere della stagione autunnale e delle prime grandi mareggiate, si verifica una massiccia caduta di foglie adulte, all’origine dei grandi ammassi che si formano sulle spiagge, detti banquettes, cui segue una nuova produzione di foglie nel periodo invernale. Una caratteristica fondamentale della posidonia è costituita dalla presenza di due differenti tipi di rizomi, una sorta di radici che in realtà sono fusti modificati, adattati all’ambiente sotterraneo: • Il primo tipo di rizoma, detto tracciante, ha uno sviluppo orizzontale, che rende possibile alla posidonia di ancorarsi al fondale grazie a una miriade di radici che si sviluppano sul lato inferiore; esso ha anche una importante funzione nella riproduzione asessuale della pianta, poiché origina stoloni che daranno vita a nuove piante in grado, a loro volta, di formare altri stoloni; • l’altro tipo di rizoma, quello da cui si originano le foglie, è invece caratterizzato da uno sviluppo verticale, in grado di contrastare la tendenza all’insabbiamento dovuta al continuo depositarsi di sedimento tra le foglie e i rizomi. Ciò permette alla pianta di continuare ad innalzarsi rispetto al fondo marino. Questa complessa organizzazione di ogni singola pianta è alla base della formazione di quello straordinario sistema vivente che è la prateria di posidonia, in grado di modificare in maniera molto significativa il fondo del mare. La crescita sia orizzontale che verticale della pianta origina le mattes, tipiche formazioni a terrazza, un complicato intreccio di rizomi e radici, che nel corso del tempo imprigionano i residui delle piante e degli animali morti, il sedimento e la sabbia, compattandoli e provocando negli anni un consistente innalzamento del fondo marino. È stato stimato che le mattes crescono mediamente di circa un metro ogni secolo, e possono continuare a crescere per periodi molto lunghi. La riproduzione della posidonia può essere sia sessuale, con fiori e frutti (le cosiddette olive di mare), che vegetativa. Nel secondo caso la riproduzione può avvenire mediante la formazione di stoloni o per formazione di talee. In questo caso assistiamo alla formazione di radici da parte di frammenti di stoloni dotati di almeno una gemma fogliare, strappati alla prateria da correnti e mareggiate, che daranno vita, se riusciranno ad attecchire nel fondale adatto a una nuova pianta in grado poi, con il lento processo di stolonizzazione, di accrescersi dando origine col tempo ad una nuova prateria. Ma la capacità della posidonia di propagarsi colonizzando nuovi territori è affidata anche alla riproduzione sessuale. I suoi fiori, non molto facili da osservare, sono di colore verdastro e raggruppati in numero variabile da quattro a dieci in infiorescenze, attorno ad uno stelo che spunta proprio al centro del ciuffo fogliare e che è avvolto per tutta la lunghezza da brattee, una sorta di sottili scaglie con funzione protettiva. Nelle praterie sino a 15 metri di profondità la fioritura può avvenire in settembre o in ottobre, mentre i frutti raggiungono la piena maturazione verso marzo - aprile. Nelle praterie più profonde, oltre i 15 metri, tutto il processo avviene con un paio di mesi di ritardo. Il frutto è chiamato oliva di mare per l’aspetto, le dimensioni e il colore simili all’oliva terrestre. Quando il frutto, ricco di sostanze oleose, giunge a piena maturazione, si stacca dalla pianta e galleggia sulla superficie del mare, affidato a onde e correnti che favoriscono quindi la dispersione dei semi in luoghi anche lontanissimi dalla prateria di origine. Cadono sul fondo solo dopo l’apertura del pericarpo che li avvolge, quindi dopo aver galleggiato per un discreto periodo di tempo. Se il seme cade su un fondale adatto, potrà colonizzarlo dando origine a una nuova prateria, in aree altrimenti inaccessibili con la semplice riproduzione vegetativa. La posidonia presenta una marcata stagionalità sia nei ritmi di crescita che nella produzione di nuove foglie; quest’ultima presenta un massimo a primavera e un minimo coincidente con la stagione estiva, quando la temperatura dell’acqua è 23 La prateria di posidonia costituisce un ambiente di straordinaria rilevanza per il Mediterraneo per molti motivi, tutti ugualmente importanti: l'elevata produzione primaria, ovvero la capacità di produrre la materia organica mediante la fotosintesi a partire dal carbonio e dalla luce solare; la grande biodiversità delle comunità animali e vegetali che ad essa sono associate; l’enorme contributo che offre alla difesa delle coste sabbiose dall’erosione. La prateria di posidonia infatti • produce ossigeno: grazie al notevole sviluppo di superficie fogliare, un metro quadro di prateria in buona salute può produrre 20 litri di ossigeno al giorno con un saldo attivo, sottraendo quello consumato dalla pianta per la respirazione, che va dai 14 ai 16 litri di ossigeno giornalieri; • contribuisce a difenderci dall’effetto serra: produce materiale organico (biomassa) in elevata quantità, intrappolando anidride carbonica (CO2). La produttività di una prateria può arrivare a 21 tonnellate di peso secco per ettaro, comparabile a quella delle foreste temperate. Una prateria in buona salute, come tutta la vegetazione terrestre e marina, toglie anidride carbonica dall’atmosfera contribuendo a rallentare l’effetto serra. Questo è infatti dovuto alle grandi quantità di CO2 immesse nell’atmosfera dalle attività umane, principalmente dall’utilizzo dei motori a scoppio e dai processi industriali; • trasferisce biomassa ad altri ecosistemi: si calcola che circa il 30% della produzione di biomassa (materia organica) venga esportato in ecosistemi distanti e molto più profondi sotto forma di detrito fogliare utilizzato come cibo da altri organismi; • difende la linea costiera: fissa i fondali mobili, così come sulla terraferma le radici degli alberi e dei cespugli rendono stabili versanti e crinali prevenendo le frane; • protegge le spiagge dall’erosione: l’accumulo di foglie morte sulle spiagge durante l’inverno protegge la sabbia dalle mareggiate, mentre la presenza in sospensione in acqua di grandi quantità di detrito fogliare e di fibre smorza l’effetto delle onde. È stato dimostrato che la scomparsa di un metro di mattes può causare l’arretramento della linea di costa, nel caso di un litorale sabbioso, di circa 15 -18 metri. La posidonia è caratterizzata da una lenta propagazione vegetativa e da una capacità relativamente bassa di resistere agli effetti della degradazione dell'habitat. Il crescente impatto antropico (pressione demografica, urbanizzazione, industrializzazione, inquinamento) minaccia sempre più gli ecosistemi litorali e la regressione della Posidonia oceanica è testimoniata ormai in tutta l'area mediterranea. La prateria è un ambiente estremamente ricco di vita e di specie che scompaiono con la sua regressione. Una delle protezioni più importanti che la prateria offre è la marcata diminuzione del movimento dell’acqua in prossimità del fondo, a livello dei rizomi. La decisa riduzione dell’idrodinamismo offre un ambiente più tranquillo e più stabile rispetto al substrato circostante. La prateria è infatti riparo dai predatori, zona di riproduzione e fonte di cibo per molti pesci, cefalopodi e crostacei, fungendo da vera e propria nursery per avannotti e giovanili di specie molto importanti per la pesca professionale. La costruzione di moli e porti ha un forte impatto sulla possibilità di sopravvivenza delle praterie, sia per gli effetti immediati legati all’aumento di torbidità per l’azione di scavo o messa in opera, sia per quelli a lungo termine, dovuti alla modifica del movimento di onde e correnti e, di conseguenza, dei delicati processi di trasporto litorale che presiedono alla distribuzione dei sedimenti lungo le linee di costa. A questi fattori si aggiunge la massiccia immissione in mare di inquinanti, con conseguente alterazione del delicato equilibrio chimico–fisico alla base della crescita di una comunità vegetale, sia per l’effetto tossico diretto di alcuni elementi, sia per la mancanza di ossigeno dovuta all’eccessivo apporto di nutrienti, sia infine per la diminuzione della trasparenza dell’acqua con conseguente carenza di luce per la fotosintesi. 24 la prateria di posidonia costituisce un ecosistema che ospita un gran numero di specie animali ed è molto importante per la produzione di ossigeno il frutto della posidonia 6 LA PRATERIA DI POSIDONIA maggiore. Le foglie presentano una lunghezza diversa a seconda della stagione in cui sono spuntate, con il risultato che la prateria può apparire molto diversa nei diversi periodi dell’anno. In estate le foglie sono lunghe e dal colore bruno o rosato, mentre in autunno, dopo i primi temporali e le prime mareggiate, si ha una caduta massiccia delle foglie più vecchie e più lunghe, e i ciuffi di posidonia, costituiti ormai solo dalle foglie più giovani, appaiono più bassi e di un colore verde brillante. Generalmente una prateria può estendersi da un metro di profondità (in alcuni casi le foglie di praterie, in aree particolarmente riparate, in condizioni di bassa marea possono fuoriuscire parzialmente dall’acqua) sino a 30 - 35 metri, raggiungendo anche i 40 – 50 in presenza di acque particolarmente limpide, come quelle di Lampedusa e Linosa o di alcune zone della Sardegna. La posidonia è un importante indicatore biologico, molto sensibile agli agenti inquinanti e, proprio per questo, purtroppo in forte regressione nelle aree di costa mediterranea. Altra grande minaccia è l’azione meccanica di sfregamento causata dalla pesca a strascico e da quella dei molluschi. Pesca illegale, dovremmo meglio dire, perché questo tipo di attività di cattura è consentito solo oltre le tre miglia dalla costa e a profondità superiori ai cinquanta metri, proprio con lo scopo di difendere le praterie che a quella profondità non sono certo presenti. Tuttavia, per la difficoltà dei controlli e la miopia di alcuni pescatori che in questo modo distruggono il loro stesso futuro, la pesca a strascico sulle praterie continua ad essere un significativo elemento di minaccia. Essa è infatti altamente produttiva nell’immediato (poiché consente il prelievo di specie pregiate come sparidi, scorfani, labridi, serranidi, polpi e persino aragoste) ma distrugge un ambiente insostituibile dove trovano rifugio gli stadi giovanili e gli avannotti di specie importanti, compromettendo seriamente lo sviluppo di numerose popolazioni animali e provocando un generale impoverimento dei nostri mari. Anche le ancore delle barche da pesca e da diporto, strappando i ciuffi, creano delle zone di diradamento su cui agisce l’erosione provocando la distruzione della prateria. Questa è infatti difesa dai fenomeni erosivi, dovuti alle correnti, dalla struttura compatta che abbiamo descritto, ma la presenza di zone nude facilita l’azione distruttiva delle correnti provocando la formazione di chiazze denudate sempre più ampie. Lo stesso fenomeno, ma su scala più vasta, è stato osservato sulle arature prodotte dalle reti per la pesca a strascico. 25 7 LE COSTE Le nostre coste, anche se molto frequentate, non sono in realtà molto conosciute dal punto di vista naturalistico. Eppure i litorali sabbiosi, con i relativi sistemi dunali, gli specchi d’acqua e la macchia mediterranea costituiscono uno degli ambienti più importanti del nostro Paese. Nonostante l’attacco devastante della speculazione edilizia, degli incendi, dell’assalto dei turisti concentrati nei pochi mesi estivi, conserva ancora vasti tratti di naturalità che possono essere un eccellente laboratorio per iniziare a conoscere le dinamiche degli ecosistemi naturali. La presenza delle specie pioniere sulla duna, la ricchezza di interazioni nella macchia mediterranea e l’adattamento a lunghi periodi di siccità della sua vegetazione, la grande abbondanza di avifauna nei laghi costieri offrono molte possibilità a chi vuol verificare sul campo le affascinanti nozioni apprese sui libri. Sistema dunale Sui circa 7.000 km di coste che circondano la nostra penisola, quasi 3.000 sono costituiti da litorali sabbiosi, un ambiente molto interessante per le nostre osservazioni, anche se, purtroppo, è sempre più raro trovarne di intatti. Se paragonate ad altri ambienti o anche ad altri tipi di coste, la spiaggia sabbiosa e le dune che sorgono alle spalle del litorale potrebbero sembrare a prima vista una specie di deserto dal punto di vista biologico. Eppure, anche se è un ambiente decisamente ostile per la vita, la duna ospita una flora e una fauna assolutamente straordinarie. Per quello che riguarda la flora, quelli che a prima vista appaiono ciuffi miseri e stentati, sono in realtà degli autentici pionieri, in grado di conquistare un territorio reso estremamente difficile dal sale, dal sole fortissimo, dal vento e dalla sabbia che questo trasporta, dal terreno assai povero e dall’acqua salmastra che diviene dolce solo a grande profondità. Se l’arma dei pionieri del far-west era il fucile, queste incredibili piante ricorrono ad altri strumenti, decisamente meno cruenti, come ad esempio radici dotate di una buona elasticità e resistenza, molto estese sia in profondità, per raggiungere l’acqua, che in larghezza, per ancorarsi meglio e resistere al vento; superfici tormentate e contorte, per poter resistere al disseccamento; spine che diminuiscono la superficie esposta alla traspirazione; strutture in grado di trattenere l’acqua come foglie e radici succulente. Il vento ha una fortissima influenza sulla vita e sulla formazione delle dune, che potremmo definire come delle vere e proprie figlie del vento, così come la spiaggia può essere considerata figlia del mare e delle sue onde e correnti. Le dune infatti non sono altro che cumuli di materiale sabbioso formati dall’azione del vento che, trasportando la sabbia verso riva ed incontrando un ostacolo, la deposita dando vita alla duna e continuando nel tempo ad accrescerne le dimensioni. Per questo motivo e per il fatto che la vegetazione può iniziare a svilupparsi solo a una certa distanza dalla costa, al di là della fascia raggiunta dalle maree e dalle mareggiate, normalmente le dune litoranee si sviluppano parallelamente alla costa. È per la continua azione di modellamento operata dal vento, fatta di fasi di deposizione alternate a fasi di erosione, che generalmente tutte le dune hanno una struttura che presenta il lato sopravvento con una inclinazione molto minore rispetto a quello sottovento (di norma rivolto verso l’entroterra). Infine, in presenza di venti molto variabili le dune possono assumere un andamento sinuoso, invece che parallelo alla costa, formando veri e propri golfi e insenature. Per loro stessa natura le dune sono estremamente mobili e, in assenza di qualcosa che ne cementi in qualche modo la struttura, tenderebbero a spostarsi verso l’interno sino a giungere alla barriera costituita dalla vegetazione costiera che, come una siepe di confine, ne blocca l’avanzata verso terra. Sono proprio le piante pioniere che iniziano l’opera di compattamento e consolidamento della duna, permettendo non solo la stabilizzazione ma anche l’attecchimento di ulteriore vegetazione che, in un processo dinamico fatto di progressi e regressioni, conduce alle formazione delle dune coperte di rigogliosa vegetazione che ancora oggi si possono osservare nei tratti di costa più integri. La prima fascia della duna sabbiosa, ad almeno una cinquantina di metri dalla costa, viene inizialmente colonizzata da specie vegetali in grado di svilupparsi rapidamente, generalmente piante erbacee annuali a ciclo breve con un periodo vegetativo di pochi mesi come il ravastrello marino, l’euforbia delle spiagge o l’erba cali, piccole piante dotate 27 28 le coste costituiscono uno degli ambienti più importanti del nostro Paese la calcatreppola è una delle specie più frequenti del sistema dunale 7 LE COSTE di radici e rizomi succulenti in grado di trattenere l’acqua, che danno vita ad una associazione vegetale detta cakileto la quale, terminato il ciclo naturale, si secca e muore, dopo aver disperso i semi. Questi possono germogliare sulla stessa duna o, trasportati dal vento, germinare altrove. Le piante in grado di formare un ambiente più stabile e di sovrapporsi alle prime pioniere sono delle graminacee perenni dotate di lunghe e robuste radici superficiali, che formano una fitta rete sopra e sotto la sabbia: sono l’Agropyrum junceum o gramigna marina (questa associazione vegetale viene infatti detta agropireto) e, nella parte della duna più lontana dal mare, lo sparto Ammophila littoralis dai caratteristici cespugli a ciuffo, che origina l’associazione vegetale detta ammofileto. Sono proprio le radici di queste piante che riescono a rendere compatto un materiale cedevole come la sabbia e a far sì che le dune non siano disperse dal vento. Poiché l’acqua disponibile al di sotto della duna è fortemente salmastra, queste piante traggono il loro fabbisogno idrico, oltre che dalla umidità notturna, dalle precipitazioni che sono in grado di trattenere e di economizzare a lungo. In questa fase la duna può crescere fino a diversi metri di altezza con la sabbia che si deposita sugli strati e sulle piante preesistenti e, man mano che si prosegue verso l’entroterra e che aumenta il numero di specie colonizzatrici, la duna si stabilizza sempre di più ospitando una complessa comunità vegetale che si arricchisce di arbusti all’apparenza stentati e striscianti, ma che in realtà possono vivere centinaia di anni e diventare veri e propri alberi, come il ginepro coccolone, che si alterna con i primi cespugli di lentischi e a piccoli pinastri contorti dal vento, creando una vegetazione che continua a infoltirsi e inverdirsi mescolandosi alla fillirea, all’erica, alla palma nana, alle tamerici e all’edera spinosa. Su questa vegetazione vive una fauna composta da detritivori, erbivori e predatori, dando vita a un ecosistema complesso, caratterizzato da condizioni estreme e dalla particolarità dei suoi componenti. Le piante dunali hanno generalmente forme strane, spesso spinose, per resistere al meglio alla forte brezza marina e per ridurre la perdita d’acqua; sono resistentissime agli sbalzi di temperatura che farebbero morire la maggior parte degli altri vegetali. Tra questi pionieri i più comuni sono il ravastrello, la calcatreppola, pianta spinosa dal caratteristico colore verde tendente al bluastro, dai fiori bianco azzurri e dalle radici ricche d’acqua; il convolvolo, la soldanella dai grandi fiori rosa, lo sparto, che forma i caratteristici ciuffi di erba alta che possono raggiungere il metro e mezzo di altezza e che svolge un ruolo fondamentale per stabilizzare la duna; la carota spinosa e poi il bellissimo pancrazio o giglio di mare, dal profumo penetrante che fiorisce tra luglio e agosto. Spesso ci si può imbattere in stagni retrodunali, generalmente salmastri, generati da depressioni più basse del livello del mare in cui l’acqua si infiltra o dalla presenza di terreni argillosi impermeabili che causano il ristagno dell’acqua piovana. Questo ambiente particolare è ricco di vita animale. Senza parlare della complessa fauna che vive al di sotto della sabbia: crostacei, come le pulci di mare che popolano i detriti di posidonia e gli onischi, molluschi rappresentati da alcune specie di chiocciole; insetti, come sempre molto numerosi, tra i quali spiccano diverse specie di farfalle e di falene come la bella falena del pancrazio, gli scarabei stercorari, le cicindele, coleotteri predatori caratterizzati dalla livrea verde metallico ornata di puntolini bianchi, o il feroce formicaleone, un neurottero la cui grossa larva armata di enormi mandibole uncinate scava delle trappole a imbuto nella sabbia, che franano al passaggio delle prede lungo i bordi trascinando i malcapitati verso le fauci del predone in agguato sul fondo dell’imbuto. Anche alcune grosse cavallette frequentano la vegetazione dunale e se ne possono trovare in grande quantità quando sciami di locuste migratorie terminano il loro viaggio precipitando esauste in mare. Danno la caccia a questi invertebrati gli anfibi come il rospo smeraldino e numerosi rettili come il curioso gongilo, una sorta di grossa lucertola dal corpo forte e muscoloso, serpentiforme, ma dalle zampette minuscole; qualche volta si avvicina alle dune costiere anche l’elegante biacco, il più comune dei serpenti italiani, lungo sino a due metri, mentre frequentatrice abituale della parte della duna confinante con la macchia è la testuggine terrestre, sia la Testudo hermani che la T. graeca e la T. marginata. Anche la tartaruga marina Caretta caretta frequenta le spiagge sabbiose, risalendole faticosamente per deporre le uova, anche se ormai nel nostro Paese sembra farlo solo in pochissimi siti, tra cui la famosa Spiaggia dei Conigli sull’isola di Lampedusa. Sono molte le specie di uccelli che frequentano spiaggia e duna. I più numerosi sono gli uccelli limicoli, ovvero quelli che si nutrono catturando con il becco, generalmente lungo e appuntito, i vermi e i molluschi che vivono nella sabbia umida lasciata scoperta dalla marea: il piovanello tridattilo, il corriere grosso, il voltapietre, il fratino o la rara beccaccia di mare, inconfondibile per il corpo dalla vistosa colorazione bianca e nera e con le zampe e il lungo becco rosso corallo. Anche uccelli marini come il gabbiano reale o le sterne si riposano la notte sulle spiagge e al mattino è facile ritrovare i segni della loro sosta: impronte e qualche penna. Frequentano la duna molti passeriformi diffusi anche nella macchia, come il pettirosso, il merlo, il tordo, la capinera, l’occhiocotto, il colorato gruccione e la bella ghiandaia marina. Tra i mammiferi il coniglio selvatico, diffuso ormai in parecchi punti delle nostre coste, l’onnipresente ratto e l’ubiquitario topolino campagnolo. Tra i predatori insettivori i pipistrelli, la talpa ed il toporagno, presente con diverse specie, e alcuni visitatori occasionali provenienti dalla vicina macchia come l’istrice, il tasso e la donnola, oltre a predatori opportunisti come la faina e la volpe, che frequentano la spiaggia in cerca di rifiuti e di facili prede come pesci spiaggiati. Macchia mediterranea Alle spalle della duna ecco sorgere quello che forse è il più tipico degli ambienti del nostro Paese, che prende il nome dal mare stesso che ci avvolge: la macchia mediterranea. Nei luoghi in cui l’azione dell’uomo si è fatta meno sentire, esiste evidente continuità tra la vegetazione dunale e la macchia mediterranea vera e propria. Dove la duna si consolida e si stabilizza, cominciano ad apparire le avanguardie della macchia mediterranea, caratterizzata anch’essa da un forte adattamento ad ambienti piuttosto duri e non certo abbondanti di acqua. Inizia con dei bassi cespugli di cisto, fillirea e ginepro coccolone; si intrica man mano che si procede verso l’interno mescolandosi a mirto, corbezzolo, rosmarino, ginestra, lentisco, erica, alloro e ginepro; si intreccia, continuando il cammino, ad alberi di alto fusto come lecci, pini marittimi e pini di Aleppo, querce da sughero e querce spinose. Qua e là possono formarsi delle zone allagate, durante tutto l’anno o solo in inverno, le cosiddette piscine, un tempo molto più frequenti nelle grandi foreste planizie costiere -di cui abbiamo solo pochi resti- e che ospitano una ricca fauna di anfibi e rettili. La macchia mediterranea ha una grande variabilità geografica legata a fattori quali il microclima e la composizione del suolo con conseguenti differenze nella composizione della vegetazione, con prevalenza o assenza di alcune specie rispetto ad altre; potremo quindi imbatterci di volta in volta nella macchia a erica, a leccio, a corbezzolo, a rosmarino, a euforbia, a oleastro, a ginestra, ognuna differente per specie dominanti, ma assai simili tra di loro come struttura. Anche se questo ambiente è quello maggiormente rappresentato in tutto il Mediterraneo, in realtà la macchia non può essere considerata come un ambiente realmente naturale, quanto piuttosto il frutto dell’interazione durata millenni tra la nostra specie e le grandi foreste del Mediterraneo e poiché, come diceva Chateaubriand, i boschi precedono l’uomo e i deserti lo seguono, questa interazione si è concretizzata con incendi, disboscamenti, pascolo eccessivo di ovini e caprini, taglio degli alberi d’alto fusto per il legname da costruzione, per case o imbarcazioni. Il risultato dopo millenni è questo straordinario ambiente, verde tutto l’anno, ricco di aromi e profumi penetranti, ma dall’aspetto ruvido e scostante dovuto al gran numero di piante che si proteggono con spine o foglie appuntite e che in primavera, durante la fioritura diviene un vero e proprio spettacolo di colori e profumi. Un’esperienza indimenticabile è l’arrivo in nave in Sardegna all’alba, quando il buio non permette di distinguere ancora chiaramente la linea della costa, ma i profumi 29 una volpe nella macchia mediterranea 7 LE COSTE della macchia, con i penetranti sentori del rosmarino, dell’erica e del mirto annunciano che la terra è ormai vicina. La presenza della macchia mediterranea, sia alta che bassa, è comunque legata a precise condizioni climatiche e alla tipologia del terreno; questo tipo di ambiente si sviluppa infatti in situazioni in cui le precipitazioni sono irregolari e concentrate principalmente nel tardo autunno e nell’inverno. La vegetazione che la compone deve quindi essere in grado di superare un lungo periodo di aridità estiva e di conseguenza, anche le specie che la popolano sono perfettamente adattate a queste condizioni: perdita delle foglie in estate, come accade alla ginestra spinosa e all’euforbia arborea; sviluppo di foglie persistenti e coriacee, dalla cuticola spessa adatta a trattenere l’umidità, come nel leccio, tipico albero della macchia alta e della foresta mediterranea. Da questo punto di vista, la macchia mediterranea bassa -costituita da associazioni vegetali di modesta altezza, per lo più fino a 1,5 o 2 m, tra cui lentischi, filliree, alaterni, ginepri, cisti- e la macchia alta -con piante alte fino a 4 o 5 m in cui sono presenti anche leccio, corbezzolo, sughero, pini marittimi, pini di Aleppo- costituirebbero due tappe di una successione che dovrebbe condurre alla sua comunità climax, ovvero alla lecceta o alla foresta sempreverde mediterranea, intricate e impenetrabili con alberi ad alto fusto (a predominanza di lecci nel primo caso, o con lecci misti ad altre essenze arboree nel secondo caso, in funzione del tipo di suolo e del microclima in cui si sviluppa) entrambe con un fittissimo sottobosco interrotto da piscine e piccole radure dovute a incendi o alla caduta di giganti della foresta giunti al termine del loro ciclo vitale. In realtà l’azione dell’uomo ha finito con lo spezzare il meccanismo della successione, facendo sì che la macchia cosiddetta primaria, quella cioè sviluppatasi esclusivamente in base alle caratteristiche fisiche reali dell’ambiente e del clima dove sorge, è assai rara nel nostro Paese, se non assente. Di conseguenza, le varie tipologie di macchia mediterranea in cui ci si imbatte sono, più che forme in evoluzione, forme di regressione dovute all’intervento umano sulla vegetazione originaria. 30 Il fuoco è sempre stato un fenomeno tipico dell’ambiente Mediterraneo e ha condizionato fortemente le caratteristiche e i cicli vitali delle specie vegetali di questo ambiente. Gli incendi di tipo occasionale non avrebbero di per sé grandi effetti permanenti nella macchia, poiché le specie vegetali che la costituiscono sono in grado, grazie all’emissione di polloni, di ricostituire abbastanza rapidamente la comunità incendiata. In assenza di altri fattori, nel giro di una decina di anni la vegetazione si ricostituirebbe naturalmente nel suo aspetto originario, rinascendo in un certo senso dalle radici stesse delle piante superstiti. Se però gli incendi sono, come purtroppo accade, ripetuti e ravvicinati nel tempo, la ripresa della comunità diviene impossibile e finisce con l’instaurarsi un ciclo negativo, detto pirogeno, ovvero generato dal fuoco, che può portare alla regressione definitiva della macchia, trasformando una splendida foresta con lecci, sughere e farnie, con un fitto sottobosco popolato di centinaia di specie animali e vegetali, in un’arida gariga sterposa. È questa al giorno d’oggi la principale minaccia, insieme ovviamente alle altre forme di disturbo e di interazione legate alla nostra specie, come il pascolo, l’urbanizzazione, l’abusivismo edilizio e la creazione di nuove strade costiere che interrompono la continuità tra macchia e sistema dunale, mettendo in pericolo la sopravvivenza dell’ambiente più caratteristico del nostro Paese e della ricca e variegata fauna che lo popola. Anche se non paragonabile per diversità e abbondanza a quella dei boschi delle zone più ricche d’acqua, la fauna della macchia mediterranea presenta un elevato numero di specie, che occupano la grande varietà di nicchie offerte da questo ambiente, nei tre livelli costituiti dal terreno, dalla fascia arbustiva del sottobosco e dagli alberi più alti. Molte le specie di uccelli presenti, quasi tutte non esclusive di questo ambiente. Oltre a quelle già ricordate per le dune, si incontrano la ghiandaia, l’upupa, il picchio rosso maggiore e minore, il picchio verde maggiore e minore e il torcicollo; tra i numerosi rapaci ricordiamo il biancone, specializzato nella cattura di serpenti, piuttosto abbondanti in questo ambiente; oltre al falco pecchiaiolo e al lodolaio, tra i rapaci notturni, non molto abbondanti nella macchia fitta, troviamo la civetta, il piccolo assiolo, l’allocco, frequentatore della lecceta e il barbagianni, che occupa spesso i ruderi. Ricchissima la fauna di invertebrati che comprende numerosi insetti tipici di questo ambiente che costituisce, tra l’altro, un habitat molto favorevole alle scolopendre e agli scorpioni (non preoccupatevi! a dispetto della loro cattiva fama, non hanno niente a che vedere con i loro pericolosi cugini tropicali). Tra gli anfibi si vedono le raganelle, piccole rane arboricole dalla voce penetrante, e il rospo smeraldino; tra i rettili, che in questo ambiente trovano il loro paradiso, oltre a tutte le specie italiane di gechi e di lucertole (compresi ramarro e lucertola ocellata) scinchi e gongili, orbettini, il biacco, serpente che preferisce la macchia bassa e le radure, il cervone, che è il più grande serpente nostrano (supera i 2,5 m), il saettone dalle abitudini più arboricole degli altri (quindi frequentatore anche della macchia alta), la vipera comune, facile da osservare su rocce e muretti. Nel sud troviamo anche il bellissimo colubro leopardiano, uno dei più bei serpenti italiani. Frequentatrice abituale di questo ambiente è la testuggine terrestre, sia l’autoctona Testudo hermani che le meno abbondanti T. graeca e T. marginata. Numerosi i mammiferi: piccoli roditori come arvicole, ratti, topolini campagnoli, insettivori come i toporagni, le talpe che frequentano le radure e pascoli aridi, il riccio e diverse specie di pipistrelli; un abitante caratteristico è l’istrice, che contende alla marmotta il record di più grande roditore italiano; sono poi presenti la lepre e il coniglio selvatico. Altri piccoli mammiferi arboricoli sono lo scoiattolo rosso, il moscardino e il quercino, attivamente cacciati dalla sempre più rara martora, unico predatore arboricolo. Tra gli altri predatori, oltre all’onnivoro tasso, troviamo la faina, la donnola, la puzzola e l’ubiquitaria volpe. Tra gli ungulati, originari di questo ambiente sono il capriolo e il cervo, ai quali si è aggiunto il daino, importato in epoca storica dall’Asia minore, che ha spesso un effetto devastante sulla vegetazione della macchia. A questo proposito un cenno a parte merita il cinghiale, la cui varietà italiana piccola, rustica e poco prolifera sarebbe assai adatta a questo ambiente in cui si è evoluta; purtroppo è stata soppiantata, in gran parte del nostro Paese, da sciagurati ripopolamenti con esemplari dell’est europeo, adattati ai boschi di latifoglie ricchi di cibo, di dimensioni e prolificità doppie rispetto a quelle dei cinghiali nostrani, con conseguenti devastanti effetti sulla vegetazione mediterranea e sulle colture confinanti. Stagni salmastri e laghi costieri Nei lunghi tratti di costa pianeggiante, spesso il confine tra la terra e l’acqua non è così netto come potrebbe apparire: con una certa frequenza alle spalle delle dune sabbiose si formano lagune, laghi e stagni costieri. Sono ambienti umidi di straordinaria importanza, in cui la vita è fortemente condizionata dalla presenza più o meno significativa del sale. Anche se in alcuni casi le lagune sono create da movimenti di sprofondamento del territorio costiero, nella maggior parte la presenza di questi ambienti può essere ascritta all’azione delle onde marine. Le stesse onde che creano spesso problemi per la forte azione erosiva, in punti della linea costiera depositano quello che in altre parti hanno strappato. Il litorale lagunare si sviluppa quindi nei punti dove il moto ondoso può scaricare i sedimenti che derivano o dal trasporto di fiumi (spesso le lagune si sviluppano in connessione con le aree fluviali) oppure provenienti dall’erosione operata su altre aree costiere. Questo fenomeno si verifica in particolare quando il moto ondoso non è diretto in modo perpendicolare alla costa, ma la colpisce in modo obliquo, creando un flusso di sedimenti che vengono trasportati parallelamente alla costa e che finiscono per depositarsi ed accumularsi dove le onde, per diversi motivi, perdono la loro energia e forza. Questo può avvenire per l’esistenza di fondali con pendii molto dolci o per la presenza di ostacoli come secche, 31 Anche le anguille rientrano a buon diritto tra la fauna tipica di questi luoghi. Pesci dal corpo serpentiforme e dalla straordinaria capacità di resistenza fuori dall’acqua (respirano oltre che con le branchie anche attraverso la pelle umida) nascono in mare aperto dove le larve dalla tipica forma a foglia compiono i vari stadi della loro metamorfosi; a tre anni di età risalgono i fiumi e i corsi d’acqua, insediandosi anche nei laghi sia salmastri che di acqua dolce. Le anguille mediterranee nascono in pieno Oceano Atlantico, nel Mar dei Sargassi, penetrano attraverso Gibilterra, allungando il loro viaggio di un anno rispetto alle anguille nord europee. Per raggiungere la loro destinazione compiono un viaggio incredibile; durante la migrazione, che sembra sia guidata dall’olfatto e che le conduce a specchi d’acqua dove risiedono già anguille adulte, sono addirittura in grado di uscire fuori dall’acqua, strisciando come serpenti durante la notte sul terreno molto umido, per raggiungere stagni o laghetti isolati. I maschi trascorrono in questi luoghi dai 10 ai 12 anni mentre le femmine, molto più grandi, dai 10 ai 18 anni per poi migrare di nuovo in mare aperto per riprodursi, sempre nel Mar dei Sargassi. Alcuni esemplari, invece, trascorrono tutto il resto della loro vita nelle acque dolci e finiscono con il raggiungere dimensioni veramente considerevoli: le femmine possono superare 1,5 m di lunghezza e i 5 kg di peso. La vita di questi esemplari può essere molto lunga e si conoscono casi di anguille allevate in acquario o in piccoli stagni vissute oltre 80 anni! Tra gli altri vertebrati troviamo rane e raganelle, oltre alla bellissima biscia d’acqua, e alle tartarughe palustri mentre numerosi mammiferi frequentano le rive, alcuni tipici come il toporagno acquaiolo, altri presenti anche nella macchia circostante. Una nuova specie da qualche tempo popola le acque di fiumi, laghi e lagune italiane. Parliamo della nutria, o castorino americano, grosso roditore originario del Sud America dall’aspetto simile a un gigantesco ratto, con la lunga coda scagliosa. Parecchi esemplari, fuggiti dagli allevamenti (o liberati volontariamente) hanno finito con il colonizzare molti corsi e specchi d’acqua. Altre specie esotiche arrivate nel nostro Paese sono il topo muschiato e il visone. Anche i ratti, ovviamente, frequentano le rive degli specchi d’acqua costieri, con una particolarità: vicino all’acqua, invece di fare il nido scavando gallerie nel terreno, costruiscono sui rami degli alberi più grandi dei complessi nidi di foglie dalla forma più o meno sferica! 32 un airone cinerino nel lago costiero 7 LE COSTE isole o promontori. Si creano così zone di calma che consentono alle correnti di scaricare sedimenti e accumularli, dando luogo a delle barre sabbiose sommerse che possono innalzarsi sino a emergere, formando dei cordoni sabbiosi paralleli alla costa. In altri casi questi possono congiungere la costa alle isole o ai promontori: sono i tomboli, come quelli che si possono ammirare sul promontorio dell’Argentario e che delimitano la laguna di Orbetello. Con il tempo queste barre, che modificano a loro volta l’andamento delle correnti, finiscono con il saldarsi alla costa intrappolando al loro interno spazi di mare più o meno ampi, dando vita così a lagune, laghi costieri e stagni salsi e salmastri. Spesso, con il continuo depositarsi della sabbia e con la formazione di dune grazie all’azione del vento, diminuiscono gli apporti di acqua salata, dando vita a laghi di acqua dolce. Questo ambiente è generalmente caratterizzato da una notevole variabilità di fattori fondamentali come l’ossigenazione delle acque, la salinità e la quantità d’acqua presente nel bacino; variabilità che si genera in relazione alla tendenza all’insabbiamento, all’eventuale apporto d’acqua dolce, alle infiltrazioni di acqua salata, all’evaporazione (alcuni bacini si prosciugano nel periodo estivo). Questi specchi d’acqua costituiscono ambienti ricchissimi di vita, sia vegetale che animale. La vegetazione varia ovviamente a seconda delle caratteristiche dei suoli circostanti e del contenuto salino dell’acqua. Potremo dunque avere lungo le rive piante come lo statice, la suaeda marina o la salicornia che, come è facile intuire dal suo stesso nome, è amante delle alte concentrazioni saline, oppure una fitta distesa di canneti, carici, giunchi, tife, felci palustri, con una vegetazione sommersa che sfuma da alghe tipicamente marine come l’ulva alla vegetazione tipica dei laghi di acqua dolce. Il canneto può essere presente sia nelle paludi d’acqua dolce che negli stagni, nelle lagune e nei laghi salmastri, perché esistono specie tolleranti al sale (eurialine) e altre meno tolleranti (stenoaline). Questi ambienti, che un tempo venivano considerati plaghe desolate da bonificare e prosciugare, hanno in realtà una ricchissima fauna ittica, tanto che ai nostri giorni sono diventati importanti per la piscicoltura. Tra le diverse specie presenti spiccano pesci come le orate, le spigole o i cefali, in grado di vivere indifferentemente sia in mare che in acqua dolce. I cefali, che sono per questo annoverati tra le specie eurialine, a primavera entrano in gran numero nelle lagune e nei laghi comunicanti con il mare per poi uscirne in autunno, prima degli accoppiamenti invernali. Ma lo spettacolo realmente straordinario è quello offerto dagli uccelli acquatici, a partire dal grande elegante fenicottero rosa. Negli stagni salmastri della Sardegna nidifica ormai dal 1994; forma grandi stormi di centinaia di individui che si nutrono di artemie saline (piccoli crostacei) che filtrano con il loro particolarissimo becco. Oggi si possono avvistare anche nel resto d’Italia. Gli eleganti aironi, il grigio, il rosso, la garzetta e il tarabuso, le tante specie di anatre, germani reali, folaghe, tuffetti, svassi, porciglioni, cormorani, cavalieri d’Italia, martin pescatori, il falco di palude, trasformano questi luoghi in autentici paradisi per i bird watchers di ogni età, purché forniti di un binocolo, di una macchina fotografica e di un buon manuale di identificazione. 33 8 LA PRESSIONE DeLL’UOMO SUGLI ECOSISTEMI MARINI L’inquinamento Che vuol dire inquinamento Una delle principali conseguenze che le attività di una società industrializzata hanno sugli oceani, da sempre utilizzati come discarica finale, è l'inquinamento. Secondo gli esperti dell’ONU che si occupano di mare, l’inquinamento marino si può definire come «l’introduzione diretta o indiretta da parte umana, di sostanze o energia nell’ambiente marino... che provochi effetti deleteri quali danno alle risorse viventi, rischio per la salute umana, ostacolo alle attività marittime compresa la pesca, deterioramento della qualità dell’acqua e riduzione delle attrattive». Secondo questa definizione, quindi, l’inquinamento non è solo quello causato dalla fuoriuscita di petrolio durante un incidente oppure prodotto da attività illegali di scarico in mare di rifiuti, magari tossici, ma può assumere molte differenti forme, dalla immissione nel mare di acque calde per il raffreddamento di impianti industriali o delle centrali -che possono alterare la composizione delle comunità viventi presenti- al rumore prodotto dalle attività umane civili o militari che disturba i cetacei, all’immissione nell’ambiente marino di tutte le varie sostanze prodotte dall’uomo, come quelle presenti negli scarichi industriali o negli scarichi fognari urbani non depurati, che provocano inquinamento microbiologico o eutrofizzazione, o la dispersione in acqua dei pesticidi e dei fertilizzanti usati in agricoltura o delle altre miriadi di sostanze chimiche che usiamo ogni giorno come medicine, lubrificanti, detersivi, prodotti di bellezza, ritardanti antifiamma, isolanti elettrici, oppure gli scarti delle lavorazioni minerarie, o i rifiuti radioattivi ospedalieri, o gli indistruttibili cotton fioc che gettati nel water intasano i depuratori sino a tutta la plastica che produciamo: buste, barattoli e bottigliette. Tutti oggetti che se non vengono correttamente smaltiti e riciclati molto spesso finiscono in mare. L’accumulo degli inquinanti Gli inquinanti possono essere assorbiti dagli organismi in maniera diretta (per contatto o per ingestione della sostanza inquinante) o indiretta, attraverso la catena trofica con il consumo di animali e piante che a loro volta sono entrati in contatto con la sostanza inquinante e l’hanno accumulata o concentrata nel proprio organismo. Alcuni tipi di sostanze tossiche, come il mercurio, il PCB, il DDT, tendono ad accumularsi e a concentrarsi all’interno delle catene alimentari e delle catene trofiche a causa di due fenomeni, il bioaccumulo e la magnificazione biologica, di cui abbiamo già parlato e che possono combinarsi insieme con effetti disastrosi per l’ambiente. Magnificazione biologica: il fitoplancton viene ingerito dallo zooplancton di cui si nutre la sardina, che viene a sua volta predata dal tonno. Seguendo la catena alimentare, le sostanze tossiche si possono accumulare in quantità via via maggiori fino a divenire pericolose anche per l'uomo 35 Inquinamento di origine marina. Secondo l’Organizzazione Marittima Internazionale delle Nazioni Unite tra le fonti di inquinamento delle acque solo il 23% è costituito da sorgenti marine e tra queste la percentuale del 12% è quella legata all’inquinamento dovuto al trasporto marittimo, alle attività di discarica a mare e alle attività di perforazione delle piattaforme petrolifere. Il 44% delle sostanze inquinanti arriva invece dalla terraferma e il 33% dall'atmosfera. Secondo l’UNEP, il programma ambientale delle Nazioni Unite che si occupa di protezione dell’ambiente, finiscono in mare ogni anno oltre 121 milioni di barili di petrolio provenienti sia da fonti terrestri che marine. Di questa enorme cifra, oltre 12 milioni di barili sono dovuti al solo traffico navale e di questi solo una parte relativamente piccola, circa 600.000 barili è prodotta da incidenti. Il resto proviene tutto o da operazioni illegali, come il lavaggio delle cisterne o da operazioni cosiddette di routine, cioè di scarichi in mare di miscele oleose che non solo sono perfettamente legali ma sono anche legati alla normale attività operazionale della nave, come per esempio lo scarico dell’acqua di sentina. Dati forniti dal Piano D’azione Mediterraneo delle Nazioni Unite ci dicono che da 100.000 a 150.000 tonnellate di idrocarburi finiscono ogni anno nelle acque del mare nostrum (oltretutto per restarci visto che, come abbiamo già detto, il Mediterraneo impiega 100 anni circa per rinnovare le sue acque), in gran parte per inquinamenti legati a operazioni di routine. Si tratta di una quantità da 5 a 8 volte maggiore del petrolio fuoriuscito nel corso degli incidenti dell’Erika e del Prestige che causarono le due ultime terribili maree nere in Francia e Spagna e questo accade ogni anno! Oltre alle maree nere ci sono poi altre forme di inquinamento provocate dalla attività di una nave. Per esempio gli scarichi degli impianti igienici (pensate che alcune grandi navi da crociera hanno a bordo migliaia di persone, ovvero tanta gente quanta ce n’è in una piccola città!) e i rifiuti di bordo: rifiuti organici dalle cucine o plastica, vetro e scatolame provenienti dagli imballaggi del cibo e delle bevande che spesso finiscono con l’essere smaltiti semplicemente gettandoli in mare. Poi c’è l'inquinamento atmosferico: a differenza di tutti gli altri mezzi di trasporto, infatti, le navi fino ad oggi hanno adoperato carburanti in cui il contenuto in zolfo e in ossidi di azoto (NOx) non era sottoposto ad alcuna limitazione (anzi diciamo che hanno adoperato quello che era troppo sporco per essere usato a terra!). Solo adesso sia a livello europeo che internazionale stanno entrando in vigore norme per diminuire l’impatto delle emissioni delle navi. La presenza di zolfo nei carburanti è all’origine delle piogge acide mentre un'altra fonte non trascurabile del fenomeno è rappresentata dalla deposizione atmosferica di ossidi di azoto (NOx) derivanti dalle loro emissioni. Particolarmente grave è il problema dell'introduzione di specie esotiche nell'ecosistema marino attraverso le acque di zavorra, ma di questo parleremo in seguito con maggiore attenzione. Inquinamento di origine terrestre Come abbiamo visto, secondo le Nazioni Unite circa l’80% di tutto l'inquinamento che troviamo nei mari e negli oceani deriva dalle attività a terra. Molte sostanze pericolose penetrano nell'ambiente marino in seguito allo scarico, all'emissione e alla fuoriuscita connessi a processi industriali, mentre un’altra serie impressionante di sostanze provengono dall’agricoltura intensiva che utilizza grandi quantità di pesticidi e fertilizzanti. Ma anche le normali attività commerciali o domestiche possono contribuire moltissimo! Spesso non ci si rende conto di tutto quello che noi stessi immettiamo giornalmente nell’ambiente e che finirà poi in mare, basti pensare agli amanti del fai da te che si cambiano da soli l’olio della macchina o del motorino e versano nello scarico l’olio esausto, spesso non sapendo che un litro di olio esausto può contaminare migliaia di litri di acqua di mare. Pensiamo poi alle medicine scadute o ai residui di sciroppi e antibiotici che laviamo via dal cucchiaio e facciamo finire in mare. O a tutte le centinaia di prodotti per la pulizia della casa, sempre più specializzati, anche se in realtà contengono sempre le stesse sostanze, detersivi che finiscono comunque in mare, e poi prodotti insospettabili, sostanze utilizzate come isolanti o ritardanti antifiamma nelle apparecchiature elettroniche, come i policlorobifenili o PCB una sostanza che per la sua caratteristica di persistenza ormai troviamo ovunque, persino nel latte materno e di cui non conosciamo ancora 36 molti dei rifiuti che finiscono in mare liberano sostanze altamente inquinanti e nocive per la salute ogni anno più di 100.000 t di idrocarburi finiscono nel Mediterraneo per operazioni illegali o di routine, senza contare gli sversamenti per incidenti 8 LA PRESSIONE DELL’UOMO SUGLI ECOSISTEMI MARINI Tipologie di inquinamento Possiamo distinguere tre differenti tipi di inquinamento marino: inquinamento sistematico causato dall’immissione continua nel tempo di inquinanti: scarichi fognari, reflui industriali, dilavamento terreni, inquinamento operativo causato dall’esercizio di natanti: lavaggio cisterne, scarico delle acque di zavorra e di sentina, ricaduta fumi, vernici antifouling, inquinamento accidentale causato da incidenti: naufragi, operazioni ai terminali, blow-out da piattaforme, rottura condotte, gli effetti sulla nostra salute. Data l’intrinseca tossicità, persistenza e tendenza al bioaccumulo, molte sostanze naturali e artificiali sono in grado di danneggiare i processi biologici negli organismi acquatici e possono anche finire con il penetrare nel nostro organismo. La natura degli inquinanti L'impatto dell'inquinamento sul mare assume varie forme. L'inquinamento che deriva dai liquami delle fognature non sufficientemente depurate può creare problemi di inquinamento microbiologico, con presenza di virus come quello dell’epatite e batteri coliformi fecali. Ciò dipende dal mancato o insufficiente trattamento delle acque reflue. Gli scarichi urbani, la presenza di alcune sostanze presenti nei detersivi e gli scarti dell'agricoltura sono alla base del fenomeno chiamato eutrofizzazione, causata da un eccessivo apporto di nutrienti (azoto e fosforo). Un'altra fonte d’inquinamento non trascurabile è rappresentata dalla deposizione atmosferica di ossidi di azoto derivante dalle emissioni delle navi, che favorisce, in prossimità delle coste, la proliferazione di alghe che sottraggono ossigeno all'acqua. L'inquinamento industriale peggiora spesso la situazione, perché alcune delle sostanze che dagli scarichi delle industrie finiscono in mare contribuiscono anch’esse a sottrarre ossigeno all'acqua. Del petrolio abbiamo già parlato ma ci sono altre sostanze chimiche che minacciano la salute degli oceani. Sono infatti circa 100.000 i composti chimici impiegati in tutto il mondo, un numero alto che aumenta continuamente con un ritmo di oltre mille nuove sostanze immesse ogni anno sul mercato. Di queste, oltre 4500 sono potenzialmente pericolose per la salute dell’uomo e degli organismi marini; sono i cosiddetti POP, Persistent Organic Pollutant, ovvero inquinanti organici persistenti, una definizione complicata per descrivere una cosa molto semplice: si tratta di sostanze che non solo sono tossiche, ma non vengono degradate nell’ambiente marino e tendono ad accumularsi nei tessuti degli organismi provocando conseguenze gravi come alterazioni del sistema ormonale, tumori, sviluppo embrionale alterato, inversione sessuale, difficoltà riproduttive, alterazioni del processo di crescita e del sistema immunitario. Alcuni esempi sono le diossine, i PCB insieme a molti tipi di insetticidi e al DDT. Come se non bastasse i POP possono essere trasportati lungo grandi distanze in atmosfera attraverso il meccanismo dell’evaporazione e della precipitazione delle piogge, con una tendenza a rimanere in maggiore quantità nelle regioni più fredde, dove l’evaporazione è meno intensa. Il risultato è che troviamo DDT -che ormai è usato solo da alcuni Paesi cosiddetti sottosviluppati per combattere il flagello della malaria- nei tessuti del salmone scozzese, nel grasso delle foche artiche e nell’organismo dei cacciatori inuit che di quelle foche si nutrono! La cosa più preoccupante, perché può darci una idea concreta di quanto persistenti siano questi composti, è che alcune delle sostanze più pericolose, da tempo ormai non utilizzate, continuano ad essere rinvenute in abbondanza nell'ambiente marino che ne conserva così la memoria. Quello che non bisogna mai dimenticare è che gli esseri umani sono in cima alla catena alimentare e quindi rischiano di essere i recettori finali di contaminanti che tendono al bioaccumulo e alla bioamplificazione. L'incremento delle attività umane lungo la costa (ad es. sviluppo dei porti, lavori di protezione del litorale, bonifica dei terreni, attività turistiche, estrazione della sabbia e della ghiaia) ha un grave impatto sugli habitat costieri e sui relativi processi ecologici, che può ripercuotersi anche a notevole distanza dalla riva. In particolare tra le attività industriali destano preoccupazione e necessitano di particolare regolamentazione le industrie minerarie (anche le piattaforme petrolifere) e le industrie di lavorazione dei metalli: la quantità di mercurio rilasciato nell'ambiente dalle attività industriali è quattro volte quella imputabile ai processi naturali come le eruzioni vulcaniche. L'inquinamento da macrorifiuti (plastica, polistirolo, lattine, bottiglie) è un problema che è purtroppo divenuto comune in tutti i mari del globo. Secondo un rapporto dell’UNEP ogni anno circa 6,4 milioni di tonnellate di macrorifiuti vengono scaricati in mare, con una media di oltre 8 milioni di pezzi al giorno! Di questi oltre 5.000.000 proverrebbero dalle navi. Nel Mare del Nord alcuni scienziati tedeschi hanno contato 110 pezzi di rifiuti (barattoli, bottiglie, plastica) per chilometro quadrato 37 20.000 bombe in fondo al mar Come se tutto quello che abbiamo detto del nostro mare non fosse già abbastanza, si resta sconcertati nello scoprire che nelle sue profondità si cela anche un vero e proprio arsenale: bombe a grappolo, bombe a mano, ordigni chimici contenenti agenti letali o altamente tossici, proiettili all’uranio impoverito; la guerra continua in fondo al mare. Tutto è cominciato durante la prima guerra mondiale quando alcuni paesi belligeranti iniziarono una grande produzione di armi chimiche. Nonostante il trattato di Versailles del 1922 e la convenzione di Ginevra del ’25 avessero messo al bando il loro uso, molte nazioni, tra cui l’Italia, continuarono a produrne in grandi quantità e a lungo. Dove credete che siano finite tutte le bombe di cui gli stati dovettero poi liberarsi? Ma in fondo al mare naturalmente! In ossequio al caro vecchio concetto del mare pattumiera che può assorbire e nascondere tutto, dalle bombe chimiche a quelle sganciate dagli aerei che tornavano carichi dalle missioni di guerra in Kossovo e che non potevano atterrare con le bombe innescate. Basta chiedere ai pescatori che ogni tanto con le reti ne tirano su qualcuna. Per non parlare di tutti i rifiuti tossici che sono finiti in fondo al mare con le vecchie carrette, le famose navi dei veleni che le trasportavano, affondate in base al principio dei due piccioni con una fava: non solo mi sbarazzo di rifiuti pericolosi che avrei dovuto smaltire con grandi spese, ma prendo anche i soldi dell’assicurazione!! Conseguenze dell’inquinamento sull’ambiente marino e sull’uomo Gli effetti degli inquinamenti in mare possono essere acuti, ovvero immediatamente percepibili e generalmente provocano la morte degli organismi animali e/o vegetali. Comportano grandi e visibili modificazioni immediate all’ecosistema. Un esempio tipico di effetto acuto è quello costituito da una marea nera di petrolio: in mare il greggio forma una sottile pellicola che impedisce la penetrazione 38 8 LA PRESSIONE DELL’UOMO SUGLI ECOSISTEMI MARINI di fondale: 600mila tonnellate solo nel Mare del Nord. Questi rifiuti possono soffocare i fondali e uccidere le forme di vita che li abitano. Ma è la plastica la minaccia maggiore: ogni anno vengono prodotte quasi dieci milioni di tonnellate di plastica, il 10% delle quali finisce in mare. Una buona fetta della plastica (fino al 70%) è più pesante dell'acqua e finisce sui fondali, come ben sanno i nostri pescatori a strascico: basterebbe dotare tutti i porti pescherecci di isole ecologiche per consentire ai pescatori di smaltire i rifiuti raccolti con le reti anziché rigettarli a mare, per raccoglierne migliaia di tonnellate all’anno. Conseguenze della presenza di questi rifiuti in mare sono l'annegamento degli uccelli, che rimangono intrappolati nei sacchetti di plastica, e la morte delle tartarughe, degli uccelli e dei cetacei per ingestione. Secondo le Nazioni Unite la plastica che finisce nei nostri mari uccide ogni anno fino a 1 milione di uccelli marini, 100.000 mammiferi marini e un numero incalcolabile di pesci. E la plastica non si decompone, se non in migliaia di anni. Il mare, il moto ondoso, il sole e l'abrasione meccanica riducono la plastica in minuscoli frammenti: ogni singola bottiglia può essere ridotta in tanti piccoli pezzi che rimarranno in mare per centinaia di anni. E questo rende ancora più grave il problema perché le creature del mare si decompongono ma non si decompone la plastica che le ha uccise, che rimane nell'ecosistema ed è perciò potenzialmente in grado di uccidere altre creature e di farlo più volte. Come se non bastasse, molti studi hanno dimostrato che la plastica assorbe magnificamente i contaminanti concentrandoli, diffondendoli e rendendoli ancora più micidiali per le creature che dovessero ingerirli. Inoltre i rifiuti di plastica trasportano vari tipi di organismi che li usano come una sorta di zattera per arrivare ed espandersi in zone che altrimenti non sarebbero in grado di raggiungere. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, in ogni km quadrato dei mari del mondo galleggiano 13.000 pezzi di plastica. I rifiuti di plastica tendono inoltre ad accumularsi in quelle aree di mare dove i venti e le correnti sono deboli. Ci sono così aree oceaniche di enormi dimensioni che diventano una sorta di isola di plastica galleggiante con concentrazioni tali che per ogni kg di plancton ne troviamo 6 di rifiuti!! Solo adesso si cominciano a prendere iniziative a livello internazionale per affrontare il problema, ma ciascuno di noi può fare la sua parte, sia cercando di evitare o limitare l'acquisto di prodotti che contengano parti in plastica (in particolare dei prodotti usa e getta) sia gestendo i propri rifiuti in maniera responsabile. D'altra parte, occorre sensibilizzare i proprietari di barche, i gestori delle piattaforme e chi lavora nel settore della pesca sulle conseguenze ambientali che ha l'abitudine irresponsabile di gettare oggetti di plastica in mare. E possiamo fare anche dell’altro: è stato calcolato un consumo medio annuo procapite di circa 300 g di pile nel nostro Paese, 300 g che contengono almeno 1 g di mercurio, quantità sufficiente a contaminare 1.000 metri cubi di acqua e rendere immangiabili 200 quintali di alimenti. Usare batterie ricaricabili e riciclare negli appositi contenitori le batterie usate aiuta il nostro mare. TEMPI MEDI DI DEGRADO DI RIFIUTI GETTATI IN MARE Fazzolettino di carta: 3 mesi Fiammifero: 6 mesi Mozzicone di sigaretta: da 1 a 5 anni Gomma da masticare: 5 anni Busta di plastica: da 10 a 20 anni Cotton-fioc: da 20 a 30 anni Prodotti di nylon: da 30 a 40 anni Accendino di plastica: da 100 a 1.000 anni Bottiglia di vetro: 1.000 anni Polistirolo: 1.000 anni dell’ossigeno atmosferico nell’acqua provocando condizioni di anossia, ovvero mancanza di ossigeno, limita la penetrazione della luce con ripercussioni sull’attività fotosintetica di alghe, fanerogame marine e fitoplancton, provocando una sensibile diminuzione della produzione primaria; infine aderisce agli organismi che vivono o interagiscono con la superficie -mammiferi marini, uccelli, organismi bentonici che vivono nelle aree periodicamente esposte dalla marea (intertidali), alghe, stadi larvali, gameti- impedendone le normali funzioni vitali. L’effetto di un inquinamento può invece divenire di tipo cronico, assumendo una forma molto più subdola e insidiosa. Questo avviene quando la tossicità rimane ad un livello tale da non uccidere immediatamente gli organismi, ma le sostanze inquinanti sono presenti ad un livello di concentrazione tale da provocare alterazioni sostanziali delle condizioni chimicofisiche dell’ambiente che con tempi più o meno lunghi si ripercuotono sull’ecosistema. Questa forma di inquinamento finisce con il provocare effetti ritardati ma prolungati nel tempo come malattie croniche o tumori, che possono manifestarsi anche dopo diverso tempo, oppure danneggiare il patrimonio genetico, provocando una diminuzione della capacità di riprodursi, o di generare prole sana o ancora provocare effetti a livello dell’ecosistema come modificazioni della composizione in specie delle comunità colpite dall’inquinamento o modificazioni delle interazioni ecologiche (es. preda-predatore) per cui spesso si verifica una drastica riduzione della biodiversità. Il costo dell’inquinamento: l’impronta ecologica L’impronta ecologica è un modo suggestivo per misurare l’impatto della nostra specie sul nostro pianeta ed è costituito in pratica dalla risposta a questa domanda: quanta Terra una persona richiede per poter sopravvivere? L'impronta ecologica non è altro che uno strumento statistico che, pur essendo tutt’altro che preciso poiché non è in grado di tenere conto di tutti gli impatti correlati alla nostra attività e presenza sul pianeta, tuttavia è in grado di dare una buona approssimazione (sottostimata!) dell’'impatto ambientale dei nostri consumi e del nostro peso sul pianeta. Il concetto di base è che ogni bene o attività umana comporta dei costi ambientali -cioè prelievi di risorse naturali- quantificabili in termini di metri quadri o ettari di superficie. A seconda del tipo di consumo si farà riferimento a un tipo di superficie piuttosto che a un altro. Confrontando l'impronta di un individuo o di uno stato (il discorso può ovviamente essere fatto semplicemente moltiplicando i valori ottenuti per un singolo cittadino di un determinato paese per il numero di cittadini), con la quantità di Terra effettivamente disponibile per ciascuno di noi (cioè il rapporto tra superficie totale e popolazione mondiale) si può capire se il livello di consumi preso in esame è più o meno sostenibile. L'intera superficie delle terre emerse è composta da foreste ed aree boschive, pascoli, terra coltivata o coltivabile, aree costruite, distese di rocce, ghiacciai e deserti non utilizzabili per il sostentamento o la produzione di energia. Anche gli oceani e la loro capacità produttiva entrano in questa misurazione. Il risultato di questo calcolo è il peso che ognuno di noi ha sulle risorse del pianeta. Quello che possiamo scoprire è che l’impronta mondiale è leggermente superiore alla capacità produttiva del nostro pianeta, ovvero che stiamo consumando più risorse di quanto la Terra è in grado di fornirci e che quindi stiamo intaccando il capitale naturale. Inoltre, a fronte di una capacità sostenibile di 1.9 ettari procapite, la media mondiale è di 2.2 ettari e a creare questo squilibrio non contribuiamo tutti allo stesso modo! Si va infatti dai 9.6 ettari che servono per sostentare i consumi di un cittadino USA o di un cittadino austriaco, all’unico ettaro che deve bastare a un cittadino indiano, o allo 0.7 di un etiope, passando attraverso i 4.2 dell’Italia, i 5.3 della Francia e gli oltre 6 della Svezia. E sono dati del 1995 che vedono per esempio la Cina pesare per soli 1.4 ettari a testa, mentre sappiamo come in questi anni i consumi e lo stile di vita cinesi così come quelli indiani, si siano molto avvicinati ai nostri. Quindi vuol dire che il nostro peso è ancora aumentato e che il nostro pianeta non potrà mai sostenere una popolazione mondiale che abbia tutta lo stesso stile di vita e di consumi. L'Impronta ecologica di uno statunitense medio è quasi il doppio di quella richiesta da un europeo occidentale, e circa 5 volte più grande di quella di un abitante di un paese in via di sviluppo. Se attualmente ogni essere umano consumasse tante risorse naturali ed emettesse tanta CO2 quanto un americano, avremmo bisogno di una superficie complessiva pari ad altri due pianeti come la Terra! . la pesca incontrollata e la pesca abusiva Quando parliamo di pesca parliamo di un mondo molto variegato e complesso in cui il 90% dei pescatori mondiali è coinvolto nella piccola pesca artigianale costiera, ma in cui il restante 10% è responsabile di oltre il 50% del prelievo. Più di 3.5 miliardi di persone dipendono dall'oceano per la loro fonte primaria di alimento, ed è un numero che si prevede possa raddoppiare nei prossimi 20 anni. Il 95% del pescato mondiale proviene dalle acque costiere (80 milioni di tonnellate) che sono quelle soggette ai maggiori rischi derivanti dall’inquinamento e dal disturbo costituito dalle attività umane. Molti stock di specie ittiche d'importanza commerciale, come il merluzzo e il nasello, hanno raggiunto livelli critici; la maggior parte delle specie oggetto di pesca è sfruttata ben oltre i limiti della sostenibilità. Secondo la FAO più del 70% 39 40 il bycatch minaccia tartarughe, cetacei, uccelli e altri animali non commerciabili 8 LA PRESSIONE DELL’UOMO SUGLI ECOSISTEMI MARINI delle specie marine pescate sono sfruttate fino o addirittura oltre il loro limite sostenibile e la consistenza delle popolazioni di grandi pesci commercialmente importanti, quali il tonno, il merluzzo, i pesci spada ed il marlin, è diminuita sino al 90% rispetto al secolo passato. Il 52% delle zone di pesca devono essere considerate come sfruttate al massimo della loro possibilità mentre il 25% è sovrasfruttato, con la conseguenza di rendere queste zone impoverite e vicine al collasso. Oltre 100 milioni di squali sono uccisi ogni anno per la loro carne e per le pinne usate per la famosa zuppa considerata una vera prelibatezza in tutta l’Asia. Spesso i pescatori, per stivare una maggiore quantità del carico più prezioso, si limitano a tagliare le pinne all’animale ancora vivo rigettandolo in mare dove poi morirà. Ci si domanda per quale motivo continuiamo ad avere paura degli squali, responsabili di poche decine di attacchi all’anno nei mari di tutto il mondo, di cui fortunatamente pochi mortali, a fronte della strage che viene provocata dalla nostra specie, l’unico vero spietato predatore degli oceani. La pesca eccessivamente intensa causa gravi danni anche a specie ittiche non commerciali e ad altre specie animali, come i cetacei, le foche, gli uccelli e le tartarughe, si tratta del cosiddetto bycatch ovvero la cattura non voluta di specie che non interessano ai fini della pesca commerciale, causata dall'uso di attrezzature di pesca non selettiva, quali reti a circuizione, palamiti e derivanti ed ammonta alla spaventosa cifra di 20 milioni di tonnellate l'anno, con una cattura annuale di oltre 300.000 cetacei tra delfini, focene e altre specie. La pesca del gambero con il 2% del pescato globale, da sola provoca un terzo della cattura secondaria totale. Con un rapporto tra pescato e cattura accidentale che va da 5:1 nelle zone temperate al 10:1 e più nei tropici. Oltre all'impatto diretto sulle specie, la pesca commerciale condotta senza rispettare le leggi è responsabile dei danni ad alcuni tipi di habitat sensibili, come le praterie di posidonia e le scogliere coralline d’alto mare, mentre la pesca di specie situate sempre più in basso nella catena alimentare provoca alterazioni della struttura e del funzionamento dell'ecosistema marino. I governi che aderiscono al programma mondiale di sviluppo sostenibile hanno sottoscritto l’impegno di cercare di ristabilire urgentemente e possibilmente entro il 2015 la consistenza degli stock ittici nell’ottica di uno sfruttamento sostenibile delle specie maggiormente importanti dal punto di vista commerciale ma questo programma cozza contro l’azione di uno dei più gravi problemi connessi al mondo della pesca: la pratica della pesca illegale. Le comunità di pesca artigianale, che raccolgono la metà del pescato mondiale, stanno vedendo le loro vite sempre più minacciate dalle flotte commerciali illegali che utilizzando bandiere di comodo (perché è ai governi che spetta far rispettare le leggi ai propri pescatori, anche in acque internazionali) e, utilizzando le scappatoie purtroppo presenti nelle norme internazionali, sfuggono ai regolamenti per la gestione e la conservazione del patrimonio ittico e alle norme sulla sicurezza e sui diritti dei lavoratori che sono trattati spesso come autentici schiavi. La pesca pirata devasta gli ecosistemi marini e danneggia comunità costiere che fanno affidamento sulla pesca locale per il proprio sostentamento. Ogni anno, la pesca illegale mediante palamiti lunghi fino a 80 miglia, con migliaia di ami innescati provoca l’uccisione di oltre 300.000 uccelli marini tra cui 100.000 albatros. I governi che aderiscono al programma mondiale di sviluppo sostenibile si sono impegnati a perseguire l’eliminazione delle pratiche della pesca globale e a diminuire le sovvenzioni alla pesca che non siano mirate a garantirne la sostenibilità. Le sovvenzioni di governo -valutate da 15 a 20 miliardi di dollari all’anno- rappresentano quasi il 20% complessivo dei redditi all'industria della pesca in tutto il mondo e finiscono con il promuovere la pesca eccessiva e accelerare l’esaurimento delle risorse ittiche Il turismo selvaggio L’urbanizzazione eccessiva -spesso dovuta a fenomeni di abusivismo edilizio- e l’eccessivo carico antropico localizzato in periodi ristretti dell’anno possono mettere a dura prova gli ecosistemi marini delle località turistiche. Oltre 175 milioni sono i turisti che nell’arco dei pochi mesi estivi ed in particolare ad agosto, mese in cui chiudono la maggior parte delle aziende, si concentrano nei Paesi che affacciano sul Mediterraneo, in particolare lungo le coste; secondo le stime dell’UNEP a questa enorme massa di presenze sono destinati ad aggiungersi da qui al 2025 altri 137 milioni di turisti. Il turismo di per sé è un fenomeno positivo, sia per chi lo pratica che ne trae indubbi vantaggi dal punto di vista dell’accrescimento culturale, dello scambio di vedute e di esperienza o anche semplicemente in termini di riposo, sia per i Paesi che dal turismo traggono importanti fette della propria ricchezza nazionale. Basti pensare che nella sola Italia il fatturato turistico nel 1997 ha rappresentato circa il 12% del PIL, una percentuale notevole di cui il 56% è stato generato direttamente dai consumi dei turisti. Un turismo sostenibile può quindi essere un importante volano di sviluppo ed una valida alternativa ad uno scriteriato sviluppo industriale in zone ancora poco industrializzate del mondo e del nostro stesso Paese. Ma in questo caso la sostenibilità della risorsa è ancora più importante perché un turismo dissennato fatto di cementificazione delle coste e di una pressione eccessiva e troppo concentrata della presenza umana, finisce con il distruggere la fonte stessa di attrattiva nei confronti del turista, sempre più alla ricerca di naturalità, di ambienti integri, di riscoperta di tradizioni e abitudini differenti, di gastronomia basata su prodotti locali, di paesi caratterizzati da una propria identità e non solo di divertimentifici tutti uguali, che finiscono con il ricreare in piccolo tutte le condizioni urbane da cui si cerca di fuggire. Un’importante battaglia da condurre è quindi quella dell’allungamento della stagione turistica delle località di mare sia per diluire nel tempo gli impatti che per rendere più fruibili questi luoghi per i turisti e per i residenti. Gran parte di questi flussi si concentrano infatti nella stagione estiva, con un’affluenza che registra nel mese di agosto picchi vicini al 55% creando problemi di sostenibilità sia a livello ambientale in senso stretto che di funzionalità di servizi come la disponibilità d’acqua, la gestione dei rifiuti, la depurazione dei reflui, la gestione del territorio, i trasporti e le emissioni in atmosfera. In questo panorama, un’attività come il turismo subacqueo, una forma di turismo inizialmente considerata di nicchia, ma che sta nel tempo assumendo una dimensione sempre più di massa, può costituire non solo un utile stimolo alla crescita dell’offerta turistica e di tutto l’indotto susseguente, ma anche un importante contributo alla delocalizzazione stagionale dei flussi turistici. Secondo dati presenti in uno studio commissionato dall’Assosub, l’associazione che riunisce gli operatori del settore subacqueo, industrie, importatori, diving, tour operator, didattiche e imprese editoriali, in Italia tra praticanti dello snorkeling e subacquei che adoperano l’erogatore si possono contare circa 2.500.000 persone, ed in questo quadro le aree marine protette possono rivestire un ruolo importante contribuendo a sviluppare forme sempre più evolute di turismo sostenibile, sia per quello che riguarda la subacquea o il diporto nautico, che per tutte le altre forme di fruizione del mare. La pressione sulle coste Sulle sponde del nostro mare vivono quasi 400 milioni di abitanti, dei quali circa 130 milioni, pari al 35%, vive nelle aree costiere. I dati forniti dal Piano di Azione Mediterranea delle Nazioni Unite sono impressionanti: lungo le coste del nostro mare troviamo 584 città, 750 porti turistici e 286 commerciali, 13 impianti di produzione di gas: 55 raffinerie, 180 centrali termoelettriche, 112 aeroporti e 238 impianti per la dissalazione delle acque. Oltre 200.000 navi solcano ogni anno le acque del Mediterraneo, tra cui molte petroliere: le acque mediterranee sono tra le più inquinate al mondo da residui catramosi. Pur rappresentando solo lo 0,7% del totale della superficie delle acque del pianeta, nel Mediterraneo transita il 23% del traffico mondiale marittimo di prodotti petroliferi. Secondo molte stime, proseguendo con il trend attuale, altri 20 milioni di persone andranno ad aggiungersi alla popolazione residente entro il 2025, così come ulteriori 137 milioni di turisti si uniranno ai 175 milioni che già oggi frequentano i paesi mediterranei nei mesi estivi. Questo territorio costiero così sotto pressione, diventa via via sempre più ridotto perché il fenomeno erosivo delle coste rosicchia ogni anno nuove fette di territorio. La cementificazione del letto di fiumi e torrenti assieme alla costruzione di dighe e la deviazione artificiale dei corsi d’acqua ha, infatti, negli ultimi 50 anni diminuito del 90% la quantità di sedimento che raggiunge il mare. Questo impedisce l’apporto di sabbia e detrito necessario a mantenere vitali le nostre spiagge, il risultato è che ogni anno spariscono dai 30 centimetri ai 10 metri di litorale sabbioso, e che si spendono milioni di euro per cercare di contrastare il fenomeno. Italia, Spagna e Grecia hanno il poco piacevole primato Mediterraneo per l’erosione costiera: le loro spiagge si sono ridotte del 40% nell’ultimo mezzo secolo. 41 9 I CAMBIAMENTI CLIMATICI La terra è un sistema in continua evoluzione: milioni di specie sono apparse sul nostro pianeta e si sono estinte; la sua superficie è in continuo movimento a causa dei continenti che, nel corso di milioni di anni, se ne sono andati a spasso sul globo. Anche il clima da questo punto di vista non fa eccezione; basti pensare che, qualche decina di migliaia di anni fa, mammut e rinoceronti lanosi percorrevano in lungo e largo la nostra penisola durante le ere glaciali, per essere temporaneamente sostituiti da leoni e giraffe. Lo stesso livello del Mediterraneo ha subito continui cambiamenti e in un periodo della sua esistenza il nostro mare è stato addirittura completamente in secca, ridotto a una sterminata distesa di sale. Anche il clima dunque è tutt’altro che stabile ed immutabile, subendo nel corso delle ere cambiamenti notevoli, dovuti a oscillazioni dell’asse terrestre, al cambiamento della composizione dell’atmosfera, a mutamenti dell’intensità della radiazione solare, a eruzioni vulcaniche che hanno avvolto la terra con nuvole di polvere impalpabile in grado di riflettere il calore del sole verso lo spazio. Ma allora perché da un po’ di tempo a questa parte si fa un gran parlare di clima, di cambiamenti climatici e di riscaldamento del nostro pianeta? Perché non solo ci siamo accorti che qualcosa sta cambiando intorno a noi, ma soprattutto ci siamo accorti che sta avvenendo molto velocemente, troppo velocemente per consentirci di adattarci al mutamento. Negli ultimi cento anni la temperatura media superficiale dell’aria è aumentata di 0,6 gradi centigradi a livello mondiale e di quasi un grado nel nostro continente. Secondo molti scienziati, il XX secolo è stato il secolo più caldo da quando si registrano i dati climatici, mentre gli anni ’90 hanno il poco piacevole record di essere stati il decennio più caldo degli ultimi 1.000 anni. Un record, però, che rischia di durare molto poco visto che secondo la NASA quattro dei cinque anni più caldi mai registrati sono nell’ordine il 2005, il 2002, il 2003 e il 2004. L’anno più caldo dal 1861 -momento in cui si è iniziato a registrare le misurazioni- è stato il 1998! Le Nazioni Unite per cercare di comprendere il fenomeno hanno costituito nel 1998 L'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPPC) che riunisce migliaia di esperti del clima di ogni parte del mondo. Tra questi scienziati è andata via via crescendo la consapevolezza che stiamo attraversando una fase di surriscaldamento del nostro pianeta, attribuibile all’azione umana. Nel loro ultimo rapporto hanno stimato che la temperatura media globale se non si interviene aumenterà entro il 2100 tra 1,4 e 5,8°C. Può sembrare una cifra insignificante, ma per comprenderla fino in fondo può essere utile sapere che la temperatura media globale durante l’ultima glaciazione di 11.500 anni fa, quando l’Europa era sepolta sotto uno spesso manto di ghiaccio, era solo 5°C in meno di quella attuale. La stragrande maggioranza degli scienziati concorda nell’individuare la causa principale di tutto ciò, nel famoso ed ormai famigerato effetto serra. Questo è dovuto alla concentrazione sempre maggiore nell’atmosfera dei cosiddetti gas serra, come il biossido di carbonio (CO2) o il metano, che vengono generati dalle attività umane, in primo luogo dall’utilizzo dei combustibili fossili e dalla distruzione delle foreste per far posto all’allevamento intensivo o alle colture a sommersione (per esempio il riso) che rilasciano grandi quantità di metano. L’effetto serra si chiama così perché è il medesimo fenomeno che si verifica all’interno delle serre utilizzate per la coltivazione di ortaggi e primizie, che mediante l’impiego di coperture trasparenti ottengono senza altre forme di riscaldamento un calore decisamente superiore a quello dell’ambiente circostante. La radiazione solare che permette la vita sul nostro pianeta bombardandone durante il giorno la superficie, viene in parte trattenuta riscaldando la terra ed in parte irraggiata nuovamente verso lo spazio sotto forma di raggi infrarossi. I gas serra nell’atmosfera svolgono in questo caso la stessa funzione delle pareti trasparenti delle serre, lasciando passare la luce visibile che entra nell’atmosfera e trattenendo i raggi infrarossi, provocando un aumento della temperatura al suolo. L’effetto serra non è di per sé un fenomeno negativo, anzi è alla base dell’esistenza della vita sulla terra così come la conosciamo; senza di esso, la temperatura media globale sarebbe infatti di circa -18°C, mentre attualmente è di +15°C. Il problema è che le attività umane stanno aggiungendo all’atmosfera grandi quantità di quei gas che contribuiscono a generare l’effetto serra: la deforestazione procede a ritmi impressionanti, foreste antichissime che hanno intrappolato nei tronchi milioni di tonnellate di CO2 vengono bruciate per fare spazio a pascoli o a coltivazioni intensive; quantità ancora più grandi di CO2 racchiuse sotto terra nei giacimenti di combustibili fossili, come il carbone e il petrolio, vengono liberate e immesse nell’atmosfera dai motori a combustione, come quelli delle nostre auto. 43 Il cambiamento climatico e il mare Il cambiamento climatico ha gravi conseguenze sull’ecosistema mare: le variazioni possono interessare la forza e la capacità di trasporto delle correnti oceaniche, la velocità di formazione della massa d'acqua, il livello del mare, l'intensità e la frequenza dei fenomeni meteorologici, le precipitazioni e la portata dei corsi d'acqua, con ripercussioni a valle sugli ecosistemi e sulla pesca. Le attività umane che comportano la perdita di habitat naturali o la loro alterazione, possono accentuare e moltiplicare gli effetti dei fenomeni naturali, resi già più estremi dal cambiamento climatico. Basti pensare alle cementificazioni degli alvei dei fiumi, al dissesto idrogeologico in cui versano per abusivismo ed errato utilizzo del territorio molte zone del nostro Paese e alle devastanti alluvioni cui abbiamo dovuto assistere negli ultimi anni o alla più grande di tutte le devastazioni naturali degli ultimi tempi, la tragedia dello tsunami che ha distrutto le coste asiatiche nel dicembre del 2004. La perdita di ecosistemi naturali, ad esempio le mangrovie, a causa di sfruttamento intensivo delle coste, come l’acquacoltura per la produzione di gamberi, si è rivelata in questo caso altamente impattante. Questa forma di acquacoltura così importante commercialmente è però estremamente distruttiva per l’ambiente: oltre a causare eutrofizzazione e inquinamento per la grande quantità di mangimi e medicine che viene dispersa in acqua, è stata la principale responsabile della distruzione di circa un quarto delle mangrovie del mondo, privando le coste di una importante barriera naturale di difesa in grado di intercettare e attenuare la tremenda forza delle onde generate dallo tsunami. Lo tsunami è infatti un fenomeno totalmente naturale, ma la sua azione è stata amplificata dalle alterazioni all’ambiente apportate dall’uomo, con effetti disastrosi sugli ecosistemi maggiormente intaccati o degradati, che per questo motivo risultavano decisamente più fragili. Nei luoghi in cui la mangrovia era ancora presente, le devastazioni sono state molto minori; dove erano state distrutte, l’onda dello tsunami è giunta direttamente sulla costa. Le mangrovie costituiscono un ambiente importantissimo per la salute del nostro pianeta per molti altri motivi, ad esempio costituiscono il luogo dove trovano rifugio uova, larve e piccoli per l’ 85% delle specie di pesci commercialmente importanti dei tropici. Stesso discorso può essere fatto per le barriere coralline, che negli ultimi anni hanno mostrato una significativa degradazione in ben 93 dei 109 paesi nelle cui acque sono presenti. Anche se le barriere ricoprono meno dello 0,5% dei fondali, oltre il 90% delle specie marine dipende direttamente o indirettamente da loro, per non parlare del fatto che circa 4.000 specie vivono nelle barriere, ovvero circa un quarto di tutte le specie ittiche esistenti. La grande barriera corallina, nell’Australia orientale, lunga oltre 2.000 km è la più grande struttura vivente sul nostro pianeta, visibile persino dalla luna. Ma il fenomeno dello sbiancamento dei coralli, dovuto all’espulsione delle alghe simbionti a causa delI’innalzamento della temperatura dell’acqua, costituisce una seria minaccia alla sopravvivenza di queste straordinarie strutture viventi. Nel 1998 oltre il 75% delle barriere coralline del globo è stato soggetto al fenomeno dello sbiancamento e di queste il 16% sono morte. Anche il Mediterraneo sta iniziando a mostrare segni di cambiamento, che si iniziano a percepire anche dalla presenza di specie nuove che popolano il nostro mare provenienti da acque più calde, dando luogo a due nuovi fenomeni che interessano il mare nostrum: la meridionalizzazione e la tropicalizzazione. La meridionalizzazione del Mediterraneo La meridionalizzazione, pur essendo direttamente legata ai mutamenti climatici, non è un fenomeno dovuto a specie provenienti da altri mari, ma piuttosto a specie termofile (che preferiscono cioè acque più calde) già presenti nel Mediterraneo, la cui distribuzione era limitata alle acque più calde del bacino, situate nella porzione meridionale del mare nostrum. Con il progressivo innalzarsi della temperatura queste specie hanno iniziato ad ampliare i loro areali conquistando nuovi territori sempre più a nord e ad aumentare la propria presenza e quantità dove erano già presenti, come nel caso del barracuda nel Mediterraneo. Ecco allora la possibilità di 44 il pesce scorpione è una delle specie che potremo un giorno incontrare a causa della tropicalizzazione delle nostre acque la caulerpa è un pericolo per la prateria di posidonia 9 I CAMBIAMENTI CLIMATICI Tutto ciò accentua il processo naturale e contribuisce al surriscaldamento del pianeta, generando quello che gli scienziati definiscono un effetto serra accelerato. La concentrazione della CO2 nell’atmosfera è aumentata da 290 p.p.m.v (parti per milione in volume) nel 1880 a circa 380 p.p.m.v nel 2006, e continua ad aumentare ad un ritmo pari a 1,4 p.p.m.v.! Un primo timido tentativo di porre un freno a questa situazione è stato il protocollo di Kyoto realizzato in seno alla Convenzione Quadro sul Cambiamento Climatico (UNFCCC). Si tratta di un accordo internazionale, sottoscritto nel 1997 da 84 Paesi, che indica gli obiettivi per la riduzione dei gas ad effetto serra, entrato in vigore nel gennaio 2005. Con il Protocollo di Kyoto i paesi industrializzati si impegnano a ridurre, durante il primo periodo di applicazione del Protocollo (2008-2012) il totale delle emissioni di sei gas ad effetto serra (CO2, Metano, Ossido di azoto, Idrofluorocarburi, Perfluorocarburi, Esafluoro di zolfo) almeno del 5% rispetto ai livelli del 1990. osservare alcune specie in luoghi decisamente insoliti. È il caso del pesce balestra, del pesce pappagallo, o della coloratissima donzella pavonina, che fino a dieci, quindici anni fa era presente solo a sud della Sardegna e della Campania e che ora si può osservare facilmente anche in Liguria. Questi fenomeni si sono accentuati negli ultimi anni, proprio in conseguenza dell’innalzamento della temperatura del Mediterraneo, cosa che rende la penetrazione di queste specie più agevole e la loro sopravvivenza e riproduzione più probabile, consentendo alle forme giovanili di superare l’inverno e di influenzare, di conseguenza, la composizione della fauna e della flora, con risultati al momento non ancora prevedibili. La tropicalizzazione del Mediterraneo Poiché il Mediterraneo è un mare chiuso e con una profondità media non elevatissima, è molto sensibile al fenomeno del surriscaldamento globale, che negli ultimi 20 anni ha fatto registrare un aumento della temperatura media delle acque superficiali di oltre 1,5°C. Nella terribile estate del 2003 però, in molte nostre località la temperatura dell’acqua superficiale ha sfiorato i 30°C, come in Polinesia! Abbiamo poi assistito ad un innalzamento delle temperature medie invernali, che in porzioni sempre più ampie del bacino rimangono per tutto l’anno al di sopra dei 14°C consentendo così la sopravvivenza e la riproduzione di specie non presenti di norma nel Mediterraneo, che provengono da mari più caldi del nostro. Quando si parla di tropicalizzazione del Mediterraneo ci si riferisce proprio al processo di colonizzazione di questo bacino da parte di specie provenienti da mari caldi, tropicali o sub tropicali. Le specie giungono nel Mediterraneo o tramite l’azione dell’uomo o attraverso vie naturali di comunicazione come il Canale di Suez (queste specie vengono chiamate specie lessepsiane, dal nome dell'ingegnere francese Ferdinand-Marie de Lesseps, fondatore della società che aprì il Canale di Suez) provenendo dalle ricchissime acque del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, o attraverso lo stretto di Gibilterra, giungendo dall’Atlantico orientale dopo aver risalito le coste atlantiche del continente africano. Questo fenomeno può avere anche origine naturale e si è sempre verificato in natura e nei mari di tutto il mondo dove bacini con faune diverse entrano in contatto. La stessa fauna del Mediterraneo, pur avendo una importante componente endemica, proviene in gran parte dai bacini vicini. Quello che appare ora preoccupante è la rapidità e l’intensità con cui il fenomeno si è verificato negli ultimi anni. Addirittura, secondo l’ICRAM le specie marine aliene penetrate in Mediterraneo sino ad oggi sono oltre 700, quasi tutte di origine sub tropicale e tropicale fra le quali alcune specie di barracuda, pesci palla e pesci scorpione ed altri pesci meno noti ma decisamente affascinanti come ad esempio la fistularia o pesce flauto, oramai avvistato anche nei mari siciliani. Naturalmente il fenomeno delle specie aliene non riguarda solo i pesci ma tutte le creature marine, dagli invertebrati alle numerose alghe di origine indopacifica che hanno ormai conquistato il nostro bacino, in alcuni casi espandendosi con una velocità impressionante e minacciando la stabilità degli ecosistemi autoctoni: è il caso della Caulerpa taxifolia. 45 l’invasione delle specie aliene Quando si parla di specie aliene, con buona pace dei patiti degli UFO, naturalmente non stiamo parlando di esseri provenienti da lontane galassie ma più semplicemente di specie, sottospecie o raggruppamenti tassonomici (taxon) che occupano aree al di fuori del loro normale areale conosciuto, aree che non potrebbero naturalmente raggiungere attraverso la propria capacità di dispersione, o nelle quali penetrano a seguito dei mutamenti climatici. Insomma sono specie la cui presenza nel nostro mare è dovuta indirettamente o direttamente all’azione dell’uomo. Per definire queste specie si usano anche espressioni come specie non native, non indigene, alloctone o esotiche. Nel momento in cui le specie hanno una grande facilità di insediare popolazioni stabili in nuovi territori, colonizzandoli rapidamente ed irreversibilmente e diffondendosi velocemente, vengono dette specie invasive. Quando una nuova specie si è stabilizzata su un territorio dando vita ad una popolazione in grado di mantenersi e riprodursi autonomamente senza il supporto dell’uomo, si definisce specie insediata. Questo avviene più spesso di quanto comunemente si creda e numerose specie che sembrano ormai far parte stabilmente dei nostri ecosistemi sono state introdotte in epoca storica: è il caso del daino e dell’istrice introdotti all’epoca dei romani nella macchia mediterranea e della Caulerpa prolifera, un’alga verde di origine indopacifica, ormai acclimatata e stabilizzatasi nel nostro bacino. L’arrivo di specie invasive a rapido accrescimento è sempre problematico, perché una nuova specie introdotta in un nuovo ambiente, dove magari non incontra predatori o competitori attrezzati, finisce con l’alterare profondamente un ecosistema provocando veri e propri sconvolgimenti che possono portare all’estinzione di alcune specie autoctone, determinando disequilibri e perdita di biodiversità. 46 9 I CAMBIAMENTI CLIMATICI Vettori di diffusione Ma come arrivano le nuove specie? Oltre a giungere direttamente sulle proprie pinne, possono arrivare attraverso il trasporto passivo, che può avvenire in molti modi diversi: per esempio aderendo ad un pezzo di plastica galleggiante, oppure alle zampe di uccelli acquatici, o nello stomaco di predatori, se si tratta di uova o di forme resistenti. Gli organismi che costituiscono il fouling, ovvero quegli organismi che incrostano qualunque tipo di substrato duro, possono giungere sugli scafi delle navi, altri ancora possono arrivare con la melma raccolta in porto dalle ancore. Contribuiscono al fenomeno della tropicalizzazione anche l’importazione di specie ittiche tropicali per gli acquari, la ricerca di nuove specie per lo sviluppo dell'acquacoltura e le specie importate come esche vive per la pesca. Uno dei vettori principali di diffusione degli organismi alieni è sicuramente costituito dalle acque di zavorra delle navi. Queste, per potere navigare in sicurezza, debbono avere un assetto stabile sia quando sono cariche sia quando sono vuote; se proviamo a far galleggiare una bacinella vuota ed una in cui avremo posto un peso al centro, ci renderemo conto come quella con il peso sia assai più stabile, anche se muovendo l’acqua simuliamo delle onde. Il principio della zavorra è proprio questo: quando le navi sono prive del loro carico devono avere comunque a bordo un peso che le stabilizzi e che permetta di affrontare anche il cattivo tempo in condizioni di sicurezza. Fino a qualche anno fa questo problema veniva risolto con dei pesi, generalmente pani di piombo, posti nella stiva della nave lungo l’asse della chiglia. È stata una soluzione adottata per migliaia di anni, molto adatta per le navi a vela; ancora oggi quelle di altura hanno il bulbo zavorrato sulla deriva, per bilanciare la spinta del vento sull’albero e sulle vele. Ma una zavorra fissa limita in realtà il carico utile che può portare un mercantile e così si è escogitato il sistema delle casse di zavorra, che imbarcano acqua quando la nave è scarica e la rigettano a mare quando hanno un carico pagante. Il carico e lo scarico delle acque di zavorra avvengono in porto e le pompe movimentano enormi quantità di acqua: una grossa nave cisterna può imbarcare decine di migliaia di tonnellate di acqua di zavorra e con esse un bel campione assai rappresentativo della fauna e della flora presente, che poi scaricherà in un altro porto quando dovrà imbarcare un altro carico. In questo modo, organismi anche potenzialmente nocivi o pericolosi per la salute oltre che per l’ambiente, dal porto di Rio de Janeiro potranno giungere nelle calde e buie cisterne di un mercantile sino al porto di Genova e qui una volta scaricati, nel caso trovassero un ambiente favorevole, insediarsi e moltiplicarsi. Quando questo fenomeno avviene con specie invasive, le conseguenze per la biodiversità e anche quelle economiche possono essere catastrofiche, come è accaduto già diverse volte nel mondo. La comunità internazionale ha cercato di porvi rimedio con la Ballast Water Convention che quando sarà a regime imporrà che tutta l’acqua di zavorra dovrà essere trattata prima di venire scaricata in mare. Passeranno probabilmente parecchi anni prima che tutte le navi si adeguino e nel frattempo le specie continueranno a trasferirsi da una parte all’altra del mondo, causando sconvolgimenti negli ecosistemi e nelle economie locali, favoriti dall’innalzamento della temperatura che consente la sopravvivenza anche a specie provenienti da porti tropicali o sub tropicali. I flagelli alieni Come abbiamo visto la penetrazione di specie aliene in un ecosistema può costituire un grosso problema, anche di natura economica! È abbastanza illuminante a questo proposito ricordare quanto è avvenuto in Mediterraneo con Mnemiopsis Leydi, un piccolo ctenoforo del sud est asiatico, giunto nel Mar Nero trasportato nell’acqua di zavorra delle navi, e che privo di predatori si è moltiplicato a dismisura, divenendo uno dei principali responsabili della distruzione degli stock ittici dell’area con una riduzione di oltre il 75% del pescato annuale. Sempre attraverso l’acqua di zavorra delle navi questo autentico flagello è penetrato nel Mar Caspio, collegato da canali navigabili al Mar Nero, dove ha avuto la stessa crescita tumultuosa, con una fortissima pressione predatrice sullo zooplancton, che ha prodotto il cambiamento della composizione qualitativa e della abbondanza di questo anello fondamentale della catena trofica marina: da quando è stato individuato nel Mar Caspio la disponibilità di plancton è scesa del 50-80%! In numerosi Paesi la diffusione del mitilo zebrato Dreissena polymorpha ha prodotto danni molto ingenti perché si riproduceva a ritmi mostruosi, coprendo banchine portuali, frangiflutti, prese d’acqua di impianti costieri o di centrali elettriche, costringendo gli stati colpiti (Australia, USA, Canada) a spese rilevanti per controllarne lo sviluppo e per ripulire porti e impianti. Altro invasore alieno è la Caulerpa taxifolia cui è stato attribuito il nome di alga killer per la presenza di tossine che la rendono poco appetibile. Questa specie appartiene al gruppo delle alghe verdi di cui è una delle specie più evolute, insieme alle altre due caulerpe, la racemosa e la prolifera, anch’esse ormai introdottesi in Mediterraneo attraverso il canale di Suez o mediante l’acqua di zavorra delle navi. La C. taxifolia, originaria della regione tropicale indopacifica, probabilmente si è insediata in Mediterraneo grazie ad alcuni frammenti sfuggiti ai filtri degli impianti di ricircolo dell’acqua dell’acquario di Monaco, dove l’alga era presente in alcune vasche. Fu proprio nelle acque antistanti l’acquario che venne avvistata per la prima volta nel 1984, con una superficie occupata di circa 1 mq. A distanza di meno di venti anni la sua diffusione ha raggiunto le acque di numerosi siti in Francia, Spagna e Italia. Di portamento molto gradevole, a dispetto del nome di alga killer regalatole dai mass media, è caratterizzata da fronde lunghe da 5 a circa 65 cm, di un bel verde brillante, molto simili alle foglie del tasso, caratteristica questa all’origine della denominazione scientifica (Caulerpa taxifolia significa infatti caulerpa dalle foglie di tasso). Questa alga si è dimostrata una specie ben adattabile e cresce da zero a oltre 50 metri di profondità su fondali molli di varia conformazione (sabbia, fango, detriti, ghiaie), entrando in competizione con gli organismi propri di questi ambienti. Il suo successo riproduttivo è dovuto alla mancanza o allo scarso numero di specie che la predano, alla grande velocità di crescita e alla fortissima capacità di riprodursi anche per frammentazione, processo in cui da ogni minuscolo frammento delle sue fronde, può generarsi un intero nuovo individuo. La competizione più importante è proprio quella nata con le praterie di posidonia: quando questi due appartenenti al mondo vegetale entrano in contatto, si contendono duramente spazio, luce e ossigeno. Secondo molti studi recenti, nei bordi delle praterie e in condizioni di indebolimento delle piante di posidonia (come accade per esempio nelle zone soggette a processi erosivi per ancoraggi e strascico illegale) molto spesso è la caulerpa ad avere la meglio, grazie alla capacità dei talli di raggiungere dimensioni eccezionali (65 cm di lunghezza) che le consentono di sfruttare al massimo la luce, lasciando all’ombra la sua antagonista, molto meno flessibile nella capacità di predisporre strategie di risposta. Infine tra i visitors tristemente assunti agli onori della cronaca possiamo sicuramente annoverare il dinoflagellato Ostreopsis ovata, la cui presenza ha destato allarme in molte località marine italiane perché associata ad alcuni fenomeni di intossicazione avvenuti senza contatto diretto con l’acqua. Le fioriture algali marine, in particolare quelle attribuibili ai dinoflagellati quale l’alga Ostreopsis ovata, sono fenomeni ben noti per la loro pericolosità, perché in grado di rilasciare nell’ambiente massicce quantità di tossine che possono causare estese morie di organismi marini e, attraverso la catena alimentare, arrivare ad interessare anche l’uomo. Alcuni dinoflagellati epibentici (che vivono cioè aderenti ad un substrato), sono in grado di produrre le tossine del gruppo della ciguatera che possono provocare gravi intossicazioni alimentari, persino mortali: attraverso il fenomeno del bioaccumulo possono concentrarsi in grosse quantità anche nelle carni di pesci utilizzati per il consumo umano. L’Ostreopsis ovata, che si moltiplica in acque piuttosto stagnanti e ricche di nutrienti, è di norma ritenuta tossica solo per gli animali marini, ma ha dato luogo a casi di intossicazione in bagnanti che non sono entrati direttamente in contatto con l’alga o con le tossine, ma che hanno inalato queste ultime attraverso l’aerosol marino generato dal moto ondoso, anche solo passeggiando in riva al mare. Fenomeni simili sono accaduti negli ultimi anni in diverse località lungo le coste del nostro Paese, al punto da far ritenere che quest’alga si sia ormai insediata stabilmente in più punti della nostra costa. La diffusione di questa come di altre specie aliene nel nostro Paese è con ogni probabilità da attribuirsi al trasporto attraverso le acque di zavorra o il fouling delle navi, visto che secondo alcuni studi il corredo genetico degli esemplari trovati lungo le nostre coste sembra sia molto simile alla varietà che vive lungo le coste del Brasile. 47 10 IL FUTURO CHE CI ASPETTA Parlando di possibili scenari futuri, dobbiamo sempre avere in mente che il clima è governato da una serie di complesse interrelazioni, per cui è estremamente difficile comprendere come la situazione si evolverà realmente. Questo naturalmente rende molto difficile riuscire a dare risposte adeguate a ridosso degli eventi e rende quindi necessario predisporre, invece, degli interventi pianificati. Secondo le proiezioni contenute nei rapporti dell'IPCC, il cambiamento climatico avrebbe tra gli effetti anche l’innalzamento del livello del mare che, a seconda della variazione di CO2, potrebbe salire tra gli 8 e gli 88 centimetri! Nel caso si avverasse la peggiore di questa previsione intere aree del nostro bacino e del nostro Paese sarebbero a rischio di sommersione e dovrebbero essere protette con dighe come avviene in Olanda. Una città come Venezia poi sarebbe a rischio insieme a tutta la laguna al punto che, se queste previsioni si rivelassero fondate, il tanto contestato MOSE -il sistema di paratie che dovrebbe salvaguardare il gioiello della laguna dall’acqua alta- diverrebbe già obsoleto ed inutile ancora prima della sua nascita: è stato infatti progettato per un livello del mare inferiore a quello che potrebbe raggiungere l’Adriatico. Altra terribile conseguenza che potrebbe purtroppo verificarsi è la desertificazione di vaste zone della porzione meridionale del bacino, con una diminuzione della media annuale delle precipitazioni e conseguentemente della disponibilità d’acqua. Paradossalmente, le precipitazioni potrebbero contemporaneamente crescere di intensità, a causa del surriscaldamento dell’atmosfera e del mare, dando luogo alla cosiddetta estremizzazione del clima: le piogge si concentrano in periodi più brevi, ma sono molto più violente; è un fenomeno che abbiamo potuto constatare noi stessi negli ultimi anni. Tornando alle specie aliene provenienti da aree tropicali o sub tropicali, la loro facilità di penetrazione aumenterà con l’aumento delle temperature; apporteranno profonde modificazioni agli ecosistemi marini, già stressati dall’inquinamento e dal sovrasfruttamento di alcune specie dovuto alla pesca, che potrebbero avere anche conseguenze assai gravi, fino ad arrivare alla scomparsa di molte specie. Un’ulteriore grave conseguenza potrebbe essere l’aumento della produzione di mucillagini, un fenomeno di eutrofizzazione relativamente frequente, specie nell'Adriatico, e che potrebbe aumentare in frequenza e intensità in presenza di un riscaldamento generalizzato della massa d’acqua, che impedirebbe il rimescolamento invernale. È necessario agire subito, perché le emissioni dei gas serra più persistenti (biossido di carbonio, protossido di azoto, perfluorocarburi) hanno purtroppo un effetto assai duraturo sul clima e questa loro caratteristica è aggravata ulteriormente dalla naturale inerzia termica che ha un enorme sistema come quello costituito dal nostro pianeta e dai suoi oceani. Come diminuire le emissioni di CO2 Nell’ultimo rapporto dell’IPCC destinato ai politici e ai decisori, gli scienziati sostengono che i prossimi 20 o 30 anni saranno fondamentali per la lotta contro il surriscaldamento del pianeta e che sarà necessario diminuire le emissioni mondiali di gas a partire dal 2015, se si vuole sperare di contenere l’aumento della temperatura media del pianeta fra i 2 e i 2,4°C. Si tratta di un passo avanti rispetto al Protocollo di Kyoto che, se pur giudicato troppo penalizzante da molti paesi, a poco più di due anni dalla sua entrata in vigore si rivela già largamente insufficiente. I mezzi da usare sarebbero a portata di mano se solo ci fosse la volontà di agire da parte di tutti i governi: sono il risparmio energetico, l’uso di energia proveniente da fonti rinnovabili (solare, eolico, idroelettrico, geotermico, biomasse) che non liberino quindi la CO2 intrappolata nel carbone o negli idrocarburi da milioni di anni; preferire, fra i combustibili fossili, il gas naturale al petrolio o al carbone (perché la combustione di metano genera meno biossido di carbonio a parità di energia prodotta); eliminare i clorofluorocarburi (gas che generano anche il buco dell’ozono); fermare la deforestazione, perché le foreste sono delle enormi pompe di CO2 che viene fissata attraverso la fotosintesi e trasformata in sostanza vivente. Un grande albero nel corso del tempo ha immagazzinato tonnellate di anidride carbonica e se venisse bruciato la rilascerebbe di nuovo in atmosfera. Ma anche ogni singolo cittadino può fare qualcosa e contare; basti pensare che le abitazioni private utilizzano un terzo dell'energia consumata nell’Unione Europea e che il 70% di questa energia è destinato al riscaldamento domestico, il 14% alla fornitura di acqua calda e il 12% all'illuminazione e al funzionamento degli apparecchi elettrici. 49 Sempre le abitazioni private sono responsabili di circa il 20% delle emissioni di gas ad effetto serra, mentre le automobili private pesano per un altro 10% sulle emissioni dell’UE. In più, i consumatori privati acquistano prodotti fabbricati utilizzando energia, viaggiano in aereo, producono rifiuti, mangiano carne, tutte attività che indirettamente provocano l'emissione di gas serra. IL FUTURO CHE CI ASPETTA 10 stando alle proiezioni dell'IPCC sui mutamenti climatici, se l'innalzamento del mare superasse gli 80 cm, molte aree del nostro Paese andrebbero protette con dighe, come avviene in Olanda 50 OGNUNO DI NOI PU ò IMPEGNARSI IN QUATTRO AZIONI SPEGNI tutte le apparecchiature e le luci non indispensabili, contribuirai al risparmio energetico e a bruciare meno combustibili CAMMINA i muscoli non producono CO2: cammina o vai in bicicletta il più possibile, ne guadagnerà la tua salute e contribuirai a immettere meno gas e sostanze nocive in atmosfera ABBASSA nella nostra civiltà del consumo troppo spesso siamo abituati ad esagerare, a tenere riscaldamenti troppo alti, luci troppo forti… impariamo ad abbassare, ne guadagnerà il nostro pianeta ma anche le nostre tasche RICICLA riciclare è importante, non solo per diminuire la montagna di rifiuti che ci sta soffocando, ma anche per ridurre processi industriali ed estrattivi che contribuiscono ad immettere gas serra in atmosfera 51 GLI ABITANTI DEL MARE 53 FITOPLANCTON È alla base della vita, costituito da miliardi di piccolissime cellule vegetali. Alcuni organismi sono in grado di utilizzare l’azoto disciolto nell’acqua, rendendolo disponibile all’interno della catena alimentare. Per contrastare la gravità, che li farebbe precipitare nelle profondità prive di luce, hanno sviluppato strutture e accorgimenti per facilitare il galleggiamento, producendo guaine gelatinose o accumulando acqua, gas o goccioline di grasso all’interno della cellula. Nel fitoplancton troviamo le diatomee, alghe verdi unicellulari racchiuse in una sorta di scatolina con coperchio di silicio; i dinoflagellati, dotati di una minima capacità di movimento e responsabili delle fioriture algali che formano le maree rosse; le cloroficee, alghe unicellulari o coloniali, con pigmenti verdi simili a quelli delle piante superiori. Il fitoplancton è abbondante nelle zone ricche di nutrienti, in quelle con forti correnti di risalita e negli strati più luminosi della zona fotica. OMBRELLINO DI MARE (Acetabularia acetabulum) La sua delicata struttura è simile a quella di un ombrellino cinese. La si può scorgere nella frangia di vegetazione algale, che orna moli e scogliere. Appartiene al gruppo delle alghe verdi ed ha un colore verde pallido. Cresce su fondali rocciosi anche a più di 30 m di profondità; misura fino a 5 o 6 cm ed ha un cappello di oltre 1 cm di diametro. All’inizio della stagione riproduttiva, in primavera, la lunga cellula allungata si espande verso un’estremità a formare il caratteristico cappello che, con il tempo, si ricoprirà di incrostazioni calcaree. Il cappello è caratterizzato da solchi profondi su cui si sviluppano le spore, simili alle lamelle della parte inferiore di alcuni funghi. Essendo di origine tropicale, preferisce le acque calme e ben illuminate dove forma popolazioni numerose. LATTUGA DI MARE (Ulva rigida) Il nome lattuga di mare già fornisce un’idea molto precisa del suo aspetto. Si tratta, infatti, di un’alga verde tra le più comuni, diffusa sia nei fondali rocciosi in cui aderisce al substrato e sia in quelli sabbiosi e nelle lagune dove può crescere anche senza ancorarsi con il tallo al fondale. Può raggiungere i 30 cm in altezza, mentre la larghezza oscilla tra i 10 e i 40 cm. La foglia, di un verde brillante, è larga e dentellata; il tallo alla base è quasi cartilagineo ed ha una notevole consistenza. È presente in mare tutto l’anno anche se raggiunge il massimo sviluppo nei mesi più caldi. In condizioni di forte eutrofizzazione può dare luogo a gigantesche fioriture, sviluppando una enorme quantità di biomassa, che si accumula su spiagge e fondali o galleggia in superficie, dando luogo a processi di decomposizione che oltre a produrre odori sgradevoli, possono anche avere gravi conseguenze per l’ambiente, sottraendo ossigeno alle biocenosi e alterando la composizione degli ecosistemi marini. ZOOPLANCTON 54 Lo zooplancton è costituito da organismi animali che, incapaci di compiere movimenti consistenti, si lasciano trasportare dalle correnti e dal moto ondoso. Sono organismi che riducono il loro peso specifico grazie alla presenza di gas o di goccioline di grasso all’interno della cellula e anche grazie alla presenza di appendici o protuberanze che ne favoriscono il galleggiamento. Molti di questi organismi sono unicellulari, come i batteri e rotiferi, di piccole dimensioni, come crostacei quali i copepodi, le dafnie o il krill. Alcuni possono raggiungere dimensioni notevoli, come la fisalia o caravella portoghese, specie di medusa con tentacoli filamentosi lunghi anche parecchi metri o il cesto di Venere, ctenoforo che può superare 1,5 m. Tra lo zooplancton troviamo la maggior parte dei consumatori primari marini che si nutrono del fitoplancton e larve di numerose specie che adulte divengono organismi bentonici o nectonici. LITTORINA (Littorina neritoides) Dopo una mareggiata la scogliera sembra cosparsa da una miriade di bollicine; guardando più attentamente ci si accorge che sono delle chioccioline scure, le littorine. Questo straordinario piccolo mollusco gasteropode dall’aspetto poco appariscente è in grado, grazie all’opercolo di cui è fornita la sua conchiglia, di resistere all’asciutto, rinserrato all’interno, anche per alcune settimane. Nelle pareti rocciose molto esposte si può trovare sino a 10 m sul livello del mare. Le littorine che si radunano in gran numero nelle umide fessure scavate dalle onde, si nutrono delle alghe che vivono in questa area, rifugiandosi tra i licheni, organismi frutto della simbiosi tra un fungo e un’alga, in grado di trovare nutrimento praticamente ovunque. Le littorine si cibano grattando le alghe dalla roccia con la loro radula, una sorta di lingua coperta da centinaia di minuscoli denti, una specie di raspa tipica dei molluschi gasteropodi. CIPREA O PORCELLANA (Luria lurida o Cypraea lurida) La ciprea lunga da 3 a 6 cm circa, di giorno si nasconde sotto le pietre del fondo, negli anfratti o all’ingresso delle grotte o sotto spugne e piccoli sassi. Va a caccia di spugne, coralli e piccoli crostacei su fondali rocciosi e sabbiosi, da pochi metri sino a 30-40 m di profondità. Il bel colore bruno-rosato della sua conchiglia, con le due estremità arancione, rendono questo mollusco troppo spesso appetibile ai collezionisti. DENTE DI CANE (Chtamalus stellatus) Questo curioso animaletto è un crostaceo, parente stretto di granchi, gamberi e aragoste. La larva è libera, ha una vita inizialmente planctonica e si lascia trasportare dalla corrente per colonizzare nuove scogliere. Quando arriva in un posto adatto, si fissa al substrato ed emette una sorta di segnale che consente ad altre larve di raggiungerla, in modo che parecchi individui si trovino molto vicini su una superficie ristretta. Ha una corazza formata da 6 piastre calcaree, che possono serrarsi quasi ermeticamente. Si nutre di piccole particelle che intrappola con arti e antenne dall’aspetto piumoso. In assenza di vento può tranquillamente resistere parecchi giorni esposto ai raggi del sole. Alcune specie simili si fissano sul carapace delle tartarughe marine o sulla pelle di grandi cetacei, unendo in questo modo il vantaggio della vita sedentaria a quello del movimento. LEPRE DI MARE, ASINO MARINO (Aplysia depilans) È un mollusco nudibranco di grandi dimensioni, che raggiunge anche i 30 cm di lunghezza ed è presente, soprattutto in primavera, nelle praterie vicino alla costa. Si trova fino a 15 o 20 m di profondità. Il suo nome comune è dovuto ai lunghi tentacoli avvolti a cucchiaio, che ricordano gli orecchi della lepre. Assolutamente innocua, nonostante le molte credenze sbagliate, è bello osservarla ondeggiare fra le foglie della zostera. 55 MERLETTO DI MARE (Sertella beaniana) Il merletto di mare appartiene alla classe dei briozoi, animali abbastanza simili ai coralli. Questa specie preferisce l’oscurità e per questo la si può osservare, a partire dai 2 m di profondità, nelle zone ombrose dei litorali rocciosi e nelle pareti interne delle grotte. Vive in colonie che sono delle fragili trine di un bel colore rosa salmone. FALSO CORALLO (Myriapora truncata) Molto simile al vero corallo, la miriapora è un briozoo le cui colonie, che hanno un bel colore rosso corallo, possono raggiungere i 12 cm di altezza e il diametro di una matita. Proprio come il corallo rosso, è una specie che possiamo trovare sulle pareti rocciose in penombra e all’ingresso di grotte sottomarine. È un animale molto delicato e tende facilmente a spezzarsi. PINNA, NACCHERA (Pinna nobilis, P. squamosa) È il più grande bivalve del Mediterraneo, caratterizzato da una enorme conchiglia cuneiforme che può superare gli 80 cm di lunghezza. All’esterno è di colore bruno, con scaglie più chiare a forma di canali, mentre all’interno è rossiccia. Produce il bisso, una sostanza filamentosa. Un tempo era diffusa nei fondali sabbiosi e profondi dai 3 metri in giù, soprattutto in prossimità delle praterie di posidonia. Oggi è divenuta una specie molto rara e l’Unione Europea ne richiede una protezione rigorosa. SPIROGRAFO (Spirographis spallanzani) Anche se il suo aspetto ricorda un fiore sommerso, la rapida scomparsa della sua corona al minimo movimento sospetto, ci fa comprendere subito di avere a che fare con un rappresentante del mondo animale. Lo spirografo è infatti un parente stretto dell’umile lombrico e trascorre la sua vita in un tubo membranoso, che lui stesso fabbrica e da cui lascia sporgere i colorati ciuffi branchiali, dalle delicate forme a spirale, con cui respira e intrappola il cibo. Lo spirografo può misurare sino a 35 cm di lunghezza ed avere un ciuffo branchiale largo anche 10 o 12 cm. Vive sia sui fondali rocciosi che su quelli sabbiosi, ma si trova a suo agio anche nelle praterie di posidonia, ricche di particelle organiche e microrganismi in sospensione che costituiscono il suo cibo. Molti suoi parenti stretti, che differiscono per le dimensioni del tubo e per il colore dei ciuffi branchiali, come la protula, la serpula, il verme pavone, sono osservabili anche a bassissima profondità. 56 SEPPIA (Sepia officinalis) Abili cacciatrici, hanno un corpo piuttosto tozzo ed appiattito con due bordi laterali espansi a formare una sorta di pinna. Possono raggiungere i 35 cm di lunghezza e i 2 kg di peso; sono dotate di 10 braccia che circondano la bocca, munita di un becco corneo. Due delle braccia sono molto più lunghe e retrattili, con le estremità allargate e coperte di ventose. Sono in grado di mutare colore a seconda dell’umore o delle situazioni, grazie a particolari cellule della pelle, i cromatofori. Nel periodo degli accoppiamenti, il maschio presenta una vivace livrea zebrata e non abbandona la compagna prescelta neanche un istante, esibendosi in sgargianti variazioni di colore. A primavera le femmine si portano vicino alla riva per deporre le uova, fissandole alle foglie di posidonia o ad altre superfici. Appena nate, le piccole seppie sono in grado di cacciare autonomamente POMODORO DI MARE (Actinia equina) Osservando con attenzione la fascia di marea può capitare di osservare, immediatamente sopra il pelo dell’acqua, qualcosa di decisamente simile ad un pomodoro dal brillante colore rosso, fissato alla roccia. Basta attendere che il livello dell’acqua salga un poco, sommergendolo, per vedere aprirsi una famelica corona composta da oltre 200 tentacoli disposti in file concentriche. Si tratta del pomodoro di mare, dalla larga base adesiva, che si fissa alle rocce e si difende dal disseccamento durante la fase di bassa marea, trasformandosi in una sorta di palla compatta e intrappolando al suo interno l’acqua necessaria alla respirazione. Fino a 7 cm di diametro, il pomodoro di mare si nutre di piccole creature che intrappola tra i suoi tentacoli irti di cellule urticanti che si richiudono fino alla completa digestione della preda. GAMBERETTO DI SCOGLIERA (Palaemon serratus) È un piccolo gambero dal lungo rostro ornato di dentelli, striato di marroncino. È provvisto di appendici per il nuoto lungo l’addome che in trasparenza consente di vedere gli organi interni. Vive da 2 m di profondità sino a oltre 10 m; è frequente nelle praterie di posidonia e nei fondali rocciosi. Si incontra abbastanza frequentemente nelle pozze di marea su scogliere e frangiflutti. È un animale onnivoro, dalla dieta ricca e variata, che comprende vegetali, animali, creature morte; svolge un fondamentale ruolo tenendo pulita la scogliera ed evitando fenomeni di putrefazione che potrebbero dar luogo a infezioni. Alcune specie di gamberetti assai simili, i cosiddetti pulitori, si sono addirittura specializzati nel fare toeletta ad altre creature marine, mangiando i residui di cibo e gli eventuali parassiti che si portano addosso. GRANCHIO DI SCOGLIERA (Paghygrapsus marmoratus) È in grado di portare con sé nelle sue rapide escursioni sull’asciutto, delle piccole riserve d’acqua per tenere umide le branchie e respirare anche all’aria. È importante quindi, se preso per osservarlo, non tenerlo troppo tempo al sole prima di liberarlo nuovamente. Ha una corazza appiattita quadrangolare, dal colore bruno verdastro. Il maschio si differenzia dalla femmina per avere l’addome più stretto. La femmina in estate porta sull’addome la massa delle uova, piccole e di colore giallastro. A volte il granchio corridore è preda di un crostaceo parassita, la sacculina, dall’aspetto stranamente simile alle uova. Il granchio di scogliera si nutre di detriti e di piccoli animali; praticamente onnivoro, è un utile spazzino. È dotato di una eccellente vista e avverte la presenza dell’uomo a grande distanza. 57 CEFALO (Mugil cephalus) Ne esistono diverse specie che differiscono per la forma della bocca; hanno tutte un corpo slanciato ed affusolato con due brevi pinne dorsali, ricoperto sui fianchi di grandi scaglie che diventano più piccole sul capo; ha bocca piccola, pinne pettorali inserite molto in alto, dorso bluastro e fianchi argentei. Può raggiungere i 50-70 cm, raramente anche 120, e può pesare sino a 8 kg. È una specie gregaria, che forma branchi anche di grandi dimensioni e che predilige le acque temperate, migrando a primavera nelle acque salmastre delle lagune e degli estuari. Si nutre di organismi planctonici, molluschi e di materiale vegetale, incluso il detrito. La riproduzione avviene in mare tra luglio e ottobre; le uova sono piccole (0.75 mm) e molto numerose, munite di una goccia oleosa che impedisce loro di affondare. MURENA (Muraena helena) L’aspetto serpentiforme, il colore brunastro screziato da macchie e variegature biancogiallastre, la bocca sempre spalancata che mette in mostra denti sottili e acuminati come aghi, hanno regalato a questo grosso anguilliforme (può superare i 150 cm di lunghezza) una fama di feroce assassino che sicuramente non merita. Nei confronti della nostra specie, in realtà, la murena è piuttosto timida e inoffensiva, anche se in grado di dare morsi dolorosi se disturbata; è un efficace e aggressivo predatore, principalmente di pesci e cefalopodi (il polpo è una delle sue prede favorite). La sua attività di caccia si svolge soprattutto di notte, mentre trascorre il giorno nelle fessure della roccia, facendo fuoriuscire la testa con la bocca spalancata per la respirazione. BAVOSA PAVONE (Blennius pavo) Trascorre gran parte della sua esistenza a stretto contatto con il fondo del mare, su cui spesso avanza appoggiandosi sulle pinne ventrali. Generalmente non compie grandi spostamenti rimanendo sempre nei pressi di tane che utilizza come nascondiglio dai predatori o per la riproduzione, dove entra sempre infilando la coda per prima. Non ha scaglie e deve il suo nome alla pelle protetta da un viscido strato di muco. Esistono parecchie specie di bavose; alcune sono ornate di livree appariscenti e colorate, come la b. pavone o la b. ruggine. A primavera, le femmine depongono le uova nelle fenditure utilizzate come tane, ed è il maschio ad occuparsene con grande efficienza, ossigenandole con la corrente provocata dal movimento continuo delle pinne. Lunga fino a 12 cm è un predatore, ma può nutrirsi anche delle alghe che strappa dalle rocce. TONNO ROSSO (Thunnus thynnus) Può raggiungere i 3 m di lunghezza e gli oltre 500 kg di peso; è un formidabile predatore, tra i più grandi del Mediterraneo. La parte dorsale è di un blu scurissimo mentre fianchi e ventre sono biancoargentei. Molto vorace, si nutre di pesci pelagici e calamari, cessando di assumere cibo durante il periodo riproduttivo. Compie lunghissime migrazioni per riprodursi o per cercare cibo, arrivando a percorrere 250 km in un solo giorno. La passata dei grandi tonni maturi sessualmente avviene a primavera, attraverso lo stretto di Gibilterra. Gli adulti, dopo la riproduzione, tornano in Atlantico, mentre i giovani restano in Mediterraneo sino a 6-7 anni di vita. Il tonno è una specie a rischio sia per lo sfruttamento eccessivo dovuto alla pesca sia per la sua vulnerabilità a inquinanti come il mercurio e il piombo. 58 SQUALO BIANCO (Carcharodon carcharias) È il più grande tra gli squali non planctofagi e può superare i 7 m di lunghezza. A dispetto del nome, il suo colore è grigio bruno, con il solo ventre bianco e la punta delle pinne pettorali scura. Nelle nostre coste è presente nelle acque profonde del mar Ligure, del Tirreno e dello Ionio; recenti avvistamenti si sono avuti anche in Adriatico. Predilige le acque costiere in prossimità di colonie di foche o leoni marini, le sue prede favorite; può spingersi a grande profondità. L’uomo considera gli squali come dei killer, ma in realtà è lui che ne uccide milioni ogni anno. La maggior parte degli attacchi all’uomo sembrerebbe dovuta ad un errore di identificazione dell’animale che scambia il nuotatore o il surfista sdraiato sulla tavola per una delle sue prede abituali. TARTARUGA MARINA (Caretta caretta) Questi rettili antichissimi sono perfettamente adattati al mare e tornano a terra solo per deporre le uova, sino a 200 per volta, in spiagge al riparo da predatori e dall’uomo. Particolarmente longevi, si nutrono principalmente di meduse, salpe e cefalopodi, che afferrano con il loro becco corneo dai bordi taglienti. Possono raggiungere 1 m di lunghezza e sono in grado di compiere lunghe apnee. In acqua possono raggiungere velocità superiori ai 35 km/h, nuotando agilmente con il caratteristico movimento sincrono degli arti anteriori. La Caretta caretta si riconosce dalla Chaelonya midas, per la presenza di cinque placche costali e due paia prefrontali sul carapace. L’altra tartaruga del Mediterraneo, la gigantesca Dermochelys coriacea, ha invece un rivestimento cuoioso privo di placche. La cattura accidentale durante la pesca professionale e la mancanza di spiagge per la riproduzione ne hanno gravemente minacciato la sopravvivenza; l’ingerimento di sacchetti di plastica provoca la morte per ostruzione del tubo digerente. BALENOTTERA COMUNE (Balaenoptera physalus) Dopo la balenottera azzurra, è la più grande creatura che sia mai vissuta sulla terra. Le femmine, più grandi dei maschi, possono superare i 24 m di lunghezza e le 50 tonnellate di peso. Vive normalmente in mare aperto, anche se per la ricerca del cibo può avvicinarsi alla costa. È presente nei mari di tutto il mondo, anche se è meno presente in quelli tropicali. Molto frequente in estate nel mar Ligure, nel mar di Corsica e nel mar di Sardegna; meno nel Tirreno e Ionio, è raro vederla nel mar Adriatico. Nuota solitaria o in piccoli gruppi, ma può formare aggregazioni più grandi nelle aree dove si alimenta. Si nutre di plancton e piccoli crostacei, in prevalenza di piccolissimi gamberi come i krill. CAPODOGLIO (Physeter macrocephalus) Il capodoglio è capace di immergersi ad oltre 2.500 m di profondità e di cacciare anche i calamari giganti. Nella testa, lunga quasi un terzo dell’intero corpo, possiede una particolare struttura, l’organo dello spermaceti, una sorta di massa spugnosa le cui cavità sono riempite da un olio ceroso e la cui funzione è ancora oggetto di discussione; potrebbe servire da rilevatore di segnali acustici o da organo di bilanciamento idrostatico per facilitare il galleggiamento. Può raggiungere e superare i 18 m di lunghezza e le 50 t di peso. Ha un unico sfiatatoio asimmetrico posto sulla sinistra del capo, che rende il suo soffio inconfondibile: basso e denso, inclinato in avanti verso sinistra. I maschi sono molto più grossi delle femmine. È presente in tutti i mari del mondo. In Mediterraneo, dove si avvista solo ad una discreta distanza dalla costa, è presente ovunque ma prevalentemente nel Mediterraneo centrale e occidentale. Vive normalmente in branchi, composti da gruppi familiari o da gruppi di maschi, che in Mediterraneo non superano generalmente la decina di individui. 59 GLOBICEFALO (Globicephala melas) È chiamato balena o delfino pilota per la sua abitudine di formare gruppi che seguono fedelmente un individuo più anziano. Trascorre molto tempo nuotando pigramente in superficie, formando branchi anche piuttosto grandi, ma è in grado di trasformarsi rapidamente in un nuotatore veloce capace di immergersi oltre i 600 m di profondità. Insieme alla pseudorca è la specie più soggetta a spiaggiamenti, forse per la forte coesione gregaria del branco. È lungo fino a 5 o 6 m e può raggiungere un peso di quasi 2 t. Il corpo è allungato e muscoloso, di colore nero brillante o grigio, con un caratteristico capo tondeggiante e una pinna dorsale che ricorda un berretto frigio. Frequenta le acque dalla profondità superiore ai 2.000 m delle zone temperato fredde e lo si può osservare ad una distanza media dalla costa superiore ai 40 km. Nel Mediterraneo è abbastanza comune, più diffuso nella porzione occidentale del bacino e facilmente osservabile nel mar Ligure e nelle acque a ovest della Sardegna. TURSIOPE (Tursiops truncatus) Di colore grigio uniforme, più chiaro sul ventre, misura sino 4 m. Nuotatore abilissimo, ama esibirsi in salti ed esercizi acrobatici che esegue per puro piacere o per comunicare con gli altri membri della sua specie. Può superare i 30 km/h immergendosi sino a 600 m e rimanendo sott’acqua anche 8 minuti. Ha un comportamento molto complesso e tra i diversi individui si formano complicati rapporti sociali. Vive in piccoli gruppi di 8-10 esemplari, di norma formati da femmine con i piccoli non ancora svezzati. I maschi adulti a volte formano coppie che si riuniscono alle femmine solo nella fase della riproduzione, mentre i giovani svezzati possono formare vere e proprie bande. La femmina partorisce generalmente un solo piccolo ogni tre o quattro anni. Si nutre soprattutto di pesci, ma non disprezza calamari e seppie. È una specie molto sensibile all’inquinamento; i forti rumori delle imbarcazioni possono disturbare il loro sensibilissimo apparato uditivo (biosonar) fino a spingerli ad abbandonare l’area. SQUALO ELEFANTE O CETORINO (Cetorinhus maximus) È il più grande pesce del Mediterraneo visto che può superare i 12 m di lunghezza; è dotato di cinque enormi fessure branchiali; il muso è lungo e conico. Ha due pinne dorsali e una coda grande, falcata e simmetrica. I denti, invece, sono numerosi, piccoli e ad uncino. Vive nella fascia temperata fredda di Atlantico, Pacifico ed Indiano; nel Mediterraneo è presente quasi ovunque ad eccezione delle coste sud orientali e, principalmente, tra il mar Ligure e l’Isola d’Elba e nel medio basso Adriatico. È presente sia lungo le coste che in mare aperto, prediligendo le zone ricche di plancton; si spinge a volte molto vicino alla riva o all’interno di baie. Generalmente solitari o in coppia, possono formare anche gruppi numerosi. Nonostante l’aspetto minaccioso, questo gigante è in realtà un innocuo filtratore che si nutre di plancton, uova, larve e stadi giovanili di pesci e crostacei, filtrando grandi quantità d’acqua attraverso le fessure branchiali. Durante la stagione calda compie lunghe migrazioni in cerca di acque più fresche. 60 CERNIA BRUNA (Ephinephelus marginatus, E. guaza) Grosso pesce dal corpo massiccio e dalla mandibola inferiore prominente, può superare anche 1,5 m di lunghezza ed i 50 kg di peso. Il suo colore è generalmente scuro, verde oliva, bruno o rossiccio, con il dorso bruno a chiazze più chiare, fianchi chiari e ventre giallastro. È la regina delle tane e degli anfratti e vive in fondali rocciosi, da pochi metri di profondità ad oltre 200 m. È ormai raro avvistarla a profondità inferiori ai 40 m. Trascorre l’intera esistenza nei pressi della sua tana, allontanandosi solo per cacciare prede, in preferenza molluschi cefalopodi come polpi e seppie, ma anche crostacei e, in età adulta, pesci. La cernia bruna nasce femmina, raggiunge la maturità sessuale verso i 4 – 5 kg di peso (5 – 6 anni di età) e al raggiungimento dei circa 10 kg inizia a trasformarsi in maschio. La cernia può vivere sino ai 25 anni, ma ci sono casi documentati di esemplari più longevi. DATTERO (Litophaga litophaga ) Mollusco bivalve dalla conchiglia ovale e allungata, e di colorazione lucida bruno dorata, può raggiungere i 10 cm di lunghezza. Una colonia di datteri conta normalmente circa 150 individui per metro quadro, ma può arrivare sino ad una densità doppia, dando alle rocce un caratteristico aspetto di crivello. Il dattero cresce con estrema lentezza, impiegando più di vent’anni per raggiungere 5 cm di lunghezza; vive sulle rocce calcaree sino a 35 m di profondità, in cui scava cunicoli fusiformi, raggiungendo una densità massima di popolazione nei primi 10 m di profondità. Si incontrano individui sino a 100 m, ma preferisce fondali a forte inclinazione. Il dattero penetra nelle rocce, praticando fori profondi, e si pensa che ciò avvenga per la secrezione, da parte di ghiandole del mantello, di sostanze in grado di sciogliere il calcare. La sua pesca, l’importazione e la commercializzazione è vietata dal 1998. La specie è protetta dalle Convenzioni internazionali di Barcellona e di Berna. CAVALLUCCIO MARINO (Hippocampus antiquorum, brevirostris, H. hippocampus, H. guttulatus) H. I cavallucci marini sono pesci di piccole dimensioni, raggiungono al massimo i 15 cm di lunghezza. Si nutrono di piccoli crostacei e di altri organismi che aspirano con la bocca a forma di tubo. Frequentano fondali sabbiosi o detritici e si possono osservare sino ai 30 m di profondità, su ciuffi di alghe o gorgonie cui si attaccano con la coda prensile. Il cavalluccio si può incontrare a basse profondità tra le praterie di fanerogame marine, dove scivola fra le piante che offrono loro rifugio, ancorandosi con la coda che funge anche da timone. Le uova sono trasportate per quattro settimane dal maschio in una tasca incubatrice, posta sulla parte inferiore del tronco, in cui la femmina spruzza le uova, sino a 200, al momento dell’accoppiamento. La nascita di tutti i piccoli avviene nel corso di molte ore, espulsi singolarmente o a gruppi più o meno numerosi con movimenti a sbalzi del maschio, che proietta in avanti la coda. Il cavalluccio è una specie a rischio di prelievo ed è protetto dalla Convenzione internazionale di Berna. 61 IL MARE D’INVERNO Il mare può offrire straordinarie opportunità di osservazione anche senza dover entrare necessariamente in acqua, vantaggio assai apprezzabile in inverno. Basta fare una passeggiata sulla spiaggia dopo una mareggiata per scoprire tantissime informazioni sul mare e sui suoi abitanti. SFERE DAL MARE Alzi la mano chi non si è mai imbattuto in quelle palle fibrose, di colore giallino o bruno chiaro di varie dimensioni che abbondano in molte spiagge e non le abbia magari prese a calci, domandandosi in cuor suo cosa fossero. Le misteriose palle fibrose, tanto leggere quanto tenaci, difficili da spezzare o tagliare, altro non sono che ammassi di foglie di posidonia (Posidonia oceanica) che si staccano dalle piante durante il ciclo annuale della pianta e che si formano per l’azione delle onde e delle correnti, che le spingono infinite volte tra la riva e il mare, tritandole e sminuzzandole fino a ricompattarle nelle palle di fibra che troviamo sulla spiaggia. Con il sopraggiungere della stagione autunnale e delle prime grandi mareggiate infatti, le foglie adulte della posidonia, ormai brunastre e coperte di incrostazioni, si staccano dalle piante per finire sulle spiagge dove formano grandi ammassi detti banquettes. Se invece passeggiando sulla spiaggia, vi capita di imbattervi in bizzarre sfere cave, dal colore verde deciso e dall’aspetto gommoso, allora si tratta di specie appartenenti al genere Codium, un’alga verde che cresce su fondali sabbiosi, dal diametro variabile fino a una decina di cm, caratterizzata dalla forma sferica all’origine del nome palla di mare con cui è comunemente conosciuta. OGGETTI MISTERIOSI Sulla battigia si possono trovare anche strani oggetti, simili a sacchetti semitrasparenti di colore giallo rossastro, oppure quasi neri, con lunghi filamenti a volte ancora attaccati a rametti di gorgonie o a ciuffi di posidonia o di alghe. Questi oggetti misteriosi altro non sono che uova di piccoli squali, come il gattuccio (Scyliorhinus canicola), il gattopardo o il gattuccio maggiore (Scyliorhinus stellaris) oppure di razze (Raja alba, R. asterias, R. clavata). I gattucci sono gli squali più diffusi del Mediterraneo: lunghi circa 80 cm, sono caratterizzati dal colore rossiccio o brunastro con piccoli punti e macchie scure sulle pinne e sul corpo, mentre il ventre è chiaro. I gattopardi o gattucci maggiori sono meno comuni; grandi fino a 120 cm, hanno una livrea con macchie tondeggianti e striature brunastre piuttosto grandi. Tutti vivono su fondali fangosi o sabbiosi, tra i 20 e i 400 m di profondità e frequentano gli scogli sommersi nutrendosi di molluschi, crostacei e piccoli pesci. La caratteristica particolare delle loro uova, deposte in un sacchetto oblungo, consiste nell’essere dotate di lunghi filamenti, i cosiddetti cirri, alle quattro estremità. Al momento della deposizione i cirri possono essere lunghi sino ad oltre 1 m, per poi ritrarsi e contrarsi fino a raggiungere una quindicina di cm di lunghezza, arricciandosi a molla per potersi impigliare a oggetti sommersi o a rami di gorgonia, ancorando l’uovo e impedendo alle correnti di trasportarli col rischio di finire in pasto a qualche predatore. Il periodo riproduttivo del gattuccio, nelle nostre acque, va da novembre ad aprile ed è in questo periodo quindi che è possibile trovare le uova spiaggiate, specialmente dopo mareggiate particolarmente violente. Il gattopardo invece, preferisce deporre in primavera e in estate. Queste uova sono semitrasparenti, quindi in controluce è possibile vedere l’embrione e il sacco del tuorlo. Le uova di razza sono, per forma e colore, abbastanza diverse: generalmente nerastre, ma giallastre nella R. batis, hanno 62 una forma più quadrangolare, rigonfia al centro con i quattro lunghi filamenti che partono dagli angoli. Le razze sono parenti degli squali caratterizzate dal corpo piatto dalla forma romboidale, dalla bocca posta in posizione ventrale e dalla lunga coda con aculei, che in alcune specie possono essere velenosi. Durante l’estate le razze si avvicinano alla costa per accoppiarsi e per deporre le loro uova sui fondali tra le gorgonie o i ciuffi di posidonia. La razza chiodata (R. clavata), molto comune nel Mediterraneo, può superare i 110 cm di lunghezza ed è dotata di grosse spine impiantate su placche poste sul dorso, da cui l’origine del suo nome comune. Frequenta fondali sabbiosi e fangosi da 0 a 700 m di profondità, e genera da 140 a 170 uova (dette anche capsule ovigere) l’anno, che giungono a maturazione in circa 5 mesi. La stagione riproduttiva varia molto a seconda della regione geografica, ma in estate si avvicina molto alla costa, ed è possibile scorgerla anche in acque bassissime. CIBO PER CANARINI Uno dei ritrovamenti più comuni sulla spiaggia è una sorta di pantofolina candida, leggera leggera, un po’ ruvida al tatto ma talmente fragile e delicata da sembrare fatta di schiuma di mare o più prosaicamente di polistirolo. Si tratta del cosiddetto osso di seppia (Sepia officinalis). L’ osso di seppia, spesso utilizzato per arricchire di calcio la dieta dei canarini in gabbia, è in realtà la conchiglia dell’animale, che i molluschi cefalopodi conservano internamente. Le mareggiate sono spesso causa anche del ritrovamento dell’uva di mare, in realtà uova di seppia che per forma e colore ricordano acini d’uva nera, originariamente deposti tra gorgonie e posidonie. Le seppie vivono vicino a fondali sabbiosi o detritici, tra le alghe e le praterie marine. Sono animali in grado di mutare colore a seconda dell’umore o delle situazioni, riuscendo a mimetizzarsi su fondali anche molto diversi tra loro. Il segreto di questa loro abilità risiede in particolari cellule della pelle contenenti pigmenti colorati, dette cromatofori, che ricoprono gli strati superficiali della pelle e che contraendosi o espandendosi possono far variare il colore della seppia. UOVA AL POLISTIROLO Sulla sabbia si trovano a volte degli ammassi leggerissimi di piccole cellette, dal colore biancastro o giallastro, che sembrano molto fragili al tatto. Si tratta di uova schiuse di molluschi gasteropodi come i buccini o i murici. Il buccino o tritone (Tritonium nodiferum, Charonia nodiferum), è un grande mollusco gasteropode dalla enorme conchiglia alta e robusta, lunga sino a 40 cm. E’ un predatore molto efficiente in grado di inghiottire prede intere, grazie all’azione della secrezione acida delle ghiandole salivari che gli permette di predigerire la vittima dissolvendo il tegumento esterno o l’eventuale guscio calcareo. All’inizio della primavera le femmine depongono le capsule ovigere, dalla forma a giara, che possono contenere centinaia di uova, al sicuro nelle spaccature e nei crepacci degli scogli dove rimangono per circa quattro mesi prima della schiusa. A volte, le femmine si radunano in gruppi per deporre le uova in una unica grande massa all’interno della quale le larve si svilupperanno tutte insieme. I murici (Murex brandaris, M. erinaceus, M. trunculus) sono molluschi gasteropodi con guscio dotato di spuntoni (che nel murice spinoso assumono la forma di vere e proprie spine), con un opercolo corneo e un piede ampio e robusto, che depongono uova simili a quelle del buccino, in una forma più o meno gelatinosa dal colore biancastro e dall’aspetto simile ad una spugna. Anche le uova di murice, dopo la schiusa, si possono facilmente rinvenire spiaggiate, umide e mollicce se galleggiano in acqua o disseccate al sole sulla spiaggia. La riproduzione dei murici avviene tra maggio e luglio, e in questo periodo, nei fondali sabbiosi e fangosi che costituiscono il loro habitat, si possono trovare in gruppi anche molto numerosi. Le carni dei murici, conosciuti anche come sconcigli o con altri nomi dialettali, sono molto apprezzate, ma questi molluschi sono famosi anche perché nell’antichità venivano catturati per la produzione della porpora, sostanza scoperta dai fenici, che veniva estratta dalla cavità di una ghiandola del mantello e utilizzata per colorare le vesti dei potenti di varie epoche e dei senatori dell’antica Roma. 63 TESORI DAL MARE Sulla spiaggia meglio avere gli occhi bene aperti: sulle rive infatti possiamo trovare veri e propri tesori. Non parliamo di monete o gioielli nascosti dai pirati e neppure di perle, che si trovano solo ben nascoste nelle ostriche perlifere dei mari lontani, ma dell’occhio di Santa Lucia (Astrea rugosa), un frammento calcareo (opercolo) che serve all’animale per chiudere l’apertura della conchiglia, facile da trovare, se si hanno buoni occhi e pazienza, sulle spiagge sabbiose situate davanti a praterie di posidonia o a zone ricche di alghe. L’astrea vive su fondali rocciosi e fangosi, nel coralligeno e sulla posidonia dai 10 sino ai 100 m di profondità, nutrendosi delle parti più tenere delle alghe. La conchiglia ha un diametro di 6 - 7 cm circa, è di forma conica con aspetto tozzo e ruvido dal colore poco appariscente, spesso con sfumature violacee o verdastre su fondo grigio o bruno chiaro con superficie ornata di crestine ondulate. L’astrea è molto comune nel Mediterraneo e l’opercolo, che è di un colore rosso arancio screziato di giallo e bianco molto appariscente, appiattito da un lato e convesso dall’altro, è conosciuto da tempo immemorabile col nome di occhio di Santa Lucia o occhio di gatto. Da sempre apprezzato per la sua bellezza, viene considerato dai pescatori un buon portafortuna e usato in gioielleria, non solo per la sua bellezza, ma anche per il suo potere scaramantico. La riproduzione avviene tra marzo e luglio. LEGNI SPIAGGIATI Vecchi legni sbiancati dal mare e dal sole e crivellati di fori possono darci l’occasione per conoscere uno dei più straordinari tra gli abitanti del mare, la teredine (Teredo navalis). Le teredini sono molluschi lamellibranchi molto particolari che si sono adattati ad un ambiente decisamente insolito per un mollusco marino: il legno. Per questo si possono trovare sulle assi dei relitti spiaggiati o sui tronchi trasportati dalle correnti. La teredine è infatti un mollusco bivalve, come una tellina o una vongola, modificato per colonizzare un ambiente del tutto nuovo. La conchiglia della teredine ha quindi perso l’originale scopo per cui si era evoluta, ovvero quello di proteggere l’animale, divenendo qualcosa di completamente diverso: un vero e proprio alieno, lungo dai 15 ai 40 cm, dal corpo nudo e vermiforme, in cui il mantello a forma di tubo e che termina con due sifoni, si diparte da una conchiglia molto piccola e tozza, più alta che larga, con le valve a forma di calice e dai bordi seghettati, simile per effetto e per funzione ad una vera e propria fresa posta in cima ad un tubo spesso e carnoso. Con questa formidabile attrezzatura scava profondi fori, lunghi sino a 30 cm, dal diametro di circa 1 cm e mezzo, nel legno dei pali e degli scafi delle imbarcazioni, nutrendosi dei frammenti che si liberano nel procedere. La teredine riveste queste gallerie di uno strato calcareo, al quale rimane collegato dal piede. Quando navi e moli erano fatti esclusivamente di legno, le teredini erano assai temute per la loro capacità di provocare falle o il crollo dei pali di sostegno di moli e banchine. Le teredini vivono in tutti i mari del mondo ed essendo molto resistenti agli sbalzi di salinità, popolano anche le lagune salmastre. Gli esemplari giovani sono molto diversi dall’adulto perché il mantello non ha ancora iniziato a crescere e a fuoriuscire dalla conchiglia e sono molto più simili a normali bivalvi dalla conchiglia piuttosto tondeggiante. STRANE SPIRALI A volte possiamo imbatterci in spirali e tubetti biancastri, generalmente vuoti. Sono le case di alcuni vermi marini, i policheti tubificidi (Serpula vermicularis, Protula tubularia) che producono i tubicini che possiamo vedere attaccati a conchiglie, sassi, tronchi e relitti spiaggiati. I policheti tubificidi, come i lombrichi terrestri, sono anellidi, vermi sedentari che trascorrono la loro esistenza interamente all’interno di tubi o gallerie, cementati a conchiglie, alghe piante o rocce. I tubi calcarei possono essere chiusi da un opercolo rigido che l’animale aziona come una botola, al primo cenno di pericolo o di situazione insolita. Questi policheti sedentari sono adattati ad una vita fatta di avanti e indietro fulminei all’interno del proprio tubo, in cui possono muoversi indisturbati, alternati a momenti in cui con le splendide branchie espanse catturano e filtrano particelle di cibo dall’acqua. I serpulidi che vivono in zone di marea, grazie all’opercolo sono in grado di sopravvivere all’asciutto. Gli insediamenti massivi possono contribuire 64 significativamente a compattare i fondali molli. La Protula tubularia è il più grande serpulide del Mediterraneo e raggiunge i 10 cm di lunghezza con un tubo che si erge per più di ? della propria lunghezza dal substrato, ornato da una grande corona di branchie colorate di un rosso splendente. CONCHIGLIE PERFORATE Raccogliendo le conchiglie di bivalvi sulla spiaggia, è facile imbattersi in qualche conchiglia che presenta su una delle valve un foro tondo, molto regolare di pochi mm di diametro. Si tratta della testimonianza di un vero e proprio dramma sottomarino, la scena di un delitto in cui l’assassino è una piccola conchiglia tonda dall’aspetto innocente che in realtà è un efficiente e spietato predatore: la natica o maruzza (Naticarius hebraeus), un mollusco gasteropode lungo sino a 4 – 4,5 cm con una conchiglia liscia e globosa di colore chiaro con grandi macchie e screziature marroni e color ruggine. La natica vive sui fondi sabbiosi ed è un vero e proprio killer di vongole e telline che avvolge con i lembi del piede per praticare sul guscio una apertura grazie alla radula, un organo dei molluschi gasteropodi, costituito da una struttura muscolare rivestita da dentelli curvi posizionata vicino all’apparato boccale, alla base di una specie di proboscide. In circa sei ore di paziente ed instancabile lavoro, grazie alla secrezione acida in grado di sciogliere il carbonato di calcio di cui sono costituite le conchiglie, la natica riesce a formare un foro perfettamente circolare di 1 o 2 mm. di diametro in cui poi inserisce la proboscide per divorare la vittima. Le uova delle maruzze o natiche, chiamate dai pescatori collari di mare, vengono deposte in nastri ricurvi lunghi una decina di cm e larghi circa 4, e in aprile dopo le mareggiate, possono trovarsi in grande quantità nelle zone di risacca dei litorali sabbiosi. Anche il Murex brandaris, il M. erinaceus e il M. trunculus hanno un modo di predare molto simile a quello della natica, anche se si nutrono molto volentieri anche di pesci o molluschi morti. Tra le altre creature in grado di produrre fori sulle conchiglie che troviamo sulla battigia, troviamo le spugne perforanti (Cliona celata). La cliona è in grado di sciogliere il calcare delle rocce e delle conchiglie mediante secrezioni acide, ma a differenza della natica o del murice non provoca questi fori per nutrirsi dell’animale che vive all’interno, ma solo per prepararsi un substrato adatto su cui insediarsi. La piccola spugna infatti ha bisogno di insediarsi su substrati calcarei, rocce o conchiglie o anche alghe calcaree, e a seconda dei casi può crescere e svilupparsi all’interno della roccia o fuoriuscire parzialmente. La sua colorazione è generalmente gialla ma può essere anche rossastra o rosa. 65 ATTIVITà PER I RAGAZZI Le attività che proponiamo sono rivolte ai ragazzi per approfondire le tematiche trattate, per consentire una comprensione più profonda delle complesse dinamiche dell’ambiente marino e costiero, per stimolare, attraverso la sperimentazione e la metodologia dell’inchiesta, l’interesse e l’attenzione sulla difesa del mare e sui corretti comportamenti per la sua salvaguardia. Conoscere i suoi abitanti, le relazioni fra il mare e le attività umane, dalle più semplici alle più complesse, capire i meccanismi di scambio fra questi mondi è forse il modo più idoneo per imparare ad amare il mare e fare in modo chei ragazzi lo sentano e lo vivano come un loro patrimonio da preservare. Le attività si potranno svolgere in classe e a casa. 67 MISURAZIONE DELLA IMPRONTA ECOLOGICA Prova a calcolare la tua impronta ecologica e quella della tua famiglia: se è molto grande forse è il caso di cominciare ad adottare comportamenti diversi per diminuirla! Per farlo, rispondi alle domande che seguono e, alla fine, somma i punteggi ottenuti. Alcune domande, anche se poste in maniera diretta, fanno riferimento al contesto familiare (per es. gli acquisti). CASA 1 Quante persone vivono con te? ● ● ● ● ● 1 (+30 punti) 2 (+25 punti) 3 (+20 punti) 4 (+15 punti) 5 o più (+10 punti) 2 In che modo è riscaldata la casa? ● ● ● ● Gas naturale (+30 punti) Elettricità (+40 punti) Olio combustibile (+50 punti) Energia rinnovabile (+0 punti) 3 Quanti punti di acqua (bagno, cucina, lavanderia, balcone) ci sono? ● ● ● ● ● Meno di 3 (+5 punti) 3-5 (+10 punti) 6-8 (+15 punti) 8-10 (+20 punti) Più di 10 (+25 punti) 4 In che tipo di casa abiti? ● Appartamento/condominio (+20 punti) ● Villetta (+40 punti)di individui. ALIMENTAZIONE 5 Quante volte alla settimana mangi carne o pesce? ● ● ● ● ● 0 (+0 punti) 1-3 (+10 punti) 4-6 (+20 punti) 7-10 (+35 punti) Più di 10 (+50 punti) 6 Quanti pasti cucinati in casa consumi (compresi quelli portati a scuola)? ● ● ● ● Meno di 10 (+25 punti) 10-14 (+20 punti) 14-18 (+15 punti) Più di 18 (+10 punti) 7 Quando acquisti alimenti preferisci prodotti locali? 68 ● ● ● ● ● Si (+5 punti) No (+10 punti) Qualche volta (+15 punti) Raramente (+20 punti) Non lo so (+25 punti) ACQUISTI 8 Quanti acquisti importanti (stereo, televisore, computer, automobile, mobili, elettrodomestici) sono stati fatti nel corso degli ultimi 12 mesi? ● 0 (+0 punti) ● 1-3 (+15 punti) ● 4-6 (+30 punti) ● Più di 6 (+45 punti) 9 Sono stati acquistati articoli a risparmio energetico negli ultimi 12 mesi? ● Si (+0 punti) ● No (+25 punti) TRASPORTI 10 Quale mezzo usi per gli spostamenti? ● ● ● ● ● ● Bicicletta (+15 punti) Utilitaria (+35 punti) Vettura intermedia (+60 punti) Berlina (+75 punti) Macchina sportiva, monovolume o familiare (+100 punti) Van, utility vehicle o fuoristrada (+130 punti) 11 Come vai a scuola? ● ● ● ● ● In automobile (+50 punti) Con i mezzi pubblici (+25 punti) Con uno scuolabus (+20 punti) A piedi (+0 punti) In bicicletta o pattini a rotelle (+0 punti) 12 Dove hai passato le vacanze nel corso dell'ultimo anno? ● ● ● ● ● Niente vacanze (+0 punti) Nella mia regione (+10 punti) In Italia (+30 punti) In Europa (+40 punti) In un altro continente (+70 punti) 13 Quante volte nell’anno utilizzi l'automobile per il fine settimana? ● ● ● ● ● 0 (+0 punti) 1-3 (+10 punti) 4-6 (+20 punti) 7-9 (+30 punti) Più di 9 (+40 punti) 69 RIFIUTI 14 Fai la riduzione dei rifiuti (per esempio: preferisci imballaggi ridotti, rifiuti l'invio di posta pubblicitaria, preferisci contenitori riutilizzabili)? ● Sempre (+0 punti) ● Qualche volta (+10 punti) ● Raramente (+15 punti) ● Mai (+20 punti) 15 Quanti sacchi della spazzatura produci ogni settimana? ● ● ● ● ● 0 (0 punti) Mezzo sacco (+5 punti) 1 sacco (+10 punti) 2 sacchi (+20 punti) Più di 2 sacchi (+30 punti) 16 Ricicli i giornali, le bottiglie di vetro e quelle di plastica? ● ● ● ● Sempre (+5 punti) Qualche volta (+10 punti) Raramente (+15 punti) Mai (+20 punti) 17 Prepari il compost con i rifiuti della frutta e della verdura? ● ● ● ● Sempre (+5 punti) Qualche volta (+10 punti) Raramente (+15 punti) Mai (+20 punti) RISULTATI MENO DI 150 PUNTI impronta ecologica inferiore a 2 ettari 150 - 350 tra 2 e 4 ettari (la maggior parte degli italiani) 350 - 550 tra 4 e 6 ettari 550 - 750 tra 6 e 10 ettari L'impronta media mondiale richiesta dagli scienziati è di 1,9 ettari a persona. Ottenere un punteggio inferiore a 2 è indice di un comportamento eco-sostenibile test tratto da www.worldsocialagenda.org 70 Costruzione del ciclo degli inquinanti e del ciclo dei rifiuti Costruisci degli esempi di come le sostanze inquinanti arrivano in mare e il ciclo che poi compiono nell’ecosistema marino. Per esempio per i POP potresti illustrare le vie con cui essi arrivano in mare (fiumi, dispersione in atmosfera) e poi le varie fasi di evaporazione e ricaduta tramite la pioggia, fino al loro confinamento nelle zone fredde del nostro pianeta, in cui l’evaporazione non è così forte da farli tornare nell’atmosfera. Oppure potresti rappresentare come una sostanza inquinante penetra nella catena alimentare, con le fasi di bioaccumulo e di magnificazione biologica. O ancora, realizza un manifesto per mostrare le varie vie con cui i diversi tipi di rifiuti e di inquinanti pervengono al mare (da terra, dalle navi, dalle fabbriche, dai campi coltivati, dai fiumi….) magari adattandolo alla situazione della tua città o della tua regione, dopo aver fatto una inchiesta su quali sono le fonti di inquinamento presenti nella zona. Individuazione dei comportamenti corretti Nell’affrontare i problemi che minacciano il nostro pianeta, abbiamo suggerito comportamenti che possono contribuire a diminuire gli impatti sull’ecosistema. Comincia con l’individuare tutti quelli che trovi nel testo e poi insieme alla tua classe, divisi in gruppi, scopri e segnala in una scheda gli altri modi di agire che possono aiutarci a difendere il nostro mare. 71 Il nostro mondo e il clima cui siamo abituati cambiano e questo cambiamento sembra avvenire sempre più velocemente; si tratta di un fenomeno che possiamo provare a verificare con una serie di attività da realizzare con la classe. I risultati potranno essere raccolti in una mostra o in un video montato sul modello delle inchieste giornalistiche, per sensibilizzare genitori e altri studenti su quanto sta accadendo. LA SCHEDA DEL TEMPO NON CI SONO PIù LE STAGIONI DI UNA VOLTA Questa frase, insieme all’altra forse ancora più abusata “non ci sono più le mezze stagioni” imperversa nelle conversazioni, fino ad essere diventata il luogo comune per eccellenza…..ma è davvero solo questo o c’è un fondo di verità? Proviamo a scoprirlo insieme e per farlo rivolgiamoci a chi conserva nello scrigno della propria memoria le informazioni che possono aiutarci. La proposta è quella di intervistare i nonni e le persone più anziane, per capire se e come il tempo e le stagioni siano cambiati rispetto alla loro giovinezza. È importante scegliere delle domande che possano aiutarci a costruire un racconto in grado di restituirci la sensazione di quello che sta accadendo. Nei sussidiari che si usavano nelle scuole elementari di 40 anni fa, il tempo e le stagioni erano molto ben rappresentate, con l’autunno, l’inverno, la primavera e l’estate identificate non solo da date, ma anche da avvenimenti e da condizioni climatiche ben precise, che ora appaiono molto più confuse. Prova quindi a chiedere cosa per i nostri nonni segnava il passaggio dall’estate all’autunno, per esempio, o quando si faceva il cambio di stagione, quanti giorni nevicava (se nevicava) durante l’inverno, o se si usavano (e quali erano) gli abiti di mezza stagione. Con un lavoro da veri e propri giornalisti di inchiesta, metti insieme i dati che ricaverai per costruire il quadro delle condizioni climatiche di 50 o 60 anni fa, da mettere a confronto con quelle di oggi, costruendo una specie di macchina del tempo che viaggia nella memoria dei nostri anziani. 72 LE SCHEDE DEL MARE Uno dei segni più visibili dei mutamenti climatici è costituito, come abbiamo visto, da variazioni nella fauna e nella flora dei nostri mari. Come fare per capire quanto e in che modo il mare sta cambiando? Poiché non ci sarà possibile esplorare direttamente i fondali (anche se un po’ di snorkeling con maschera e pinne può mostrarci tante cose) dobbiamo rivolgerci a quei soggetti che con il mare hanno a che fare di continuo e che potranno fornirci indicazioni molto utili su quello che sta realmente accadendo: pescatori e subacquei. AL MERCATO DEL PESCE Molte delle specie che stanno penetrando in Mediterraneo o che stanno ampliando la loro distribuzione nel nostro bacino sono specie commerciabili, in alcuni casi di ottimo sapore; inevitabile che prima o poi finiscano sui banchi del mercato del pesce. Molte informazioni potranno quindi essere acquisite intervistando gli operatori, riferendosi naturalmente ai prodotti della piccola pesca ed al pescato locale, per scoprire se e come sono cambiati i prodotti di questa attività; per acquisire notizie in merito alla commercializzazione di specie che magari prima venivano pescate occasionalmente e che adesso si trovano molto più di frequente sui banchi del mercato; oppure che prima venivano importate dall’estero o da porti molto più a sud. MONITORAGGIO DELLE SPECIE ALIENE Pescatori e subacquei escono tutto l’anno e possono essere considerati delle vere e proprie sentinelle dei nostri mari; potremo intervistare cooperative di pesca, singoli pescatori, diving, scuole e circoli subacquei, mostrando la scheda che segue, chiedendo se hanno mai incontrato le specie riportate. Potremo così costruire una vera e propria mappa delle specie aliene presenti. Molti sub praticano fotografia subacquea e sono eccellenti fotografi: chiediamo i loro scatti sia per illustrare la mappa, sia per inviarli a Legambiente, assieme a data e luogo di incontro, che li farà pervenire all’ICRAM, l’istituto di ricerca che sta raccogliendo dati su questo argomento. Legambiente Mare - Via Salaria, 403 - 00199 Roma 73 LE SPECIE ALIENE Fistularia commersonii Pesce penetrato dal Mar Rosso, è molto lungo tanto da essere chiamato pesce flauto, fa parte della famiglia dei pesci ago, corpo cilindrico e coda con filamento centrale. Vive in ambiente pelagico costiero. Il colore normalmente è grigioverdastro sul dorso ed argentato sui fianchi. Negli adulti sono presenti righe e macchie blu. Generalmente è lungo da 20 a 100 cm ma può raggiungere 1,5 m. Siganus luridus e Siganus rivulatus Proveniente dal Mar Rosso. Il corpo è alto e compresso ai fianchi, ellissoidale. La bocca è piccola con labbra distinte. La coda è triangolare a volte forcuta e la pinna dorsale è lunga con grossi aculei terminanti con raggi sottili. La differenza macroscopica tra le due specie è data dal colore che per la prima specie varia tra il marrone scuro ed il verde, mentre per S. rivulatus è grigio-verde, con sfumature marroni nella parte posteriore e superiore, marrone chiaro-giallo sul ventre con bande giallo-oro, spesso sbiadite sulla metà inferiore del corpo; entrambe le specie non superano i 25 centimetri. Sono specie erbivore quindi si ritrovano prevalentemente in acque superficiali entro i 20 metri, su fondi ricchi di vegetazione. Sparisoma cretense È una specie mediterranea termofila presente sino a pochi anni fa solamente nelle isole Pelagie; è conosciuta come pesce pappagallo. Vive normalmente in harem costituiti da un maschio più grande colore grigio e verdastro e 4 o 5 femmine più piccole di colore rosso bruno e giallo. Ha comportamento territoriale e vive in ambiente costiero su fondali ricchi di vegetazione, di cui si nutre. Percnon gibbesi È un granchio proveniente dal Mar Rosso caratterizzato da un carapace piatto e circolare, con il margine anteriore tridentato; sui giunti degli arti ambulanti sono visibili anelli giallo dorato. La dimensione comune del carapace è di tre centimetri. Vive in pochi metri d’acqua in anfratti nelle rocce, si rinviene anche in ambito portuale e in barriere frangiflutti; vale la pena cercarlo in fase di decompressione o in sosta cautelativa con buone possibilità di trovarlo giacché si sta diffondendo ovunque molto rapidamente. 74 Seriola fasciata È una specie di pesce proveniente dall’Oceano Atlantico congenere della ricciola mediterranea con la quale può essere scambiata nelle fasi giovanili e dalla quale si distingue per avere le bande scure e un corpo meno affusolato. È grigia con bande scure quasi nere sul corpo, visibili anche negli individui adulti che non superano i 4 kg. È spesso catturata insieme alla ricciola mediterranea di taglia omogenea e si osserva spesso associata a corpi galleggianti come i cannizzati che i pescatori usano per la pesca alla lampuga, boe o oggetti alla deriva sotto i quali vive da giovane insieme alla ricciola mediterranea. Segnalata per la prima volta in Mediterraneo nel 1995 è oggi presente quasi ovunque. Balistes carolinensis Conosciuto come pesce balestra o pesce grilletto è una specie mediterranea termofila, presente nei mari meridionali ed oggi in rapida espansione verso nord. Caratteri distintivi sono la bocca piccola a forma di becco con labbra carnose e la forma del corpo appiattita lateralmente. Colorazione da verde brunastro a grigio; raggiunge una lunghezza massima di 40 cm. Nel periodo riproduttivo scava un nido nella sabbia dove la femmina depone le uova che vengono sorvegliate a turno con il maschio; i giovani sono spesso osservati associati a corpi galleggianti. Caulerpa taxifolia e Caulerpa racemosa Sono tristemente note per avere rapidamente invaso il mare. Sono alghe tropicali indopacifiche probabilmente sfuggite dagli acquari, dove vengono usate per il loro aspetto grazioso. La loro capacità invasiva è dovuta al fatto che il tallo spezzato è in grado di rigenerare un nuovo individuo. La Caulerpa taxifolia è così chiamata per la somiglianza delle sue fronde alle foglie dell’albero del tasso, lunghe circa 5 cm o poco più, di un bel colore smeraldo. La Caulerpa racemosa si riconosce per le fronde color verde brillante a forma di acini d’uva. 75 Scheda di segnalazione specie aliene Nome e cognome____________________________________________________ Indirizzo____________________________________________________________ E-mail______________________________________________________________ Telefono____________________________________________________________ Scuola-Circolo-Diving center____________________________________________ ___________________________________________________________________ Cooperativa di pesca_________________________________________________ Punto di immersione o pesca__________________________________________ ___________________________________________________________________ Profondità massima raggiunta__________________________Data____________ AMBIENTE DOVE È STATO AVVISTATO L’ESEMPLARE SABBIOS0 ROCCIOSO POSIDONIA ALTR0 FAI UN SEGNO SULLA SCHEDA DANDO UNA STIMA DEL NUMERO AVVISTATO Fistularia commersonii Siganus luridus e Siganus rivulatus Sparisoma cretense Percnon gibbesi Seriola fasciata Balistes carolinensis Caulerpa taxifolia e Caulerpa racemosa Unico Raro Frequente Abbondante 76 LA SCOGLIERA Costruire una scogliera in classe con le varie specie (granchi, mitili, patelle, pesci, alghe) osservate sul campo, indicando le loro relazioni trofiche e spaziali. L’attività proposta viene condotta direttamente sul campo e riguarda lo studio di un ambiente particolare. Con una serie di uscite condotte durante l’arco dell’anno scolastico i ragazzi dovranno identificare e classificare, con l’aiuto anche di manuali, tutte le differenti specie appartenenti ai vari taxa (le diverse categorie della classificazione tassonomica: specie, genere, famiglia, ordine, classe, phylum, regno) che riescono ad osservare nella scogliera e nelle acque sottostanti (piccoli pesci come bavose, tordi, saraghi, castagnole, occhiate, piccoli cefali, donzelle, possono essere individuate osservandole dalla superficie anche senza immergersi). Durante l’attività di esplorazione e rilevamento è importante riportare sulle schede la posizione esatta sulla scogliera (in una pozza, fuori dalla superficie, in acqua) in cui l’animale o il vegetale (alghe come Padina pavonia, Ulva lactuca, acetabularia sono comuni in questi ambienti) sono stati trovati. Il prodotto finale sarà uno spaccato della scogliera con l’indicazione di tutte le specie trovate, il loro numero totale (un elevato numero di specie è indice di un buono stato ambientale), la loro posizione spaziale (sopralitorale, infralitorale...) e il loro posto nella catena trofica; potrà essere utile aiutarsi con dei simboli e delle frecce che ne contraddistinguano i rispettivi ruoli e rapporti, in modo da ricostruire le biocenosi della scogliera. Scheda di rilevamento per la scogliera compilare una scheda per ogni specie Nome del raccoglitore________________________________ Data____________ Condizioni atmosferiche (sole, cielo coperto, molto nuvoloso, vento)_____________________ Marea (alta/bassa)___________________ Vegetale o animale___________________ Nome comune della specie____________________________________________ Nome scientifico_____________________________________________________ Descrizione_________________________________________________________ Indicazione del luogo dove si è trovata (libera in acqua, aderente al fondo o alla scogliera, fuori dall’acqua sulla scogliera, in una pozza di marea .....) ___________________________________________________________________ Quantità di individui osservati_________________________________________ Descrizione delle attività compiute (nel caso sia una specie animale) ___________________________________________________________________ Descrizione delle sue abitudini_________________________________________ Posizione nella catena alimentare (produttore, consumatore primario) ___________________________________________________________________ Schizzo o fotografia 77 Legambiente Nata nel 1980, è oggi l’associazione ambientalista italiana più diffusa sul territorio: oltre mille gruppi locali, venti comitati regionali, più di 115 mila tra soci e sostenitori. Obiettivo di Legambiente è fare della cultura ambientalista, delle sue ragioni e dei suoi princìpi, uno dei criteri fondanti di uno sviluppo e di un benessere di tipo nuovo, dimostrare che il miglioramento della qualità ambientale, la lotta contro ogni forma d’inquinamento, un uso parsimonioso delle risorse naturali, la costruzione di un rapporto più equilibrato dell’uomo con gli altri esseri viventi sono sì un valore in sé, ma anche una via efficace per rispondere alle grandi sfide del nostro tempo: quelle della modernizzazione dell’economia, dell’impegno per battere la disoccupazione, della lotta per la pace e contro ogni forma di terrorismo, dello sforzo perché la globalizzazione sia non solo merci ma soprattutto migliore qualità della vita e più diritti per quei miliardi di uomini e donne costretti a vivere nella miseria. Legambiente è un’associazione apartitica, aperta ai cittadini di tutte le convinzioni politiche e religiose; è riconosciuta dal ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare come associazione d’interesse ambientale; fa parte del Bureau européen de l’environnement, l’organismo che raccoglie tutte le principali associazioni ambientaliste europee, e della Iucn (The International Union for Conservation of Nature). Campagne, iniziative, proposte Queste le iniziative più popolari di Legambiente: le campagne nazionali di analisi e informazione sull’inquinamento (Goletta Verde, Treno Verde, Fiuminforma, Salvalarte), che ogni anno fotografano lo stato di salute dei mari, delle città, dei fiumi, dei monumenti; Mal’aria, la campagna delle lenzuola contro lo smog; Cambio di clima, programma di azioni per ottenere l’applicazione in Italia del Protocollo di Kyoto contro i mutamenti climatici e per favorire il risparmio energetico e lo sviluppo delle fonti rinnovabili; Piccola grande Italia, iniziativa per la difesa e la valorizzazione dei piccoli comuni; i grandi appuntamenti di volontariato, gioco e turismo ambientale per il recupero e la valorizzazione di spiagge, parchi e giardini pubblici, piazze, boschi (Spiagge pulite, Puliamo il mondo/Clean-up the world, Festa dell’albero, Cento strade per giocare, Nontiscordardimé/Operazione scuole pulite, campi estivi); le iniziative e proposte per promuovere la modernizzazione e la riconversione ecologica dell’economia e per realizzare una grande alleanza tra interessi dell’ambiente e del lavoro; l’attività di ricerca dell’Osservatorio su ambiente e legalità, che raccoglie e diffonde dati ed informazioni sui fenomeni d’illegalità che danneggiano l’ambiente e sulle ecomafie; l’impegno per una piena valorizzazione delle aree protette e delle economie territoriali basate sulla qualità; Legambiente per un’agricoltura italiana di qualità, campagna per promuovere le produzioni agroalimentari tipiche e pulite; le campagne e le iniziative per promuovere un nuovo modello di globalizzazione (Clima e povertà, progetti di cooperazione allo sviluppo); i Rapporti annuali sullo stato dell’ambiente: Ambiente Italia, Ecosistema urbano, Guida blu al turismo balneare, Ecosistema scuola. Legambiente per la scuola Legambiente Scuola e Formazione rivolge al mondo della scuola numerose proposte di lavoro il cui punto di forza è la connessione tra apprendimenti disciplinari, costruzione di competenze trasversali e formazione alla cittadinanza attiva. Numerosi i percorsi educativi: Un libro per l’ambiente, Rifiuti, Energia, TeatrAmbiente, Tesori d’Italia. Offre ai suoi soci occasioni di dibattito politico e culturale, consulenza per la realizzazione di progetti educativi nazionali e internazionali, materiali didattici e informativi. Oltre ai progetti educativi e alle iniziative rivolte ai ragazzi e agli adulti, l’associazione propone, attraverso la rete dei Centri di Educazione Ambientale, gemellaggi con le scuole dei piccoli Comuni italiani con il progetto La scuola adotta un Comune e proposte di turismo educativo, opportunità di incontro per confrontarsi con i coetanei e con realtà diverse. Legambiente Scuola e Formazione è ente qualificato a svolgere formazione per il personale scolastico. [email protected] Gli strumenti di lavoro Legambiente si avvale nella sua azione di diversi strumenti: un Comitato scientifico composto da scienziati e tecnici; i Centri di azione giuridica, impegnati in iniziative giudiziarie per la tutela dell’ambiente e in attività di studio, formazione, proposta; l’Istituto di ricerche Ambiente Italia, che opera nel settore della ricerca applicata e cura ogni anno il rapporto Ambiente Italia, edito a partire dal 1995 dalle Edizioni Ambiente di Milano; il mensile La Nuova Ecologia, inviato in abbonamento ai soci dell’associazione. Legambiente - Via Salaria, 403 - 00199 Roma tel. +39.06862681 - fax +39.0686218474 www.legambiente.eu - [email protected]