storia e istituzioni dei paesi afroasiatici

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Chiara Pozzan
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TRIESTE
FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE
CORSO DI LAUREA in Scienze Internazionali e Diplomatiche
A.A. 2011-2012 - II semestre
Insegnamento di
STORIA E ISTITUZIONI DEI PAESI AFROASIATICI
Prof. Diego Abenante
APPUNTI DELLE LEZIONI
Secondo modulo
XIII LEZIONE giovedì 05/04/2012
Appunti di Margherita Roiatti
La civiltà indiana
Induismo → termine che è in qualche modo improprio, molto eurocentrico, è stato l’occidente a
produrre definizioni di categorie con una matrice grammaticale europea a sfondo ideologico (-ismi).
Il mondo occidentale per meglio capire le religioni indiane ha cercato di trovare delle affinità e
somiglianze con le religioni semitiche.
Utilizziamo invece la definizione di “religione del Dharma”:
-­‐
In termini assoluti è la legge che sta a sostegno del mondo e dell’intero universo come prima
accezione → una sorta di ordine sociologico cosmico, universale che comprende tutto il
mondo animale, vegetale e le divinità (tutti gli esseri). Comprende proprio tutti a differenza
delle altre tradizioni religiose che sono esclusive e che descrivono se stesse come le sole ad
essere autentiche. L’induismo non è esclusivo in quanto non afferma di possedere una verità
assoluta ma accetta anche gli altri messaggi religiosi senza porsi con essi in competizione,
semmai li vede come le diverse manifestazioni del divino. L’indù tende a vedere il mondo
pieno di sacro, che è presente in ogni aspetto della vita e può assumere una varietà di
interpretazioni e rappresentazioni. Quando i musulmani sono entrati in india il mondo
indiano non ha avuto particolari difficoltà ad accettarli (tranne quando violenti e
conquistatori). L’induismo non ha neanche un libro sacro, a differenza delle religioni
semitiche: c’è un complesso di testi che collettivamente sono noti con il nome di Veda (il
sanscrito è la lingua liturgica dell’india antica usata dai sacerdoti brahmani) = la trama,
l’ordito (tradotto generalmente con il “sapere”). Si compone di 4 testi che sono la
rivelazione, antichissimi -l’india non si pone il problema della datazione-, si vogliono di
origine divina.
-­‐
in termini individuali può essere tradotto come il dovere soggettivo → Sva-dharma (Sva = il
sé). Si fa riferimento al gruppo di appartenenza del soggetto, non tanto all’individuo in
quanto tale). Il mondo indiano non considera rilevante l’individuo ma i gruppi di
appartenenza (ad esempio i gruppi di nascita)
1 La Sruti = “ciò che fu ascoltato”, il complesso della rivelazione → comprende i Veda e si distingue
dalla Smrti = “ciò che è ricordato”, la tradizione, testi di origine umana che sono testi diversi tra di
loro: trattati di legge, sul buon governo + testi epici (il Ramayana e Mahabarata).
Tutte le religioni semitiche sono storiche: partono con la prima manifestazione di Dio all’umanità e
da lì si fa partire la storia. Nell’induismo non troviamo questo momento mitico di partenza, il
mondo indiano non vede interruzioni nel tempo: concezione ripetitiva del tempo fatta di grandi cicli
temporali che si ripetono sempre → religione a-storica o mitica. Concezione del tempo che sfugge
alla dimensione umana. Grandi cicli storici in cui l’uomo è nulla. La ripetitività, la concezione del
tempo che ripete sempre se stesso con enormi cicli temporali lo distingue dall’islam, che ha una
concezione lineare del tempo. I cicli sono tra loro diversi, a ogni ciclo corrisponde una certa epoca e
una certa caratterizzazione della storia con diversi valori e divinità. La nostra epoca è considerata di
declino, crisi → kali-yuga (da Kali, la dea nera, la forza terrifica della natura -ciò che è distruttivo è
femminile-). L’individuo empirico è insignificante.
Quasi tutte le tradizioni religiose occidentali tendono a proiettare l’immagine di una società
egalitaria. Il mondo indiano è invece diseguale e gerarchico. Non c’è un’altra concezione del
mondo che abbia fatto della diseguaglianza un valore fondante, valore che è presente anche nella
stessa religione. Disuguaglianza in base alla nascita: al mondo indù si appartiene per nascita
-momento fondamentale- (non ci si può convertire né uscirne, anche perché ognuno fa parte del
Dharma). Ogni gruppo però ha un suo valore e ruolo (gerarchia); questi ruoli sono funzionali e ogni
funzione è religiosamente contrassegnata con un peso specifico nel dharma secondo quando
descritto dai testi vedici → idea religiosa, valori religiosi NON antropologici. La nascita è
importante perché ogni gruppo è contrassegnato da valori differenti e in base ad essi esiste una certa
gerarchia nella società: es. i sacerdoti secondo i veda sono i più importanti -li hanno scritti loro-; al
secondo posto c’è la funzione politico-militare dei principi guerrieri; al terzo posto i commercianti;
al quarto i servitori. È una società immobile tranne dopo la morte (però attraverso un procedimento
complesso).
Organicità e complementarità del sistema sociale: ogni parte è inscindibile dal tutto cui appartiene
(miti di smembramento di un corpo originario nei veda), società organica od olistica (da Ολος = “il
tutto”). Complementarietà: ognuno dei segmenti è essenziale alla vita del sistema. Diseguaglianza,
gerarchia, organicità, complementarietà sono le caratteristiche del sistema indiano.
Il mondo indiano non è monoteista, anzi ha una forte credenza sulla pluralità delle manifestazioni,
forme, incarnazioni del divino ≠ politeismo che da’ caratterizzazione negativa. C’è un grande
pantheon: Brahma, Shiva, Visnu ecc. Ogni aspetto della natura è divinità. L’induismo NON è una
religione monolitica e sistematica, anzi è una grande tradizione religiosa che si compone di tante
tradizioni religiose e della loro sovrapposizione. Queste idee, credenze, sette si sono sovrapposte e
hanno convissuto influenzandosi senza tentare di sopraffarsi a vicenda. Ci sono anche elementi
carnali, umani, popolari. Il buddismo è un’eresia dell’induismo da cui si sviluppa; i due hanno
coabitato nel subcontinente indiano per molto tempo. Tendenza generale all’antropomorfismo; ai
livelli più elevati dell’induismo ortodosso c’è l’idea dell’immanenza del sacro (non solo nel tempio
ma anche nella statua).
Il mondo indiano non ha una sua storia e le datazioni sono state date dall’esterno, sono frutto delle
narrazioni dei conquistatori e delle loro imprese. Tra le pochissime storie che hanno rilevanza per
costruire una cronologia di eventi ci sono quelle di alcuni regni posti ai confini (verso il Tibet, il
Nepal..) → zone influenzate da altre culture. Il definirsi è poco importante. India = nome con cui la
chiamavano i persiani e poi gli arabi (dal fiume Indo -dalla parte il tutto-).
L’unico modo per capire la religione del dharma è di procedere guardando ai veda e ai loro concetti
dominanti. Veda: troviamo due termini per definire l’assoluto:
2 1. come essere puro = Brahman.
2. come un assoluto umano, il principio immortale dell’assoluto che si trova in ogni essere, una
sorte di anima, essenza, soffio vitale: Atman.
Sono due concetti posti in un rapporto di complementarietà e opposizione: l’atman ha un istinto
perenne a cercare un ricongiungimento con il brahman. Con la morte l’atman si libera. Il principio
che è nell’uomo tende costantemente a ricostituire una sorta di unione originaria con il brahman.
Questa forza che tende a riunire l’uomo con l’assoluto è il motore dell’universo. L’individualità è
un fatto anormale della vita = degenerazione di un’epoca antica in cui l’assoluto era uno ed unico.
L’istinto a superare la divisione è il motore. Secondo i veda però si frappone un ostacolo tra l’atman
e il brahman, che è dato dalla vita, o meglio dall’azione. I veda rappresentano le azioni che gli
uomini compiono come causa di attaccamento alla vita e alla terra. L’atto, l’agire (che porta sempre
delle conseguenze secondo i veda) è detto Kàrman (karma). I brahmani come primo compito hanno
quello di compiere atti rituali, sacrificali e sono loro a scrivere i veda. Attaccamento = rinascere.
Dottrina inerente al ciclo di vita, morte e rinascita = Samsara → in realtà è un termine negativo in
quanto risultato dell’attaccamento. Agendo si è costretti a delle rinascite che sono infinite: anziché
ricongiungermi al brahman dopo la morte si è costretti a rinascere. La gerarchia non comprende
solo gli esseri umani. Potenzialmente si tratta di un ciclo infinito che dipende dal karma: compiendo
buone azioni, ciclo dopo ciclo si compie un’ascesa nella scala dei valori, ci si avvicina e ci si
ricongiunge al brahman e viceversa se si compiono cattive azioni. Il buono o cattivo karman
dipende dal proprio dharma, secondo cui bisogna comportarsi per giungere alla liberazione = moksa
(attimo in cui l’atman si ricongiunge al brahman). Questo organismo/sistema vivente è composto da
gruppi (≠ caste) detti Varna (= colore; la terminazione in –a è dal sanscrito, declinato al neutro, che
indica la funzione). Sono 4 gruppi teorici ai quali appartengono le persone così teoricamente
ordinate gerarchicamente:
1) Brahmana: funzione sacerdotale, religiosa. Fondamentale perché consente al mondo di
continuare ad esistere grazie ai riti compiuti dai bramani. Simboli: Testa; Bianco (purezza)
2) Ksatriya: funzione politico, militare. Ci vuole qualcuno che difenda il sistema: il principe
guerriero. Simboli: Busto-braccia; Rosso.
3) Vaisiyia: attività mercantile, finanziaria, economica (soldi, ricchezza). Il Vaisiyia è colui che
deve procurare la ricchezza e metterla a disposizione del sistema. Simboli: Bacino (fertilità)
o gambe; Giallo (ricchezza).
4) Sudra: servi. Devono servire i varna superiori, hanno i compiti più umili. Simboli: Piedi;
Nero (terra).
C’è complementarietà: il Brahmana non potrebbe mai usare la violenza e nemmeno governare (dal
momento che per governare è necessario usare la violenza) e quindi ha bisogno del Ksatriya che lo
difenda; a sua volta quest’ultimo ha più bisogno di altri del Brahmana poiché ha anche il compito di
uccidere -è il suo dharma- → più lui compie il suo dovere più si può allontanare dal moksa e
compiere anche azioni immorali, pertanto è indispensabile un Brahmana personale che con un atto
rituale purifichi il suo karman. Senza il Brahmana il karman del Ksatriya è solo violenza pura, che è
inaccettabile se non ricondotta in una dimensione legittima dei valori. Le più grandi riflessioni sono
nate da k. e da lì anche molte eresie. Il Vaisiyia è colui che commissiona il rito, è il sacrificatore, e
il Brahmana è il sacrificante. Il Sudra deve reggere il sistema. I varna sono descritti come ciò che
resta del sacrificio originario di smembramento dell’uomo cosmico. I Sudra sono i più vicini alla
terra ma anche coloro che devono reggere il tutto. Massima complementarietà tra Brahmana e
Sudra: le attività del Sudra garantiscono la purezza del Brahmana. NON è assolutamente una
gerarchia di ricchezza o potere! Il Brahmana è il più povero e indifeso e sarebbe ultimo sul piano
quantitativo in occidente, invece nell’universo indiano è il primo per valore. Il Ksatriya ha il potere
ma non necessariamente la ricchezza e non ha valore religioso.
3 Altri 4 concetti accanto alla distinzione dei varna: le 4 finalità dell’agire umano che trovano
collocazione nei vari varna:
1) Moksa: la liberazione, ricongiungimento dell’atman con il brahman; è un fine che si pone al
di fuori del mondo a differenza degli altri tre. Fine che hanno tutti e 4 i varna e hanno un
riferimento precipuo nei Brahmana che sono per loro natura e funzione più vicini al
brahman.
2) Dharma: ordine, legge, dovere socio-cosmico. E’ un fine collettivo: si riferisce soprattutto ai
Brahmana che hanno in esso il proprio riferimento principale. Più scendiamo qui, più ci
spostiamo verso fini materiali ed individuali.
3) Artha: potere e ricchezza, è proprio sia di Krsatriya che di Vaisiya.
4) Kama: desiderio sessuale, fisico: tutti gli impulsi-fini dell’uomo sono parte della natura e
devono essere perseguiti, purchè nella giusta gerarchia da I a IV. Lo Sudra ha come fine a
lui più collegato il Kama.
4 XIV LEZIONE lunedì 16/04/2012
Appunti di Chiara Pozzan
In India, diversamente dal mondo occidentale e contemporaneo, il sacro/il religioso non è staccato
dalla vita quotidiana delle persone ma ne fa parte. Le concezioni astratte trovano concretizzazione
nelle persone, soprattutto nel sistema castale. Rapporto uomo-sacro: presenza del bramanico, del
sacrificio.
Per comprendere la società indiana non si può partire da testi storici o religiosi e da teorizzazioni.
Qualunque pubblicazione seria che tratti delle origini e della storia dell’induismo deve specificare
che ci si basa su pure supposizioni, non ci sono reali riferimenti specifici. I fenomeni settari
eterodossi dell’induismo, che spesso ne estremizzano un aspetto (il buddismo è il più famoso),
hanno fatto storia, nel senso che forniscono delle datazioni, sentono il bisogno di raccontare se
stessi, narrare le proprie origini e le gesta dei fondatori.
Grande fine di tutti gli esseri umani: ottenere il ricongiungimento con il principio dell’atman, la vita
nel mondo terreno è solo un mezzo. Né dio né l’io fanno storia, non si pongono come soggetti nel
mondo. Louis Dumont ha scritto che l’unità base della società indiana non è l’individuo ma una
unità composta da almeno una coppia di soggetti; c’è sempre una relazione alla base della società
indiana, sarebbe sbagliato scinderla in atomi composti da singoli individui *.
I quattro varna definiscono l’uomo che vive nel suo mondo, che è parte della società, di un
complesso di relazioni = “uomo nel mondo”. La mentalità indiana concepisce un disegno in cui
l’uomo è prigioniero di questa rete di relazioni, c’è una visione tendenzialmente negativa della vita
dell’uomo, che ambisce a liberarsi da questa rete. L’uomo non è altro che parte di una infinita
catena, è un fascio di debiti che deve pagare: il rito sacrificale (cibo, acqua, latte, altre sostanze)
serve a rendere omaggio ai propri avi, a riconoscere il proprio debito di riconoscenza nei confronti
di chi lo ha preceduto. Allo stesso modo l’uomo deve tener conto anche dei suoi successori, ha
l’obbligo di portare avanti la discendenza.
Ciclo: studente bramanico che studia i testi sacri presso un guru → finiti gli studi entra nella società
a compiere i suoi ruoli, diventa capo di famiglia. L’uomo indu ortodosso deve fare figli per
garantire la continuità, la ripetizione del moto. E’ però prevista anche una via di uscita: il mondo
indiano prevede la possibilità che un uomo (con determinate caratteristiche e forza di volontà)
decida di non continuare ad essere prigioniero di questi legami e di uscire dal mondo ricercando da
solo la propria liberazione (esiste una certa comprensione dell’impulso dell’individuo a voler essere
libero). E’ previsto che l’uomo possa liberarsi della rete di relazioni di cui è prigioniero solo
uscendo dal mondo, diventando così un rinunciante, un sannyasin. Tendenza tipicamente indiana
nel tenere uniti gli opposti: non c’è un’estremizzazione dei concetti, i concetti si accompagnano alle
loro eccezioni, alle alternative. I testi vedici disciplinano il fenomeno della rinuncia ponendo dei
paletti per garantire il naturale fluire delle cose nonostante la “frattura” dell’ordine naturale creata
dall’uscita dal mondo di questi individui. L’uomo uscito dal mondo deve rispettare degli obblighi:
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si può uscire dal mondo solo dopo una certa età -dopo aver visto i propri nipoti- → la
discendenza è assicurata, si ha pagato il debito dovuto nei confronti del mondo
la rinuncia dev’essere individuale, non di gruppo, altrimenti non rappresenta un sacrificio
(anche se in realtà il rinunciante può essere a capo di una comunità di persone che lo
seguono e lo vedono come illuminato -guru-)
non si può rientrare nel mondo, se non come il più impuro degli esseri
bisogna appartenere a uno dei primi tre varna (brahmana, ksatriya o vaisiya) perché gli
appartenenti al 4° varna, i Sudra, non hanno accesso ai testi vedici.
5 * Non è del tutto vero che il mondo indiano non concepisce l’individualismo, perché il rinunciante,
se vogliamo, compiendo questo gesto “si fa individuo”, è un uomo che vuole cercare se stesso da
solo (concetto più comprensibile alla società occidentale). I testi vedici individuano nel Karma la
fonte principale di attaccamento al mondo, è l’azione che crea il mondo, è l’agire, il fare. Più si
agisce più si rimane attaccati al mondo. Il karma è atto, è un’azione, ed ogni azione ha delle
conseguenze che a loro volta ne comportano delle altre. Se è così il rinunciante, che vuole
concentrarsi su se stesso e raggiungere da solo la propria liberazione, per essere individuo e
sfuggire al ciclo perenne di rinascite, deve rinunciare ad agire.
4 stadi della vita del bramano:
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studente bramanico
capo di famiglia
abitatore della foresta, dove l’uomo inizia il suo percorso individuale (stato intermedio)
rinunciante
La rinuncia nasce come fenomeno di rottura della tradizione bramanica, ma per evitare il conflitto
la rottura è stata incorporata all’interno del sistema di valori, del percorso ortodosso bramano e ne
diviene addirittura il compimento. Questo è un aspetto interessante: un fenomeno che nasce come
rottura diviene istituzionalizzato. Nella tradizione indiana la rinuncia ha acquisito un’importanza
talmente elevata da essere incorporata nel percorso standard del bramano. Testi che parlano della
rinuncia: Upanishad o Vedanta (= il compimento dei veda, il loro epilogo). Come abbiamo visto
quello della rinuncia è un sistema abbastanza elitario, per questa ragione è chiamata anche “la via
della conoscenza”.
Il rinunciante rinuncia al karman (all’azione) e si allontana dal mondo. NB: l’atto (karman) per
eccellenza è l’atto sacrificale → simboleggia la vita sociale e familiare (i riti si compiono prima dei
pasti, i capi famiglia dedicano parte del cibo alle divinità, agli antenati). Il rinunciante quindi smette
di compiere il rito, di sacrificare, non agisce, si da’ all’immobilità. Per questo viene rappresentato
nei testi come un essere immobile, che non agisce, si concentra su se stesso e attende la liberazione,
la morte (un guru ortodosso vede la morte come una liberazione dall’essere terreno, è vista come
una cosa positiva).
Perchè il sannyasin possa raggiungere la liberazione deve recidere tutti i suoi legami, deve essere un
asceta; però può diventare anche un guru, un maestro ed essere seguito da una comunità di
discepoli, che quindi lo tengono legato al mondo (contraddizione). Giustificazione: pur potendo
raggiungere la propria personale liberazione per via ascetica vi rinuncia o la posticipa per
compassione degli altri, per far loro da maestro e insegnare loro la retta via per farli giungere a loro
volta alla liberazione.
Tendenza a ricercare nuove vie di liberazione che potessero abbracciare anche altri gruppi inferiori
appartenenti al mondo indiano oppure le donne, che secondo la visione ortodossa non possono
avervi accesso direttamente ma soltanto attraverso delle rinascite interiori → la donna dopo la
morte è destinata a ricongiungersi all’uomo, non può accedere da sola alla liberazione (mondo
patriarcale e gerarchizzato). La donna tende in parte a recuperare status in certi fenomeni specifici
dell’ortodossia (es. sacrificio della vedova) ma soprattutto all’interno dell’eterodossia (varie sette
tantriche, pratica dello yoga), in cui diventa addirittura il simbolo della liberazione, una via diretta
ad essa in quanto rappresenta la forza femminile primordiale (che è benefica se complementare al
maschile, malefica se abbandonata a se stessa → vd. fenomeni violenti della natura,
tradizionalmente femminile).
Fenomeno particolare in cui la donna assume rilevanza fondamentale: Sati = sacrificio della
vedova. Consuetudine tristemente famosa (vietata dagli inglesi durante la colonizzazione) ma non
6 poi così diffusa: la vedova si sacrifica sul rogo funerario del marito. La morte violenta in genere
crea dei problemi nella continuità del dharma, che dovrebbe fluire liberamente senza interruzioni.
Perché il dharma possa essere sanato è necessaria una forma di ricomposizione, e dato che la
mentalità indu riconosce una forte potenza al femminile, la sposa dell’uomo morto di morte violenta
sacralizza e santifica la sua morte sacrificandosi a sua volta. Fenomeno che si verifica più spesso tra
le classi guerriere per ovvie ragioni. NB: nel mondo bramanico la Sati è un’eccezione, è considerata
una forza pericolosa, non è di per sé veicolo di liberazione, dev’essere tenuta sotto controllo.
Diventa veicolo di liberazione a livello eterodosso, soprattutto nel tantrismo, che ribalta i valori
ortodossi (l’impuro diventa puro, ad es. sangue, sesso ecc.)
La Bhakti
Il mondo bramanico apre pochi spiragli alla liberazione. La più forte spinta all’evoluzione è stata
proprio la ricerca di nuove forme, se vogliamo più democratiche, di liberazione. Una di esse è la
Bhakti, la “devozione” (terza via di liberazione dopo rinascita e rinuncia).
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Si tratta del primo fenomeno di monoteismo indu. Strano che l’induismo, religione di
opposti, preveda anche il monoteismo. E’ un aspetto rivoluzionario: per la prima volta il
fedele si concentra sul rapporto individuale con la divinità, che però può non essere sempre
la stessa. Nella maggior parte dei casi si tratta della figura di Krshna, una manifestazione del
dio Vishnu, una sua incarnazione (avatar), ma ne esistono anche altre.
La Bhakti è l’unico aspetto dell’induismo che si basa su un rapporto diretto uomo-divinità,
senza più intercessioni e mediazioni da parte del bramano: altro aspetto storicamente molto
importante → fenomeno di rinnovamento religioso ma anche sociale, in quanto mette in
discussione la figura del bramano, è un movimento anti-elitario, anti-sacerdotale: nella
Bhakti ognuno è sacerdote di se stesso.
Rivoluzionaria anche per la sua democraticità: apre la liberazione a tutti, donne comprese.
Inoltre la Bhakti valorizza la comunità, le tradizioni locali: i templi Bhakti sono dedicati a divinità
del luogo, i culti vengono eseguiti recuperando le lingue pracrite (≠ da sanscrite)
NB: La religione Sikh è nata nell’india nord occidentale tra 1400 e ‘500 dall’incontro tra la
tradizione Bhakti e culti popolari sufi. Col tempo ha acquisito una propria autonomia fino a
distaccarsi e diventare una religione indipendente sia dall’induismo che dall’islam.
Testo alla base della fondazione della Bhakti, uno dei più famosi della tradizione letteraria indu =
Bhagavadgita, capitolo in 700 versi di un grande poema epico nonché uno dei più importanti testi
sacri dell’induismo, il Mahabharata, che significa “il grande poema di Bharat” e racconta vicende
di dei, eroi e guerrieri. Narra uno scontro tra due famiglie di principi guerrieri (i Pandava e i
Kaurava) imparentate tra di loro. Dialogo tra due guerrieri, Arjuna e il suo auriga, colui che guidava
il suo carro, che in realtà è il dio Krshna sotto mentite spoglie. Il dialogo rappresenta il guerriero
posto di fronte agli atti che sta per compiere, tutti i suoi dubbi e le sue incertezze. Arjuna non sa se
combattere o meno, se è giusto compiere il proprio dovere di guerriero oppure no, teme l’idea di
uccidere i suoi parenti e il suo guru, che appartiene alla famiglia nemica, sostiene che tali atti
sarebbero contro il dharma. L’auriga gli da’ una serie di risposte: le prime due appartengono a
concetti già noti nel mondo indiano, l’ultima apre la strada alla via della Bhakti.
1. Inizialmente lo esorta a combattere perché tale azione è prevista dal suo dharma e non gli
precluderebbe la liberazione
2. Poi, di fronte ad altre obiezioni di Arjuna, Krshna chiarisce che l’uccisione dei parenti
sarebbe solo simbolica: avrebbe ucciso solo i loro corpi, ma non il loro atman.
3. Infine gli dice che non deve né compiere il suo dovere né rinunciarvi: deve combattere,
compiendo quindi il suo dharma, ma con animo puro, non desiderandone il frutto delle sue
7 azioni, il quale dev’essere devoluto alla divinità → così potrà agire senza provocare il suo
attaccamento al mondo e avvicinandosi ugualmente alla liberazione.
Per la prima volta si accetta la possibilità che l’uomo possa diventare asceta senza distaccarsi dal
mondo, non rinunciando al karman, all’azione ma semplicemente rinunciando ai suoi frutti. L’uomo
è dinamico, attivo nel mondo ma offre il frutto delle sue azioni alle divinità, purificando così
l’azione stessa che non è più mezzo di attaccamento al mondo ma addirittura diventa essa stessa
veicolo di liberazione. Ecco fondata la via del “distacco dall’azione” o del “distacco dal mondo”,
pratica chiamata anche karmayoga. Influenza enorme nel pensiero indiano: al principio della Bhakti
si sono ispirati tantissimi personaggi importanti, Ghandi compreso. Per la prima volta c’è
un’apertura concreta della via della liberazione al mondo, a tutti gli esseri. Ha origine qui tutto il
fenomeno delle correnti yoga, che si basano sulla rinuncia del pensiero, del desiderio, più che sulla
rinuncia concreta. E’ uno stato di rinuncia che si ottiene attraverso esercitazioni, il passaggio
attraverso vari stadi mentali. Vengono elaborati diversi metodi di rinuncia sulla base di questo
principio → pratiche che mirano all’immobilità mentale, a svuotare la mente (alter ego
dell’immobilità fisica del rinunciante).
Il pensiero indiano ha gradualmente aperto la strada alla liberazione ma al contempo ci tiene a
salvaguardare la continuità del mondo, la coesione sociale secondo l’ortodossia.
Altre correnti eterodosse che si rifanno al tantrismo, che seguono l’esempio dei tantra si fondano su
testi della tradizione vedica che danno grande rilevanza all’aspetto della forza femminile,
forniscono un insegnamento rituale e si basano su una concezione del divino come formato
dall’unione tra dio e la sua controparte o radice femminile (Shakti). Nelle correnti più estremiste la
valorizzazione eccessiva della Shakti rispetto al dio si accompagna alla valorizzazione di tutti
quegli elementi negati dall’ortodossia: dieta carnivora, culti sanguinari, uso del sesso fine a se
stesso sono esaltati fino a diventare il veicolo stesso della liberazione → detto anche ”tantrismo
della mano sinistra”.
8 LEZIONE XV venerdì 20/04/2012
Appunti di Valentina Angioli
Il mondo indiano prevede una serie di vie di liberazione, marga:
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Samsara, via delle rinascite e del sacrificio rituale (karma-marga).
Sanniasyn, via della gnosi, della conoscenza (jnana-marga), uscita dal mondo. Tipicamente
la via di liberazione del brahamano. È probabile che i bramani siano stati portati a sviluppare
le caratteristiche di non violenza, vegetarianismo e a creare le vie della rinuncia. La
Sanniasyn ha uno sviluppo lineare, è una forma eterodossa che poi viene istituzionalizzata.
Man mano che ci si sposta da queste prime due vie si prendono le distanze dal bramanesimo
ortodosso. C’è comunque un’osmosi tra le diverse tradizioni.
Bhakti, via della devozione (bhakti-marga), devozione a Dio e rinuncia al risultato
dell’azione.
Shakti-marga, via della forza femminile, tantrismo. L’ambito della shakti è puramente
eterodosso, fonda la propria visione su alcuni testi che sono parte della tradizione vedica ma
estremizzano un aspetto che nell’ortodossia ha un ruolo marginale. La forza femminile nella
cultura indiana è mondo, quindi sinonimo di attaccamento, vita terrena e sofferenza. Nella
visione ortodossa la forza femminile viene venerata sotto diverse forme (terra, acqua, alberi)
ma si ritiene debba essere mantenuta sotto controllo attraverso l’unione con la parte
maschile. La complementarietà è essenziale per mantenere l’equilibrio del creato. L’idea
dell’unione tra il Dio e la forza femminile (la shakti) non è nuova nell’ortodossia: la forza
femminile connessa alla divinità viene spesso rappresentata però con il tantrismo ci sono
delle trasformazioni. Il tantrismo tende a vedere l’unione dio-forza femminile come
l’aspetto essenziale (non è più secondario ma è l’aspetto per eccellenza). In questo rapporto
è la shakti ad essere preponderante, al punto da diventare il veicolo che porta alla
liberazione. Molto spesso la via del tantrismo presenta molti aspetti cruenti, sanguinari:
nelle correnti più estreme ci si contorna di simboli di morte e distruzione. Shiva è la divinità
per eccellenza della rinuncia, il dio asceta per eccellenza e anche dio della morte. Il tema
della morte è spesso presente nella cultura indiana, non è un concetto estremo, è nella natura
delle cose. In ambito tantrico è ancora più enfatizzato. Kali è una delle più famose
rappresentazioni della shakti. (Fenomeni di trance, delirio -il sacerdote della shakti viene
posseduto-, tendenziale rovesciamento di valori).
L’induismo concreto nasce proprio dall’interazione tra i due ideali di uomo nel mondo e fuori dal
mondo. Gli ulteriori sviluppi nasceranno dalla tendenza a estrapolare uno o più aspetti e ad
assolutizzarli. Attraverso il fenomeno delle sette -le comunità che si staccano dal corpo principale
dell’induismo- si avranno il buddhismo, il jainismo (chiamate anche eresie dell’induismo). Vi
troviamo l’estremizzazione di alcuni aspetti che nell’ortodossia sono mantenuti in equilibrio:
l’aspetto della negatività della vita terrena, il principio dell’ahimsa (assenza del desiderio di
uccidere, non violenza).
Nel mondo delle sette si ha una separazione tra laici e religiosi, il che è paradossale se consideriamo
che nel mondo ortodosso la dimensione sociale e quella religiosa sono sovrapposte → rottura del
mondo organico, negazione di ciò che l’induismo rappresenta. Questo però non porta a conflitti
grazie alla tolleranza del mondo indiano nei confronti delle diverse espressioni del sacro. Capacità
di convivere anche nel senso materiale: contatto anche quotidiano tra bramani e monaci jain o
buddhisti, influenze reciproche.
Solo in epoca contemporanea si sono create delle frizioni tra le diverse correnti. Negli anni ’50
alcune caste inferiori hanno dato vita a movimenti di protesta, seguendo Ambedkar e promuovendo
una conversione simbolica di massa al buddhismo.
9 Passando dal modello teorico dei Varna a quello sociale si parla del concetto di casta. Il termine
“casta” è di derivazione occidentale, di origine ispano-portoghese ed indicava qualcosa di non
mescolato, separato. In origine per gli spagnoli aveva il significato di “razza” e poi venne applicato
agli indiani dai portoghesi a partire dal ‘400. Il termine inglese “cast” figura già dal ‘600. Il termine
indiano è jati, che è intraducibile ma porta in sé il concetto della nascita, del sangue di
appartenenza. Possiamo definire la jati come un gruppo di nascita, organico, sacralizzato,
gerarchizzato ed endogamico.
Le teorie sull’origine delle caste sono state diverse, ma hanno il difetto di essere tutte teorie di
origine europea. Il difetto fondamentale è stato quello di cercare di fare riferimento al modello
sociale occidentale, la tendenza a trovare analogie tra gruppi esistenti in Europa e gruppi castali:
•
•
•
Tentativo degli studiosi di spiegare, atteggiamento esplicativo.
A fine ‘800 c’è un tentativo di descrizione del sistema delle caste.
Dal 1945 in poi emergono studi intensivi sul campo di tipo antropologico. Prevale la
precisione descrittiva delle singole caste, a livello “micro”.
Dal punto di vista della volontà esplicativa si distinguono:
•
Teorie volontaristiche: si tentava di spiegare il sistema castale come originato dalla volontà
diretta di qualcuno. Tutte le società europee venivano pensate come risultato di un lavoro di
antichi legislatori e quindi lo stesso modello si applicava al mondo indiano. La dimensione
religiosa contribuiva a vedere in questo sistema il risultato di un’opera creativa. L’influenza
illuministica spingeva a dare una connotazione fortemente negativa del sistema castale, visto
il rifiuto della religiosità. L’abate Dubois, pur avendo un atteggiamento illuminista,
descriveva la divisione in caste come il capolavoro della legislazione indiana. Senza le caste
il popolo si sarebbe abbandonato alla barbarie. James Mill, nel 1824, dopo aver evidenziato
la parentela tra le caste e altre istituzioni simili in Iran e altri paesi, spiega che la divisione
del lavoro avviene da sé, a seguito del passaggio dalla vita pastorale a quella agricola.
•
Casta è l’esempio limite di qualcosa di già noto in occidente. I gesuiti presenti in India si
trovarono a contatto con un mondo che sembrava rigettare i principi del cristianesimo
(uguaglianza, fratellanza) ma finirono per adattarvisi. L’adattamento della visione cristiana
ai riti locali era visto dai gesuiti come il modo più efficace per convertire le popolazioni ma
dalla Chiesa erano condannati. Si parla di riti Malabarici (anche con riferimento alla Cina).
Negavano il valore religioso della casta e lo assimilavano a gruppi familiari/professionali già
presenti in Occidente. Max Muller afferma che la casta non è altro che una particolare forma
di distinzione per nascita che esiste ovunque solo che in Europa non si cercano
giustificazioni religiose. Max Weber la legittima come un gruppo affine a quanto esisteva
già in Europa, un particolare gruppo di persone con lo stesso status (come i tre stati
dell’ancien regime). Distinzione soprattutto sociale e professionale: l’aspetto religioso è
considerato marginale, al massimo è una facciata applicata a posteriori per giustificare il
sistema.
•
Spiegazioni storiche che fanno riferimento a eventi del passato. Molto spesso sono teorie
che fanno riferimento a mitiche invasioni del continente indiano, la più in voga è l’invasione
delle popolazioni indoeuropee. Studiando le varie assonanze tra le lingue indiane e quelle
extra indiane si era notato che c’erano delle affinità tra la lingua hindi moderna e le lingue
iraniche. Si da’ per scontato che gli invasori si siano posti come dominatori e abbiano
sottomesso le popolazioni autoctone. Da questa invasione è nato il principio della gerarchia
castale che poi sarebbe diventato via via più complesso. Il problema è che non c’è alcuna
10 prova storica che questa migrazione sia davvero avvenuta, l’unico elemento è l’affinità
linguistica.
Dal 1945 gli studi antropologici sono stati compiuti a livello micro, lo scopo è la comprensione di
aspetti singoli del sistema. Vd. Dumont (autore di Homo Hierarchicus) → la sua spiegazione è
quella dominante ancora oggi. La caratteristica essenziale del suo pensiero è quella di non
considerare il sistema castale come un unico sistema ma come un sistema complesso rappresentato
da una serie di tanti micro-sistemi locali. È impossibile fare un censimento a livello nazionale delle
caste, le gerarchie variano da regione a regione anche a seconda del criterio preso in considerazione.
Il criterio dominante è la distinzione puro/impuro: da un lato il bramano esprime il massimo della
purezza, dall’altra una casta intoccabile rappresenta il massimo dell’impurità. Per capire nel
dettaglio il sistema bisogna osservare a livello micro come le caste si strutturano tra di loro.
11 LEZIONE XVI lunedì 23/04/2012
Appunti di Chiara Pozzan
L’atteggiamento europeo nei confronti delle caste ha avuto un’evoluzione: si ha un passaggio da un
atteggiamento esplicativo a uno descrittivo-esplicativo. Nel dopoguerra la descrizione prende il
posto dell’esplicazione, a eccezione di Dumont.
Il mondo occidentale mette insieme potere e autorità, nel mondo indiano invece l’autorità è del
brahamano, il potere dello ksatria.
L’antropologia ha portato ad un apprezzamento del significato religioso della casta. Il grande
passaggio è stato da un’illusione di poter comprendere la logica dell’intero sistema allo studio di
casi singoli, sottosistemi, a livello micro. Facendo un percorso a ritroso Dumont è riuscito a
giungere a una comprensione generale del sistema pur partendo dal singolo caso.
Bouglé: il sistema delle caste vede la società suddivisa in grandi gruppi distinti, caratterizzati da 4
elementi:
•
•
•
•
Separazione (cibo, matrimonio, contatti diretti)
Divisione del lavoro
Interdipendenza
Gerarchia
Ciò che non era stato colto era il fatto che queste classificazioni si modificano in maniera infinita da
regione a regione. Il sistema delle caste non è omogeneo in tutta l’India. Non sempre sono presenti
tutte le caste che rappresentano i 4 varna, diventa fondamentale conoscere la storia della singola
regione. Può mancare il varna guerriero perché il territorio è sicuro e non c’è mai stata l’esigenza di
avere guerrieri specializzati. Può anche succedere che nel tempo si faccia viva la necessità di una
casta di guerrieri, esiste una certa mobilità all’interno del sistema per cui un gruppo può diventare
specializzato in attività diverse dalle proprie, molto dipende dalle contingenze storiche. La
distinzione in varna è solo un modello di riferimento, in realtà le jati sono molte di più e i nomi il
più delle volte sono professionali/etnici/geografici.
Processo di proliferazione e frammentazione: le caste tendono a segmentarsi tra di loro. È difficile
che una casta mantenga la sua unità se è molto estesa territorialmente. In un certo territorio avremo
una serie di caste sudra, una serie ksatria, una serie brahmaniche. Queste caste hanno una serie di
rapporti complessi tra di loro, c’è una grande mobilità. L’idea comune del sistema castale come
immobile è falsa, c’è grande flessibilità però non ci si muove mai individualmente, solo in gruppo.
Il fenomeno della formazione di nuove caste è stato comunissimo. La mobilità avviene perché si
cerca di innalzare il proprio status. Nella pratica ciò avviene assumendo funzioni proprie di gruppi
più elevati, imitandoli. Il varna dei guerrieri è stato storicamente un grande strumento di ascesa
sociale.
Il potere in india dev’essere associato necessariamente anche allo status (il mondo indiano è
profondamente gerarchizzato → vd varna) e ai valori (ksatiya??). L’indicatore dello status è come
gli altri ti considerano, non come tu consideri te stesso: ha molto a che fare con la proiezione verso
l’esterno della tua identità (è molto simile al concetto occidentale di opinione pubblica).
Panchayat = assemblea, antichissima forma di giustizia della casta, è legata alla sacralità del
numero 5 (in origine composta da 5 saggi), è un organismo non permanente con una struttura
flessibile, si convoca e si scioglie a seconda delle esigenze, può avere un’estensione geografica più
o meno ampia, può comprendere un’intera casta o anche più di una, svolge diverse funzioni a
12 seconda che il suo operato sia volto più verso l’interno (per fare giustizia nella casta) o l’esterno
(per difendere lo status della casta e dei suoi membri) del gruppo.
L’intera casta (o un suo segmento) può decidere di elevarsi (oppure può anche muoversi verso il
basso violando i meccanismi della casta). C’è la tendenza di molte caste, ad esempio, ad imitare lo
stile di vita del brahmano per migliorare il proprio status. Questo concetto è stato analizzato da
Srinivas, un antropologo indiano che ha coniato il termine “sanscritizzazione” = “puntare in alto”,
non tanto dal punto di vista concreto, del lavoro ecc. ma dei costumi → ad es. diventare vegetariani,
monogami, non violenti come i brahmani. Assumendo queste caratteristiche la società in cui vivo
comincerà a percepirmi come appartenente a una casta più elevata. Molte caste al centro del sistema
hanno uno status molto simile, mentre quelle inferiori o superiori tendono ad estremizzare il proprio
status.
Per quanto riguarda i matrimoni l’endogamia è il principio generale: ci si sposa tra membri della
stessa casta. Nel caso in cui ci si sposi con una persona appartenente ad una casta diversa si parla di:
•
•
•
Isogamia: matrimonio tra membri appartenenti a caste diverse ma dello stesso (o simile)
valore sociale
Ipergamia: quando una casta da’ le proprie donne a membri di una casta superiore.
Ipogamia: quando una casta da’ le proprie donne a membri di una casta inferiore (caso
puramente teorico, significherebbe accettare la regressione sociale).
La casta è un gruppo antropologico di sistema. Le sue relazioni e interazioni con le altre caste sono
molto importanti. Dal punto di vista antropologico è fondamentale lo ksatiya?? ma è impossibile
comprendere la casta senza prendere in considerazione anche i varna. C’è stata un’osmosi,
un’influenza reciproca tra i 2 concetti. I valori e il vissuto sono due fattori che non si possono
prescindere per poter comprendere il sistema castale.
Dumont sostiene che il sistema castale non può essere analizzato e compreso a livello nazionale ma
solo locale, perché è composto da tanti micro-sistemi. La contrapposizione puro/impuro è
essenziale. Ogni casta è inferiore a quelle che la precedono è superiore a quelle che la seguono e
tutte sono comprese tra due estremi -purezza e impurità-. Nascita e morte nel mondo indiano sono
considerate le fonti primarie di impurità. Altri hanno spiegato l’idea dell’impurità in riferimento
all’aspetto organico, carnale, materiale della vita (sangue, decomposizione ecc.). NB: siccome
nascita e morte riguardano tutti, tutti siamo colpiti dall’impurità, che quindi è un fattore fisiologico,
naturale e non patologico → può essere sanata ricomponendo così il dharma (attraverso riti,
sacrifici, offerte).
•
•
L’acqua corrente è un elemento sacro (vd fiumi) → esce dalla terra, porta vita e distruzione,
è simbolo del passaggio verso l’eternità.
Il latte è un altro elemento sacro, rigenerante, che all’interno delle cerimonie costituisce un
agente purificatore molto importante (la vacca ha finito storicamente per simboleggiare il
brahmano e identificarsi con esso).
La patologia sorge quando la casta è specializzata in un mestiere che la pone costantemente in
contatto con le fonti primarie di impurità (levatrice, spazzino, macellaio, conciatore). In questi casi
l’impurità è connaturata alla vita di quella casta, non è più sanabile, e l’unica possibilità di salvezza
per gli appartenenti alle altre caste è quella di allontanarsene, di evitare il contatto e il contagio. Nei
casi più estremi l’”intoccabile” è un emarginato sociale, deve segnalare la sua presenza affinché gli
altri possano cambiare strada ecc. NB: l’impurità non significa necessariamente emarginazione
economica e sociale. Alla casta “impura” possono essere demandati molti compiti essenziali per la
società che altre caste non possono svolgere (es. custodi della città → sempre a contatto con
forestieri potenzialmente impuri). Così tali caste possono mantenere la propria posizione nella
13 società, sono ben remunerate e tenute in considerazione. Il principio prestazione-controprestazione
è fondamentale nel sistema indiano castale: ogni casta ha i propri compiti che sono ugualmente utili
alla società. Il brahmano deve mantenere il suo grado di purezza sempre elevato, trascorre la sua
vita nell’ossessione di contaminarsi, deve tenersi lontano da qualsiasi fonte di impurità. Se il
brahmano viene contaminato non può più svolgere la sua funzione per la comunità: si segue il
principio di salvezza del corpo.
14 LEZIONE XVII giovedì 26/04/2012
Appunti di Margherita Roiatti
Nel sistema delle caste la distinzione puro-impuro (frutto dell’aspetto organico) è il criterio
dominante con cui le caste vengono a formarsi e a distinguersi in innumerevoli sotto-caste.
L’impurità varia a seconda del grado di parentela. L’acqua corrente e tutta una serie di altri prodotti
come il latte sono visti come fonti di purificazione. Solo le persone che sono continuamente
soggette ad impurità hanno uno stato perenne di impurità proprio per la funzione che ricoprono,
come ad esempio gli intoccabili (termine di matrice anglosassone, in india si usa il termine dalit,
soprattutto negli scritti di autori locali provenienti dalla schiera degli intoccabili; letteralmente
significa “popolazione sparpagliata sul territorio, scacciata”). Oggi c’è un enorme dibattito in India
che ha finito per coinvolgere anche il funzionamento del sistema politico indiano, presso cui è
cresciuta la sensibilità verso questo argomento → sono nati partiti di intoccabili che riescono ad
imporsi in molte regioni indiane. La costituzione indiana (1950), primo documento dell’india
indipendente, abolisce l’intoccabilità e si pone il problema di come migliorare la posizione di questa
casta. Il problema di come nominarli senza definirli intoccabili è risolto dall’uso di eufemismi come
scheduled castes o Harijan (“figli di dio”, così chiamati da gandhi). Gandhi si considerava un indu
ortodosso: accettava il sistema castale come parte integrante dell’induismo, fatta eccezione per
l’intoccabilità.
Dal punto di vista del rapporto con l’organico c’è una contrapposizione tra l’uomo sociale-religioso
(l’indu ortodosso) e chi è fuori dalla società (la natura) → si tratta di un paradosso perché il mondo
indiano per molti versi non distingue tra uomo e natura, che sono pensati in un continuum (gli esseri
sono classificati senza distinzioni tra uomini e animali, con la sola differenza che i secondi non
possono compiere riti), mentre per altri la natura selvaggia è vista come luogo di impurità che
contamina l’uomo e gli impedisce di liberarsi. Ci sono due chiavi di lettura: quella dei valori
religiosi e quella dell’antropologia (paura e timore legati a certi aspetti della vita insiti in ogni
società tradizionale).
Vi sono eccezioni alla regola dell’impurità: il re (lo Ksatriya) ne è immune perché la sua funzione è
importante, così come lo studente bramanico -primo stadio-. Tra i vari riti di transizione il
matrimonio non comporta nessuna impurità (a differenza di tutti gli altri momenti di passaggio). Il
pasto è un momento delicato in cui è facile contaminarsi, così anche il lavorare al di fuori della
casa, nel mondo esterno (quando si tratta di un lavoro diverso dalle occupazioni intellettuali che
invece si tengono dentro le abitazioni e sono riservate alle caste più alte).
L’impurità patologica dell’intoccabile non può essere scissa dalla purezza assoluta del bramano.
Tra tutti gli animali la vacca ha assunto lungo la storia dell’induismo la valenza simbolica più forte
(meno nei veda): ruolo sviluppato gradualmente e rafforzato nei testi più recenti fino ad acquisire
una valenza sociale importante (simbolo del brahmano e quindi della purezza), e così i suoi
prodotti.
Alle caste più basse spetta il ruolo di conciare la pelle e squartare gli animali ed entrano in contatto
con la pelle dell’animale morto (vd suonatori di tamburi). La vacca serve a distinguere il puro
dall’impuro, ha un ruolo sociale.
L’intoccabile ci sembra una figura esclusa dalla società ma non è così perché la sua presenza è
indispensabile in quanto complementare alle altre funzioni. Gli intoccabili hanno anche delle
funzioni nello svolgimento del rito funerario. Il reietto per antonomasia ha il suo spazio, il suo ruolo
all’interno della società. Nella realtà la distinzione tra caste -al di là dei casi estremi- non è così
netta e stabilire chi sia più o meno puro è complicato. Lavandaio e barbiere sono professioni che
portano all’impurità, si tratta di caste basse ma non intoccabili. C’è un rapporto inscindibile tra
casta e professione, così come tra casta e cibo: secondo la regola generale mangiare animali porta
15 all’impurità. L’animale domestico è più puro perché può essere sacrificato e pertanto ha un ruolo
più importante dell’animale non domestico. Ci sono comunque delle eccezioni. L’erbivoro è meno
impuro del carnivoro.
La compresenza di gruppi e sette che facevano del vegetarianismo e della non violenza valori
assoluti ha portato il brahmano a enfatizzare questi aspetti per competere in purezza. Una volta
diventato simbolo di purezza il brahmano è diventato vegetariano ed i suoi costumi sono diventati
elementi di paragone per le altre caste che hanno guardato a lui come riferimento per la purezza. Il
brahmano è esso stesso criterio vivente per sistematizzare le caste. Al brahmano è vietato il
divorzio, la sua vedova non può risposarsi, c’è la consuetudine di sposarsi in età infantile. Questo
modo di vita viene emulato dalle caste superiori.
Da una parte ci sono i concetti e dall’altra c’è la loro limitazione, la loro relativizzazione: ogni casta
è considerata sia superiore a qualcuna che inferiore ad un’altra. C’è una molteplicità di criteri
concreti tutti operanti nello stesso momento. Questi concetti nascono dall’influenza dell’islam e
dalla sua penetrazione nell’asia meridionale, che ha portato ad una società un po’ più orizzontale.
La differenza di status tra le diverse caste porta ad un tentativo delle singole caste di proteggersi da
quelle inferiori e liberarsi da esse. Il matrimonio quindi come interazione è molto importante: la
casta è per definizione un gruppo endogamico e una realtà in cui c’è un principio di gerarchia.
Anche all’interno del meccanismo matrimoniale quindi il vero criterio è lo status. Ci sono due
formule matrimoniali:
1. Coniugi di uguale status → isogamia
2. Coniugi di diverso status → iper- o ipogamia. NB: è sempre la sposa a provenire dalla casta
inferiore.
Evoluzione storica: secondo la versione brahmanico-ortodossa il matrimonio come “dono di
fanciulla” è un atto meritorio ma anche un criterio gerarchico per cui chi dà una donna ad un altro
gruppo accetta la subordinazione ad esso. Grande importanza hanno le consuetudini locali.
Rapporto casta/professione: ogni casta tende ad avere un proprio mestiere tradizionale in cui si
specializza e la maggior parte dei mestieri è rigorosamente contrassegnata. Molti nomi di caste
derivano da nomi di mestieri (designazione esterna). Il cambio di mestiere avrà conseguenze
differenti a seconda di quanto si distanzia da quello tradizionale.
Tutto ruotava attorno alla terra, che aveva un’importanza enorme. C’è un rapporto tra gerarchia
castale e gestione della terra. Esisteva l’idea di usufrutto della terra e di sfruttamento dei suoi
prodotti ma non quella di proprietà (introdotta poi dagli inglesi) poiché la terra per il mondo indiano
è sacra e divinizzata. Dalla dominazione inglese cominciò ad esistere una casta dominante in un
certo territorio in quanto possidente della terra come vice del re; quello che avanzava veniva
ripartito tra le altre caste a seconda del contributo dato.
Trait d’union tra possesso della terra e prestazione offerta dalla singola casta era il sistema Jajmani,
un sistema di scambio intercastale di prodotti e servizi il cui termine deriva dal sanscrito e significa
“sacrificante” ≠ sacrificatore (il sacrificio vedico è archetipo dei comportamenti sociali). Tale
rapporto prevede una complementarietà di prestazioni, è un rapporto di interdipendenza basato su
prestazioni e controprestazioni che assicura la sopravvivenza di tutto il villaggio. Questo sistema
articola anche la divisione del lavoro: ogni famiglia ha un proprio ruolo. Si riferisce in primo luogo
alla gestione dei diritti sulla terra e per estensione a tutti i rapporti di interdipendenza tra le caste.
Nell’india tradizionale le controprestazioni avvenivano anche in natura, non solo in denaro. L’uso
del denaro, la monetizzazione dell’economia avviene prima con l’invasione islamica e solo in
seguito con gli inglesi. È un sistema gerarchico ma nei gradi intermedi i vari specialisti si servono
vicendevolmente. Ha garantito, in un contesto tradizionale per molto tempo, che il prodotto della
16 terra potesse essere messo a disposizione dell’intera comunità, almeno fino all’avvento della
dominazione coloniale.
I musulmani accettarono il sistema e semplicemente si sovrapposero alla gerarchia come “casta”
dominante e introdussero l’uso della moneta per il pagamento delle imposte.
Alla fine del 1700 vi fu una trasformazione profonda del sistema: il 1793 è la data in cui i britannici
introdussero nel Bengala una riforma dei diritti fondiari detta “permanent settlement”, pensata come
sistemazione, ordinamento permanente. Uno dei problemi più grossi nello stabilire il proprio
dominio era la riscossione dell’imposta fondiaria che non era affatto uniforme sul territorio.
Siccome l’imposta fondiaria era l’entrata più importante era necessario sistematizzarla per garantire
un afflusso costante di denaro alle casse dello stato. Gli inglesi si posero il problema di individuare
un proprietario della terra località per località. Chi veniva dichiarato proprietario era il responsabile
del pagamento dell’imposta annuale fondiaria. C’è però un’incomprensione di fondo: nel sistema
indiano non esistevano dei veri e propri proprietari. Nel bengala gli inglesi scelsero i rappresentanti
delle caste dominanti o i nobili musulmani e li dichiararono proprietari. Questo sistema venne anche
chiamato Zamindari system (dal persiano zamin = terra). La terra acquisì un valore monetario e di
conseguenza lo zamindar si ritrovò investito di un grande potere economico. Molti però incorsero in
gravi indebitamenti (usura, pegni ecc.) causati dallo stesso sistema di prelievo fiscale, spesso
approssimativo nella definizione del tributo e molto rigido con le scadenze. Un primo effetto della
dominazione coloniale è quindi lo sconvolgimento del sistema fondiario e il passaggio della
proprietà della terra dai musulmani ormai indebitati ai creditori indù → peggioramento del rapporto
tra le due civiltà.
(Vd lezione XXIII lunedì 14/05/2012 pag. 36) 17 LEZIONE XVIII giovedì 03/05/2012
Appunti di Chiara Pozzan
Mancano appunti primo quarto d’ora
Insegnamenti del Buddha:
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evitare la violenza in tutte le sue forme
estinguere l’Io, in quanto responsabile di tutte le sofferenze umane, per poter raggiungere
alla fine il nirvana (= liberazione, annullamento)
La morte è vista come un errore, un’apparenza, una concezione sbagliata e quindi può essere
superata: ogni essere umano ha la possibilità di raggiungere l’immortalità attraverso
l’eliminazione dell’attaccamento al mondo.
Del Buddha sappiamo che nasce in una regione del nord est dell’India, il Bihar. Il suo è un
insegnamento che si è diffuso soprattutto tra gli strati più elevati della popolazione, non è stato in
origine un insegnamento di massa ma si è diffuso tra la popolazione urbana, più istruita. Il successo
del buddismo può essere spiegato col fatto che ha preso piede tra la popolazione già più
individualizzata, spersonalizzata. Da qui la sua matrice intellettuale. E’ un movimento che ha le sue
radici nelle concezioni già esistenti. Ad es. la morte è vista come un momento che non è una
componente necessaria dell’esistenza umana ma una patologia: questo pensiero lo troviamo in altri
contesti, in altre tradizioni preesistenti. La morte sembra essere dovuta all’attaccamento alla vita, al
possesso, ai beni materiali e spogliandosi della bramosia, rinunciando all’attaccamento alla vita
l’uomo potrebbe superare la morte e liberarsi dal Samsara, il ciclo delle rinascite.
A differenza della rinuncia del sannyasin, in cui è l’uomo in quanto individuo che si libera ed esce
dal mondo, in questo caso (buddismo) la liberazione avviene all’interno della comunità, costituendo
delle associazioni monastiche. E’ più facile prendere la via che porta al nirvana in maniera
collettiva, attraverso la pratica di esercizi spirituali, la meditazione ecc. Mentre il moksa è definito
come il ricongiungimento dell’atman col brahman il nirvana nel buddismo è descritto come il vuoto
assoluto, l’estinzione, l’annullamento completo di sé. Queste caratteristiche (rifiuto del mondo,
della morte, credenza nell’immortalità intesa come annullamento) sono tutti aspetti comuni alle
varie correnti, scuole, divisioni createsi all’interno del buddhismo. Il mondo buddista riassume tutto
ciò nell’obbligo di venerare i tre gioielli, i 3 concetti-chiave che riassumono il credo buddista:
•
•
•
Buddha: illuminazione, liberazione.
Dahrma del Buddha: insegnamento del budda, pratiche di concentrazione, meditazione ecc.
Sangha: comunità monastica
Tutta la comunità ha l’obbligo di venerare i 3 gioielli. La comunità buddista è in realtà una
comunità più complessa: non si compone soltanto di monaci (anche se l’ideale sarebbe che tutto il
mondo buddista fosse un unico grande ordine monastico) ma anche della parte laica della comunità.
Questa distinzione tra monaci e laici, che compongono la comunità buddista, si è rivelata di grande
utilità: i laici non hanno l’obbligo di seguire lo stesso standard di vita ma hanno l’obbligo di
venerare i gioielli e di sostenere la comunità monastica attraverso donazioni in denaro. Simbiosi tra
comunità monacali e stato-politica. Sembra paradossale ma il mondo buddista è stato favorito da
principi e stati: hanno trovato più conveniente sostenere questa concezione del sacro piuttosto
dell’induismo ortodosso, che non da’ spazio alla politica e sostiene la superiorità della religione sul
politico (il principe dev’essere costantemente assistito dal brahmano, che legittima il suo operato).
Nel buddismo la politica ha una sua sfera di autonomia.
18 Il mondo buddista, che proclama di voler sopprimere l’io finisce paradossalmente per valorizzare
l’individuo, perché, diversamente dall’induismo brahmanico, l’uomo compie una scelta: la
comunità è una comunità per scelta, non per nascita. Rappresenta un gruppo di persone che sono
accomunate dalla presa di coscienza della malvagità del mondo e se ne vogliono liberare, attraverso
la consapevolezza queste persone si individualizzano. Si può “diventare” buddisti, mentre non si
può diventare indu. Per questo si parla piuttosto di collettività (per scelta) che di comunità. Secondo
la tradizione buddista la comunità si distingue anche in comunità visibile (monaci e laici) e
invisibile (composta da coloro che hanno già raggiunto l’illuminazione, il nirvana e sono diventati
anche loro dei buddha e costituiscono una gerarchia invisibile di santi, di illuminati. Non si vedono
fisicamente ma esistono e vengono venerati come parti del sangha).
Ci si può liberare dal male solo sulla base dei propri sforzi, ma esiste un metodo, un insegnamento
spirituale, il dahrma, che ciascuno può seguire. 5 precetti fondamentali che danno vita ad una
moralità che dev’essere seguita da tutta la comunità:
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•
•
•
non uccidere
non rubare
non fornicare
non mentire
non usare sostanze inebrianti
La meditazione è fondamentale per distogliere l’interesse del credente dalla vita materiale, è
funzionale a raggiungere il distacco, non è la meta. Il buddismo ha una visione pessimistica,
negativa del mondo, che è visto come qualcosa di transitorio che provoca sofferenza nell’essere
umano. Condanna dell’io e del mio, dell’individualità e del possesso. La coscienza
dell’individualità e il desiderio di appropriazione sono le fonti del male e della sofferenza.
Secondo la tradizione il padre del buddha, il fondatore la cui esistenza simboleggia questa presa di
coscienza, aveva avuto una premonizione sul futuro del figlio, che sarebbe diventato o un grande
rinunciante o un grande re. La famiglia tenta di isolarlo dal mondo (dalla malattia, la sofferenza, la
morte). Siddharta, o Sakiamuni, però prende atto della sofferenza del mondo e si spinge verso la
rinuncia.
Esiste l’utopia della rinuncia a ogni attaccamento e desiderio e la realizzazione di un ordine
monacale terreno che però al tempo stesso è un’utopia che non trova mai la propria realizzazione.
L’ideale buddista lascia spazio all’esistenza di un mondo più complesso, si crea una spaccatura tra
monastero e società civile. Questo passaggio dall’ideale al mondo reale fa sì che il buddismo storico
si presenti come molto diverso rispetto all’insegnamento teorico del buddha. D’altra parte il
buddismo, sviluppandosi accanto all’induismo ortodosso, ha costituito un’influenza molto
importante nell’induismo. In pratica si nota come nel mondo buddista, al di là della separazione
ordine monacale-laicato, si creano delle innovazioni: ad es. nel mondo buddista si creano dei
pellegrinaggi attorno a i luoghi in cui si dice ci siano le reliquie del buddha, si fondano templi ecc. e
tutto ciò ha dell’influenza sull’induismo.
Il buddismo non è stato per molto tempo un movimento unitario, si è diviso ben presto in diverse
correnti e interpretazioni. Possiamo dire che vi è stata almeno una principale suddivisione
storicamente: accanto al buddismo nella sua forma originaria si è creato un fenomeno che tendeva a
divinizzare la figura del budda, che non era più soltanto l’illuminato ma era talmente esaltato da
diventare divinità. Nel far questo questa più recente interpretazione del buddismo (detta buddismo
mahayana = “buddismo del grande veicolo” → budda come veicolo di liberazione) ha apportato
una trasformazione nel sangha: si creava un vuoto nella comunità, mancavano delle figure di
riferimento. Si creano queste figure, tipo dei buddha in potenza, che potrebbero raggiungere
19 l’illuminazione ma non lo fanno per compassione della comunità. Sono chiamati bodhisattva. Nel
concetto del bodhisattva troviamo 2 elementi: la sapienza e la compassione. Il bodhisattva è colui
che ha preso atto della sofferenza del mondo, può raggiungere il nirvana ma la compassione lo
spinge a rimanere sulla terra per guidare gli altri a raggiungere lo stesso stato di illuminazione.
Nell’ambito del buddismo tibetano i dalai lama sono dei bodhisattva. Nel mondo religioso indiano
il buddha ha finito per diventare parte del grande pantheon, ed è considerato una delle tante
incarnazioni di vishnu. Il mahayana è uno sviluppo recente del buddismo ma ha avuto una grande
espansione dal tibet a tutto il continente indiano, al nord dell’asia e alla cina e al giappone, dove si è
combinato con le concezioni locali (in particolare in cina influenza reciproca tra buddismo e
confucianesimo). La forma originale del buddismo è detta Hinayana (“del piccolo veicolo”, in cui il
buddha non è divinizzato) e si è diffusa lungo l’asse sud orientale (thailandia, cambogia).
Un discorso analogo va fatto con riferimento ad un’altra comunità, il Jainismo. Sviluppo del mondo
della rinuncia, frutto di una matrice tipica dell’essere indiano, superamento del mondo e del
samsara. Come per il buddismo il termine collettività è più appropriato del termine comunità: si
forma attraverso una scelta individuale. Il Jaiyn, il devoto, è il seguace della Jina, il vincitore, titolo
che viene attribuito a colui che si è distaccato dal mondo e ha raggiunto la liberazione. Non è un
essere astratto ma è una persona che sarebbe storicamente esistita, un principe (Vardhamana)
contemporaneo del Buddha (VI sec. a.C.) chiamato il “grande eroe” → Mahavira. Il Jainismo si
basa su un’idea essenziale che vede il mondo come brulicante di vita, animato dalla presenza di
esseri viventi. La vita pervade fisicamente il mondo e dunque per potersi liberare è necessario
seguire un serie di insegnamenti molto rigorosi per evitare di nuocere a tutti questi esseri viventi. Il
principio della ahimsa, della non violenza è essenziale. Regole sul cibo (c’è tutta una gerarchia di
impurità). Ogni essere ha in sé la capacità di liberarsi, anche l’insetto o l’essere più invisibile può
uscire dal ciclo delle rinascite → rispetto della vita in senso assoluto.
5 comandamenti ufficiali:
•
•
•
•
•
non uccidere (principio dell’ahimsa)
non mentire (principio della verità)
non rubare
non fornicare
non possedere
Queste regole di vita ebbero molta influenza su Ghandi. La comunità Jainista è composta sia da
monaci (asceti, che possono essere sia uomini che donne) che da laici. Anche qui dal punto di vista
economico è fondamentale il supporto della parte laica della comunità. Si sono mantenute le
divisioni e le denominazioni castali. Il Jainismo ha sviluppato nel corso del tempo un rapporto
molto stretto con il commercio, attività considerata la più congeniale. Max Weber notava che l’etica
protestante rendeva possibile l’accumulazione capitalistica e l’attività imprenditoriale, che
aiutavano a capire il proprio destino, la predestinazione. Così anche il Jainismo favoriva
l’accumulazione di beni e le attività commerciali. L’ideale per il monaco jainista sarebbe quello di
morire d’inedia, perché non alimentandosi eliminerebbe la possibilità di nuocere ad altri esseri
viventi. Movimento utopico-estremista che concepisce uno stile di vita particolarmente rigoroso che
non è adatto a tutta la comunità → divisione sempre più profonda tra monaci e laici. Come il
buddismo anche il jainismo ha influenzato l’induismo.
Ultima comunità religiosa che nasce dall’induismo e ha avuto un suo percorso autonomo,
dall’importanza storica notevole: movimento dei Sikh, letteralmente = “discepolo, seguace”. Non è
diverso dall’induismo né dal punto di vista razziale né castale. Si è separata gradualmente
dall’induismo formando una propria collettività, definita khalsa, “i puri”, che si è autonomizzata nel
corso del tempo assumendo caratteristiche autonome, creando una propria chiesa, una gerarchia
20 sacerdotale, un testo sacro, una liturgia e una lingua sacra diverse. Il sikhismo è un fenomeno
religioso che nasce come una comunità sincretistica, che nasce spontaneamente dal basso,
dall’incontro tra il Bhakti indu e il sufismo islamico. Precisamente avvenuto nella provincia del
Panjab in un’epoca molto recente, tra 1500 e 1700. Si basa sugli insegnamenti di un guru, maestro
e guida spirituale, Il primo guru si chiamava nanak. Con il tempo il fenomeno del sikhismo ha teso
a rendersi autonomo secondo alcune fasi principali:
•
•
•
Invenzione della lingua sacra, che in realtà tale non è: è la lingua panjabi scritta con un
alfabeto differente, detto gurmukhi. L’adozione di questo alfabeto ha consentito ai sikhiti di
distinguersi dalle altre comunità religiose (indu → sanscrito; musulmani → arabo). Il libro
sacro del sikhismo è chiamato “Guru Grant” o “Adhi Grant”, “libro santo” o “libro
dell’inizio” che in parte riprende anche figure sante del panjab medievale. Invenzione fatta
attorno al 1500.
Fondazione del luogo santo, la città di Amritsar, in territorio indiano, significa letteralmente
“piscina-nettare”.
Cristallizzazione definitiva del libro sacro alla fine della successione dei vari guru, ad opera
del decimo ed ultimo guru (Govind) nel 1699 il quale conclude il processo di accumulazione
di inni che formano il libro sacro. Dopo il X guru non c’è più stato un guru vivente. Govind
è importante anche perchè ha fondato la khalsa, la comunità (religiosa ma anche marziale: è
una chiesa militante che da’ grande valore all’uso delle armi per la difesa del proprio
messaggio e del proprio credo). Singh = “leone” è un titolo che indica lo status militare.
L’impostazione guerriera è stata una scelta compiuta in reazione alle pressioni politiche e
alle offensive militari dal parte del potere islamico in india.
21 LEZIONE XIX venerdì 04/05/2012
Appunti di Margherita Roiatti
Sikhismo
Si tratta del caso peculiare di una comunità religiosa devozionale sincretistica che sviluppa nel
tempo abilità in campo militare soprattutto a seguito delle repressioni attuate nei confronti dei suoi
fedeli da Babur (a capo dell’impero islamico Moghul) tra il 1500 e il 1600. I sikh erano visti come
un pericolo per il mantenimento della sovranità. A questo momento di repressioni e rappresaglie
reciproche è possibile far risalire l’animosità tra islam e induismo. L’opera di predicazione di
questo movimento si identificava in critiche fatte dai guru sia al sufismo musulmano (considerato
ormai deviato e affetto da attaccamento ai beni materiali e alla bramosia di potere, distorsione del
messaggio spirituale originario) che all’ordine dei Brahmani. Il sikhismo nella teoria si propone
come movimento egalitario per una collettività orizzontale, negando il sistema delle caste. Va
comunque presa in considerazione la differenza tra quanto dichiarato in teoria e la prassi comune in
cui, seppur negate, esistono delle gerarchie. Il sikhismo è un fenomeno omogeneo sia dal punto di
vista territoriale (regione del Punjab), sia dal punto di vista etnico (derivazione da gruppo di caste
agrarie molto importanti).
La trasformazione religiosa era vista come metodo per elevare il proprio status. Altro esempio di
casta rurale che si è specializzata nella guerra e ha raggiunto uno status migliore è la confederazione
Maratha (sempre in epoca Moghul), i cui appartenenti diventarono soldati di mestiere. Come i sikh
si riuscirono a ritagliare uno spazio nell’india centrale a scapito del potere islamico attraverso la
mobilità castale.
Altri luoghi importanti di pellegrinaggio sono il villaggio natale del guru Nanak (ora in Pakistan) e
la tomba di un personaggio molto importante dal punto di vista politico: Ranjit Singh, che nel 1799
fondò lo stato sikh del Punjab e che fece di Lahore la capitale.
La loro tradizione militare permane fino ad oggi: l’esercito indiano recluta le sue truppe soprattutto
tra i punjabi e i sikh.
Amritsar è diventato centro politico e religioso in cui ci sono dei simboli molto importanti del
sikhismo: un trono immortale su cui è posizionato il libro sacro.
Tutti i sikh sono Singh ma non tutti i Singh sono sikh.
Il Khalsa simboleggiava una nuova relazione sociale che cancellava tutte le precedenti.
Chi diventa sikh dovrebbe rispettare i 5K:
1. Non tagliare capelli e barba
2. Utilizzare un pettine per tenere la chioma
3. Indossare una mutanda da guerra legata con una fibbia (caratteristica dei guerrieri e diversa
da quella usata dagli indu)
4. Portare un bracciale di ferro che simboleggia il legame indissolubile con la comunità
5. Portare sempre con sé una sciabola-pugnale (Kirpan) che simboleggia anch’essa l’attitudine
guerriera dei sikh. In epoca moderna viene appuntato un piccolo pugnale in miniatura.
Le fasi più importanti nella vita di un sikh sono l’iniziazione e il matrimonio. L’iniziazione viene
celebrata nel momento dell’adolescenza davanti a 5 adulti di cui uno è testimone (sacralità del n.5).
Il matrimonio sostanzialmente non si distacca molto dai caratteri essenziali del mondo indu, vi sono
molti usi e costumi che richiamano quelli indu: dal punto di vista antropologico tendenza del
sikhismo a un ritorno a certi costumi indu come naturale risultato della continua interazione tra sikh
e indu, ad esempio: credenza diffusa nel karma, rispetto della vita animale, tendenziale
vegetarianismo.
22 Lo stato sikh del 1799 è sopravvissuto fino alla metà dell’800 per poi essere sconfitto dagli inglesi
(2 guerre anglo-sikh → 1845-’46; 1848-‘49). In seguito sono diventati alleati fondamentali del
governo britannico. Saranno gli inglesi per primi a riconoscere il valore marziale di questa comunità
e a reclutarli nell’esercito anglo-indiano.
*****************************
Impatto del mondo occidentale sul mondo afroasiatico
Obiettivi:
•
Capire come, in quali circostanze e per quali ragioni storiche venne a manifestarsi una
superiorità dell’europa sul mondo afroasiatico
•
Mettere in luce le principali differenze tra la cultura occidentale e le culture orientali per
descrivere questo rapporto (non sempre conflittuale).
La superiorità occidentale, in particolare europea, si manifesterà dal tardo XV secolo in avanti con
il fenomeno coloniale. Bisogna fare attenzione a dare per scontato che questa superiorità europea
sia un dato permanente e costante. È in realtà un fenomeno abbastanza recente nella storia globale.
Prima del 1400 non era affatto superiore all’oriente, anzi ad una riflessione più approfondita la
comparazione tra occidente e oriente ci fa capire che le scoperte tecnologiche e scientifiche
venivano da oriente. Perché poi c’è stato un rovesciamento di gerarchie? Prima del XV secolo
l’oriente era più avanzato dell’occidente e l’europa stessa ne prendeva atto. L’oriente è stato
percepito fin dall’antichità come luogo di favolose ricchezze, anche grazie all’esistenza delle grandi
reti commerciali. Già all’epoca della roma imperiale i cinesi avevano sviluppato la tecnica della
produzione e della lavorazione della seta. Per lungo tempo, fino al tardo ‘400, le rotte commerciali
furono terriere. Via della seta: serie di vie commerciali che univano l’occidente alla cina e all’india.
Oltre alla seta arrivavano anche le spezie. Il ruolo potente dei centri di produzione di seta orientali
non scomparirà nemmeno con la diffusione delle tecniche di produzione occidentali.
Con l’indagine storica moderna siamo riusciti ad individuare le ragioni di queste differenze tra
oriente e occidente, le quali sono legate soprattutto a differenze climatiche, alle tecniche di
coltivazione della terra, all’avanzamento di conoscenze scientifiche (a vantaggio delle popolazioni
orientali).
Delle tre zone climatiche (europa, medioriente, oriente) quella orientale è quella dei monsoni: in
estate è molto calda con forti piogge in india corea e giappone e certe zone dell’africa, mentre in
europa ci sono inverni freddi e piovosi e estati asciutte. Ciò ha necessariamente delle conseguenze
sullo sviluppo agricoltura e sulle differenti caratteristiche del terreno, che nella regione dei monsoni
era più leggero e fertile. Inoltre le frequenti precipitazioni estive facevano sì che l’elevata portata
dei fiumi cinesi favorisse l’irrigazione, che a sua volta permetteva di lavorare la terra con minor
sforzo.
I cinesi già dal IV secolo avevano scoperto la lavorazione della ceramica e la tecnica della fusione
dei metalli grazie all’utilizzo di forni a temperature molto elevate, che in europa arriverà molto
dopo. Gli aratri orientali erano molto più efficaci e forti rispetto a quelli europei di legno con una
sola punta di ferro, potevano essere utilizzati con meno sforzo e meno animali per coltivare la terra,
senza contare che l’irrigazione e la concimazione naturali erano sufficienti.
Nella zona più settentrionale della cina, che aveva caratteristiche simili a quelle europee c’era
comunque una produzione maggiore per acro di terra che quindi sosteneva un numero maggiore di
artigiani e di conseguenza si potevano mantenere agglomerati urbani più estesi che in europa. Nelle
zone meridionali invece i monsoni portavano così tanta acqua da poter coltivare il riso che
consentiva una produttività maggiore rispetto quella europea. Visto che il prodotto per persona e per
acro era maggiore rispetto all’europa, le società asiatiche potevano mantenere più élites non
23 impegnate nel lavoro manuale e quindi maggiormente istruite, più artigiani per la produzione di
merci e il commercio.
C’erano però anche degli elementi negativi dati dalla variabilità dei monsoni, che poteva portare a
periodi o di siccità o di inondazioni. Le civiltà asiatiche avevano sviluppato una conoscenza
profonda nel controllare la natura, maggiore rispetto all’europa. Esistevano strumenti di irrigazione
artificiale e reti abbastanza sofisticate di opere che servivano a controllare l’acqua fluviale.
Dalle memorie del guerriero Babur, che fondò l’impero moghul nel 1526, ci arriva il racconto della
ruota persiana.
La gestione dei fiumi era importante anche per le comunicazioni: in cina prima del VII secolo
esisteva un gran canale per portare i tributi in granaglie dalle varie provincie alla capitale del nord
di Pechino (1000 miglia: è il canale ad oggi più lungo del mondo).
Nel X secolo in cina furono inventate le chiuse per far navigare le chiatte.
Verso la fine del 1400 cina e india già iniziavano a produrre un’altra merce di lusso che sarà
richiestissima in occidente fino al XVII secolo: il cotone.
L’asia era superiore all’europa anche nell’ingegneria dei metalli, non solo del ferro ma anche del
bronzo, e nell’arte ceramica.
Uso della carta: i cinesi per primi elaborarono una carta economica che consentiva di stampare libri
su vasta scala in un’epoca in cui in europa ancora si utilizzava la pelle animale. Così anche le
banconote cartacee iniziarono ad essere usate molto prima in cina.
Gli arabi, intermediari tra i due mercati, già nel 1200 vendevano agli europei carta asiatica, polvere
da sparo, fiammiferi e colori per dipingere. Pertanto questi paesi sembravano molto ricchi ed
attraenti agli occidentali. Nel XIII secolo Marco Polo si stupiva della grandezza delle navi orientali.
Ragioni del rovesciamento dell’equilibrio
Vi sono delle differenze che iniziano a manifestarsi tra occidente e oriente attorno al 1400. I primi
tratti di questa trasformazione si possono individuare nel periodo del rinascimento in europa. Nella
storiografia europea è ancora abbastanza discusso se il rinascimento deve essere visto come
fenomeno di grande discontinuità o continuità con il medioevo. La visione classica era quella della
discontinuità sostenuta dallo storico J. Burckhardt, il quale fa riferimento a tre elementi per
descrivere le due epoche:
A) Medioevo:
• trascendentista (ogni evento ha spiegazione e matrice divina)
• teocentrico (dio al centro dell’universo)
• società universalista (esalta i due centri di potere -papato e impero-)
B) Rinascimento:
• società umanista (uomo rivalutato nella sua centralità, valore riconosciuto al sensibile e alla
natura, rivalutato il valore dell’uomo in rapporto alla natura)
• società antropocentrica (uomo al centro dell’universo, rivalutazione della vita)
• società particolarista (frammentazione del potere con la nascita di signorie e principati)
Questa teoria è stata rivista di recente, alcuni criticano questa netta discontinuità sottolineando
anche gli aspetti di continuità → temi fatti propri dalla riforma luterana già presenti nella religiosità
medievale, rifarsi come fonte principale al mondo classico. Possiamo dire che durante il
rinascimento effettivamente noi vediamo in atto un’importante evoluzione nel rapporto tra uomo e
società: disincanto del mondo (Weber), tendenza dell’uomo rinascimentale a desacralizzare la
natura e il mondo. Nel processo di graduale desacralizzazione del mondo troviamo un elemento di
forte discontinuità tra oriente e occidente. In occidente nasce l’intenzione di controllare il mondo e
la natura mentre in oriente il sacro rimane diffuso e permea il tutto, c’è una riluttanza a fare proprio
il concetto di dominazione della natura da parte dell’uomo.
24 Inoltre già nel rinascimento in europa notiamo l’emergere di un fenomeno di individualizzazione
della società, processo che è favorito dalla stessa società cristiana (nel cristianesimo è presente
l’idea della salvezza individuale). Questa tendenza all’individualismo si concretizza nella
frammentazione del potere politico ed in seguito con la riforma protestante, per cui il successo sulla
terra era sintomo di favore divino e conseguente salvezza. Per di più nella riforma protestante nasce
l’idea del sacerdozio universale, nel senso che ognuno può essere sacerdote di se stesso. Le grandi
civiltà dell’oriente invece non danno affatto valore alla sfera dell’individuo (tutto l’interesse risiede
nella umma/nella società indu, enfatizzando in particolare il gruppo appartenenza). In europa
assistiamo al rafforzarsi della sfera individuale, cosa che non avviene in oriente.
Altro elemento è legato all’aspetto antropologico della consanguineità: le grandi civiltà orientali
sono basate sul binomio legame di sangue-familismo-tribalismo (islam) o gruppo castale (induismo)
/ aspetto religioso. Al contrario in europa la struttura familiare è più aperta e basata sul rapporto di
appartenenza e continuità di entrambe le linee maschile e femminile; viene meno la rigidità
dell’aspetto della discendenza. In europa quindi la società è più aperta, individuale e secolare →
questo è il quadro storico in cui si inserisce l’europa del 1400-1500.
Il processo di affermazione della superiorità europea è graduale: l’oriente continua per molto tempo
a mantenere la superiorità in alcuni campi. Quella europea inizia come superiorità marittima (non di
terra) con il ciclo di grandi navigazioni e scoperte. I grandi paesi europei non oseranno sfidare i
grandi stati orientali via terra (sul piano militare e territoriale) almeno fino al 1700. Fino ad allora si
ha una fase di passaggio: la maggiore vitalità della società europea si traduce in una proiezione
verso l’esterno attraverso la navigazione, la ricerca di contatti e commercio. Soltanto tre secoli più
tardi ciò si traduce anche nell’imposizione di una forza militare. I protagonisti di questo primo
impulso furono quelli della penisola iberica. Quando il baricentro del potere economico in europa si
trova nella penisola iberica questo si riflette in conquiste in oriente; quando invece dal 1500 al 1600
il baricentro passa al nord-europa protestante si ha un passaggio di testimone anche nella presenza
europea in oriente.
25 LEZIONE XX lunedì 07/05/2012 Appunti di Chiara Pozzan
Si preferisce usare il termine “espansione coloniale” o “imperialismo coloniale”, perché
“colonialismo” ha una connotazione anti-coloniale piuttosto forte, ha un’accezione negativa.
Possiamo proporre una distinzione in due grandi fasi storiche:
1. Fase di espansione coloniale (dal 1415 al 1876), intesa come espansione che ha visto
l’europa proiettarsi verso il mondo asiatico soprattutto attraverso le navigazioni ma senza
avere ancora lo scopo di conquistare il territorio (espansione commerciale e non politicocoloniale). Fase caratterizzata dalla ricerca di scambi commerciali: acquisto di merci
pregiate da portare in europa.
Questi anni corrispondono a momenti ben precisi: il 1415 segna il culmine e la fine della
riconquista della penisola iberica da parte di spagnoli e portoghesi, iniziata almeno due
secoli prima. In questa data le forze cristiane si proiettano oltremare sulla costa del nord
africa conquistando la fortezza di Ceuta, sulla costa del marocco. Questo evento è
considerato dagli storici come un evento dalla grande portata simbolica: segna il primo
arrivo degli europei in terra musulmana.
Il 1876 è un’altra data convenzionale-simbolica: segna l’inizio delle attività coloniali del
belgio in africa con la conquista di parte del congo da parte di Leopoldo II del belgio →
fondazione dell’associazione internazionale per l’africa da parte belga. Inizia la “corsa per
l’africa” tra i paesi europei: nel giro di pochi anni il continente africano, rimasto fino a quel
momento non toccato dall’espansione coloniale, se non lungo le coste, verrà spartito tra le
grandi potenze europee.
2. Fase di espansione in cui si persegue oramai anche il prestigio e il potere politico
(imperialismo coloniale): si è portati a stabilire grandi imperi coloniali dal 1876 al 1919
(date convenzionali). Nel 1919 si chiude una fase storica perché si crea un’opinione
pubblica (cultura politica) internazionale tendenzialmente sfavorevole sia al mantenimento
delle vecchie colonie sia alla creazione di nuove.
Eccezioni di notevole importanza:
•
•
•
la costruzione dell’impero coloniale inglese in india. Gli inglesi per circostanze del tutto
casuali hanno iniziato a costruire un impero coloniale già nel 1757, data in cui sconfiggono
un principe del bengala nella battaglia di Plassey e iniziano il loro percorso di sistematica
conquista del territorio indiano.
1798: conquista dell’egitto da parte di napoleone (anche se temporanea)
1830: inizio della conquista dell’algeria da parte del re Carlo X. Anche in questo caso si è
trattato di un inizio di conquista, è un processo che richiederà molto tempo per essere
completato.
Il fenomeno coloniale in sé è molto differenziato. Questa diversità ha a che fare soprattutto con le
motivazioni che spingevano i diversi paesi ad espandersi verso oriente. Ogni tentativo di proporre
una visione essenzialista del fenomeno coloniale è sempre fallito: è molto difficile trovare delle
definizioni che accomunino tutti i casi. Possiamo individuare almeno 3 grandi ordini di motivi, di
impulsi all’espansione:
•
•
Motivazioni di carattere socio-economico: miglioramento dello status da parte delle élites
che si facevano promotrici di queste avventure coloniali; crescita demografica; espansione
del commercio
Motivazioni di tipo politico
26 •
Motivazioni di carattere ideologico. Motivazioni religiose: in minima parte l’idea della
cristianizzazione ma soprattutto il desiderio d’accerchiamento dell’islam per superare
l’isolamento che si era creato nel mediterraneo con la sua comparsa (nel caso portoghese in
particolare si fa sentire la spinta alla ricerca dei cristiani perduti e isolati in oriente → mito
del prete gianni). I fenomeni di cristianizzazione finalizzata alla conversione sono legati al
mondo portoghese dei gesuiti sulla base di un accordo tra la chiesa cattolica e la corona
portoghese: in cambio della legittimità religiosa della corona portoghese i gesuiti avrebbero
potuto operare in india e in cina. Al di là di questo è stata un po’ troppo enfatizzata dalla
storia l’attività della cristianizzazione come motivo propulsore della conquista coloniale.
Una motivazione fondamentale invece era il “white man’s burden”: l’imperialismo coloniale
si giustificava sulla base della differenza culturale e di civilizzazione tra i due mondi, cosa
che comportava diritti e doveri agli europei che portavano le proprie concezioni della
politica e dell’amministrazione ed erano legittimati alla conquista sulla base dell’inferiorità
dei popoli colonizzati.
Oggi è sempre più enfatizzato dagli storici il fattore casuale. Molto importante, in particolare nella
fase di conquista territoriale, è stato il ruolo di singoli attori europei, che al di là delle direttive
provenienti dalla madre patria -e spesso approfittando dell’ampia autonomia loro concessa- agivano
di propria iniziativa, per motivi e ambizioni personali (principio del “man on the spot”) → vd
impero inglese in India, possedimenti in maghreb, indocina, insulindia.
La prima esperienza, servita da modello per gli altri paesi europei, è stata quella portoghese. Quello
del portogallo è stato un impero durato relativamente poco (dalla II metà del ‘400 alla fine del ‘500
-fase di declino-) ma al tempo stesso di grande significato. I portoghesi sono stati i primi ad
espandersi in asia e hanno insegnato a tutti come navigare in oriente, come non farsi coinvolgere
nei conflitti politico-militari, come trarre un beneficio economico avendo il beneplacito del potere
politico locale. Il loro fu un modello seguito per secoli dagli europei in oriente, da cui si
discosteranno solo gli inglesi nel ‘700. Il portogallo, piccolo paese, decide di spingersi verso oriente
anche grazie al ruolo molto importante svolto all’epoca dal papato, che era in grado di stabilire le
direttrici d’espansione delle potenze cattoliche nei territori d’oltremare. L’iniziativa fu quindi della
chiesa, espressa sotto forma della bolla papale inter cetera del 1493 firmata dal papa alessandro VI,
con cui la chiesa divide il mondo in 2 parti (divisione poi sancita nel 1494 dal trattato di Tordesillas,
firmato da spagna e portogallo). Con questa divisione il mondo viene idealmente spartito tra spagna
e portogallo: ogni scoperta geografica a ovest di una certa linea immaginaria (360 leghe a occidente
dell’isola di capo verde) sarebbe spettata alla spagna e viceversa a est di tale linea al portogallo.
Sarà questo a determinare il corso degli eventi e le direttrici commerciali dei due paesi. In realtà
l’obiettivo più ambito da entrambi erano le indie. La scoperta dell’america fu un incidente di
percorso, nelle intenzioni spagnole la rotta era tutt’altra. I portoghesi inizieranno a navigare
costeggiando la costa occidentale dell’africa, doppiando il capo di buona speranza e
circumnavigando il continente fino ad aprire le rotte verso l’oceano indiano e l’oriente.
Una certa superiorità europea nei confronti delle potenze orientali c’era, ma solo sul mare. Questa
superiorità consisteva soprattutto nel saper capire i venti e padroneggiare le tecniche di navigazione
oceanica (gli orientali invece erano soliti costeggiare le coste) e nel saper associare la vela al
cannone (gli europei avevano a disposizione grandi navi pesantemente armate). I paesi musulmani
avevano grandi eserciti e armamenti di terra: il portogallo sapeva di non poter sfidare l’impero
ottomano o persiano sulla terraferma, per questa ragione il portoghese Alfonso de Albuquerque,
primo viceré in oriente, stabilirà che il portogallo avrebbe dovuto mantenersi lontano da qualunque
tipo di conquista territoriale → approccio a-politico all’espansione in oriente, creazione di basi
costiere commerciali (dall’africa alle coste dell’oceano indiano) presidiate da un piccolo numero di
soldati e createsi previo accordo e concessione da parte delle autorità locali. Questa rotta verrà
27 chiamata la carreira da india, la strada per l’india, che per molto tempo rimarrà la priorità per i
portoghesi in oriente.
Al tempo stesso i portoghesi si accorgeranno che esisteva un altro tipo di commercio, oltre
all’acquisto di beni esotici come spezie e seta, ancora più lucroso: sfruttare le fiorenti rotte
commerciali orientali già esistenti → costa orientale dell’africa; sud della penisola arabica -golfo
persico-; più una terza → india? Esisteva una sorta di rete triangolare di scambio, di solito
controllata dagli arabi (in particolare dalla corte dell’oman). Le merci scambiate comprendevano
anche numerosi schiavi provenienti dall’africa. I portoghesi cercheranno di impadronirsi di questa
rete di traffici degli omaniti intuendo che era possibile adottare una sorta di baratto interasiatico:
acquistare merci pregiate in un porto dell’asia e scambiarle in un altro porto asiatico facendosi dare
in cambio un altro tipo di merce ecc. Col tempo questo commercio interasiatico, che sarà poi
chiamato dagli storici country trade diventerà addirittura il tipo di commercio principale dei
portoghesi perché presentava un vantaggio importantissimo: consentiva di ovviare a quel costante
disavanzo sulla bilancia di pagamenti che il commercio portoghese portava con sé. Adottare questo
sistema consentiva di mantenere una bilancia dei pagamenti in pareggio, in equilibrio, e il
commercio si manteneva da sé. Nessuna delle due parti ottenne mai una vittoria definitiva nella
contesa di questi traffici e portoghesi e omaniti continueranno a farsi guerra fino agli anni ‘80 del
‘500. L’importanza delle basi costiere e dei porti sulle coste asiatiche finirà per costituire un
vantaggio molto importante. Tra ‘400 e ‘500 assistiamo a un fenomeno importante: piccole basi
costiere che all’inizio non erano altro che villaggi si trasformarono, proprio per la competizione tra
potenze locali ed europee, in città sempre più importanti (vd Aden sulla costa yemenita, Holmuz sul
golfo persico, Goa o Bombay in india).
La potenza portoghese inizia a declinare attorno agli anni ’80 dell’800. Ragioni della debolezza:
•
Interne: costi di mantenimento della rete di basi commerciali, delle flotte; alta mortalità a
causa di malattie, scarsità di acqua potabile; alto livello di corruzione e di contrabbando → a
loro volta la conseguenza di un regime di rigido monopolio che i portoghesi avevano
stabilito sui loro commerci (solo le navi statali potevano servirsi delle basi commerciali)
•
Esterne: evoluzione della monarchica portoghese → si estingue la dinastia regnante degli
Aviz che viene incorporata dagli spagnoli. Indebolimento e graduale perdita dei
possedimenti della corona. Inoltre la chiusura dei porti in oriente si applicava con particolare
durezza nei confronti delle navi di paesi protestanti (olandesi, inglesi) → ciò faceva sì che si
creasse una pressione da parte delle altre potenze europee per aprire nuove rotte che
potessero permettere loro di raggiungere le rotte commerciali di cui si erano appropriati i
portoghesi attraverso altre vie. Le basi portoghesi saranno gradualmente incorporante dagli
olandesi, che iniziano ad imporsi in oriente tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600.
I mercanti olandesi operavano già individualmente in oriente, in certi casi anche collaborando con i
portoghesi; questa loro presenza sul territorio si rivelò una fondamentale fonte di informazioni per i
paesi bassi. Sfruttando gli alisei gli olandesi si spinsero però più verso l’insulindia che in altre zone
dove era forte la concorrenza portoghese. Tendenza olandese a muoversi in oriente attraverso la
navigazione privata (famose compagnie dell’oriente/delle indie orientali). In portogallo invece sarà
la monarchia ad essere il motore dell’espansione. Dal punto di vista del funzionamento
conseguenza importante è che chi agiva sul territorio autonomamente aveva molta più libertà
d’azione rispetto a chi doveva rispondere costantemente alla corona e agire solo sulla base di
concessioni governative. Nel caso del portogallo c’era anche una questione legata al prestigio della
monarchia, cosa che è servita da freno all’espansione e all’utilizzo di violenza, barbarie,
sfruttamento nei confronti delle popolazioni locali verificatosi invece in una fase successiva da
parte delle compagnie private. Prima fase in cui c’era tutta una serie di piccole compagnie private
olandesi, poi sostituite dalla Voc, la Compagnia Olandese delle Indie Orientali.
28 LEZIONE XXI giovedì 10/05/2012
Appunti di Chiara Pozzan
L’ascesa olandese contribuisce al declino dei possedimenti portoghesi in oriente. La spinta olandese
verso le spezie era stata motivata da ragioni diverse rispetto a quelle portoghesi: il portogallo
cristiano operava una politica discriminatoria contro i mercanti europei protestanti, così il timore
dell’embargo da parte di spagna e portogallo ha spinto i paesi bassi a prendere l’iniziativa
individualmente.
L’olanda non si dirige direttamente verso oriente ma cercherà prima di trovare una strada verso
nord, attraverso le rotte settentrionali, poi però prenderà la decisione di andare verso i mercati
orientali doppiando l’africa. Diversamente dalle navi portoghesi che doppiavano il capo di buona
speranza e poi costeggiavano la costa orientale dell’africa o navigavano a est del madagascar
seguendo i monsoni, le navi olandesi una volta passato il capo di buona speranza seguivano gli
alisei e si dirigevano verso l’insulindia. La direzione in buona parte è stata determinata dalla
casualità o dalle contingenze. L’insulindia aveva il vantaggio di trovarsi al di fuori dell’area di
influenza/competenza portoghese ed era un’area ricca di spezie. Dagli anni ‘90 del ‘500 fino agli
inizi del ‘600 una grande quantità di flotte olandesi verrà inviata in insulindia, in particolare presso
l’isola di java, dove verrà fondata Batavia, che diventerà poi Giacarta, la capitale dell’indonesia.
In realtà al’inizio vi erano 8 compagnie che rappresentavano le diverse camere commericiali delle
province unite e si facevano concorrenza fra di loro facendo aumentare i prezzi delle merci. Nel
1602 si creerà la VOC, un’unica compagnia monopolitsta, la Compagnia olandese delle indie
orientali. La VOC era articolata in 6 camere con sedi in diverse città ma la sede di amsterdam era
quella principale con funzioni di coordinamento. La fondazione della VOC è stata molto importante
perché ha posto per la prima volta le basi per una vera e propria società per azioni: non si trattava di
un’iniziativa focalizzata sulla singola impresa, sulla singola flotta. Con la VOC si fonda il
commercio moderno europeo-orientale.
Per la prima volta troviamo inoltre la concessione di poteri politici alla compagnia da parte
dell’autorità politica statale: la compagnia olandese mantiene la propria concentrazione, la propria
enfasi sull’obiettivo commerciale però per raggiungere questi obiettivi è dotata di grande autonomia
anche dal punto di vista politico, può impegnarsi nei confronti delle potenze locali firmando accordi
→ verrà fatto un uso spregiudicato di tale autonomia arrivando persino a mettere in campo delle
forme di sfruttamento delle economie locali indonesiane che in qualche modo anticipano la fase
coloniale.
Il contatto dal punto di vista culturale della presenza olandese rispetto alle popolazioni locali è
assente: gli olandesi non interagiscono con la cultura locale. I portoghesi invece, soprattutto a Goa,
sulla costa sud occidentale dell’india, formano una cultura lusitano-asiatica (matrimoni misti,
enclave di cultura portoghese molto ibrida e radicata nelle cultura indiana). Nel caso olandese
invece troviamo una forma molto brutale di sfruttamento, l’assenza di una cultura mista olandeseasiatica, tracce di razzismo nei confronti della popolazione locale, l’interesse commerciale come
ragione di stato. Nel caso olandese è inesistente anche il missionarismo.
Importanti presidi olandesi: isola di Amboyna (nell’arcipelago delle molucche); Hirado (lungo le
coste orientali del giappone).
Costituzione del country trade (o commercio da india a india) = cabotaggio mercantile che doveva
consentire di sostenere un traffico mercantile autosufficiente dal punto di vista finanziario (tutte le
potenze europee si sono ispirate ai portoghesi in questo). Fino al momento in cui i portoghesi
scoprirono questo tipo di commercio gli europei non avevano occasione di piazzare sul mercato
29 orientale le proprie merci perché non c’era domanda. Il sistema degli scambi diventerà la soluzione
a questo problema.
Nel 1605 gli olandesi fondano basi anche sulle coste orientali dell’india (ma poi saranno espulsi
dalla presenza britannica. Il personaggio più importante nella costruzione di questo impero
commerciale olandese sarà Jan Pieterson Coen, governatore generale della compagnia unita delle
indie orientali tra il 1619 e il 1629. Sarà il teorizzatore delle linee di sviluppo olandese in oriente,
personaggio molto aggressivo e ambizioso, suggerirà di adottare politiche aggressive sia nei
confronti delle potenze europee sia verso i locali, ipotizzerà di tradurre la penetrazione commerciale
in conquista militare-territoriale.
La presenza olandese tende a stabilizzarsi nel corso dei primi 20-30 anni del ‘600 tentando anche di
strappare le basi commerciali portoghesi sia in india che nelle zone del golfo persico, nell’oceano
indiano, persino in cina. Gli olandesi riusciranno a stabilirsi a poco a poco in tutte le zone in cui
erano insediati i portoghesi proprio grazie a questa politica aggressiva. Si stabiliscono in altri luoghi
come Surat, nell’india nord occidentale, nel 1616, da dove stabiliscono una rete di traffici molto
importanti fino alla penisola arabica, con lo yemen in particolare, oppure a bandar abbas, in Iran.
Dagli anni ‘40 agli anni ‘60 vengono conquistate le varie basi portoghesi: alla fine di questo
processo ai portoghesi non resterà altro che l’enclave a Goa, che però ormai era di scarsa
importanza economica e politica.
Gli olandesi si ispirano moltissimo alle attività portoghesi, copiando da loro soprattutto per quanto
riguarda il sistema del country trade. La reinterpretazione di questo sistema da parte olandese
permise di creare una rete di scambio molto più efficiente di quella portoghese.
Dalla metà del 1600 si creerà una zona d’influenza olandese molto importante anche nel continente
africano.
Come la potenza portoghese anche quella olandese era destinata a subire un declino nel corso del
XVII sec. Motivi:
•
Il country trade era un sistema che per funzionare necessitava di un’opera di costante
monitoraggio, era difficile da mantenere per un tempo prolungato perché, in primo luogo,
c’era la tendenza da parte dei funzionari a fare affari in proprio svincolandosi dalla
compagnia. Il sistema inoltre doveva costantemente tenersi in contatto con le frequenti
variazioni di domanda in europa di merci orientali ma era difficile adattarlo ad essa perché
di base non era così flessibile.
•
L’assenza di patriottismo poneva le basi per il declino: molti imprenditori olandesi esclusi
dalla gestione tendevano a lavorare per la concorrenza, a fondare altre compagnie. Questo è
importante anche per spiegare il successo della potenza britannica, favorita dai contatti con i
mercanti olandesi in loco.
•
Nel XVIII sec. comincia l’apertura dei porti cinesi ai mercati, apertura che ha come
conseguenza quella di invogliare le potenze europee a trovare dei propri canali autonomi
verso l’oriente.
La Gran Bretagna
La compagnia inglese è stata la terza protagonista in questa fase di espansione coloniale commerciale verso l’oriente. Le origini della sua fortuna sono ancora più casuali che negli altri due
casi presi in considerazione. Il sistema commerciale inglese era il più antico, incentrato sul tessile e
basato sul mercato di anversa, che però entra in crisi nel XVII sec. → da qui l’esigenza di cercare
nuove rotte, nuovi mercati.
30 Fondata a metà ‘500, la compagnia Levant Company (compagnia per il levante) organizzava
commerci via terra limitandosi ad acquistare merci orientali nei mercati del mediterraneo -come ad
aleppo, in siria- (quindi rifacendosi alla mediazione dei mercanti musulmani). Ovviamente la
mediazione tendeva ad alzare i prezzi: prima ragione per cui gli inglesi iniziarono a pensare di
dover trovare una propria strada verso l’oriente. Altra motivazione per cambiare strategia e
rinnovare la propria iniziativa fu il successo degli olandesi.
Con l’aiuto di alcuni funzionari olandesi si fonda la compagnia inglese delle indie orientali, la
British East India Company. Il progetto iniziale era quello di arrivare ai mercati delle spezie
seguendo l’esempio olandese: l’india da questo punto di vista non era così importante, bisognava
spingersi più a est. Soltanto a causa del fatto che l’insulindia era già occupata dagli olandesi, molto
aggressivi e intolleranti nei confronti delle potenze concorrenti, gli inglesi furono portati ad
insediarsi altrove, facendo dell’india la base principale del loro impero (ma solo in un secondo
momento, in seguito al fallimento dei tentativi di insediarsi nei luoghi già occupati dagli olandesi).
Gli insediamenti originari, piccoli villaggi, si trasformarono in fortificazioni: i più importanti erano
il Fort Saint George, che poi diventerà la futura città di Madras, sulla costa sud-orientale dell’india,
oppure Bombay, in mano agli inglesi dal 1661. Ma quella più importante in assoluto sarà Calcutta,
sulla costa del bengala.
Struttura bicefala: un vertice localizzato sul territorio indiano e un’altra testa in patria (fatto comune
ad altre compagnie). Inizialmente vi erano una serie di governatori per ognuna delle basi inglesi, in
una fase successiva aumenterà l’importanza di calcutta e tale sede acquisirà il ruolo di supervisore,
quindi il governatore della presidenza di calcutta divenne governatore generale e poi viceré. In
inghilterra c’era una struttura articolata, formata dalla corte dei direttòri (struttura che costituiva la
dirigenza politica della compagnia, stabiliva le linee di politica generale) e dalla corte dei
proprietari (che radunava gli azionisti più importanti della compagnia).
Anche nel caso britannico lo scopo principale è quello commerciale: non c’era l’iniziale desiderio
di effettuare delle conquiste politico-territoriali. La trasformazione della natura della presenza
britannica in asia meridionale è stata l’oggetto di molte analisi e si è tutti concordi nel ritenere che
questa trasformazione sia stata legata a determinate contingenze e non sia necessariamente frutto di
ordini da parte della madre patria. Era controproducente per il commercio entrare in conflitto con le
popolazioni locali o farsi coinvolgere nelle tensioni e nei giochi di potere della società indiana,
molto frammentata a livello politico. La presenza inglese in india quindi nasce inizialmente solo
sotto la forma di potenza mercantile.
Fattori che contribuirono al cambio di rotta e alla formazione di un impero coloniale:
•
Motivazioni politiche: condizioni politico-amministrative peculiari del continente indiano
tra ‘600 e ‘700. L’india non ha quasi mai avuto delle entità politiche che abbracciassero tutto
il continente. Non era mai esistita un’unità politica per diverse ragioni: la sfera della politica
era considerata subalterna all’aspetto religioso, non era fonte di valori assoluti e non era
considerata un fine in sé, cosa che ha scoraggiato la formazione di grandi poteri politici nel
corso del tempo.
Inoltre in india la particolarità e la località prevalgono sull’unità. C’è un dharma per ogni
gruppo che compone la società indiana, non esiste un bene assoluto, un diritto valido per
tutti, perché tutto è relativo al varna, alla casta di appartenenza → questo fa sì che nella
tradizione indiana chi governava fosse spinto a valorizzare e a mantenere le peculiarità
locali, a non intervenire sulle diversità sociali (vd trattato “leggi di Manu”).
Tutto questo era un ostacolo religioso e culturale nei confronti dell’idea di stabilire un
grande potere unitario, un unico impero sul continente indiano.
Altro fattore che lo impediva era la diversità climatica e metereologica del vasto territorio
indiano.
31 Il Sultanato di Delhi (dal 1206 al 1526) e l’Impero Moghul (dal 1526 al 1858) sono i due più
importanti stati musulmani nel continente indiano. Anche i sovrani musulmani avevano un
potere solo nominale, si limitavano ad ottenere una sorta di sottomissione simbolica da parte
dei principi locali, spesso previo pagamento di un tributo annuale.
Questa cornice storica spiega perché in india gli europei trovano un sistema politico molto
frammentato. Nei primi anni del ‘700 l’impero moghul inizia una fase di declino: ormai
controlla solo una limitata porzione di territorio verso nord. I poteri che gli inglesi trovano
nell’india del sud e nel bengala non sono rappresentati da altro che da principi locali,
talvolta ex governatori moghul resisi indipendenti, oppure da sovrani indu (molti dei quali di
origine persiano-islamica) in competizione l’uno con l’altro.
•
Nel corso del ‘700, in particolare tra gli anni ‘40 e ’60, si ha un forte armamento delle
potenze europee in funzione di ciò che stava accadendo in europa (1701-1714: guerra di
successione spagnola, che vede coinvolte francia, gran bretagna e austria; 1756-1763: guerra
dei sette anni, che coinvolge inghilterra, prussia, austria, francia e russia). Anche le
compagnie orientali vengono rafforzate e armate e la guerra si combatte anche in suolo
indiano. In particolare sul suolo indiano si combatterà una guerra tra inghilterra e francia
(presente sulla costa orientale dell’india → Pondicherry). Il conflitto si trasferisce al
subcontinente indiano provocando una serie di conflitti (3 guerre) tra inglesi e francesi in tra
gli anni ‘40 e ‘60 del ‘700, che vedranno uscire vincente l’inghilterra. Nel 1761 gli inglesi
conquistano Pondicherry. La terza guerra anglo-francese si conclude nel 1763 e segnerà la
fine delle ambizioni francesi in territorio indiano.
•
Gli europei iniziano a percepire la propria superiorità militare nei confronti delle potenze
locali (in principio questa superiorità era solo marittima, gli inglesi non osavano sfidare i
grandi eserciti orientali, come quello moghul).
Chiuso inaspettatamente word → recupera 6-7 righe!
1757: battaglia di Plassey tra inglesi e nawab (da cui “nababbo”) del bengala. La strategia
ufficiale era quella di limitarsi al commercio, gli scontri con i poteri locali erano molto mal
visti dalla madre patria, erano iniziative prese sulla base dell’ambizione individuale dei
funzionari della compagnia (principio del man on the spot). Questo processo segna l’inizio
della trasformazione della presenza inglese nel subcontinente. Gli inglesi ora sono percepiti
dal mondo indiano come una potenza militare, con tutto ciò che ne consegue. La battaglia di
Plassey fa della compagnia delle indie uno dei tanti poteri indiani che si contendono il
territorio ed essa si troverà invischiata in tutti quegli scontri interni da cui non riuscirà più ad
uscire. Ciò comporterà la difesa del proprio territorio ma anche attacchi preventivi, di tutela
→ meccanismo che portò gli inglesi, quasi involontariamente, alla conquista di nuovi
territori.
• L’imperatore moghul, che contava ben poco dal punto di vista politico ma molto da quello
simbolico, aveva a sua volta riconosciuto la compagnia delle indie come legittimo
governante del bengala.
Nel 1764 verrà riconosciuto alla compagnia il cosiddetto diwani, il diritto di riscuotere le
imposte sul territorio, accompagnato da doveri amministrativi e di mantenimento
dell’ordine. Così la compagnia otterrà l’autosufficienza economica. L’espansione
territoriale, per quanto paradossale, finirà per autoalimentarsi attraverso le imposte indiane.
32 LEZIONE XXII venerdì 11/05/2012
Appunti di Margherita Roiatti
Modalità di espansione coloniale inglese: non si può affermare che l’espansione territoriale in india
fosse parte di un progetto imperiale, è stato più un incidente di percorso all’inizio. Questo processo
di trasformazione della presenza inglese da puramente commerciale a politica non si è realizzato
senza attriti con la madrepatria fino a metà ‘800 → costante braccio di ferro tra la British East India
Company e la madrepatria per circa un secolo. Corona e compagnia hanno cercato di imporsi l’una
sull’altra: la corona cercava di imbrigliare la compagnia che diventava sempre più importante
economicamente e politicamente e la compagnia cercava di ritagliarsi spazi di autonomia dalle
politiche di londra.
Nel 1858, al culmine dell’attrito, viene estinta l’EIC con un atto del governo britannico e tutti i
possedimenti fino ad allora acquisiti vengono fatti propri dello stato britannico → nascita della vera
e propria British India.
Nella fase di attrito intermedia ci sono tentativi legislativi da parte della corona per imbrigliare la
compagnia. Particolarmente importante è il Regulating Act II del 1773, con il quale si stabiliva
l’organizzazione e la suddivisione in 3 presidenze-province (calcutta, madras, bombay) e si
separavano per la prima volta le attività private commerciali (fine di lucro personale) dei funzionari
della compagnia da quelle della compagnia vere e proprie. Prima non c’era questa incompatibilità
tra le due attività e ciò aveva lasciato spazio ad azioni losche e mambassa da parte di giovani
rampolli della borghesia britannica che partivano e tornavano carichi di ricchezze. Venne coniato il
termine nabobs, “nababbi” (da nawab = principe indiano) con cui si indicavano sia i benestanti che
avevano fatto la loro fortuna in india sia i dipendenti della compagnia che si erano arricchiti grazie
al commercio illegale e la corruzione → forte polemica da parte di stampa e opinione pubblica
inglese. Warren Hastings, padre della compagnia e governatore generale di calcutta, venne
processato per corruzione e malversazione. Il processo suscitò molto scalpore, più che contro la
persona era simbolicamente un processo nei confronti della compagnia. Hastings venne assolto ma
furono gettate molte ombre sul funzionamento dell’EIC. A causa di questa polemica si arrivò alla
decisione di dichiarare incompatibili le attività private, per cui chi apparteneva alla compagnia non
poteva portare avanti commerci personali paralleli.
Anche se all’inizio c’era una non-ingerenza inglese negli aspetti sociali e religiosi della
popolazione, quando la EIC diventa anche amministratrice del territorio cambia la sua attitudine
verso la popolazione indiana.
Inizialmente, benché gli inglesi obiettassero su molte cose e fossero molto scettici su tutto ciò che
fosse religioso e mistico e disgustati dai costumi contrari ai diritti umani, la politica ufficiale della
compagnia era quella di non intromettersi, mantenendo l’aspetto commerciale come unico fine
(introdurre riforme poteva comportare tensioni e restrizioni del commercio).
Da metà ‘700 in poi invece, quando l’EIC si trasforma in potere politico, e dagli anni’60, con
l’ottenimento del compito della riscossione delle imposte, i britannici sentono di avere un dovere
nei confronti della popolazione indiana: emergono il concetto e l’ideologia del “white man’s
burden” per cui gli europei tendono a giustificare la propria presenza in india con la necessità di
riformare il mondo indiano, legittimati dal loro essere “società superiore”. I britannici sentivano su
di loro la responsabilità del benessere della popolazione indiana. Ciò porterà ad una riforma della
società indiana per mano inglese attraverso atti legislativi e amministrativi.
La causa principale di questo processo sta nel cambiamento filosofico all’interno della madrepatria
che si ripercuote sull’india: la corrente di pensiero utilitarista o positivista (Bentham e J.S. Mill)
influenza cultura, politica ed economia inglesi. Si tenta di applicarle anche alle classi subalterne con
la messa in pratica di una nuova politica urbanistica. In inghilterra la politica di riforme fu molto
inefficace a causa delle correnti conservatrici (chiesa e aristocrazia), paradossalmente invece l’india
divenne un laboratorio per applicare le idee nate in inghilterra, dove non riuscivano a trovare
33 un’applicazione efficiente. In india furono inviati formatori britannici e funzionari della compagnia
influenzati dall’utilitarismo. Questa visione superava le precedenti visioni deterministiche del ‘600
e dell’inizio del ‘700 che consideravano gli esseri umani e le popolazioni come portatori di
caratteristiche molto diverse per nascita e influenzati da certe caratteristiche ambientali (tarda
applicazione nel libro “La democrazia in America” di Tocqueville del 1835). L’utilitarismo si
basava invece sulla convinzione dell’inesistenza di differenze intrinseche tra gli uomini, per cui
ogni umano avrebbe in sé le potenzialità di diventare civilizzato ai più alti livelli (partendo quindi
comunque dal presupposto che la superiorità risieda nella civiltà inglese o europea). Era possibile
intervenire per favorire questo passaggio (concezione chiaramente positivista) attraverso interventi
legislativi ben calibrati in punti chiave della società, allo scopo di trasformarla e civilizzarla: grande
fede nel potere benefico della legge di matrice umana.
L’utilitarismo e il positivismo ebbero quindi un’influenza enorme nel determinare la politica
britannica in india. Ebbero effetti positivi o negativi? Per alcuni interventi fu un processo positivo:
soprattutto negli anni 1818-1820, grazie all’influenza di alcuni governatori generali riformisti, fu
proibita la sati, innalzata l’età in cui era possibile contrarre matrimonio -soprattutto per tutelare le
bambine- e l’età per lavorare -in particolare per il lavoro in miniera-.
Però l’intervento porterà gli inglesi a entrare in attrito con la società indiana, per la quale certi
costumi avevano fondamento religioso ed erano intoccabili.
Inoltre c’è da tenere in considerazione un aspetto di carattere culturale: paradossalmente questa
corrente utilitarista, che sembra abbastanza “avanzata” in quanto parla di uguali potenzialità di
sviluppo per tutti gli esseri umani, in realtà è molto arretrata e ha derivazioni razziste. Si partiva dal
presupposto che gli indiani fossero uguali agli inglesi ma erano al tempo stesso considerati arretrati:
per risolvere la questione bisognava trovare il motivo di tale arretratezza. Tutto il sapere
essenzialmente religioso e la cultura indo-musulmana vennero considerati dagli inglesi i
responsabili del declino, dell’arretratezza e della barbarie in cui l’india si trovava.
Si tratta di un forte cambiamento rispetto agli anni precedenti in cui gli inglesi non guardavano
negativamente la cultura indiana, anzi, il primo sentimento con cui i funzionari osservavano la
cultura indiana era di interesse e rispetto (vd scoperta testi sanscriti). Gli studiosi orientalisti delle
prime cattedre di studi orientali a Oxford e Cambridge cominciarono a tradurre opere antiche e ad
esse riconoscevano un grande valore storico e culturale. Gli inglesi traevano così giustificazione
della loro presenza dalla sensazione di dover riscattare la civiltà indiana, che aveva raggiunto picchi
altissimi in passato, dal declino contemporaneo.
Comunque c’è un fraintendimento di base nel considerare i testi vedici al pari della bibbia (cultura
europea molto scritturalista).
Fra fine ‘700 e inizio ‘800 a causa dell’influenza della corrente utilitarista gli inglesi cambiano
atteggiamento e spiegano il decadimento -dato per scontato- della civiltà indiana come la
conseguenza inevitabile della sua cultura. L’utilitarismo è una corrente di pensiero secolare ante
litteram che vede nell’influenza del sacro una sorta di catena per la società e la cultura indiana, che
era permeata dal sacro in ogni suo aspetto.
Conseguenze:
• Attitudine di minore rispetto nei confronti della tradizione e della cultura dell’india (tradotta
in una politica di riforme).
• Dal punto di vista della cultura e dell’educazione, quando gli inglesi diventano amministratori
del territorio sentono l’esigenza e il dovere di impartire una certa educazione e gestire il
sistema d’istruzione. Il prevalere dell’utilitarismo ha effetto negativo sul mantenimento della
cultura indiana.
34 L’impostazione di una prima politica culturale incomincia nel 1813, anno in cui un atto di legge, il
Charter Act, stabilì lo stanziamento di fondi annuali per il finanziamento di scuole per la
popolazione indiana.
Ben presto ci si domandò cosa insegnare in queste scuole: nasce un dibattito all’interno della
compagnia ed emergono due correnti: gli orientalisti ritenevano che il mezzo d’istruzione dovessero
essere le lingue locali e il contenuto la cultura indiana (induismo e islamismo), gli anglicisti al
contrario erano convinti che bisognasse insegnare in inglese la cultura occidentale, contribuendo
così allo sviluppo della società indiana. Il dibattito si conclude nel 1835 grazie a Lord Macaulay,
responsabile educativo e rappresentante dell’utilitarismo, che pubblica “Minute on indian
education”, un saggio in cui si danno le linee guida per la politica della compagnia: si stabilisce che
il contenuto dell’educazione debba essere la cultura europea (Macaulay scrive che un solo scaffale
della biblioteca britannica vale millenni di cultura indiana) e si delineano la struttura e
l’organizzazione del sistema educativo, che dovrà essere focalizzato sull’istruzione superiore college- per educare e formare delle élites colte. L’idea era quella di attivare un meccanismo di
“filtrazione dall’alto verso il basso” attraverso cui la cultura europea potesse essere trasmessa dalle
élites alle classi sott’ordinate. In realtà quegli indiani così fortunati da entrare in contatto con la
cultura europea e che poterono imparare la lingua inglese si guardarono bene dal lasciarla “filtrare”,
anzi la monopolizzarono. Si creò così un gap tra la ristretta élite di indiani nativi educata e istruita
all’occidentale e la grande massa della popolazione legata ancora alla cultura tradizionale → fattore
importante nel sorgere dei futuri nazionalismi. Il mondo indiano, o meglio le sue élites, si resero
presto conto che riuscire a entrare in contatto con la cultura e la lingua inglese e possederla era una
conquista importante che definiva il fatto di essere o meno una persona influente.
Si diede vita a una struttura molto squilibrata: i fondi della compagnia vennero versati per la
creazione di college ma proprio per questo si andava a creare quel sistema dalla “testa grande e il
corpo piccolo”. Quando gli inglesi presero atto dello squilibrio del sistema, verso la metà dell’'800,
ci fu un tentativo di sanarlo da parte del governo, che ordinò di investire gran parte dei fondi
nell’educazione primaria, ma ormai il danno era fatto e lo squilibrio non venne più sanato.
Non tutte le zone dell’india furono interessate dal processo allo stesso modo: essenzialmente furono
i centri urbani e le zone delle tre presidenze quelle in cui vennero fondate le grandi università
antesignane delle odierne. Tale fu il successo di questa iniziativa che da parte delle élites indiane
partì una protesta per l’esiguità di fondi e iniziative. Il compromesso venne trovato nell’iniziativa
privata: government schools + donazioni private per la fondazione di college.
Emerse un problema riguardante il contenuto dell’educazione, che sì, doveva essere in inglese e
sulla cultura europea ma che tipo di cultura? Era necessario un escamotage perché il sapere europeo
insegnato nelle università inglesi di “Oxbridge” era fortemente permeato dalla religione e questo
non era accettabile per gli utilitaristi che operavano in india. La letteratura anglosassone divenne il
nucleo fondamentale e centrale dell’educazione impartita agli indiani. L’india divenne una specie di
laboratorio: la letteratura inglese prima di essere applicata in india non aveva importanza in
madrepatria (non c’era nemmeno una cattedra di English Literature a Oxford).
Il fatto che la cultura europea non si diffondesse in maniera uniforme sul territorio indiano fece sì
che nelle zone in cui veniva insegnata nascessero dei nuclei di indiani per nascita ma europei per
cultura i quali funsero da mediatori presso il resto della popolazione. Tra questi gruppi nasceranno
delle spinte (inizialmente molto timide) nel corso dell’‘800 che cominciarono a criticare la
dominazione coloniale e a spingere per un autogoverno.
La cultura inglese comunque sarà sfruttata e accettata da indu e parsi. Questi ultimi costituiscono
una minoranza religiosa, all’epoca comprensiva di poche migliaia di unità, che viveva su territori
costieri nord-occidentali dell’india. Il loro nome etnico deriva da pars (= persiano) ma vennero
chiamati dagli arabi fars (da cui lingua farsi). I parsi erano zoroastriani (religione persiana
precedente l’islam) e costituivano una comunità già mercantile che divenne poi mediatrice culturale
e fu molto influenzata dal processo di occidentalizzazione.
35 I musulmani rimasero drammaticamente indietro da subito a causa dell’ostacolo costituito dalla loro
stessa identità religiosa. Sono la comunità che subì maggiormente la dominazione inglese, che
strappò loro di mano il governo (seppur solo formale) dell’india -impero moghul-. Mentre per gli
indu il potere politico non era altrettanto importante di quello religioso per cui era possibile
collaborare con gli inglesi e abbracciare la loro cultura, per i musulmani la situazione era opposta,
essendo il possesso politico indispensabile per il dar-al islam. Di conseguenza l’india inizia a essere
vista dai musulmani dar-al-harab, anche se formalmente non è mai stata dichiarata “territorio di
guerra” perché avrebbe significato fare guerra agli inglesi o emigrare nel più vicino dar-al-islam.
Gli ulama diedero prova di cautela e prudenza cercando un modus vivendi all’interno dell’india
coloniale piuttosto che dichiarare la jihad (guerra agli infedeli). Si tennero sempre lontani dal
conflitto, almeno fino alla fine dell’‘800, anche se avevano orrore di collaborare con il potere
britannico perché non islamico.
Gli arabi quindi rimasero drammaticamente indietro per quanto riguarda l’istruzione europea: si
crea un gap, uno squilibrio all’interno dell’india tra musulmani e indu per l’importanza sociale ed
economica di questi ultimi a scapito dei primi. Per ragioni sempre culturali e religiose gli indu erano
abbastanza attivi in imprenditoria e finanza, a differenza degli islamici che a causa della sharia
vedevano negativamente la finanza: era fatto loro divieto di chiedere e concedere prestiti a interesse
in quanto pratica contraria al principio della sottomissione e abbandono a dio.
I musulmani piuttosto traevano sostentamento dall’impiego pubblico o dalla rendita fondiaria, due
attività tra le più colpite dalla dominazione britannica tra ‘700 e ‘800 → scomparsa del potere
islamico e delle mansioni che da esso derivavano.
Fino a metà dell’‘800 gli inglesi continuano a muoversi in india sotto l’egida dell’impero moghul
per cui l’EIC era considerata una potenza indiana → gli stessi inglesi si trovano in una posizione
scomoda dovendo riconoscere la supremazia almeno formale dell’imperatore e sottostare alla
ritualità e alla tradizione indo-musulmana (condizione anacronistica per gli inglesi, che la vivevano
con sempre maggiore malessere).
Nel corso dell’‘800 emerge una forte critica della corruzione morale e della dissolutezza dei
principi indiani che compare anche sulla stampa britannica. Gli inglesi mordevano il freno,
subivano controvoglia la propria condizione e le restrizioni loro imposte e iniziarono a progettare di
liberarsi anche di quella parvenza di potere che l’imperatore moghul ancora aveva.
In un primo momento si muovono molto bene in india → non era solo sulla forza delle armi che il
potere inglese poteva imporsi: la sottomissione all’imperatore si era rivelata utile, almeno
inizialmente. Con la sua benedizione potevano infatti mostrarsi ed essere riconosciuti da parte delle
popolazioni locali come autorità legittima.
Questo valse dagli inizi dell’espansione coloniale fino ai primi anni dell’‘800, poi attraverso il
meccanismo a catena di conquiste, espansione e controllo, arrivarono all’autoproclamazione come
unico potere sovrano in india nel 1818 → “Paramount power” 36 LEZIONE XXIII lunedì 14/05/2012 Appunti di Chiara Pozzan
Gli inglesi avevano una fede assoluta nella capacità della norma, della legge di trasformare la
società; a partire dalla fine del ‘700 realizzarono in india il riordino dei diritti sulla terra. Gli inglesi
sperimentano diversi modelli di proprietà della terra, ognuno dei quali si rivelerà problematico dal
punto di vista della stabilità della società indiana. La mentalità britannica, basandosi sullo scenario
inglese e sul ruolo dei landlords in patria, considerava importante l’esistenza di una classe di
proprietari terrieri. Gli amministratori coloniali inglesi in india pensavano che la classe di nuovi
proprietari terrieri indiani da loro creata sarebbe stata una fonte di stabilità sociale e sarebbe sempre
stata loro grata. Una ragione più propriamente economica che portò alla creazione di questa nuova
classe era il bisogno di regolarizzare il flusso degli introiti provenienti dalla tassa fondiaria.
Fino ai primi 10-20 anni dell’800 la principale fonte di guadagno della compagnia delle indie era
proprio la tassa fondiaria. Solo una volta sviluppata l’industria manifatturiera tessile in inghilterra
una forte fonte di guadagno diventò l’esportazione di tessuti in india (a danno dell’industria locale).
Nel corso del XIX secolo però non c’era ancora un rapporto di scambio tra inghilterra e india.
Per ragioni legate al funzionamento della società indiana la compagnia delle indie non aveva un
afflusso di denaro costante: non esisteva un sistema uniforme valido in tutta l’india, prevaleva la
consuetudine locale, ogni comunità rurale tendeva a stabilire dei diritti consuetudinari col principe
che governava un certo territorio, l’imposta era flessibile, basata sul tipo e la quantità di raccolto,
non esisteva un sistema catastale che stimasse e registrasse la produzione della terra. La tassa
veniva pagata sul prodotto effettivo attraverso un sistema misto (in parte in denaro, in parte in
natura). Il sistema flessibile dei rapporti tra chi possedeva la terra e chi la coltivava faceva sì che si
consentissero delle dilazioni. Altri diritti erano legati anche alle istituzioni religiose locali.
I britannici furono colpiti dal caos che vigeva nel campo dei diritti fondiari: gli amministratori
britannici si posero l’obiettivo di riformare questo sistema, influenzati dalle teorie utilitariste. Nel
1793 in bengala con il Permanent settlement si sperimenta per la prima volta un nuovo sistema
ideologico-amministrativo. Il permanent settlement è una legge che si basa su 4 capisaldi:
•
•
•
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individuazione di un proprietario individuale delle terre
abbandono del pagamento in natura
stima della produttività di ogni singolo appezzamento di terra
fissità dell’imposta (l’ammontare della tassa era permanente anno dopo anno)
Nel bengala ci sono famiglie musulmane che hanno il controllo del territorio (per nomina o per
conquista militare diretta) ma non esistono dei veri e propri proprietari; ci sono figure chiamate con
il termine persiano zamindar che significa “colui che si occupa della terra” (e non “proprietario”).
Gli inglesi però assumono lo zamindar come proprietario. Si tratta di un equivoco: in india non
esisteva il concetto di proprietà della terra, c’era piuttosto una concezione religiosa indu (che i
musulmani non avevano modificato) legata alla terra.
Spesso l’individuazione dello zamnidar da parte inglese avveniva sulla base di informazioni
sbagliate, inoltre la stima della produttività veniva fatta in maniera caotica e spesso era troppo alta
così l’imposta che veniva fissata era eccessivamente elevata. Per di più, non era prevista alcuna
flessibilità nel pagamento delle imposte, non venivano concesse dilazioni o eccezioni in caso di
cattivo raccolto.
Questa trasformazione sarà molto brusca dal punto di vista delle comunità locali. Dal punto di vista
più sociologico che storico il cambiamento si accusava maggiormente più che altro perché le
comunità non erano avvezze ad interagire con il potere in maniera meccanica e uniforme bensì a
livello personale e locale. L’idea diffusa era quella di un potere che si manifestava a livello locale
attraverso figure di mediazione (capi di villaggio) con le quali si poteva entrare in contatto e
trattare: era un potere dal volto umano.
37 I britannici spersonalizzano il potere, non sono disposti a interagire con la società ma cercano
l’efficienza amministrativa a prescindere dalle consuetudini e dalle circostanze locali. L’india era
invece avvezza ad un sistema in cui il principe tendeva a non intromettersi e a non andare contro le
tradizioni locali, a intervenire solo quando c’era una rottura del dharma, cioè quando i vari gruppi
che compongono la società non compivano il proprio dovere. Il buon principe lascia che siano le
autorità castali locali ad applicare la legge e a gestire i conflitti meno gravi. Dato che il dharma è
diverso per ciascuno non esiste un bene assoluto, un diritto assoluto.
Il governo efficiente secondo la mentalità britannica invece è quello che fa applicare le leggi.
Conseguenza: da risorsa che doveva servire al mantenimento di tutta la società la terra si trasforma
in un bene economico, in qualcosa che ha un prezzo, che può essere messa sul mercato, venduta,
ipotecata ecc.
La società indiana è una comunità in cui chi ha funzioni di autorità ha diritti ma anche doveri, è
tenuto in funzione del proprio status e per mantenere la propria fama ad incorrere in molte spese
(per festività o celebrazioni all’interno del villaggio). Gli zamindar si rendono conto delle
potenzialità del loro status di proprietari terrieri: possono recarsi dai finanziatori e impegnare la
propria terra in cambio di grandi quantità di denaro. Gli zamindar fanno un cattivo uso della
ricchezza che si trovano ad aver ricevuto dall’amministrazione britannica, spesso alla scadenza gli
zamindar non hanno a disposizione il denaro per pagare la tassa (il concetto di risparmio non era
radicato nella società). Nel corso del tempo molti zamindar si trovano ad essere profondamente
indebitati. Per di più, mentre nella società indiana ciò che contava di più era l’oralità (la parola data
era sacra e doveva essere mantenuta), per gli inglesi era fondamentale la prova scritta: colui che
prestava denaro agli zamindar si trovava quindi in una posizione di grande vantaggio e spesso
aveva la possibilità di gonfiare le cifre del debito perché l’unica cosa che contava per gli inglesi al
momento della verifica era il libro mastro del creditore, mentre gli zamindar non avevano né
ricevute né note scritte. Il creditore così si appellava agli inglesi e chiedeva alla corte della
compagnia delle indie il pagamento del debito da parte dello zamindar o l’espropriazione della
terra. A causa di questo meccanismo nel corso di vent’anni un terzo delle terre aveva cambiato
proprietari → sradicamento di un’intera classe prima benestante.
Nel bengala e in generale nell’india orientale gli zamindar erano musulmani (a causa delle invasioni
islamiche i musulmani si erano sovrapposti al sistema indiano senza però modificarlo). La terra
passò gradualmente agli indu e ciò ebbe conseguenze dal punto di vista dei rapporti tra le due
comunità: base su cui nella regione del bengala sorgerà un conflitto tra musulmani e indu.
I nuovi proprietari non erano partecipi, erano assenti → trasformazione dell’economia locale
indiana. Molte famiglie indiane cominciano la propria fortuna proprio grazie o a cause delle
conseguenze del permanent settlement.
I britannici comunque cercheranno di monitorare gli effetti delle proprie riforme. In zone diverse
sperimentarono altri sistemi, sempre accomunati dalla rigidità e dall’individuazione di un
proprietario di riferimento.
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•
•
Il permanent settlement applicato nel Bengala e più a nord (ad es. nella regione del bihar
venne detto zamindari system).
Più a sud, nella provincia di Madras i proprietari furono individuati tra i coltivatori. I
contadini venivano chiamati localmente raiyat → gli inglesi chiamarono questo sistema
ryotwari system.
Ancora più a nord, nell’unità amministrativa di Oudh (ribattezzata united provinces) gli
inglesi individuavano una comunità di villaggio attribuendo la proprietà della terra in
maniera collettiva all’intera comunità. Sistema detto mahalwari system (da mahal, termine
usato per definire l’appezzamento di terreno).
38 Ai britannici sfuggiva che proprio la natura fissa, rigida del sistema era inadatta all’ambiente e alle
strutture sociali indiane.
Questa riforma della terra iniziata molto presto, già alla fine del ‘700, da’ l’idea di quanto gli inglesi
credessero nella civilizzazione del continente indiano attraverso la riforma delle sue istituzioni.
Avevano una fede cieca nella possibilità di trasformazione ed evoluzione della società indiana. Ci
sarà una serie di governatori generali influenzati dalle teorie utilitariste, le quali però nel giro di
qualche anno dovranno essere ridimensionate. Proprio l’effetto di queste riforme porterà la
compagnia delle indie ad un vero e proprio scontro con la società locale. La società indiana ha una
certa capacità di assorbimento dei cambiamenti e non c’è una reazione violenta, almeno
inizialmente. Però nel corso dell’800 scoppierà un grande conflitto dovuto all’accumularsi delle
riforme attuate dai britannici che vedrà gli indiani scontrarsi con il mondo coloniale. Il responsabile
ultimo di questi eventi può essere identificato nel governatore generale (dal 1848 al 1856)
utilitarista e riformatore Dalhousie, famoso per una serie di teorie e dottrine profondamente
positiviste/utilitariste. Il suo atteggiamento era un misto tra fiducia nelle prospettive di
miglioramento della società indiana e disprezzo nei confronti dei principi locali e delle vecchie
istituzioni considerate causa dell’arretratezza del continente. L’imperatore moghul a delhi è ancora
formalmente il sovrano ma non ha grandi poteri, così come i principi locali. Dalhousie coniò due
dottrine:
•
Lapse (estinzione): la compagnia delle indie dichiara unilateralmente che in tutti i casi in cui
una dinastia non avesse più avuto un erede non avrebbe più potuto adottare un bambino
com’era consuetudine ma si sarebbe estinta e tutti i suoi possedimenti sarebbero stati
acquisiti dalla compagnia.
•
Paramountcy (supremazia): gli inglesi avevano il diritto morale di supervisionare il modo in
cui gli altri poteri indiani amministravano i propri territori. In caso di disaccordo con le
decisioni di un principe la compagnia si arrogava il diritto di invadere il suo territorio e
annetterlo militarmente.
Per un motivo o per l’altro un gran numero di principati venne annesso alla compagnia.
La sottovalutazione dell’importanza del mantenimento di certi accordi (poi violati dalla stessa
compagnia con l’annessione) nonché dell’importanza e della profondità della rete di contatti sociali
del nawab fu un grave errore. La destituzione del nawab porterà ad uno shock della società locale.
L’incomprensione inglese della società indiana diverrà evidente. I britannici, ritenendo di aver
favorito il processo di miglioramento della società locale, non capivano come gli indiani potessero
ribellarsi contro di loro: nella loro visione avrebbero dovuto dimostrarsi grati.
Nel 1857-58 ci sarà una rivolta che interesserà le truppe anglo-indiane della compagnia delle indie.
Scoppiata in una caserma presso un villaggio nella località di Meerut si estende in seguito in tutto
l’altopiano centrosettentrionale. Si tratta della prima e unica occasione in cui gli inglesi si devono
confrontare con una grande rivolta armata e vanno molto vicini a perdere il controllo dell’india. Le
forze militari inglesi erano reclutate tra la popolazione locale, in gran parte tra i musulmani
bengalesi e comunque tendenzialmente in india orientale, solo i reparti d’artiglieria erano inglesi.
Scintilla della rivolta (episodio storicamente accertato): nell’estate del ‘57 vennero distribuiti dei
nuovi fucili che si caricavano in maniera diversa, i soldati dovevano mordere la cartuccia, aprirla e
versare la polvere da sparo che vi era contenuta nella bocca del fucile, quindi riempire il bossolo,
che era di carta rivestita con qualche tipo di materia grassa per renderla impermeabile, all'interno
del moschetto, prima di caricarlo con una pallottola di piombo. Girava voce che per le cartucce,
prodotte in modo standardizzato per questo nuovo fucile, si usasse grasso di maiale, considerato
impuro dai musulmani o sego di bovino, considerato sacro dagli Hindu. I soldati, credendo che gli
inglesi volessero, contaminandoli, allontanarli dalle loro caste di appartenenza per poterli meglio
39 controllare, si rifiutarono di caricare le armi e uccisero gli ufficiali inglesi. La rivolta si propaga ad
altre guarnigioni fino alla totalità dell’altipiano.
Si trattò del culmine di uno stato di tensione e di malessere che si manifestava tra i soldati e più in
generale tra la società indiana. Gruppi sociali pronti a prendere le armi contro gli inglesi: principi
spodestati che avevano perso i propri possedimenti e il titolo a causa della compagnia delle indie, ex
soldati di stati indiani annessi dalla compagnia.
La rivolta, finita nel ’58, è stata definita dalla storiografia britannica un semplice ammutinamento
(Indian mutiny) mentre dagli storici nazionalisti indiani è considerata la prima guerra di
indipendenza. In realtà un primo sentimento nazionalista indiano inizierà a manifestarsi solo alla
fine del secolo. In realtà è stata una manifestazione di resistenza del mondo tradizionale indiano che
sentiva che il suo tempo era giunto alla fine: l’infiltrazione della mentalità coloniale nel tessuto
sociale indiano stava ormai modificando l’intero continente.
Gli studiosi affermano che se i rivoltosi si fossero organizzati meglio e dispersi su tutto il territorio
anziché barricarsi solo nelle grandi città sarebbe stato difficile per gli inglesi riprendere il controllo.
Per i rivoltosi il punto di riferimento era il vecchio imperatore moghul Bahadur Shah II che
risiedeva a delhi ed era considerato l’unico rappresentante dell’autorità legittima in india.
L’imperatore in realtà non aveva manifestato alcun interesse a capeggiare la rivolta.
Dopo questi episodi gli inglesi persero un po’ del loro autocontrollo, in parte anche a causa delle
notizie delle efferatezze compiute dai rivoltosi. Si diffuse un clima di panico: delhi, assediata da
tempo, fu rasa al suolo e i suoi abitanti vennero uccisi dagli inglesi senza distinzioni. Nasce un
clima di tensione e di ostilità reciproca tra mondo indiano e mondo coloniale.
Vi furono conseguenze sia dal punto di vista politico che culturale. Dal punto di vista politico ha
termine il braccio di ferro tra londra e calcutta iniziato tra ‘600 e ‘700. Si conclude il tentativo
inglese di controllare la compagnai delle indie: dopo la rivolta la corona decide di estinguere la
compagnia e fa propri tutti i possedimenti ottenuti fino a quel momento → nasce l’india britannica
vera e propria (passaggio ulteriormente sancito nel 1877 dalla proclamazione della regina vittoria
come imperatrice delle indie). Inoltre i britannici mettono in atto un’indagine sulle responsabilità
della rivolta. Come avevano mostrato un’incomprensione della natura della società indiana
dimostreranno di non capire fino in fondo le cause ultime dello scontento che aveva portato alla
ribellione. Disraeli sarà una delle poche voci critiche nei confronti dell’operato della compagnia
delle indie, sostenne che la politica miope della compagnia, che non aveva rispettato il potere delle
autorità locali, era stata la prima causa scatenante. Nonostante queste forti affermazioni la posizione
ufficiale individuava le cause della rivolta nell’ingratitudine indiana, per gli inglesi totalmente
illogica e insensata. Era per loro incomprensibile che gli indiani non si rendessero conto che era nel
loro interesse continuare a sostenere il colonialismo → fine dell’utopia utilitarista: la generazione di
amministratori influenzata dal positivismo-utilitarismo concluse che non c’era nulla da fare, che gli
indiani non sarebbero mai potuti diventare come gli inglesi. Fine di una serie di concezioni molto
idealizzate sulla possibilità che l’india si potesse trasformare nel giro di pochi anni in una sorta di
società occidentale trapiantata in oriente. Abbandono di queste convinzioni e presa di coscienza
della diversità tra le due culture e le rispettive società.
Ci saranno dei cambiamenti anche dal punto di vista amministrativo, a partire dal riequilibrio delle
forze militari: aumento del numero di inglesi tra le truppe e recluta di soldati indiani solo da settori
e da caste del mondo indiano considerati affidabili. Nascita di uno sforzo di catalogazione della
società indiana, che venne divisa tra caste marziali e non marziali. La scelta aveva a che fare con
l’attitudine ad essere disciplinati, a non ribellarsi. In questo periodo nasce anche il concetto delle
criminal tribes, dell’idea che esistessero dei gruppi sociali, delle caste, delle famiglie
intrinsecamente cattive e con attitudini tendenzialmente criminali.
40 LEZIONE XXIV giovedì 17/05/2012 Appunti di Chiara Pozzan
1958: passaggio di sovranità in india dall’impero moghul a quello britannico.
Aspetto militare: il potere britannico, vissuta l’esperienza della rivolta del ’57, comincia un’opera di
catalogazione e classificazione della popolazione indiana sulla base della sua marzialità (in pratica
sulla base della partecipazione o meno alla rivolta) → distinzione, poi diventata celebre, tra martial
races e non martial races. Tale distinzione non ha a che fare con le attitudini militari di un gruppo
ma si basa sulla sua lealtà politica al dominio britannico.
I gruppi non marziali erano le caste più alte e colte della società (vd bramani), più sospettati di
essere a rischio contagio da parte di ideologie anti-coloniali. Saranno le caste rurali, agrarie, di
coltivatori che andranno a costituire il grosso dell’esercito indiano post ‘57.
Da questo momento in poi ci sarà un orientamento militare verso l’esercito inglese di alcuni gruppi
del mondo indiano, come i panjabi (provenienti dalla regione del punjab, territorio rimasto in
massima parte estraneo all’ammutinamento) e i jat. Si tratta di caste marziali per eccellenza, poco
istruite e considerate affidabili dal punto di vista della lealtà e della disciplina. I panjabi negli anni
successivi rappresenteranno una percentuale maggioritaria nell’esercito indiano.
Così anche i sikh diventeranno un gruppo marziale per eccellenza.
Questa grande epoca di catalogazione si estrinsecherà anche nello strumento del censimento che, al
di là del fine del controllo coloniale del territorio, servirà ad introdurre delle categorie sociali
estranee al mondo indiano che porteranno dei grossi cambiamenti nella società.
Fino al ‘57 il potere in india si era avvalso della figura dell’imperatore moghul: gli stessi inglesi
governavano sulla base di una concessione da parte dell’autorità legittima, per l’appunto
l’imperatore di delhi. Questa concessione risultò molto utile agli inglesi perché risparmiò loro
l’elaborazione di una propria teoria della sovranità: potevano giustificare la propria presenza
appoggiandosi alla comoda figura dell’anziano imperatore. Passaggio importante nel ’58: quando
egli viene destituito dopo la rivolta gli inglesi saranno costretti a giustificare il proprio potere di
fronte all’opinione pubblica britannica e al popolo indiano. Andarono alla ricerca di una “teoria
dell’autorità” per giustificare il proprio comando, come se la mera forza militare non fosse
sufficiente a giustificare l’impero.
La ricerca di una nuova dottrina dell’autorità politica in india passa per la liberazione da questa
triste figura dell’imperatore moghul, il quale verrà considerato in maniera del tutto pretestuosa il
principale responsabile della rivolta. In realtà era stato scelto dai ribelli per la sua carica simbolica,
non perché si fosse attivamente interessato e impegnato negli scontri. Il fatto che lui sia stato
assunto come leader della rivolta bastò dal punto di vista britannico a renderlo il capro espiatorio.
La liquidazione di questa figura però, proprio perché funzionale alla giustificazione della presenza
britannica, non poteva risolversi in una semplice destituzione: bisognava ricorrere alla sua
desacralizzazione. Per i musulmani l’imperatore rappresentava infatti il dar-al-islam in territorio
indiano, egli governava sulla base di un’autorizzazione del califfo (anche se non c’era più dal XIII
sec.). Anche per la comunità indu l’imperatore era il depositario dell’autorità legittima ed era una
figura ammantata di un’aurea sacrale.
Qualcuno non mancò di osservare che un processo contro l’imperatore era una contraddizione in
termini sul piano giuridico: gli inglesi, da lui autorizzati a governare, non potevano essi stessi
condannarlo. In ogni caso alla fine l’imperatore fu condannato all’esilio in birmania (i suoi
discendenti erano già stati uccisi dalle truppe britanniche durante l’attacco a delhi) → dopo più di
tre secoli si estingue l’ultima dinastia regnante ed inizia formalmente l’impero coloniale inglese in
india.
41 Gli inglesi devono elaborare una teoria dell’autorità politica. In parte per volontà di controllo del
territorio e in parte per la tendenza a non cogliere l’aspetto organico della società indiana gli inglesi
avevano la particolare attitudine di raffigurarsi la società indiana come se fosse composta da una
serie di gruppi staccati l’uno dall’altro e tendenzialmente in rapporti (potenzialmente) conflittuali
l’uno con l’altro. Il grande errore da parte inglese fu proprio quello di non cogliere l’importanza e la
complessità della rete di relazioni che garantiva l’incontro e l’interazione tra i vari gruppi sociali
indiani.
Per gli inglesi era necessario trovare un punto di equilibrio, un baricentro che impedisse alla società
di frammentarsi, così fu la corona britannica a diventare il perno della società indiana, il punto di
equilibrio di una serie di componenti, di atomi, che altrimenti (secondo la visione inglese) sarebbero
entrati in un conflitto senza speranze di risoluzione. Gli spargimenti di sangue che caratterizzeranno
il processo di indipendenza indiano e il distaccamento del pakistan nel 1947 in un certo senso
confermano la teoria britannica.
Paradosso: da un lato si avverte la voglia di discontinuità, dall’altro ci sono dei forti elementi di
continuità → utilizzazione di simboli e terminologie dell’amministrazione tratti dal passato impero
moghul. Uno dei termini più importanti sotto questo punto di vista è darbar, parola persiana che
letteralmente significa “corte” (del sovrano, del principe, del signore locale) -tra i musulmani indica
anche la tomba di un santo sufi-, dal significato principalmente politico, legale. Questo termine
viene utilizzato dagli inglesi per indicare il governo del viceré (l’ex governatore generale, figura
estinta con l’estinzione della compagnia). Il centro del potere britannico si traferirà a delhi,
sovrapponendosi al vecchio centro del potere indiano. Ci sarà più di un darbar nel corso della storia
dell’india; tutti saranno il frutto di una mescolanza di elementi indiani e britannici.
In epoca coloniale darbar assume anche il significato di assemblea, adunanza, cerimonia,
celebrazione. Il primo in questo senso è il delhi darbar imperiale del 1877, organizzato da Lord
Lytton per la celebrazione della nomina della regina vittoria a imperatrice delle indie.
Bernard Cohn, un antropologo inglese, ha scritto un saggio intitolato “Rappresentazione
dell’autorità nell’india vittoriana” in cui ha identificato nel darbar imperiale la rappresentazione
massima della teoria dell’autorità britannica in india. Il darbar del ‘77 è in sostanza un’enorme
rappresentazione della visione coloniale della società indiana. Gli inglesi rappresentano proprio
visivamente, sul piano fisico-spaziale, la loro interpretazione dell’impero coloniale → la tenda del
viceré posizionata al centro è attorniata dai gruppi sociali indiani ordinati secondo la loro maggiore
o minore importanza e influenza.
I gruppi erano catalogati in maniera abbastanza incoerente. Il nizam dell’Hyderabad era uno tra
quelli più vicini al viceré. I prìncipi indiani venivano catalogati con il criterio dell’aristocrazia
anglosassone: gli inglesi erano convinti che ad ogni gruppo dovesse corrispondere uno stemma, una
bandiera che rappresentasse la dinastia. Degli esperti di araldica inglesi crearono dei simboli per
ogni casata che ancora non ne aveva uno proprio. Gli indiani però non sapevano che farsene di
medaglioni e stemmi.
Il titolo ufficiale attribuito all’imperatrice venne coniato da esperti orientalisti, i quali volevano
trovare un titolo che rappresentasse l’essenza della regalità inglese e orientale messe insieme:
kaiser-i-hind (cesare dell’india). Nelle intenzioni doveva rappresentare l’incontro tra due culture e
tradizioni, nella realtà risultò abbastanza ridicolo e gli furono mosse numerose critiche.
Bisogna ammettere però che si nota in questo anche un certo sforzo e bisogno genuino di conoscere
l’india e la sua cultura, il suo territorio. Gli inglesi cominciarono a pubblicare dei manuali molto
pratici (in quanto finalizzati al reclutamento) in cui si catalogavano tutte le tribù o le caste di una
data regione, erano trascritte tutte le tradizioni orali esistenti ecc. Naturalmente tutto era scritto in
un’ottica imperialista.
Questa tendenza alla classificazione si applica ai campi più diversi: interessante dal punto di vista
storco-archeologico è la pubblicazione dell’archaeological survey of india, una serie di volumi
42 regione per regione in cui si ricostruiva la storia antica dell’india. Si tratta di un’impresa
monumentale, per alcuni versi apprezzata per lo sforzo di conoscenza, per altri criticata per il
tentativo di ricostruire la storia indiana in un’ottica puramente coloniale e funzionale alla teoria
britannica dominante (vd visione della decadenza dell’impero moghul che in qualche modo
giustificava la presenza inglese).
E’ importante anche citare i gazetteers, dei manuali prodotti di anno in anno dai funzionari locali, i
quali catalogavano ogni singolo distretto dal punto di vista storico, geologico, botanico,
antropologico ecc.
Il primo censimento in india viene fatto per la prima volta nel 1871. Era uno strumento che
consentiva agli inglesi non solo di conoscere l’india ma anche di proiettare su di essa delle categorie
non proprie della società indiana, costringendola ad auto-catalogarsi secondo il metodo occidentale.
Con il censimento si poteva giocare a piacimento con le voci, le categorie: la popolazione indiana
viene costretta a catalogarsi secondo particolari categorie predeterminate e imposte dall’alto. Spesso
l’assegnazione ad un gruppo piuttosto che a un altro era una scelta molto difficile per molti, ancora
in fase di transizione, era molto difficile autodefinirsi (ad es. scegliere se farsi catalogare come indu
o come musulmani). Proprio per questo il censimento era visto dal mondo indiano come una sorta
di violenza. Anche definirsi come casta era complicato, era una questione di prospettiva: la casta era
definibile/definita esternamente a seconda di come gli altri la vedevano o in base a come si
definivano i membri della stessa casta?
Grazie al censimento comunque si riuscirà a contare il numero di comunità religiose, e per la prima
volta i musulmani avranno la prova di essere in minoranza numerica in india (un conto era averne
una certa coscienza, un conto era avere di fronte il dato: 20-25% della società indiana). Da ciò nasce
il “complesso della minoranza” e il timore della caduta e della regressione lungo la scala sociale. Da
qui si inasprì il dibattito tra le due comunità -indu e musulmana-.
Il censimento portò anche una rivoluzione nel mondo castale perché non si limitava a contare le
caste ma tendeva anche a dare loro un peso, un valore. Nel momento in cui gli inglesi cominciano a
introdurre un meccanismo di rappresentanza i numeri cominciano ad assumere una certa importanza
→ tendenza a “pesare” le caste col metro della quantità (numero di appartenenti) e non più della
qualità (distinzione puro-impuro). La mobilità castale non seguiva più il principio della
sanscritizzazione (= imitare gli appartenenti alle caste superiori per elevarsi socialmente): ad esso si
contrappone la logica della quantità → si modificano i rapporti fra le caste. Se prima la società
castale tendeva a frammentarsi e a suddividersi in sotto-caste, anche se molto simili fra loro, ora il
principio è l’opposto: per contare nel governo era necessario unirsi e dichiararsi tutti appartenenti
ad una singola casta. Le caste tendono ad abolire le barriere che le separavano l’una dall’altra per
unirsi ed avere così maggiore peso politico e maggiori benefici economici. Nascono i primi
movimenti di riforma internamente alle caste, i movimenti di educazione indirizzati ai gruppi
medio-bassi, quelli meno istruiti (meccanismo inverso rispetto a quello tradizionale). Le caste
inferiori, grazie al sistema coloniale e alla logica dei numeri introdotta dal censimento, vedono
un’alternativa alla gerarchia tradizionale. Vecchio principio della sanscritizzazione VS sistema
dell’assolutizzazione della casta (= ogni casta tende a considerarsi come un gruppo a sé, che ha un
peso in termini assoluti, e non più in rapporto alle altre caste all’interno di un sistema gerarchico
comune). Il sistema castale tradizionale stava insieme solo se lo si vedeva nella logica della
gerarchia, ora invece prevale la logica della competizione (dal punto di vista numerico).
Processo di valorizzazione delle caste medio-basse:
• Prima fase: durante l’epoca coloniale (in cui gli inglesi per primi valorizzavano le caste sulla
base della loro quantità);
• seconda fase: india indipendente (costituzione del 1950);
• processo ad oggi ancora in corso (mobilitazione politica e sociale e successo delle caste
inferiori -intoccabili compresi-)
43 CONFERENZA RUOLO DELLE DONNE NELLA PRIMAVERA ARABA 21/05/2012
PROF. Farian Sabahi
Appunti di Marco Bombara
Diversi paesi interessati e non uniformabili. È fondamentale la premessa storica a tali rivoluzioni.
Attenzione agli stereotipi che interessano la cultura araba. In realtà consumi sono molto uniformi
rispetto a noi, in seguito alla globalizzazione. Non esistono donne arabe tout court.
Stereotipo donne:
Delitto d’onore: fino al 1981 presente anche nell’ordinamento italiano. Stupro delitto contro la
morale fino al ’96 in Italia. Iran diritto di voto universale nel ’63. In Svizzera, taluni cantoni metà
anni ’90.
Stereotipo giovani:
In Tunisia età media è 29 anni, con politica di controllo nascite dall’indipendenza e possibilità
aborto senza consenso marito. Egitto 24 anni, Yemen 17 anni.
Tunisia
Primo paese della primavera araba. Ben Ali al potere grazie a complicità occidente-italiana.
Parametri di diritti femminili superiori rispetto all’area, con riforme Murghiba nel post-francese.
Murghiba fino al ’87, spodestato da Ben Ali. Murghiba illuminato anche a causa della pressione
della società civile, femminile in particolare. Codice di famiglia più favorevole, buona presenza in
campo lavorativo, con il 27% forza lavoro e rappresentanza parlmanetare. Emancipazione
femminile: istruzione, capacità di reddito.
Nell’opposizione a Ben Ali donne con ruolo di primo piano. Rayan Assrawi, moglie del leader del
PCTUN e legale. Rimasta incinta per la terza volta aveva indispettito regime.
Primavere arabe hanno radici nell’attivismo della società civile sin dagli anni ’50 e poi nei ’90.
Rivolta ’11, due donne nel governo transizione e legge per liste paritarie. Pressioni associazioni
femminili che fanno leva sul numero donne che hanno manifestato contro Ben Ali. Partito NAT,
islamico moderata, leader femminile. Donne messe a capo di determinati partiti (come avviene in
Turchia), scelta strategica di politici che non vogliono spaventare anime laiche o musulmane senza
interferenze religiose nei diritti civili e politici.
Ostacoli giuridici alle donne: no capofamiglia, non trasmissione cittadinanza a coniugi non-tunisini,
penalizzante la legge in diritto di eredità.
Problema è che diritti che sembravano acquisiti sono messi in discussione da matrici Salafite,
galvanizzate dalla scomparsa del dittatore laico. Ex. Manuba, santuario Sufi, gruppi salafiti
accusano di blasfemia e anche perché santa donna. Ex. Preside facoltà scienze umanistiche
aggredito da gruppi salafiti per essersi opposto alla presenza di studentesse con il niqab in classe.
Ex. Proposta partito di riconoscere in costituzione il diritto degli uomini ad una concubina, rimedio
contro adulterio, divorzio e soprattutto nubilato, vista l’ampia autonomia delle donne tunisine. La
Tunisia ha abolito la poligamia dopo l’indipendenza, invocando il Corano come caso eccezionale
(Ataturk invece adottava modello europeo).
Egitto
Percorso in salita. 11 marzo 2012 Adel assolto, abolito il test della verginità alle donne, cosa che
costituiva una vessazione anche verso le rivoltose.
Al momento non è cambiato nulla in nessuno dei due versanti. Ancora scioperi e manifestazioni
legati alla situazione economica. Ruolo importante hanno gli operatori del settore petrolifero, che
non copre il fabbisogno nazionale, cosa che rende difficile reperire carburante o flusso energia
elettrica. Problemi anche per erogazioni prestiti istituzioni internazionali e scarsa fiducia investitori
esteri. Delusione opinione pubblica egiziana. Salafiti hanno vinto le politiche distribuendo denaro
per comprare i voti, con la seconda trance di denaro che non è mai arrivata.
Il 16 marzo le egiziane hanno commemorato la protesta della femminista Hoda Sharawi nel 1919,
fondatrice del femminismo in Egitto, nel 1919 di ritorno da Roma in un incontro femminista,
44 decidendo, di ritorno ad Alessandria, togliendosi il velo al Cairo, svelandosi in pubblico, con il
calcolo che, prima di togliersi il velo, ha parlato con il genero per non mettere in difficoltà la figlia
appena sposata, ottenendo il sostegno.
18 gennaio 2011 Asma Mahfouz davanti a webcam, velata, ha incitato Cairoti a raggiungerla in
Tahrir per la manifestazione del 25 gennaio, scuotendo la coscienza civile egiziana per fare
network. Asma ribalta i ruoli tradizionali, richiamando, come donna, a richiamare il senso
dell’onore. L’immagine di Asma è stato oscurato da un’altra immagine, di Aliaa Magda Elmahdy,
giovane egiziana atea e individualista che ha pubblicato una sua fotografia nuda sul suo blog. È un
medio oriente variegato nei suoi comportamenti, con una diversità religiosa ed etica (arabi, berberi,
copti,…) e relative diversità demografiche. Non sono società omogenee.
Indicatori di successo:
•
diritti delle donne
•
diritti delle minoranze
•
diritti del diverso orientamento sessuale
Yemen
Paese arabo più povero ($1060/yr PIL procapite), 41% sotto soglia povertà, 30% fame cronica.
Sola repubblica della Penisola Araba, paese più popoloso (24 milioni, crescita 3%, 62 yrs
aspettativa vita).
31% yemeniti urbani, donne in media 5,3 figli. Alta natalità legata a onore dei maschi, virilità
uomo. ISU 140/182, PIL pro capite vicino a Pakistan, con popolazione numerosa, politica interna
instabile, dipendenza dall’estero. Paese povero di risorse. 286.000 barrel/day, oleodotto sabotato dai
ribelli.
Ruolo strategico del Babel Mandev, petroliere verso Suez (3.000.000 barrel/day), con pirateria.
Yemen povero di petrolio ma anche povero di acqua, 30% assorbito da coltivazioni di Qhat, causa
di problemi sanitari, ha valenza sociale, con anche esclusione donne da processo politico in quanto
il consumo è legato anche a segregazione sociale.
Religiosamente non vi è omogeneità: comunità ebraica fino al ’48, poi emigra in ISR con
operazione tappeto volante; resiste piccola comunità ultraortodossa. Comunità Sciafeiti Sunni e
Zaiditi Shi’a dei cinque (non duodecimani!), fino al ’52 Imam con potere religioso e temporale.
Fino al ’18 sotto il dominio ottomano, dal ’04 al ’48 Imam Yahya. Fino al ’62 Imamato Shi’a
Zaidita, dal ’62 repubblica. ’78 Presidente Saleh, militare, che nel ’90 unifica Nord e Sud. Aden
centro strategico inglese. Differenze Nord tradizionale e segregazionista femminile e Sud più aperto
e liberale, con molte rifugiate da Somalia (anche per influenza britannica e sovietica). Nel ’94
guerra civile, alimentata dai Sauditi, che influenzano fortemente la politica interna. Nel ’90 Hussein
invade il Kuwait e Saleh prende le parte di Hussein. In risposta SAUD caccia lavoratori yemeniti
immigrati, azzerando le rimesse. Crisi economica importante. Nel ’94 SAUD fomenta la guerra
civile, appoggiando entrambe le fazioni. Nel ’01 Saleh si schiera contro terrorismo quaedista. Nel
mentre, Saleh usa aiuti militari americani formalmente per colpire terrorismo, ma in realtà per
eliminare elementi opposizione.
Sfide: povertà popolazione diffusa, corruzione regime di Saleh (ex. Gestione porto Aden alla stessa
società che gestisce Gibuti, porto concorrente), protesta Huthi (famiglia del nord, Rand Corp.,
protesta contro l’autorità centrale perché nel 2000 SAUD-USA hanno delineato il confine
settentrionale Yemen senza interpellare popolazioni locali, abituati ai commerci da una zona
all’altra e ora impossibile. Conflitto con 20.000 morti, 150.000 IDP internal displaced people, 3.000
arresti. Cessate fuoco febbraio ’10, ma ripreso il fermento con la primavera), secessionisti Sud,
terroristi al-Quaeda con vuoto potere, rifugiati dal Corno d’Africa (non registrati presso UNHCR
perché non vogliono rimanere in Yemen ma andare in Emirati), pirateria.
Condizione femminile si colloca quindi in condizione già difficile. Paese di ben due sovrane nel
passato, donne simboli di saggezza e democrazia, oggi noto per le spose-bambine. Problema anche
45 dei mariti che tornano in patria dopo 15 anni con un’altra famiglia. Donne non hanno autonomia
legale, tutore per tutta la vita, problemi giuridici e anche concreti, mortalità per parto la più alta
della regione, violenza in famiglia non è reato, solo 3 deputati. Durante l’occupazione ottomana, le
donne delle aree rurali avevano maggiore libertà rispetto alle urbane e ricche, condizionate dalla
cultura dell’harem, in regime di segregazione. Dopo il ’18 la questione femminile, nei paesi dove
gli uomini vanno all’estero per lavorare, le donne rompono il regime di segregazione. Nel ’11 è
successo lo stesso: arresti degli uomini, le donne sono costrette ad uscire di casa e protestare per
chiedere la scarcerazione degli uomini (anche in Tunisia), trovando alleanza nel partito islamico
Islah, che invitava a protestare, invece il presidente fa leva su islam per segregazione. Rivolte 2011
ad accendere la miccia è stata Tawakkol Karman, premio nobel per la pace 2011, giornalista. 22
gennaio 2011 arrestata. L’onore di intere famiglie e clan è scritto sul corpo delle donne. Tenere in
carcere vuol dire colpire l’onore di famiglia, clan di Karman. Rilasciata, ritorna in piazza a
protestare, con un velo moderato, membro di punta del partito Islah, con tanti religiosi di
connotazione Salafita. Il partito nella costituente si dichiara privo di ogni sorta di pregiudizi, ma
come prevedibile, si dichiarano non propensi ad assegnare incarichi a donne. Battaglia contro Saleh
ma anche contro i membri conservatori di Islah. Non vi erano grandi alternative di partiti, ma
comunque porta avanti progetti per affrancamento donne. Insiste molto sul ruolo degli uomini della
famiglia, avere l’appoggio dei membri maschi della famiglia. Cerca di diffondere awareness tra le
donne yemenite.
Altra figura importante è Jamila ‘Ali Raja: le donne vogliono contare nella nuova costituzione, non
volendo più avere il regime segregazionista.
In Yemen, c’è influenza egiziana socialista Baath. Esperienza Baath ha strutturato la politica
yemenita con le primarie nei partiti. In Iran, al contrario, la politica è più confusa, non si vota per
partito, ma per associazioni familiari e personali. Si vota la persona indipendentemente dal partito.
Siria
In Siria dinamiche interessanti: famiglia regnante degli Al-Assad (Hafez, Bashar) della minoranza
Alawiti con componenti esoteriche in odore di eresia. Metà anni ’70, dichiarati musulmani a pieno
titolo dall’Imam Musa al-Sadr, di origine iraniana, lavorava in Libano per emanciparne la
minoranza Shi’a, scomparso a Tripoli di Libia nel ’78. A metà anni ’70 emanato Fatwa che
riconosce gli Alawi come musulmani Shi’a, dando dignità religiosa agli Al-Assad. La Fatwa vale
però solo per i seguaci dell’imam che l’ha emanata e non per la generazione successiva. La Siria è
legata all’Iran perché il vaticano Shi’a è Qum. Il timore di Al-Assad è scomunica degli Ayatollah
degli Alawi. Ciò spiega l’asse Teheran-Damasco, l’alleanza Siria-Iran, entrambi estremamente
isolati. È importante il ruolo della religione.
Donne su sponda sud Mediterraneo hanno avuto un ruolo e vogliono mantenerlo, vogliono un ruolo
nel produrre nuovo scenario politico. Anche in UE, va detto, le donne sono lontane dalla parità dei
sessi nei ruoli di comando e nell’economia.
Inoltre, le primavere arabe non nascono dal nulla, vi sono stati dei precursori sia nel mondo arabo
che mediorientale non arabo: Samir Kassir, giornalista libanese, figlio di palestinese e siriano,
laureato in filosofia alla sorbona, arabo-cristiano, assassinato nel 2005, pamphlet “l’infelicità
araba”. Segni premonitori nella primavera libanese del 2005, dopo la morte di Hariri. La storia di
società civili della regione è vivace, pur nella loro diversità. Bahrain, Nelida Fuccaro analizza basi
della società civile dalla fine ‘800, con storia di sindacati e giornalisti in Bahrain.
Sono paesi in cui abbiamo forti interessi economici, sostenendo l’occidente i dittatori e fornendo
armi e tecnologia per tener buono il dissenso, non funzionale ai nostri interessi.
Ruolo dell’occidente: evitare di ripetere errori passati, solo la democrazia può sconfiggere i
terrorismi. Democrazia è generico, più focalizzarsi sui diritti delle donne (barometro democrazia),
diritti minoranze, diritti del diverso orientamento sessuale.
46 Primavere portano uno scenario di islamisti, dopo una prima fase; inoltre alcune rivolte (v. Yemen),
transitano proprio per partiti islamici. Partiti islamisti vietati a lungo dai regimi laici; determinante è
stato il loro lavoro sul campo, dando alla popolazione il welfare che le autorità statali non davano.
La componente fondamentale è data dai soldi: i salafiti, fratelli musulmani,… arrivano con petroldollari di Sauditi e Qatar (e Iran) nelle primavere arabe, facendoli vincere.
L’Arabia Saudita è stata attraversata da proteste nella provincia di Al-Qatif, regione dei maggiori
giacimenti di petrolio (8.000.000 barrel/day), dove si concentra la popolazione Shi’a. 10%
popolazione saudita è Shi’a, ma non gode di diritti. Nell’ultimo mese l’Arabia Saudita ha proposto
di inglobale il Bahrain per evitare il subbuglio Shi’a.
Ruolo Qatar: paese ricco, reddito medio attorno ai 100.000$/yr, regime schiavitù di manodopera
estremo-orientale, ruolo fondamentale nelle proteste. Strumento PE Al-Jazeera di diffusione delle
proteste e ruolo nella Lega Araba, cercando di costruire un Brand. Nel ’06 Giochi Asiatici, ’20
World Cup, lavora molto su politica estera come mediatore mediorientale con l’Iran, con cui
condivide il maggiore pozzo di gas. L’arbitrato è ruolo importante nell’islam, con Maometto
mediatore.
Iran ha guardato con interesse le proteste arabe, rivendicando la paternità di quanto fatto nel ’79. Il
movimento verde di protesta del ’09 invece sostiene il contrario. Lo Shi’a assomiglia molto più
all’ebraismo che al Sunni (v. taqiyya, anche in ebraismo, dissimulazione).
LEZIONE XXVII giovedì 24/05/2012 Appunti di Chiara Pozzan
Le conseguenze dello stabilimento inglese in india si fanno sentire in modo più intenso nei
confronti della componente islamica, in parte per le radici culturali di questa comunità e in parte per
ragioni puramente socio-politiche. La comunità islamica infatti svolgeva nel subcontinente funzioni
legate alla sfera politica e alla sovranità e fu molto danneggiata dal graduale passaggio di potere in
mano inglese (processo che si palesò essere irreversibile nel corso del XIX secolo). È comunque un
rischio generalizzare: non fu così per tutti e non nello stesso modo → ci furono delle enclave
musulmane che salvaguardarono il proprio status o addirittura lo migliorarono. Un settore
particolarmente colpito fu quello degli ulama, che videro la loro cultura diventare gradualmente
sempre più irrilevante.
Si nota il manifestarsi piuttosto evidente di un certo malessere, che però non emerge in maniera
dirompente tranne in casi sporadici (*). La conseguenza più rilevante di questa crisi fu non tanto la
rivolta contro il nuovo potere quanto la riflessione interna sull’islam sia in termini culturali che
religiosi. Si assiste in questo periodo alla nascita di movimenti riformisti come risposta dell’islam
indiano alle sfide del tempo e alla crisi politica. Tra il tardo XVIII secolo e l’inizio del XIX l’india è
l’area del mondo islamico più culturalmente fertile e attiva.
(*) Il tradizionale pragmatismo dell’islam sunnita comporta una certa ritrosia nello sfidare il potere
politico britannico: ci sarebbero state troppe complicazioni nel dichiarare l’india dar al harb. Una
fatwa emessa da un dotto musulmano agli inizi dell’‘800 a delhi stabilisce di non dichiarare l’india
terra di guerra. Per capire questo atteggiamento è necessario fare riferimento a un altro elemento di
carattere politico: in seguito al censimento i musulmani avevano scoperto di essere la minoranza →
alcuni esponenti “laici” islamici furono spinti a riflettere sul fatto che tutto sommato se i musulmani
erano una minoranza rispetto agli indu a loro conveniva stabilire buoni rapporti con
l’amministrazione coloniale inglese per acquisire lo status di minoranza “protetta” (anche alla luce
di una comune cultura semitica con gli inglesi). Questa riflessione trovò eco anche in alcuni
ambienti coloniali.
47 Dopo l’ammutinamento i musulmani erano stati considerati e dichiarati responsabili → i musulmani
erano visti tradizionalmente come conquistatori, più virili e combattivi, mentre il mondu indu era
visto dagli inglesi come quello meno bellicoso, quindi era comprensibile, da parte del mondo
coloniale, la ricerca di un responsabile tra i musulmani. Nei primi anni ‘70 dell’800 però comincia
ad emergere una riflessione più a freddo, che guarda ai musulmani con maggior interesse.
Importante a questo proposito è l’opera di W. W. Hunter intitolata The indian mussalmans, in cui
l’autore parte dagli eventi dell’ammutinamento e si pone la domanda: i musulmani sono
naturalmente e inevitabilmente spinti a ribellarsi contro la corona? Si tratta di una domanda retorica,
la cui risposta è no: i musulmani si sono ribellati perché gli inglesi stessi, attraverso la loro forma di
dominazione, li hanno spinti verso la rivolta. Hunter inoltre sostiene che il governo coloniale possa
attirare nuovamente a sé i musulmani indiani attraverso una politica più oculata → si nota la
tendenza a cercare un ponte tra due culture, e non solo da parte inglese. Le due parti infatti erano
ugualmente motivate, anche se spinte da interessi diversi: da parte inglese c’è la ricerca di alleati in
un’india diventata ormai a loro ostile, da parte del mondo islamico si cerca la protezione inglese nei
confronti della maggioranza indu.
Non sono mancati movimenti di reazione islamici alla conquista europea, ma sono state delle
eccezioni. Il jihad nella sua accezione coranico-giurisprudenziale è espressione dell’obbligazione di
islamizzare il mondo, espandere la fede ai danni dei non musulmani. Invece i jihad setteottocenteschi sono semplicemente una reazione alla dominazione coloniale, non hanno scopi
espansionistici. Questi jihad hanno alcuni tratti in comune: generalmente sono accompagnati a
contenuti di carattere puritano → purificare l’islam locale da elementi estranei. Spesso sono
movimenti nati nelle periferie del mondo musulmano (quindi in africa e asia, non in medioriente),
ossia nelle zone in cui erano nate le eresie. La contraddizione nell’associare i movimenti jihadisti
alle confraternite sufi è solo apparente: la confraternita sufi Naqshbandiya sosteneva la necessità di
affermare la sharia affiancandola però anche al percorso mistico e aborriva ogni concessione fatta
nei confronti delle pratiche locali legate all’uso di droghe, magia etc. La Naqshbandiya aveva
sempre considerato se stessa come un’élite di pii musulmani che devono diffondere l’islam e
difenderlo da poteri esterni.
•
Il primo di questi movimenti jihadisti è quello wahabita, nato nella penisola arabica negli
anni ‘40 del settecento grazie ad Abdul Wahab. Il wahabismo sarà bloccato nella sua
espansione territoriale dall’intervento congiunto di poteri musulmani ed europei. Questo
movimento associa la predicazione puritana e riformista ad elementi tribali. Si tratta di una
contradizione perché il tribalismo (l’asabiya) è negato dall’islam ortodosso, che sostituisce
la umma, la comunità islamica, al legame di sangue. I tribali stessi sono però i primi ad
accogliere le predicazioni puritane dei leader carismatici e si fanno veicolo bellico di
espansione. Unione guerra santa (jihad) - tribalismo.
•
Attorno agli anni ‘70 dell’ottocento nascono movimenti jihaidisti anche in africa occidentale
(Niger, Libia), i quali danno vita a sultanati che reagiscono alla penetrazione occidentale in
africa. I fedeli seguono le indicazioni di leader carismatici e santi guerrieri.
- Caso della cirenaica (Libia orientale): confraternita senussiya che a partire dagli anni ‘30
dell’800 porta avanti una predicazione riformista unita alla resistenza contro l’avanzata
europea. Il movimento, sotto la guida di Omar al-Mukhtar, si contrappone anche
all’invasione italiana della libia negli anni ’20 del ‘900.
- Caso dell’algeria: tra il 1832 e 1847 c’è la famosa rivolta guidata da Abdel Qader contro
l’invasione francese. In questo caso la protagonista è la confraternita qadiriya,
tradizionalmente non particolarmente bellicosa.
•
Già dalla seconda metà del settecento nascono movimenti jihaidisti nella zona del caucaso
(Georgia ecc.) contro l’espansione russa. Questi movimenti uniscono la resistenza armata
48 all’aspetto più strettamente religioso dello jihad. Ricordiamo in particolare due leader molto
carismatici: Shaikh Mansur e Imam Shamil.
I movimenti jihaidisti non sono localizzati in un'unica area, fanno parte di un movimento generale
di resistenza. In india ci sono due movimenti di jihad, entrambi nati negli anni ‘20 dell’800, in un
periodo in cui la presenza coloniale si era già fatta pienamente sentire:
•
Il primo nasce in un’area definita North-West frontier Province (Provincia della frontiera
nord-occidentale), tra pakistan e afghanistan. Il movimento nasce intorno al leader
carismatico Asamyid Ahmad Barelwi, che verrà ucciso in battaglia nel ’26 (con la sua morte
il movimento si spegne). Non è rivolto direttamente contro gli inglesi ma è più in generale
l’espressione di un malessere diffuso nella società musulmana locale; si rivolge contro lo
stato sikh del punjab. Caratteristica: unione dell’etica del jihad con il tribalismo. Barelwi
predica il messaggio riformista tra i pashtun → popolazione tribale, spesso nomade, di
lingua pashtu che abitava la zona nord-occidentale dell’india. Barelwi si fa eleggere amir
(leader) da questo popolo tribale e lancia il jihad contro i sikh dando vita ad un piccolo stato
islamico. Sul piano storico questo piccolo stato è considerato come uno dei rari esempi di
stati islamici guidati da leader religiosi (come la repubblica islamica afghana dei talebani). Il
movimento di Barelwi unisce jihad a tribalismo ma c’è anche un’altra caratteristica: di solito
i fondatori dei movimenti jihaidisti hanno avuto un’esperienza di vita o di studio o hanno
compiuto pellegrinaggi presso i luoghi santi dell’islam, entrando in contatto con idee
puritane, ortodosse. Quando rientravano nel proprio paese portavano con sé queste idee
riformiste. Non tutti studiavano in scuole di influenza hanbalita ma di fatto quasi tutti questi
personaggi tornando in patria criticavano le consuetudini islamiche locali, eterodosse. Tutti i
leader dei jihad sono stati purificati nel loro pensiero dalla matrice arabo-islamica della
penisola arabica. Anche Barelwi proponeva un tipo di islam molto puritano, riformista,
ispirato alla naqshbandia: la sua confraternita doveva essere la più pura tra le altre perché
ispirata direttamente dal profeta, si sarebbe chiamata tariqah muhammadiya. C’è la tendenza
generale da parte di questi movimenti di riforma sette-ottocenteschi a rifarsi al profeta, la cui
figura viene enfatizzata moltissimo, posta come esempio di vita perfetta del buon credente,
che doveva fuggire da ogni influenza mistica. Lo stesso Barelwi, ucciso in battaglia
nell’india nord-occidentale, diventerà un mito: i suoi discepoli costruiscono un santuario nel
luogo di sepoltura, che diventerà meta di pellegrinaggio. In anni più recenti è emersa la
tendenza a considerare questo movimento come precursore di quel fenomeno di jihaidismo
locale che caratterizzerà tutto l’islamismo seguente (vd talebani → rigorosità nell’applicare
il messaggio religioso + elemento bellico).
•
Il secondo movimento invece è nato in bengala nel 1821 (ebbe breve durata) ed era guidato
da Haji Shariatullah. Anch’egli studia alla mecca presso centri intellettuali e quando torna in
bengala propone una riforma puritana estrema dell’islam, rivolta contro le pratiche
consuetudinarie bengalesi. Il bengala infatti è da sempre uno stato sincretistico: le pratiche
islamiche sono mischiate a quelle indu, molte credenze bengalesi sono legate al pantheon e
al cerimoniale indu. La riforma viene attuata anche perché unisce le motivazioni religiose a
motivazioni socio economiche → marginalizzazione dei contadini bengalesi da parte dei
proprietari terrieri indu. Anche questo movimento, portato avanti dalle masse rurali, non è
diretto contro i britannici ma contro gli indu.
Sono stati movimenti piuttosto marginali (anche geograficamente) e che comunque non
costituivano la risposta maggioritaria della comunità islamica: non hanno preoccupato gli inglesi,
più impressionati dal caso wahabita → l’etichetta wahabi era applicata a tutti i movimenti di
riforma islamici all’interno dei confini dell’impero, anche quando il termine era fuori luogo (non
tutti i movimenti sorti applicavano l’etica anti sufi verificatasi in arabia).
49 Elemento interessante per la storia dell’islam in india: gli ulama furono costretti a ripensare la loro
fede e la loro cultura per rispondere alla crisi dovuta all’avanzare dell’impero coloniale, sempre più
influente. I movimenti di riforma si sviluppano in modo più completo nel corso del XIX secolo.
Shah Waliullah è il faro, l’antesignano di movimenti di riforma successivi. Lo scenario in cui sorge
la riforma è quello rappresentato dalla crisi dell’impero moghul, che opera in un momento in cui la
dominazione coloniale non è ancora evidente ma la crisi islamica si fa già sentire. Shah Waliullah è
il fondatore di una nuova scuola islamica, nata a delhi nel ‘700. Egli individua la causa della
debolezza e del declino politico nella perdita della fede religiosa ortodossa. In lui troviamo elementi
conservatori ma anche di grande modernità, questi ultimi ripresi da pensatori modernisti in epoche
successive. Waliullah parte dall’idea secondo cui l’islam, per adattarsi ai problemi del tempo e
rispondere alle sfide europee, deve ripensare se stesso e riaprire i canali dell’interpretazione
(ijtihad) → bisogna reinterpretare le scritture, abbandonare l’interpretazione acritica. Lui è il primo
a sviluppare il “relativismo cronologico” delle scritture, che andrebbero interpretate alla luce dei
tempi: afferma che le scritture hanno un senso intimo permanente, che però può declinarsi in modo
diverso a seconda delle epoche (in pratica sostiene che esista una distinzione tra la forma e la
sostanza della rivelazione). Afferma che dio, quando trasmise la rivelazione al suo popolo, nella sua
infinita saggezza seppe esprimersi in un linguaggio e forma consoni alla cultura e alle condizioni
socio-economiche dell’epoca. Il testo coranico sarebbe quindi pensato per la popolazione del 600,
mentre ora c’è bisogno di una nuova interpretazione, i musulmani devono tornare a riflettere sulla
rivelazione, cimentarsi nello studio delle scritture per adattarle al tempo presente. Tale messaggio
era già abbastanza rivoluzionario per l’epoca, ma Waliullah aggiunge un ulteriore elemento di
portata rivoluzionaria sostenendo che l’interpretazione individuale non debba spettare solo ad
esperti e studiosi ma anche alla società civile composta da musulmani laici. Propone anche la
traduzione delle scritture in lingue non arabe (lui stesso tradurrà il corano in persiano, lingua colta
ma parlata anche da musulmani non dotti). Waliullah è il primo a patrocinare il processo di
traduzione in lingue diverse dall’arabo → rompe un tabù che per secoli era considerato intoccabile
(dio si era espresso in lingua araba). Facendo tutto questo si prende una grande responsabilità
perchè c’era il rischio di indebolire il ruolo degli ulama: l’aspetto positivo della riforma era la
democratizzazione del sapere religioso ma c’era anche un forte rischio di frammentazione
dell’autorità e di relativizzazione assoluta dell’interpretazione religiosa. Il fatto che lui abbia
rischiato così tanto è indice dell’intensità con cui si stava vivendo la crisi religiosa, politica e
culturale dell’islam e di quanto disperatamente si cercasse di salvare l’islam dal declino e dalla
scomparsa in india. I figli di Waliullah traducono il corano in lingua urdu, lingua franca dei
musulmani dell’india centro-settentrionale, comprensibile alla maggior parte della popolazione.
Al di là di questi elementi di grande coraggio e modernità, si possono notare anche degli elementi
negativi e contradditori nel suo pensiero. Se da un lato Waliullah ha fatto fare all’islam grandi passi
avanti, dall’altro troviamo in lui il principio dell’ossessione contro le pratiche popolari e della
cultura indiana (costante di movimenti successivi filo-wahabiti) → il sufismo per lui doveva essere
assolutamente abbandonato e rifiutato. Vero è che in india è raro trovare movimenti totalmente e
radicalmente anti-sufi (come invece è successo nel caso del wahabismo), infatti Waliullah stesso ne
rigetta solo le pratiche più estreme e distanti dall’ortodossia.
Egli afferma con orgoglio di non essere indiani ma arabi, considera i musulmani degli stranieri in
terra indiana, sottolinea la differenza e la distanza tra le due culture. Tra ‘800 e ‘900 le correnti
riformatrici si rifanno tutte a lui.
Il termine “riforma” nell’islam è abbastanza neutro, può significare molte cose ed essere positivo o
negativo. Non è raro trovare dei movimenti di riforma conservatori, nonostante sembri un ossimoro,
una contraddizione in termini.
Una tra le correnti riformiste moderate nate nel XIX secolo è la scuola di Deoband (si dice che i
talebani si ispirino ad essa ma in realtà non era così radicale come lo sono i talebani
nell’afghanistan contemporaneo). La scuola ebbe grande diffusione in india, pakistan, bangladesh
50 ecc. Grande paradosso: al suo sorgere si propone di essere un movimento apolitico, nasceva nel
1867 (nel pieno della dominazione coloniale) come tentativo da parte degli ulama di formare una
comunità fatta apposta per sopravvivere sotto la dominazione coloniale → l’islam doveva trovare in
se stesso la propria ragione d’esistere, non più nello stato perché il potere politico era ormai
esclusivamente in mano inglese. La comunità musulmana doveva sostenere le istituzioni islamiche,
ogni singolo credente musulmano doveva essere responsabilizzato e sentirsi in dovere di sostenere
anche economicamente la cultura islamica. Veniva posta forte enfasi sulla comunità, sulla società
civile: questo dovere riguardava tutti i cittadini e tutte le classi sociali. Si parte dall’idea che ciò che
è pubblico, ciò che è stato non contia più perché lo stato è ormai colonizzato. Questa nuova
concezione di islam guarda più alla sfera privata, interiore che a quella pubblica e fa appello alla
comunità islamica nella sua globalità: tende a responsabilizzare l’individuo, il singolo credente,
partendo dall’idea che se si vuole far sopravvivere l’islam in india non ci si può più aspettare l’aiuto
statale, delle istituzioni ma devono essere gli stessi fedeli ad occuparsene.
Con la crisi dell’islam erano andati in crisi anche i rapporti tradizionali: la scuola di deoban darà
molta importanza alla scrittura e alla stampa piuttosto che alla tradizionale trasmissione orale e ai
rapporti maestro-discepolo (che richiedevano un sistema e una struttura tradizionali che ormai non
esistevano più → bisognava prenderne atto e andare avanti adeguandosi al nuovo contesto). La
stampa dei testi su vasta scala era sconosciuta all’islam del XIX secolo, la scuola di deoban è stata
rivoluzionaria sotto questo punto di vista.
Anche le corti e i tribunali della sharia erano scomparsi: la scuola si propone di riempire questo
vuoto nella guida religiosa quotidiana della comunità. Gli ulama di deoban utilizzano lo strumento
delle opinioni giurisprudenziali, le fatwa, le quali prima avevano un ruolo limitato che ora invece
viene rafforzato per garantire una guida religiosa quotidiana ai credenti. Spesso le fatwa vengono
raccolte, pubblicate e stampate.
Si nota uno sforzo sistematico di dar vita ad una forma di islam che potesse sopravvivere
nell’ambito del sistema coloniale. Gli ulama erano visti come punti di riferimento per la comunità
in tempo di crisi.
Aspetto contradditorio e ambiguo nei confronti della modernità: da un lato c’è lo sforzo di fuggire
la modernità (intesa come colonialismo) → insegnamento perfettamente tradizionale, molto
rigoroso, nessuna materia moderna, materie puramente teologiche per formare dei predicatori, degli
esperti in scienze religiose che poi si impegnino a diffondere l’islam; dall’altro lato notiamo la
capacità di flirtare con la modernità e farsi influenzare da essa per certi aspetti, come per quanto
riguarda la stampa. Basti pensare che uno dei fondatori della scuola lavorava per il governo
britannico come supervisore delle scuole coloniali ed aveva osservato l’efficacia dei college inglesi,
da cui prese spunto per la scuola di deoban.
Inizialmente il nome della scuola era dar al ulum = “terra della conoscenza”.
LEZIONE XXVIII lunedì 25/05/2012 Appunti di Valentina Angioli
Deoband cerca di formulare un islam adatto a sopravvivere al contesto coloniale. Col tempo questa
madrasa diventa popolare, questo tipo di islam è adatto a muoversi nel contesto coloniale,e si
disinteressa della sfera politica. Islam molto riformatore e innovatore. Forte responsabilizzazione
dell’individuo, critica del culto dei santi perché è contraddittorio rispetto all’individualizzazione.
Non è più l’epoca di delegare la propria salvezza a un’autorità, ognuno deve attivarsi in prima
persona. Una sorta di “islam protestante”, riduce le gerarchie religiose, si cerca di universalizzare il
sacerdozio, ognuno deve sentirsi responsabilizzato di fronte a dio.
Lingua urdu, compresa da molti, viene utilizzata invece del persiano, lingua colta.
Al tempo stesso, per quanto rifugge la modernità, sa fare uso di alcuni elementi dell’educazione
moderna. organizzazione moderna della madrasa, sessioni di esami regolari, emissione di diploma,
strutture organizzate, edificio dormitorio.. avvicinamento al modello europeo.
51 Interpretazione abbastanza moderata della corrente di Waliullah, a favore di una riapertura
dell’interpretazione ma esercitata all’interno delle scuole giuridiche.
Insegnare alla gente come essere bravi musulmani, i pilastri della vita del credente diventano
oggetto di insegnamento. Gli ulema sono costretti a uscire dalle loro scuole e diventare dei leader
popolari, cercano il contatto con le masse per insegnare la corretta pratica islamica. Si creano una
rete di discepoli, novità per la leadership religiosa musulmana.
L’impatto dell’Europa sul mondo musulmano, nel mondo arabo si è visto un declino della
leadership degli ulema, sono diventati persone di scarsissima influenza. In india invece gli ulema si
sono ritagliati un nuovo ruolo nella crisi del sistema e quindi sono riusciti ad attraversare questo
momento.
Ovviamente non tutti i dotti musulmani condividono le idee della scuola di deoband, una minoranza
aveva un approccio diverso. Alcuni ritenevano che fosse indispensabile gettare un ponte tra cultura
islamica e modernità-> sayyid ahmad khan fonda nel 1875 la scuola Mohammedan anglo-orinetal
college (scuola di Aligar). Khan proviene da una famigli molto importante, anticamente connessa
alla corte moghul, poi al mondo coloniale. L’ammutinamento segna la sua vita, elemento scatenante
della sua ricerca intellettuale. Sente come suo dovere l’evitare che un avvenimento del genere possa
accadere nuovamente, mondo britannico e mondo musulmano erano molto più affini di quanto loro
non comprendessero. Primo libro è “le cause della rivolta indiana”, critica duramente gli inglesi per
il razzismo nei confronti degli indiani, afferma che in ragione delle comuni radici culturali le due
comunità dovessero superare lo scontro e formare una cultura comune. Propone ai notabili
musulmani di farsi intermediari tra mondo coloniale e società indiana, anello di collegamento.
Propone consigli consultivi di cui i britannici potessero servirsi. Stessa direzione di alcuni settori
del mondo coloniale, tendenza a vedere nella minoranza musulmana una comunità che poteva avere
un forte interesse a costruire un rapporto privilegiato col mondo coloniale.
Anche nel mondo arabo si trovano dei tentativi analoghi di cercare di scoprire i segreti della
superiorità tecnologica dell’occidente, ci si sforza di dimostrare che l’islam non è antiscientifico,
c’è compatibilità tra corano e scienza. Khan si mette in testa di dimostrare questa compatibilità, da
vita a iniziative editoriali, fonda il “Aligarh institute gazette” nel 1866 con il quale traduce articoli
di riviste scientifiche europee in urdu. Strumento per diffondere il sapere scientifico europeo tra i
musulmani colti. Viaggio in Europa per osservare da vicino la civiltà occidentale e carpirne i segreti
della superiorità.
……
Osservazione del sistema dei college, copia il modello e costruisce così il college di aligarh. Scopo
era fornire un’educazione solida sia dal punto di vista della cultura islamica che europea.
Dipartimenti di scienze religiose e lingua e letteratura inglese.
Di li a poco però i dipartimenti tradizionali vengono chiusi, si preferiscono le scienze più moderne.
Creazione di un nuova elite, musulmani per nascita ma con mentalità occidentale, in grado di
muoversi nel mondo coloniale. Si cerca anche di dimostrare dal punto di vista teologico che questo
tentativo educativo era fondato. Tra la parola di dio (corano)e l’opera di dio (la natura) non può
esserci contraddizione. Interpretazione in chiave progressista delle scritture, opera monumentale di
Tafsir (interpretazione coranica) con interpretazione razionalista, riprende temi mutaziliti (allegorie
a pieno). Debolezza di fondo nel ragionamento, l’afferazione di fondo si basa sul fatto che il corano
e le leggi scientifiche siano opera di dio, assunto aprioristico. Il suo tentativo intellettuale è trovare
una dimostrazione di questo e quando non riesce a trovarla conclude che questa intima identità c’è
per forza ma la mente umana non è in grado di coglierla.
Opposizione degli ulema più tradizionalisti, lo chiamano “adoratore della natura” (nechari).
Khan non avrà successo se il suo obiettivo era quello di diffondere alle masse l’interpretazione
progressista dell’islam, non diventerà un interpretazione maggioritaria, solo pochi rampolli
nell’india del nord entreranno a contatto con questa scuola, ruolo d’elite. Riuscirà però a dar vita a
una classe politico-culturale (ridotta in termini numerici) importante. Questa elite era destinata a
svolgere funzioni politiche importanti, alcuni nel futuro pakistan, altri rimarranno in india.
52 Con il fiorire di queste diverse scuole sorge un dibattito pubblico su quale sia la corretta pratica
religiosa->i musulmani sono portati a definirsi, a scegliere da che parte collocarsi. Tendenza a
definirsi per scelta invece che per nascita, anziché limitarsi a praticare l’islam per routine, sono
portati a riflettere. Islam più consapevole di se e poi tendenza a diventare un fattore di
legittimazione politica, un islam sempre più presente nella sfera pubblica. No più neutralità politica,
ci si muove verso una posizione di critica verso il mondo coloniale.
Man mano che l’islam entra in crisi (metà ‘800 fino IGM), si inizia a guardare all’impero ottomano
come l’unico che potesse rappresentare il potere islamico nel mondo. I sultano ottomano era il
protettore dei pellegrini, legittimazione sul piano religioso. Tra fine 800 e inizio 900 questa
considerazione è più forte nell’islam periferico che non nell’islam centrale. Tra gli arabi il sultano
ottomano non è molto popolare, potere estraneo perché è turco, usurpatore del potere sul territorio.
Nel mondo periferico le credenziali islamiche dell’impero ottomano sono prese con serietà, più si è
lontani dal centro più c’è bisogno di identificarsi coi simboli della umma. In india i musulmani sono
sentimentalmente molto trasportati dalla figura del califfo.
Reazione di scandalo ogni volta che l’impero ottomano è attaccato da una potenza cristiana durante
la guerra. Questo senso di appartenenza è più forte rispetto al periodo precedente->panislamismo.
Corrente politico ideologica che vede nell’impero ottomano il vero califfo universale e quindi il
centro della umma, si batte per ricreare il potere islamico nel mondo.
LEZIONE XXIX lunedì 28/05/2012 Appunti di Chiara Pozzan
Fino alla prima guerra mondiale la corrente nazionalista in india era rappresentata da una
componente minoritaria guidata dal Congresso. Gli ulama al contrario avevano un approccio
apolitico, e anche la scuola di Deoband, per definizione, non aveva alcun interesse ad unirsi al
movimento nazionalista. Le cose iniziano a cambiare tra la fine dell’800 e i primi anni del ‘900
perché in questo periodo una serie di eventi parte interni e parte esterni all’india iniziano a
diffondere il malcontento nel subcontinente. Si crea una grande campagna politica nazionalista che
vedrà indu e musulmani per la prima volta uniti contro la causa britannica.
La presa di coscienza del declino del potere politico dell’islam e del mancato verificarsi della tanto
auspicata diffusione globale del dar al-islam porta ad un revival del sentimento di appartenenza alla
comunità islamica mondiale (concezione più politica che interpretata in chiave religiosa). Nasce una
nuova corrente, il panislamismo, che con il passare del tempo finirà per focalizzarsi sulla figura del
sultano ottomano come punto di riferimento per la comunità islamica. Anche se in realtà fino a quel
momento il sultano non aveva mai avuto una grande importanza simbolica, in quel preciso
momento gli è stata assegnata in quanto unica autorità islamica che aveva mantenuto un certo
potere (si parla per l’appunto di “califfo per necessità”, ad indicare che non c’erano alternative). In
india quindi il sultano ottomano era visto come simbolo e personaggio chiave nella ricostituzione di
un nuovo califfato anche se i musulmani di origini arabe erano un po’ scettici a riguardo perché il
sultano non era a sua volta arabo.
Un personaggio di rilievo appartenente al panislamismo era Jamal al-Din al-Afghani, il più
importante e influente tra gli intellettuali che proposero la ricostituzione di un forte potere islamico
nel mondo (il tema centrale della riflessione panislamista), a sua volta insegnante di altri personaggi
chiave nelle origini di movimenti nazionalisti nel mondo mediorientale e asiatico.
Importante è stata la connessione tra lo sviluppo del nazionalismo e la riforma religiosa: gli
appartenenti al panislamismo infatti affermavano che l’islam doveva recuperare la propria vera
essenza per essere in grado di opporsi all’europa, ossia doveva tornare alle fonti scritturali (corano e
sunna) abbandonando ogni elemento estraneo all’ortodossia. Secondo il panislamismo riformare
l’islam a livello religioso era il primo passo per rifondare la comunità musulmana e dunque una
53 precondizione per riformare il califfato. Il nazionalismo arabo vero e proprio è nato proprio dalla
riforma religiosa. Dal punto di vista prettamente sociologico la riforma religiosa dell’islam era il
primo passo verso la formazione di una nazione perché i movimenti riformisti partivano dall’idea
che dovesse essere il singolo individuo ad interpretare le scritture e il nazionalismo era visto proprio
in termini di rafforzamento dell’individualismo. Dicendo di voler ritornare alle tradizioni in realtà si
inserivano forti elementi innovatori: ad esempio il tipo di umma che il panislamismo aveva in mente
era di tipo orizzontale, composta da individui eguali tra di loro (→ ricorda la struttura della
nazione). Nell’ambito del riformismo islamico nei paesi arabi (egitto e siria) si distingueranno
Muhammad Abduh, rettore della scuola islamica di al-Azhar del Cairo -di impostazione tradizionale
ma in cui inserirà molte riforme- e Rashid Rida, suo discepolo e membro della corrente riformista
della Salafiya, un’importante scuola di pensiero sunnita. Questi sono i tre pensatori che hanno dato
vita al nazionalismo arabo, non tanto perchè essi pensassero già in termini di nazione ma piuttosto
in quanto contribuirono a costituire una società musulmana più adatta alla futura formazione di una
nazione. Il termine nahda = “risorgimento”, “rinascita”, nel mondo arabo indica l’attivismo
religioso, politico e sociale islamico di quest’epoca (in cui il potere dell’impero ottomano languiva
e i paesi europei si disputavano l’egemonia del medioriente) ed è rappresentato dalla triade Afghani
- Abduh - Rashid.
Man mano che ci si avvicina alla I guerra mondiale i britannici si impegnano, almeno formalmente,
a difendere l’integrità dell’impero ottomano. Quest’ultimo durante la guerra utilizzerà gli ulama per
fare propaganda contro i musulmani indiani che combattevano con gli inglesi.
Al-Husayn ibn ʿAlī, sharif ed emiro della mecca di stirpe hascemi, si alleò inizialmente con gli
ottomani e la germania ma fu poi convinto dall’alto commissario britannico al cairo McMahon a
stipulare un’alleanza con la triplice intesa in cambio della promessa della creazione di un grande
impero arabo sotto il suo controllo: lo sharif divenne così il capo ufficiale della rivolta araba contro
gli ottomani.
La prima guerra mondiale segnò la sconfitta dell’impero ottomano: il Trattato di Sèvres del 1920
sottrae la penisola arabica all’autorità musulmana e mette i musulmani di fronte alla loro più grande
paura, la dissoluzione dell’impero. La vicinanza ai britannici dello sharif della mecca delegittimò il
potere degli hashemiti (i discendenti diretti di Maometto).
Attriti locali:
-­‐
Il progetto da lungo tempo sognato da alcuni notabili musulmani di trasformare la scuola di
Panigar(?) in una grande università musulmana che fosse segno visibile di un grande
rinnovamento culturale fu stroncato da parte del governo coloniale. In compenso venne
approvato un progetto molto più depotenziato sottoposto all’autorità inglese.
-­‐
l’iniziativa presa nel 1920 da un funzionario coloniale a Kanpur (nella regione del Bihar, in
india orientale) di demolire parte di una moschea per allargare la strada in questo clima di
tensione generò una grande protesta e la questione fu talmente ingigantita che assunse
rilevanza nazionale.
Anche la comunità islamica, oltre a quella indu, fu quindi spinta verso una posizione di critica e
conflitto nei confronti dell’impero coloniale. Il fattore che riuscirà a creare un’alleanza tra i
musulmani e il movimento nazionalista sarà il Mahatma Gandhi. Anch’egli vedeva nelle promesse
fatte e non mantenute dagli inglesi un torto che doveva essere riparato ma la sua visione si basava
su principi diversi: pose sempre al primo posto il tema dell’etica e della morale.
Gandhi nasce nel 1869, il suo vero nome era Mohandas Karamchand e la sua famiglia apparteneva
alla casta dei modhbania, tradizionalmente dedita al commercio. Nasce a Porbandar, nella regione
del Gujarat, una zona costiera dell’india occidentale molto aperta agli scambi sia dal punto di vista
commerciale che religioso e culturale: la sua tradizionale apertura nei confronti della diversità l’ha
54 presa dall’infanzia. In particolare la presenza del giainismo in questa zona ebbe una grande
influenza sul suo pensiero e sull’idea della non violenza. La sua casta di appartenenza non era molto
elevata ma abbastanza benestante. Gandhi era molto timido, balbettava e non sembrava
particolarmente brillante. A 17 anni la famiglia lo invia in inghilterra per farlo studiare
giurisprudenza allo University College di Londra. La casta inizialmente si oppone al viaggio
oltremare (considerato fonte di corruzione) e gandhi rischia di essere espulso, ma grazie alla
mediazione di famigliari e saggi si riesce a trovare un compromesso: gandhi fa voto di impegnarsi a
mantenere uno stile di vista casto e puro per tutta la sua permanenza in occidente. Il periodo a
londra è fondamentale: oltre ad ottenere la laurea e ad imparare l’inglese, ha la possibilità di
scoprire la cultura indiana che prima non conosceva così approfonditamente (vd autobiografia: La
mia vita per la libertà). Londra all’epoca è piena di personaggi un po’ particolari, di fricchettoni
ante litteram (testuali parole, eh!) con cui gandhi entra in contatto cercando cibo vegetariano e che gli
fanno riscoprire i testi della tradizione indu. Così Gandhi legge i veda e il testo fondamentale della
Bhakti, la gita, quello che più lo influenzerà: sarà particolarmente colpito dall’idea della rinuncia al
mondo senza che sia necessario estraniarsi da esso → questo sarà il principio fondamentale che lo
guiderà. La riscoperta delle sue radici avviene dunque attraverso le lenti della cultura occidentale:
questo lo accomuna ad altri leader nazionalisti del mondo afroasiatico, che sono a cavallo tra una
cultura e l’altra, non sono veramente e completamente parte né di uno né dell’altro mondo
(marginal men: nome attribuito alle élites locali indiane occidentalizzate). Quando Gandhi farà
ritorno in india una volta finiti gli studi verrà marginalizzato sia dagli indiani che dagli inglesi,
nessuno dei quali lo sente come veramente appartenente alla propria cultura.
Gandhi, che aveva sempre avuto un’idea un po’ ibrida, eterodossa della sua “indianità”, comincia a
covare la profonda convinzione del carattere negativo della civiltà occidentale, degli effetti di
rottura e marginalizzazione che ha avuto sulla tradizione indiana e dello smarrimento della propria
identità che ha provocato nella popolazione. Gandhi si convince di dover liberare l’india da questa
oppressione, ma maturerà questa idea così radicale solo con il tempo (all’inizio riconosce anche gli
effetti positivi della presenza inglese sul territorio, solo in seguito si convince a recidere ogni
legame con la Gran Bretagna). Nel 1909 Gandhi pubblica un libretto intitolato “Hind swaray” che
può essere tradotto con “l’autogoverno dell’india” ma può significare anche “autocontrollo” ad una
interpretazione più approfondita. Si tratta di un libro importante perché, nonostante all’inizio gandhi
abbia fatto una critica moderata nei confronti dell’inghilterra, in questo testo esprime concetti
abbastanza radicali: attacca la civiltà e la cultura occidentale e i suoi effetti sul mondo tradizionale
indiano, i contenuti sono molto aspri e il forte attacco è rivolto in particolare a coloro che della
civiltà occidentale in india sono i principali rappresentanti, alla nuova generazione di intelligentia
occidentalizzata e alle nuove professioni che non facendo parte del mondo tradizionale indiano
avevano portato allo smarrimento del senso intimo della sua cultura (paradossale perché lui è parte
proprio di questo mondo, essendo un avvocato formatosi a londra).
Esempi:
-­‐
il tribunale moderno occidentale è la negazione del panchayat, l’assemblea tradizionale
indiana (in cui si tenta non di determinare un vincitore e un perdente ma di cercare il
compromesso, la mediazione per evitare la frammentazione della comunità.)
-­‐
la medicina occidentale è diversa dalla medicina indiana tradizionalmente ayurvedica che si
basa su una concezione olistica. La malattia veniva percepita come un disequilibrio
dell’organismo e si curava in maniera naturale. La medicina occidentale invece è invasiva ed
ha un impatto violento sul corpo, non ha rispetto dell’equilibrio e dell’integrità della
persona.
-­‐
Il lavoro meccanico interrompe la connessione tra persona e prodotto del suo lavoro.
L’essenza del lavoro per Gandhi è la manualità, che consente a chiunque di dare un
55 contributo, da’ dignità alla persona ed inoltre consente di meditare, di avere il tempo di fare
un’introspezione mentre si lavora.
-­‐
Gandhi attacca la civiltà moderna, persino le ferrovie (nonostante lui le abbia usate
tantissimo per girare e conoscere l’india) perché secondo lui rompono l’isolamento
tradizionale dei villaggi, la loro autonomia e identità individuale.
Gandhi rifiuta questa civiltà aliena all’india e vuole ristabilire la cultura indiana tradizionale,
recuperare le radici locali, la religione, le lingue locali. Esorta la gente ad abbandonare le città e
tornare a vivere nei villaggi, abbandonare le macchine e tornare al lavoro manuale. Attraverso il
ritorno alle origini il mondo indiano sarebbe così potuto tornare ad avere il controllo di sé (swaray).
Non si riesce bene a capire se dare un’interpretazione più politica (per il suo imput alla lotta per
l’indipendenza) o più spiritualistica della figura di gandhi. Certamente all’inizio prevale la seconda
ma con il tempo ci si renderà conto anche del potenziale politico del suo messaggio.
Il concetto di non violenza (ahimsa = “assenza del desiderio di uccidere/nuocere”) era già presente
nel mondo indiano. L’ahimsa per molti aspetti è stata mal interpretata come resistenza passiva al
sopruso e alla violenza, e gandhi si arrabbiava molto per questo fraintendimento. L’ahimsa è
l’atteggiamento di colui che ha coraggio, che non teme di morire, il resistente passivo invece teme
di soffrire, non fa uso della violenza solo perché ne ha paura, non per una profonda convinzione.
Gandhi stesso afferma di preferire il violento al codardo. Il principio dell’ahimsa è quello del
saggio che, pur potendo essere violento, sceglie di non rispondere alla violenza con altra violenza:
richiede più coraggio aspirare alla verità innalzandosi al di là di violenze e soprusi piuttosto che
ottenere la vittoria essendo violenti a propria volta. Non bisogna imporre niente a nessuno perché
nessuno ha la verità in tasca: la verità si raggiunge insieme, non credendo di avere ragione e
imponendosi sugli altri. L’ahimsa non è un metodo di lotta, non è uno strumento ma è l’essenza
stessa della (non) lotta: chi comprende l’ahimsa giunge alla verità, comprende il vero motivo per
cui sta lottando. Dopo il 1915 i metodi e le campagne di protesta di gandhi saranno molto
particolari: egli stesso avvisava le truppe inglesi su quando e dove si sarebbero svolte le proteste
contro il governo britannico, collaborava con le autorità e aveva un buon rapporto con i funzionari
inglesi → gli inglesi erano presi in contropiede, non sapevano come interpretare questo
atteggiamento e come reagire (Gandhi sosteneva semplicemente di avercela con la civiltà inglese, e
non con gli inglesi in quanto persone). Gandhi inizia a sperimentare i suoi metodi di lotta politica (il
principale di questi è stato da lui battezzato satyagraha = “la forza della verità”, termine con cui
indicava la lotta non violenta e le sue campagne di dissidenza), compiendo atti simbolici di
violazione di certe leggi-simbolo della dominazione coloniale. Famosa nell’ambito della satyagraha
è la marcia del sale del 1930 contro la legge che istituiva il monopolio inglese sulla produzione di
sale e imponeva una tassa sul prodotto ai sudditi, residenti europei compresi: gandhi e i suoi
discepoli percorrono chilometri per recarsi a raccogliere un pugno di sale dalle saline, rivendicando
simbolicamente il possesso di questa risorsa da parte del popolo indiano). Nonostante le sue
intenzioni e quelli che erano i presupposti dell’ahimsa ogni sua grande campagna di protesta si è
sempre conclusa con episodi di violenza. Quando succedeva, nonostante le proteste e le insistenze
dei suoi seguaci, gandhi decideva per l’interruzione della campagna di non-cooperazione con gli
inglesi perché interpretava gli atti violenti da parte degli indiani come un fallimento dei principi
stessi dell’ahimsa.
Durante il periodo trascorso in sudafrica gandhi aveva cercato di instaurare una collaborazione tra
la comunità indiana e quella musulmana ottenendo buoni risultati in termini di satyagraha, e si era
illuso di poterlo riproporre anche in india.
Giunto in india nel 1915 entra in contatto con i grandi leader del congresso nazionale indiano, tra
cui i due capi indiani della corrente moderata (Gokhale, che voleva usare metodi costituzionali) ed
56 estremista (Tilak, che voleva intervenire al di fuori dell’assetto istituzionale inglese e interpretava
certi simboli della tradizione indiana in maniera molto bellicosa).
Gandhi si rende conto di conoscere in realtà molto poco l’india e, su consiglio di questi personaggi,
per un anno viaggia senza rilasciare interviste e prendere posizioni politiche. Entra in contatto con
la realtà del suo paese, viene attratto in tutta una serie di questioni prettamente locali: ogniqualvolta
arrivava in un piccolo villaggio era accolto da un comitato rappresentativo che gli sottoponeva i
problemi locali. Gandhi inizia un’attività di carattere socio-politico, anche se inizialmente si occupa
solo di controversie locali che contrappongono indiani ad altri indiani. Proprio grazie a questo si
interessa dell’attività politica e da’ vita a i primi satyagraha intervenendo nei conflitti locali come
mediatore.
La prima occasione per cominciare a muoversi sulla scena politica nazionale sarà data a gandhi
grazie alla questione del califfato. Gandhi era convinto che fosse indispensabile creare una
comunità indo-musulmana, vedeva le varie comunità religiose come parte di un tutto costituito dalla
civiltà indiana, voleva ricreare la complementarità naturale tra le due comunità. La questione del
califfato rappresentava l’occasione per ricreare tale l’unità: se gli indu avessero difeso il califfato i
musulmani si sarebbero dimostrati loro grati e sarebbero venuti loro incontro in altre questioni, così
sarebbe venuto a crearsi un clima di convivenza e tolleranza. Limite di gandhi: era convinto che
l’islam fosse una religione molto spirituale e tendenzialmente non violenta, non ne capiva la vera
natura né l’importanza che aveva il potere politico per l’islam.
Verso la fine del primo conflitto mondiale gandhi prende le difese del califfato, convincendosi che
le promesse non mantenute da parte britannica nei confronti dei musulmani avrebbero dovuto
portare ad una collaborazione tra musulmani e indu del congresso: da’ vita al movimento khilafat,
una grande campagna di non-cooperazione con gli inglesi che darà l’avvio a grandi manifestazioni
di fratellanza tra indu e musulmani. Il simbolo dell’unificazione era il califfato, molto potente ma
anche molto ambiguo: per il musulmani rappresentava il potere islamico e c’era il rischio che
interpretassero l’appoggio indu alla loro causa come un via libera al ristabilimento del potere
islamico in india. Lo scopo ultimo del movimento in realtà era sensibilizzare l’opinione pubblica
nazionale e internazionale sul tema dell’autogoverno. La politica indiana si trasforma da politica
d’élite a politica di massa. L’uso di simboli religiosi indu e musulmani in politica era un mezzo di
comunicazione potente per le masse ma era rischioso: i simboli erano eterogenei, si rischiava di
creare delle forme di mobilitazione conflittuali, delle interpretazioni distorte della stessa causa. Ad
esempio alcune comunità musulmane (soprattutto contadini) interpretarono la mobilitazione contro
i proprietari terrieri indu, il che diede luogo a recriminazioni reciproche e ad episodi di violenza.
Nel 1922 a Chauri Chaura un gruppo di rappresentanti del califfato, provocato dalla polizia inglese
durante un corteo, diede fuoco ad una stazione di polizia linciando 22 poliziotti. Appena seppe del
massacro gandhi, deluso e preoccupato che la sua campagna di protesta pacifica si trasformasse in
un movimento violento, decise unilateralmente di interrompere la campagna di disobbedienza civile
e non-cooperazione.
Nel 1924 nasce la repubblica turca che abolisce il califfato: il simbolo unificatore del califfo viene
meno, gli indiani che avevano continuato il movimento senza gandhi si ritrovarono senza più alcun
simbolo di riferimento e il movimento finì per scemare del tutto. Il congresso porterà avanti
autonomamente il processo di indipendenza, i musulmani si orienteranno più verso una politica
comunitarista autonoma, timorosi nei confronti di una maggioranza indu sempre più forte.
Mancano appunti lezione XXX giovedì 31/05/2012
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