chimica-2 - IT Galilei Canicattì

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Scienze Integrate - Chimica
secondo anno
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
INDICE
MODULO 1: IL LEGAME CHIMICO ............................. 3
MODULO 6: L’EQUILIBRIO CHIMICO ...................... 71
1.
1.1
1.2
1.3
1.4
1.5
2.
2.1
2.2
2.3
2.4
3.
3.1
3.2
3.3
4.
4.1
4.2
5.
5.1
5.2
5.3
5.4
6.
1.
2.
3.
4.
Legami primari ........................................................... 3
Caratteristiche di un legame ...................................... 3
Il legame covalente .................................................... 5
Il legame ionico .......................................................... 7
Il legame dativo ......................................................... 9
Il legame metallico ................................................... 10
La struttura di qualche molecola ............................. 11
Strutture di Lewis .................................................... 11
Strutture di Lewis nei composti a carattere ionico ... 13
Le eccezioni alla regola dell’ottetto ............................13
La risonanza ............................................................ 16
La geometria molecolare ......................................... 16
Come sono orientati i legami tra di loro? ................. 16
Il modello VESPR .................................................... 16
Le strutture molecolari...............................................17
La struttura elettronica delle molecole ..................... 22
Teoria del legame di valenza (V. B.) .......................... 22
L’ibridizzazione degli orbitali ..................................... 26
I legami secondari ................................................... 33
La polarità delle molecole ........................................ 33
Cosa unisce le molecole tra loro? ............................ 33
Interazione Ione-Dipolo .............................................34
Interazione Dipolo-Dipolo ........................................ 34
Sommario delle forze di interazione fra gli atomi ...... 36
Reazioni reversibili e irreversibili ............................... 71
L’equilibrio chimico .................................................. 71
Costanti di equilibrio e relazioni tra le stesse ............ 72
Il principio di Le Chatelier ......................................... 73
MODULO 7: ACIDI E BASI ........................................ 75
1. Cosa sono gli acidi e le basi .................................... 75
2. Teorie acido base .................................................... 75
3. Equilibri acido-base: i sistemi coniugati ................... 77
4. Il pH ......................................................................... 79
5. La forza relativa degli acidi e delle basi .................... 82
6. Misura del pH ......................................................... 83
Esercizi ............................................................................ 85
MODULO 8: ELETTROCHIMICA ............................... 87
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Introduzione ............................................................ 87
Celle galvaniche o pile ............................................. 87
Potere ossidante e potere riducente ........................ 89
Il potenziale standard di riduzione (E°) ..................... 92
La forza elettromotrice di una pila ........................... 94
L’equazione di Nernst .............................................. 95
La corrosione metallica ............................................ 96
Trasformazione di energia elettrica in energia
chimica: elettrolisi ..................................................... 96
Esercizi ............................................................................ 98
MODULO 2: LE SOLUZIONI ...................................... 39
1.
2.
3.
Introduzione ............................................................ 39
Concentrazione delle soluzioni ................................ 40
Trasformazione da un’unità di concentrazione ad
un’altra .................................................................... 44
4. Diluizione delle soluzioni .......................................... 45
Stechiometria delle reazioni in soluzione acquosa ... 45
Esercizi ............................................................................ 47
MODULO 3: REAZIONI CHIMICHE II ....................... 49
1.
2.
3.
Introduzione ............................................................ 49
Reazioni di ossidoriduzione ..................................... 49
Stechiometria delle reazioni chimiche in soluzione
acquosa .................................................................. 54
MODULO 4: ASPETTI CINETICI ED ENERGETICI .. 57
1.
2.
3.
Introduzione ............................................................ 57
Cinetica chimica ...................................................... 57
L’energia nelle reazioni chimiche .............................. 60
MODULO 5: I GAS ..................................................... 63
1. Lo stato gassoso ..................................................... 63
2. Grandezze fisiche .................................................... 63
3. Le leggi dei gas ....................................................... 65
4. Densità dei gas ........................................................ 70
Esercizi da svolgere ......................................................... 70
2
MODULO 9: CHIMICA ORGANICA ......................... 103
1.
2.
3.
4.
5.
Introduzione .......................................................... 104
L’importanza della chimica organica ...................... 106
Gli idrocarburi ........................................................ 109
I derivati funzionali ................................................. 114
Le biomolecole ...................................................... 118
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MODULO 1
IL LEGAME CHIMICO
• Caratteristiche di un legame
• Il legame metallico
• La risonanza
• Il legame covalente
• Strutture di Lewis
• La geometria molecolare
• Il legame ionico
• Strutture di Lewis
nei composti a carattere ionico
• I legami secondari
1. I legami primari
1.1. Quali sono le caratteristiche di un legame?
Uno dei risultati che sicuramente abbiamo raggiunto con il primo libro è
stato capire che tutta la reattività chimica delle sostanze esistenti in natura
parte in realtà dalla configurazione elettronica degli atomi i quali, attraverso
un’e voluzione spontanea, tendono ad assumere configurazioni a bassa
energia con la formazione di legami. La tipologia di questi ultimi risulta
naturalmente differente e presenta caratteristiche che dipendono
essenzialmente dalla tendenza relativa che manifestano gli atomi coinvolti
nel legame ad acquistare (affinità elettronica) o a perdere elettroni (energia
di ionizzazione).
Diciamo che tra due o più atomi esiste un legame chimico se le interazioni (forze) agenti tra di loro danno
luogo alla formazione di un aggregato sufficientemente stabile da poter essere studiato (individuato)
(L. Pauling).
La tipologia dei legami finora trattati riguarda i cosiddetti LEGAMI PRIMARI, legami forti che si trovano all’interno delle
sostanze ed il cui studio, come abbiamo visto, può fornire informazioni sulla:
• Esistenza di una determinata sostanza, associata alla possibilità che si formino dei legami tra gli atomi coinvolti
• Composizione chimica, in quanto il numero di legami possibili determina il rapporto di combinazione tra gli atomi
nella sostanza
• Reattività chimica, associata alla tipologia dei legami presenti
Ricordiamo che
LEGAME COVALENTE si presenta tra
atomi con elevata affinità elettronica
(atomi di elementi non metallici) e può
essere omopolare o eteropolare
LEGAM I
PRIM ARI
LEGAME IONICO si presenta tra atomi
con elevata affinità elettronica (non
metalli) ed atomi a bassa energia di
ionizzazione (metalli)
LEGAME METALLICO si presenta
tra atomi di elementi con bassa energia
di ionizzazione (metalli).
Per semplicità consideriamo solo gli elementi principali e suddividendo grossolanamente in tre parti la Tavola Periodica
Sinistra (Metalli...)
Centro (Semimetalli...)
Destra (Non metalli)
A
B
C
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possiamo rappresentare, in modo schematico ed un po’ approssimato ma sicuramente utile, la tipologia di legame possibile
tra i vari elementi
AA, AA'
METALLICO (struttura infinita)
BB, BB'
COVALENTE APOLARE (struttura infinita)
CC, CC'
COVALENTE APOLARE (struttura molecolare)
AC
IONICO (struttura infinita)
AB
IONICO o COVALENTE POLARE (struttura infinita)
BC
COVALENTE POLARE (struttura molecolare )
RICORDA Come regola generale, valida per gli elementi più rappresentativi, la massima carica positiva che un atomo
può assumere in un composto ionico è uguale al numero dei suoi elettroni di valenza mentre la massima carica negativa
è uguale al numero di elettroni mancanti al raggiungimento della configurazione del gas nobile successivo.
La carica dello ione quindi corrisponde al suo numero di ossidazione, mentre nel caso in cui non ci sia una completa
cessione ma solo uno spostamento degli elettroni verso l’atomo più elettronegativo, il numero di ossidazione è
rappresentato dalla “carica formale” corrispondente al numero di elettroni spostatisi.
Definire la tipologia dei legami presenti in una sostanza è fondamentale perché come sappiamo ne determina le
caratteristiche fisiche e chimiche ma se consideriamo i due cristalli raffigurati di seguito, ci renderemo conto che questo
non è l’unico parametro da considerare, il Diamante e la
Grafite infatti, hanno caratteristiche evidentemente differenti
ed a nessuno verrebbe in mente di regalare un anello con
grafite al posto di un anello con diamante ma da un puno di
vista prettamente chimico la cosa potrebbe essere lecita, visto
che entrambi non sono altro che due forme cristalline del
Carbonio (si dice forme allotropiche) che essendo puro non
può fare altro che formare legami covalenti con sé stesso.
Le enormi differenze tra le due sostanze possono essere
DIAMANTE
GRAFFITE
quindi spiegate solo se si ammette che il legame sia
caratterizzato da altri tipi di parametri oltre la sua natura chimica ed in effetti un legame all’interno di una sostanza si può
considerare univocamente determinato se si conoscono la sua
a ENERGIA
a
a
LUNGHEZZA
ORIENTAZIONE
I primi due parametri sono facilmente identificabili approfondendo il concetto della variazione di energia di un sistema in
seguito all’associazione di uno o più atomi.
Come abbiamo già accennato nel primo libro durante il processo di formazione di un legame, tra i due atomi, si esercitano
sia forze attrattive (elettroni - nuclei) che forze repulsive (nucleo-nucleo, elettroni-elettroni).
Il fenomeno è stato studiato da P. Morse e E.U. Condon ed espresso
attraverso un grafico che utilizza l’andamento dell’energia potenziale rispetto
alla distanza internucleare per evidenziare l’evoluzione dello stato energetico
del sistema formato da due atomi che si uniscono in un legame stabile.
Le forze attrattive prevalgono a grandi
distanze, consentendo in questo modo
ai due atomi di avvicinarsi e legarsi;
naturalmente le forze repulsive
diventano sempre più importanti e
significative quanto più piccola è la
distanza tra gli atomi.
Se per convenzione poniamo uguale a zero l’energia potenziale di due
atomi quando tra loro non esiste nessun tipo di interazione cioè quando si
trovano idealmente a distanza infinita, possiamo presupporre che durante il
loro avvicinamento sia le forze attrattive che quelle repulsive diventino più
intense ma che le prime evidentemente prevalgano, rendendo il sistema più stabile rispetto alla situazione di partenza.
Man mano che diminuisce la distanza, infatti, l’energia potenziale complessiva dei due atomi diminuisce, tutto ciò sino
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ad arrivare ad una:
distanza internucleare critica o distanza di legame, in corrispondenza della quale le due forze risulteranno
perfettamente uguali, l’energia potenziale raggiungerà quindi il suo valore minimo ed il sistema sarà in equilibrio.
CURIOSITÀ FULLERENI e NANOTUBI
Nell’ottobre del 1996 fu assegnato il premio Nobel per la scoperta della molecola di fullerene, l’unica forma finita del
carbonio (il diamante e la grafite sono solidi a reticolo infinito).
I fullereni vengono ora prodotti artificialmente con un sistema di vaporizzazione del carbonio ad alta temperatura ma
sono stati ritrovati in minime percentuali anche nella miniera di carbone di Yinpinglang, in Cina e in un meteorite caduto
in Messico.
La molecola di fullerene si combina in aggregati C60, con una struttura simile a quella di un pallone da calcio (icosaedro)
ed è formata da 12 pentagoni e 20 esagoni. Questa molecola ha aperto le frontiere per lo studio delle nanotecnologie
ed ha svariate applicazioni ad esempio nel campo della cura e della diagnostica medica in cui viene usato per trasportare
atomi o traccianti radioattivi fino alle cellule tumorali.
I primi SWNT (Single Wall Nano Tube) sono stati prodotti nel 1993 e
possono essere descritti come tubi in carbonio formati da uno strato di
grafite arrotolato su se stesso a formare un cilindro, chiuso alle due estremità
da due calotte emisferiche. Il corpo del nanotubo e' formato da soli esagoni,
mentre le strutture di chiusura (le sue semisfere) sono formate da esagoni e
pentagoni, come i normali fullereni.
La
distanza
corrispondente
alla
condizione di equilibrio e quindi di
stabilità del legame, è defini ta lunghezza
del legame, parametro dell’ordine di
grandezza dei Picometri (1pm=10-12m);
ogni ulteriore avvicinamento degli atomi
causerà un aumento delle forze repulsive
in misura maggiore di quelle attrattive,
con conseguente tendenza del sistema
a ritornare alla distanza di equilibrio.
1.2. Il legame covalente
La condivisione degli elettroni conseguente alla formazione di un legame covalente è quindi caratterizzata da un ben
determinato valore di energia
L’energia di legame, misurata in KJ/mol, è l’energia che si libera quando due atomi allo stato gassoso passano
da sistanza infinita alla distanza di legame ed ovviamente coincide con l’enegia che è necessario fornire al sitema
( allo stato gassoso) per rompere il legame, prtando i due atomi a distanza infinita.
X--X(g) + Eleg (Kcal/mol) > X·(g) + X·(g)
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E’ una misura della “forza” di un legame chimico e, per questo motivo, viene a volte impropriamente chiamata forza di
legame. Consideriamo come esempio reale la formazione del legame covalente in una molecola di H2. Come abbiamo già
visto nel primo libro, i due atomi di Idrogeno condividono il loro unico elettrone per raggiungere la configurazione stabile
dell’Elio e leggendo sulla curva di Morse il valore di r corrispondente al minimo di energia potenziale, vediamo che la
lunghezza del legame nella molecola di Idrogeno è di 74 pm, mentre l’energia del legame si determina dal valore della
“buca di potenziale”, cioè dalla differenza tra l’energia della molecola (corrispondente al minimo della curva) e quella dei
due atomi separati, (corrispondente allo zero) ed ha un valore di 436 KJ/mol.
Il legame nella molecola di H2 è covalente apolare e l’analisi effettuata ci
permette di affermare che è “forte” e direzionato, visto che la probabilità che
gli elettroni si trovino nello spazio compreso tra i due nuclei è molto elevata sia
perché in questa zona risentono dell’attrazione di entrambi i nuclei sia perché
in questo modo diminuiscono le forze di repulsione tra i nuclei stessi (una
molecola simmetrica con la massima densità elettronica tra i due atomi di
idrogeno).
Naturalmente, ogni legame possiede una propria stabilità ed una propria lunghezza, come si evidenzia nella seguente tabella:
Legame
Energia di legame (Kj/mole)
Lunghezza di legame (nm)
C-C
370
0.154
C=C
680
0.13
C≡C
890
0.13
C=C
435
0.11
C-H
305
0.15
C-N
360
0.14
C-0
535
0.12
C-F
450
0.14
C-CI
340
0.18
O-H
500
0.10
O-O
220
0.15
O-Si
375
0.16
N-O
250
0.12
N-H
430
0.10
F-F
160
0.14
H-H
435
0.074
Esaminiamo il legame idrogeno - cloro, dove la tendenza ad acquistare l’elelttrone da parte del cloro è complementare
alla tendenza dell’idrogeno a cederlo.
Da tabelle possiamo ricavare che la distanza di equilibrio è di 127 pm e che l’energia di legame è di 411 KJ/mol, valore che
evidenzia una molecola notevolmente stabile, tipico risultato di un legame covalente ma, come sappiamo, in questo caso
la coppia elettronica, pur avendo la massima probabilità di trovarsi tra i due nuclei, non è condivisa equamente e staziona
preferenzialmente più vicino all‟atomo di Cloro.
Approfondendo il concetto di LEGAME COVALENTE POLARE, già noto dal primo anno, possiamo affermare che
Il legame è ancora direzionato e forte ma il decentramento degli elettroni determina una maggiore densità di carica
negativa verso il cloro ed una carenza di cariche negative sull‟idrogeno. Le cariche quindi si differenziano con la
formazione di una parziale carica negativa (δ-) sul cloro ed una parziale carica positiva (δ+) sull‟idrogeno (DIPOLO)
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Parziale
carica
negativa
μ
δ-
δ+
Cl
H
r
Parziale
carica
positiva
LEGAME COVALENTE POLARE
(possiede un Momento Dipolare)
Per chi vuole saperne di più
Per DIPOLO ELETTRICO in fisica, si intende un sistema costituito da due cariche elettriche di segno opposto, poste ad
una certa distanza (r).
Ogni dipolo è caratterizzato numericamente da un MOMENTO DIPOLARE, indicato con la lettera greca μ (mi) e definito
dall’equazione
μ = q·r dove q = (1.16·10-19C)·P
• P rappresenta un numero compreso tra 0 ed 1, che, moltiplicato per 100 fornisce la % di ionizzazione del
legame (%I)
• (1.16·10-19 C) rappresenta la carica unitaria dell’elettrone
• il loro prodotto permette di ottenere la densità di carica q (quantità di carica nell’unità di volume)
Il momento dipolare è una grandezza vettoriale, il cui verso va, per convenzione, dalla carica negativa a quella positiva.
Se indichiamo con %I mediamente la percentuale di ionizzazione di un legame, possiamo dire che:
 Se %I supera il 60%, cioè quando la differenza di
elettonegatività, XA-XB ≥ 2, il legame è già da considerarsi
a prevalenza ionica
 Mentre per 0 ≤ XA-XB ≤ 2 il legame aumenta la sua
polarità passando da covalente puro a covalente
polare,
 Per XA-XB ≥ 3 il legame è da considerarsi totalalmente
ionico ma questo succede realmente solo per pochi
composti come è evidenziato nel grafico.
1.3. Il legame ionico
Un LEGAME IONICO può essere considerato in definitiva, come un caso limite di un legame covalente polare che si
instaura quando esiste una forte differenza di elettronegatività tra i due atomi che sono caratterizzati, quindi, l’uno (il metallo)
da un potenziale di ionizzazione molto basso e l’altro (il non metallo) da un‟affinità elettronica molto elevata.
Me →Me + n ebassa energia di ionizzazione
n+
X + n e- →Xn
elevata affinità elettronica
La teoria del legame chimico si fonda sulla legge di
Coulomb che definisce la forza di interazione tra due
cariche
1
Q1 · Q2
•
F=
4 πε o
d
dove Q1 e Q2 rappresentano il valore delle cariche elettriche,
d la distanza che le separa ed F la forza (attrattiva per
cariche opposte, repulsiva per cariche concordi) che si
esercita su di esse ed ε° la costante dielettrica nel vuoto
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In questo caso nell’interazione tra i due atomi si ha un completo trasferimento dell’elettrone da un atomo all’altro,
con la formazione di due ioni di carica opposta tra i quali si instaura una forza di tipo Coulombiano.
Se consideriamo cosa succede nell’interazione del fluoro con il potassio verifichiamo immediatamente che entrambi gli
atomi si ionizzano, stabilizzandosi; il primo assume infatti la configurazione del Neon ed il secondo quella dell’Argon, il
rapporto di combinazione è quindi di 1 ad 1, rappresentato dal simbolo KF (fluoruro di potassio) come nel cloruro di
sodio NaCl.
Come abbiamo già accennato nel primo libro, in questo caso il legame è puramente elettrostatico e dato che la forza di
natura coulombiana esercitata da una carica si genera uniformemente in tutte le direzioni dello spazio (campo elettrico), Il
legame ionico a differenza di quello covalente non è direzionale. L'attrazione tra cariche di segno opposto, come sono
cationi ed anioni, non si sviluppa solo in un'unica direzione, ma agisce uniformemente in tutte le direzioni, producendo
aggregati ionici macroscopici aventi strutture ben definite, in cui anioni e cationi si alternano in un reticolo ordinato.
Il Cloruro di Sodio, ad esempio, forma un grande reticolato cubico, in cui ioni di carica
opposta si alternano ordinatamente
nelle tre direzioni dello spazio per cui ogni ione Na+ risulta circondato da 6 ioni Cl- e viceversa.
Tale disposizione ordinata è detta cristallina.
Il numero di anioni che circonda un catione all’interno del reticolo cristallino è detto numero
di coordinazione del catione. Il numero di cationi che circonda un anione all’interno del reticolo cristallino è detto numero
di coordinazione dell’anione.
Nei composti ionici dunque, la formula chimica non descrive una struttura molecolare autonoma, ma indica il rapporto
numerico esistente nel cristallo tra ioni positivi e negativi (formula minima) ed in questo caso è più corretto parlare
di massa (peso) formula piuttosto che di massa (peso) molecolare.
Se la reazione fosse avvenuta tra il Calcio ed il Fluoro, il Calcio avrebbe ceduto i suoi due
elettroni a 2 atomi di Fluoro, ciascuno dei quali ne avrebbe acquistato uno raggiungendo la
configurazione dell’Argon e del Neon. In tal caso quindi il reticolo ionico è nel complesso
neutro se per ciascun ione Ca2+ sono presenti 2 ioni F-. La formula CaF2 (sale binario, Fluoruro
di calcio) indica dunque che nel reticolo cristallino il rapporto tra ioni Calcio e ioni Fluoro è 1:2.
In realtà il processo di formazione del legame ionico deve essere considerato come la somma di due processi differenti.
• il primo consiste nel vero e proprio processo di ionizzazione, con formazione degli ioni allo stato gassoso, idealmente
posti a distanza infinita l’uno dall’altro
Na(g) + 118,5 kcal (energia di ionizzazione) = Na+(g) + eCl(g) + e- = Cl-(g) + 83,4 kcal (affinità elettronica)
+
=
Na(g) + Cl(g) + 35,1 kcal = Na+(g) + Cl-(g)
Energia necessaria per determinare il processo di ionizzazione
• successivamente gli ioni, sotto l’azione delle forze di attrazione si avvicinano fino ad una distanza uguale alla somma
dei loro raggi ionici alla quale il sistema raggiunge un valore di energia minimo (inferiore al sistema iniziale dei due ioni
a distanza infinita) determinando un’interazione stabile che porta alla formazione del composto ionico L’energia
guadagnata è “energia in più” che il sistema formato dal composto ionico stabile libera verso l’ambiente.
L’energia liberata nella formazione del reticolo cristallino dagli ioni allo stato gassoso, portati da distanza infinita a
distanza di legame, è definita come energia reticolare. In prima approssimazione un composto ionico si formerà
se l’energia spesa per la ionizzazione verrà compensata dall’energia reticolare.
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1.4. Il legame dativo
Ritorniamo ora su un tipo particolare di legame covalente che si può formare a partire da un doppietto elettronico non
impegnato in alcun legame, messo a disposizione da un atomo donatore (datore) e da un orbitale vuoto messo a
disposizione da un atomo accettore.
Tale legame è detto legame covalente dativo o di coordinazione ed una volta formatosi, è indistinguibile da un normale
legame covalente.
Il legame dativo può essere rappresentato con una freccia che va dal doppietto solitario dell’atomo D (datore) e si dirige
verso l’atomo A (accettore).
D:→A
Molto importante è il caso in cui, nell’atomo accettore, l’orbitale vuoto sia il frutto di una promozione di elettroni da un
orbitale ad un altro, generalmente degenere. E’ il caso dell’Ossigeno per il quale si ammette che, quando sia impegnato in
legami di questo tipo, possa avvenire una transizione dalla configurazione più stabile, prevista dalla regola di Hund ad una
configurazione meno stabile, nella quale un elettrone viene spostato da un orbitale p semisaturo all’altro orbitale p, generando
un orbitale vuoto.
2s
2p
2p
2p
2s
2p
2p
2p
Questa configurazione è leggermente più instabile della precedente, ma permette successivamente la formazione di una
molecola stabile, con un guadagno energetico complessivo. Il ragionamento è simile a quello che compie una persona che
acquista un bene leggermente più costoso sapendo che comunque ha risparmiato perché ammortizzerà successivamente
la sua spesa ad esempio nella manutenzione o nella durata dell’apparecchio.
La formazione del legame dativo giustifica la capacità che hanno molti elementi (in particolare gli elementi alla fine di un
periodo) di formare un numero variabile di legami con l'ossigeno (valenza variabile) legandosi con esso in diverse proporzioni.
Il Cloro, ad esempio, che possiede una configurazione superficiale s2 p5, presenta un elettrone spaiato e ben tre doppietti
non condivisi disponibili per legami dativi, attirati dall’ossigeno, che come sappiamo è l’elemento più elettronegativo dopo
il fluoro e accolti in uno degli orbitali p, vuoto. Si giustifica in tal modo l'esistenza dei quattro composti ossigenati del cloro
che abbiamo studiato: l'anidride ipoclorosa Cl2O, l'anidride clorosa Cl2O3, l'anidride clorica Cl2O5 e l'anidride perclorica
Cl2O7 ed i rispettivi numeri di ossidazione del cloro: +1 corrispondente all’unico elettrone spaiato, +3 corrispondente
all’elettrone spaiato ed ad un doppietto solitario, +5 corrispondente all’elettrone spaiato ed ai due doppietti impegnati con
i rispettivi atomi di ossigeno ed infine +7 corrispondente all’elettrone spaiato ed ai tre doppietti solitari, il massimo numero
di elettroni che il cloro può impegnare.
Altra applicazione importante del legame dativo si ha nella reazione di dissociazione ionica dell’acqua in ioni H+ e ioni OH-.
In realtà in soluzione non esistono ioni H+ liberi poiché essi usano il loro orbitale 1s vuoto per legarsi, tramite legame dativo,
ad uno dei due doppietti solitari dell’Ossigeno di una molecola d’acqua, con formazione di ioni ossonio (idrossonio) H3O+,
H+acq
H2Ol → H+ => H3O+
H2Ol → H+ => H+acq
Una volta che lo ione ossonio si è formato, i 3 atomi di idrogeno
sono perfettamente equivalenti ed i tre legami covalenti che li
legano all’ossigeno risultano indistinguibili.
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Questo tipo di legame, insieme a quello ad idrogeno, ha una grande importanza a livello biochimico, perché essendo
meno forte degli altri tipi di legame può formarsi ma anche rompersi facilmente, in una specie di equilibrio regolato dalle
condizioni esterne. E’ quello che succede ad esempio nell’emoglobina contenuta nei globuli rossi dove quattro gruppi
chiamati EME contengono Fe2+ che è in grado di legarsi con un legame di coordinazione con
l’O2 atmosferico, secondo un equilibrio che determina la formazione e la rottura del legame a
seconda della pressione parziale dell’ossigeno. In questo modo l’emoglobina è in grado di
fissare l’O2 in un ambiente ricco di tale gas (i polmoni), trasportarlo e rilasciarlo nei vari tessuti
ed organi dove la pressione di O2 è bassa. In assenza di questo meccanismo la quantità di
ossigeno che si potrebbe solubilizzare sarebbe troppo bassa per le esigenze metaboliche di
Globuli rossi
un animale di dimensioni superiori ad 1 mm.
1.5. Il legame metallico
Il legame metallico è determinato dall’unione di atomi metallici all’interno di un solido.
Tra i modelli più semplici ed intuitivi che descrivono il legame metallico vi è quello di P. Drude
(1863-1906), secondo il quale gli atomi metallici perdono gli elettroni superficiali
trasformandosi in ioni positivi. Gli ioni si ordinano in modo da lasciare il minor spazio vuoto
possibile (massimo impaccamento), andando così ad occupare posizioni ben determinate
all'interno di precise strutture geometriche.
Gli elettroni persi non appartengono più ai singoli atomi, ma a tutto il reticolo solido (modello a mare di elettroni). Essi
sono liberi di muoversi (elettroni delocalizzati) tra gli ioni positivi garantendo la neutralità del sistema e agendo da collante
per i cationi.
La libertà di movimento degli elettroni all’interno del reticolato cationico fa sì che il legame metallico evidenzi una natura
non direzionale, non vi sono elettroni localizzati tra i due nuclei che li condividono, come nel legame covalente, che
irrigidiscono la struttura. Gli elettroni, carichi negativamente, attraggono gli ioni positivi e tengono insieme i nuclei, garantendo
la stabilità della struttura. Gli stessi cationi possono, se sollecitati meccanicamente, muoversi all’interno del mare di elettroni
senza che il legame venga spezzato, a differenza di quanto accade in un legame ionico in cui anioni e cationi devono
mantenere le loro posizioni reciproche.
Il legame metallico non è direzionale e ciò spiega le caratteristiche di duttilità e malleabilità dei metalli i quali,
se sottoposti a sollecitazioni meccaniche, si deformano in modo permanente senza spezzarsi
I materiali duttili si deformano permettendo lo scorrimento degli atomi l’uno
rispetto agli altri, in questo modo si riduce la sollecitazione sui legami chimici
determinando l’assorbimento di grandi quantità di energia, cosa che non
avviene in altri materiali che sottoposti ad una sollecitazione concentrata vanno
incontro ad una rottura totale.
La presenza di elettroni liberi è in grado di spiegare anche le proprietà di
conducibilità elettrica dei metalli che, sottoposti ad una differenza di potenziale,
trasformano il moto caotico degli elettroni in un flusso ordinato (corrente).
Generalmente le forze di coesione nei metalli aumentano al crescere del numero
di elettroni di valenza (da Li a Be; da Na a Al; ecc.) e diminuiscono, a parità di
elettroni di valenza, all’aumentare delle dimensioni atomiche (da Li a Cs, ecc.)
10
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
CURIOSITÀ
Le leghe metalliche sono miscele di metalli o di metalli e non-metalli (soluzioni solide quindi) che solidificando presentano
proprietà metalliche. Sono ottenute generalmente a partire dai metalli allo stato fuso e poi raffreddando con cautela.
L’acciaio o la ghisa sono leghe ferrose in cui il ferro supera il 50% del peso della lega e costituisce il metallo base ed il
carbonio nel primo caso non supera il valore di 1,7% mentre nella seconda presenta un tenore compreso tra 2 e 4.
L’idrogeno è l’unico elemento del I gruppo che
NON si comporta da metallo ma questo è vero solo
sul nostro pianeta. Alla temperatura di 1700° C e per
Pressioni dell’ordine di 1011Pa (circa 106atm)
l’idrogeno elementare acquista carattere metallico.
Sebbene tali condizioni non siano normali sulla Terra
esse sono simili alle caratteristiche della parte più
interna di un grande paneta come Giove, costituito
per più del 90% da idrogeno metallico.
2. La struttura di qualche molecola
2.1 Strutture di Lewis
Ora che il concetto di legame è stato sufficientemente approfondito, cerchiamo di riutilizzare il metodo di Lewis, questa
volta per evidenziare la struttura di qualche molecola, cominciando da una sostanza molto diffusa ed importante per la vita,
l’ossigeno che noi respiriamo.
Se consideriamo la configurazione elettronica dell’atomo di ossigeno con i suoi due elettroni spaiati, verifichiamo che il
completamento dell’ottetto, si raggiunge contemporaneamente dalla interazione di due atomi che quindi formano un
aggregato stabile, O2. Ogni legame è covalente puro (OMOPOLARE), però a differenza dell’idrogeno o del cloro, l’ossigeno
ha messo in compartecipazione due coppie di elettroni formando due legami. Se indichiamo gli elettroni di legame con dei
trattini potremo rappresentare la molecola che si forma in questo modo e dire che l’ossigeno forma un doppio legame.
O + O
O=O
Da analisi energetiche si evidenzia che il doppio legame è più corto e più forte di un legame semplice
Se ci riferiamo all‟atomo di azoto verifichiamo che dall’interazione delle tre coppie di elettroni spaiati
..
..
..
anche in questo caso si forma una molecola biatomica ed ogni legame è COVALENTE APOLARE ma questa volta i
legami sono tre: l’azoto possiede cioè un triplo legame.
Un legame triplo è più corto e più forte energeticamente di un legame doppio.
E’ chiaro quindi che in alcune situazioni una coppia di atomi può dar luogo a più interazioni, mettendo in compartecipazione
più doppietti.
Vediamo ora la struttura di Lewis della molecola che si formerà se facciamo reagire insieme idrogeno ed azoto (idruro
covalente) e, per non dimenticare quello che abbiamo studiato precedentemente, ricolleghiamo la struttura di Lewis al
simbolismo utilizzato per rappresentare la configurazione elettronica.
2p
1
AZOTO
AZOTO
2s
1 1 1
1
H
1s
1
1
1
H
H
H
..
N
H
H
11
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Conosci già questa molecola, l’AMMONIACA, ed utilizzando il modello di Lewis se ne chiarisce la struttura. L’azoto ha tre
elettroni spaiati mentre l’idrogeno ne ha solo uno per cui, perché si formi una molecola stabile servono tre atomi di
idrogeno, con cui l’azoto forma dei legami semplici.
Soffermiamoci su una molecola molto importante che si ottiene dalla combinazione tra idrogeno e carbonio perchè
rappresenta un altro esempio legato alla possibilità che ci sia un riassestamento interno degli elettroni, finalizzato alla
formazione di molecole più simmetriche e quindi più stabili.
Il Carbonio infatti pur dovendo possedere in base al principio dell’AufBau la prima delle configurazioni elettroniche
rappresentate nello schema successivo, quando si combina con altri elementi, in questo caso con l’Idrogeno, assume una
configurazione leggermente più energetica, promuovendo un suo elettrone nell’orbitale p; in questo modo, nella formazione
di legami, il Carbonio acquista la possibilità di stabilizzare quattro atomi di idrogeno formando la molecola CH4 che, essendo
perfettamente simmetrica, risulta particolarmente stabile. Un grande guadagno energetico complessivo, con una piccola
“spesa“ iniziale, il meccanismo sarà più chiaro successivamente quando introdurremo il concetto di ibridizzazione
degli orbitali.
CARBONIO
AZOTO
2s
2p
1
1 1
1
1
1 1 1
1
1
1
1
H
H
H
H
1
H
H
1s
C
H
H
Si dice che la chimica del carbonio è TETRAVALENTE cioè che con i suoi quattro elettroni spaiati, tende a formare
quattro legami per poter raggiungere la configurazione otteziale e questo comportamento caratterizza quasi tutti i composti
del carbonio.
CURIOSITÀ
Il CH4 è il più piccolo composto che il carbonio può formare ed è quindi il primo di una grandissima famiglia che
rappresenta un ramo della chimica, detta Chimica Organica perché il C e i suoi composti sono alla base dello sviluppo
degli organismi viventi sulla Terra.
Il CH4 si chiama Metano ed è considerato un combustibile pulito perché essendo una molecola piccola, con un solo
atomo di C, quando brucia nel rapporto stechiometrico previsto con l’ossigeno dell’aria, può formare solo anidride
carbonica ed acqua, senza formare altri prodotti intermedi che potrebbero essere nocivi.
CH4 + 2O2
CO2 + 2H2O
In tutti questi casi la previsione sul rapporto di combinazione era
..
..
..
.O .
.O .
abbastanza semplice perché l’idrogeno ha un solo elettrone esterno, . O .
..
..
..
proviamo ora a prevedere una molecola formata da alluminio ed ossigeno.
.
.
L’alluminio ha tre elettroni mentre l’ossigeno ne ha solo due, vediamo cosa
succede utilizzando questa volta solo la struttura di Lewis.
. Al .
. Al .
Come sai già, un atomo di ossigeno possiede due
elettroni spaiati che può utilizzare acquistando due elettroni dell’alluminio per formare due legami e
O
raggiungendo la configurazione del Neon. L’atomo di alluminio però in questo modo non si è stabilizzato
Al
perchè possiede ancora un elettrone spaiato e, per raggiungere l’ottetto, deve cederlo ad un altro
O
atomo di ossigeno che però in questo modo impegna solo uno dei suoi due elettroni spaiati e quindi
Al
reagirà con un’altro atomo di alluminio. Lo spostamento continuerà finchè tutti gli atomi coinvolti nella
O
formazione della molecola, complessivamente raggiungeranno l’ottetto. A questo punto la molecola
che si è formata è stabile e gli atomi non reagiscono più.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
CURIOSITÀ
L’ossido di alluminio Al2O3 è il costituente del “corindone” un cristallo naturale che può
essere rosso (variazione rubino), blu (variazione zaffiro), arancio (variazione
padparadshah) la cui lavorazione dà luogo alle gemme preziose corrispondenti.
Sembra un gioco ma è ciò che realmente succede in natura e spiega perché il rapporto di combinazione nell’OSSIDO DI
ALLUMINIO è di due a tre (Al2O3).
In questa molecola Δχ=1,5 quindi il legame è covalente polare e questo giustifica le caratteristiche di quest’ossido, la cui
reattività chimica è caratterizzata da un comportamento intermedio tra un ossido basico ed un ossido acido (OSSIDO
ANFOTERO).
2.2 Strutture di Lewis nei composti a carattere Ionico
Ritorniamo alla definizione del legame ionico inteso come caso limite del legame covalente polare e in quest’ottica
rappresentiamo la struttura di alcune molecole che contengano legami ionici, servendoci delle regole di Lewis:
Ossido di Bario
.
MgCl2
Mg
Cloruro di Magnesio
Anche in questo caso la struttura di Lewis, evidenziando il numero di legami presenti, ci aiuta a capire il rapporto in cui
gli ioni si combinano nel cristallo ionico. Nell’Ossido di Bario il legame ha un Δχ=2,6 mentre nel Cloruro di Magnesio il
Δχ=2,0; in entrambi i casi il legame è a componente ionica predominante.
Questi semplici esempi chiariscono il successo che il modello di Lewis ha dimostrato nel tempo, permette infatti di intuire,
in modo semplice e chiaro, la struttura di molti composti ma sicuramente sono chiari anche i suoi limiti. Il comportamento
che finora abbiamo considerato infatti è generale e abbiamo visto che sono tantissimi i composti che seguono la regola
dell’ottetto ma in realtà ci sono parecchie eccezioni e sono molti i rapporti di combinazione e le osservazioni sperimentali
che questa teoria non è in grado di interpretare.
2.3 Le eccezioni alla regola dell’ottetto
Ad esempio se consideriamo la combinazione del Berillio (2° Periodo, II Gruppo) con l’Idrogeno, non dovrebbero formarsi
legami visto che il Berillio non ha elettroni spaiati da condividere in legami covalenti.
Be 1s2 2s2
2p
1
Be*1s2 2s1 2p1 +2 H 1s
BeH2
Ma come abbiamo visto l’eccitazione di un elettrone permette la separazione del doppietto di non legame e la possibilità
di stabilizzare due atomi di idrogeno con la formazione del composto BeH2 , idruro di berillio, che non segue però la regola
dell’ottetto (solo due coppie di legame, in tutto 4 elettroni).
Un comportamento simile si ha anche con il Boro (2° Periodo III gruppo) che con il suo elettrone spaiato dovrebbe formare
solo un legame con l’Idrogeno, in realtà l’eccitazione di un elettrone anche questa volta permette con la formazione dei
rispettivi legami, di stabilizzare tre atomi di idrogeno formando il composto BH3, idruro di boro, che anche in questo caso
non segue la regola dell’ottetto (6 elettroni).
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
B 1s2 2s2 2p1
B*1s2 2s1
2p1+ 3H 1s1
BH3
Anche per i non metalli del 3° Periodo (Si,P,Cl), la regola dell ottetto non è sempre rispettata perché nello strato di
valenza compaiono gli orbitali di tipo d e questi elementi possono utilizzarli per disaccoppiare degli elettroni di non legame
che poi impegnano per formare un nuovo legame, sempre con un guadagno energetico finale. I composti del fosforo con
il cloro ad esempio sono due, PCl3 (TRIVALENTE) e PCl5 (PENTAVALENTE).
Tricloruro di
fosforo
Pentacloruro di
fosforo
Nel primo caso il fosforo segue la regola dell’ottetto impegnando otto elettroni, ma nell’altro composto gli elettroni impegnati
sono dieci, contraddicendo apparentemente tutto quello che è stato detto finora. In realtà il comportamento del fosforo
può essere chiarito se si considera lo schema riportato di seguito, da cui si capisce che nello stato eccitato l’atomo può
stabilizzare un numero di atomi di cloro superiore, per cui se la quantità di atomi di cloro è sufficiente, il fosforo diventa
pentacovalente.
FOSFORO
3s2
3s2
3p2
Stato fondamentale:
TRICOVALENTE
3
3p3
3
3s
3p3
3d
Stato eccitato: PENTACOVALENTE
In questo caso parliamo di ESPANSIONE DELL’OTTETTO nel senso che gli elettroni utilizzati per i legami sono più
di otto e generalmente questo comportamento si manifesta quando sono impegnati nel legame elementi non metallici
che posseggono orbitali di tipo d.
Questo comportamento del Fosforo è comune agli altri elementi che lo seguono nel quindicesimo gruppo (V-A).
Consideriamo ora il cloro, abbiamo già visto dalla configurazione di Lewis che ha un solo elettrone spaiato e che quindi
ogni suo atomo forma un legame singolo con l‟atomo con cui interagisce, tendendo, per la sua elettronegatività elevata,
ad attrarre verso di sé gli elettroni di legame (HCl, KCl, CaCl2,ecc.).
Questo però è solo un tipo di comportamento, in realtà in altri casi, ed in particolare con l’ossigeno (l’atomo più
elettronegativo dopo il fluoro), la possibilità di formare legami aumenta ed il cloro diventa TRIVALENTE, PENTAVALENTE
o al massimo EPTAVALENTE dato che gli elettroni di valenza sono sette. In questo modo a seconda della quantità di
reattivo presente, il rapporto di combinazione nelle molecole cambia e la regola dell’ottetto non è rispettata.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
CLORO
3s2
3s322
3 5
3s
3p
Stato fondamentale:
MONOCOVALENTE
3p3
3
3p33
3 3
3s
3p
3d
Disaccoppiamento Completo: EPTACOVALENTE
3p3
3
3p33
3 2
3d
3s
3p
Disaccoppiamento Parziale: PENTACOVALENTE
3p5
3
3p55
3
3s
3p
3d
1° Stato eccitato: TRICOVALENTE
2
In genere gli elementi del diciasettesimo gruppo (VII-A) dopo il Cloro possono avere fino a 14 elettroni superficiali.
Un altro esempio importante di questo tipo di comportamento si ha nello zolfo, che come gli altri elementi del sedicesimo
gruppo (VI-A) che lo seguono può arrivare a 12 elettroni superficiali.
ZOLFO
3p3
3s
3
3p33
3d2
3p
3
Disaccoppiamento Completo: ESACOVALENTE
3s2
33s2
3p4
2
3s fondamentale:
3
Stato
DICOVALENTE
3p23
3s
3p33 3
3d
3p
3
T
1° Stato eccitato:
1° Stato eccitato:
TETRACOVALENTE
1° Stato eccitato: T
Ad esempio Lo Zolfo completa l‟ottetto nell’acido solfidrico
(bicovalente), mentre arriva a 10 elettroni nell’acido solforoso
(tetracovalente) e a 12 elettroni nell’acido solforico
(esacovalente).
CURIOSITÀ
Lo zolfo, in natura, si trova sotto forma di solfati e di solfuri, tuttavia si può presentare anche allo stato elementare, in
grandi giacimenti per lo più in zone vulcaniche; si ritiene che derivi dalla reazione tra anidride solforosa e acido solfidrico,
presenti nei gas vulcanici:
S + H2O
SO2+ H2S 3
Abbondanza sulla crosta terrestre Ossigeno: 46,1% Zolfo: 0,05%
Lo zolfo, a temperatura ambiente, si presenta come un solido giallo trasparente (se ben cristallizzato),
costituito da molecole ad anello, non planari (a corona), contenenti otto atomi (S8), una delle sue forme
allotropiche (oltre dieci),
15
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2.4 La risonanza
In alcune molecole e ioni, il legame non può essere adeguatamente descritto da una singola struttura di Lewis, ad esempio
nell’ozono O3, uno stato allotropico dell‟Ossigeno, il legame che si forma con il terzo atomo di ossigeno può essere spiegato
solo con un legame dativo
.
:O
.:
+
.+
:O
.:
.
:O
.:
.
:O
.:
.
:O
.:
..
O
..:
ma sperimentalmente le distanze di legame O-O sono identiche, mentre utilizzando la struttura di Lewis otteniamo un
legame semplice ed uno doppio distinti. Per poter spiegare questo fenomeno e continuare ad utilizzare la configurazione
di Lewis, si può considerare che dato che gli atomi di ossigeno esterni sono perfettamente identici, il legame dativo possa
formarsi in modo indifferente su uno o l’altro dei due atomi. La molecola quindi può essere rappresentata da entrambe le
forme di struttura che sono indistinguibili.
Questa situazione è comune a molte altre molecole o ioni ed introduce il concetto
di RISONANZA.
Le due strutture sono equivalenti, nessuna di esse descrive correttamente la molecola O3 dal momento che è stato
osservato sperimentalmente che i due legami O-O sono equivalenti ed hanno una lunghezza di legame intermedia fra
quelle di un legame singolo e di un legame doppio. La struttura elettronica reale dello ione sarà quindi descritta dalla
combinazione delle due strutture possibili, dette forme limite.
Si parla di risonanza quando per una molecola (o uno ione) sono possibili più strutture di Lewis ugualmente valide. La
combinazione delle forme limite, che si differenziano solamente per la posizione degli elettroni del doppio legame e
dei doppietti solitari, è detta IBRIDO DI RISONANZA.
3. La Geometria Molecolare
3.1 Come sono orientati i legami tra di loro?
L’ultimo parametro che caratterizza un legame è la sua orientazione che, insieme alla lunghezza, determina l’intera struttura
della molecola, che possiede infatti geometrie spaziali ben definite.
Queste possono essere determinate sperimentalmente ad esempio utilizzando raggi X, in tal caso si può vedere che
molecole con rapporto di combinazione simile, possono avere geometrie totalmente diverse, come ad esempio la CO2
e la H2O.
Le strutture di Lewis, in realtà, non danno alcuna indicazione sulla geometria molecolare ma solo su come gli atomi,
attraverso i legami, sono connessi fra di loro; tuttavia è possibile assegnare una geometria molecolare ad una molecola di
cui è nota la formula di Lewis, facendo uso di un semplice modello chiamato VSEPR, dall'inglese Valence Shell Electron
Pair Repulsion. E' un modello concettualmente molto semplice che permette di trarre conclusioni qualitativamente corrette
riguardo la geometria, senza spiegare i legami chimici all'interno della molecola.
3.2 Il modello VESPR
Come abbiamo accennato il modello VESPR è' basato sull'assunzione che le coppie di valenza di un atomo si
dispongano in modo tale da rendere minima la repulsione reciproca, cioè alla massima distanza possibile. Le coppie
elettroniche non condivise si comportano come quelle di legame, ma occupano un volume di spazio maggiore rispetto a
queste ultime in quanto risentono dell‟attrazione di un solo nucleo, determinando di conseguenza una maggiore repulsione.
Nella teoria VSEPR i legami doppi e tripli vengono considerati alla stregua di legami semplici e la geometria di una molecola
dipende unicamente dal numero di legami e dalle coppie solitarie che presenta l’atomo centrale (A), la cui somma fornisce
il numero sterico (NS)
numero sterico (NS) dell’atomo centrale A = numero legami + numero coppie solitarie
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Ad ogni valore del numero sterico corrisponde una particolare geometria
In generale, ricordando che in una coppia solitaria entrambi gli elettroni sono vicini ad un solo nucleo e quindi tendono ad
occupare uno spazio maggiore rispetto ad una coppia di legame i cui elettroni sono condivisi tra due nuclei, possiamo
rifarci allo schema successivo per fare delle previsioni generali sull’angolo di legame
Coppia non condivisa
Coppia non condivisa
>
Coppia non condivisa
Coppia di legame
>
Coppia di legame
Coppia di legame
Bisogna sottolineare che
la geometria molecolare vera e propria si riferisce alle posizioni degli atomi e non delle coppie solitarie ed è quindi
determinata direttamente solo dalla disposizione delle coppie leganti in quanto solo a queste corris ponde un atomo
legato all’atomo centrale.
Tuttavia la presenza di coppie solitarie altera la disposizione delle coppie leganti e pertanto ne influenza
indirettamente la geometria molecolare.
3.3 Le strutture molecolari
Se indichiamo con A l’atomo centrale, Xm il numero di atomi legati a quello centrale (quindi il numero di legami presenti
nella molecola) e con En il numero i doppietti solitari dell’atomo centrale, si può schematizzare nella formula generale AXmEn
la tipologia di struttura della molecola, dato che abbiamo in questo modo evidenziato in modo simbolico, il numero di coppie
leganti e non leganti.
Le strutture molecolari più semplici sono del tipo AX2
Sono molecole triatomiche, con due soli legami e nessun doppietto solitario sull’atomo centrale, in base alla ipotesi
della teoria VESPR risultano lineari , in quanto le due coppie di legame, respingendosi, si dispongono in modo simmetrico
alla massima distanza, corrispondente ad un angolo di 180°.
Due coppie elettroniche di legame
Repulsione minima, disposizione a 180°
Molecola lineare
NS= 0+2 = 2
- Geometria lineare
Come abbiamo detto, i legami possono essere indifferentemente singoli, doppi o tripli. Presentano, ad esempio, geometria
lineare l’Idruro di Berillio (BeH2 ), l’Anidride Carbonica (CO2 ) e l’Acido Cianidrico (HCN)
H―Be―H
-G
O=C=O
H―C ≡ N
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Molecole AX3 e AX2E
Entrambe le tipologie presentano NS=3.
AX3 Molecole con tre legami e nessun doppietto solitario, in base all’ipotesi della teoria VESPR le coppie di legame,
respingendosi, si dispongono alla massima distanza in modo equidistante su di un piano, a 120° l’una dall’altra.
Presentano, ad esempio, geometria trigonale planare il cloruro di Boro (BeCl3) e l’aldeide formica (H2CO).
AX2E Molecole con struttura AX2E possiedono due legami ed un doppietto solitario, in base alla ipotesi della teoria
VESPR le coppie di legame, respingendosi, si dispongono alla massima distanza assumendo una geometria trigonale
planare ma con un angolo di legame leggermente inferiore a 120° a causa della maggior repulsione del doppietto
solitario sui doppietti di legame.
Presenta una geometria di questo tipo l’anidride solforosa, SO2
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Molecole AX4, AX3E, AX2E2
Tutte queste tipologie di molecole possiedono un NS= 4.
AX4 Molecole con quattro legami e nessun doppietto solitario, in base alla ipotesi della teoria VESPR le coppie di
legame, respingendosi, si dispongono alla massima distanza e risultano tetraedriche, con le coppie di legame disposte
equidistanti ed angoli di legame di 109,5°.
E’ il caso del metano, CH4.
AX3E Molecole con tre legami ed un doppietto solitario in base alla ipotesi della teoria VESPR le coppie di legame,
respingendosi, si dispongono alla massima distanza assumendo una geometria piramidale di derivazione tetraedrica,
con la coppia solitaria ad un vertice del tetraedro che comprime gli angoli di legame, portandoli ad un valore inferiore
rispetto a quello caratteristico della geometria tetraedrica.
E’ il caso dell’ammoniaca, NH3, la cui molecola piramidale presenta angoli di legame di circa 107°.
19
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AX2E2 Molecole con due legami e due doppietti solitari in base alla ipotesi della teoria VESPR le coppie di legame,
respingendosi, si dispongono alla massima distanza assumendo una geometria angolata di derivazione tetraedrica,
con le due coppie solitarie ai due vertici del tetraedro che esercitano una forte repulsione e comprimono l’angolo di legame,
portandolo ad un valore inferiore rispetto a quello caratteristico della geometria tetraedrica.
E’ il caso dell’acqua (H2O) la cui molecola angolata presenta un angolo di legame di 104,5°.
Molecole AX5, AX4E, AX3E2, AX2E3
Tutte queste tipologie di molecole possiedono un NS = 5. Per il nostro grado di approfondimento consideriamo solo
la prima.
AX5 Molecole con cinque legami e nessun doppietto solitario, in base alla ipotesi della teoria VESPR le coppie di
legame, respingendosi, si dispongono alla massima distanza assumendo una configurazione bipiramidali trigonali, con
tre legami che si dispongono su di un piano (legami equatoriali) a 120° l’uno dall’altro e gli altri due legami (legami assiali)
disposti perpendicolarmente, uno sopra e l’altro sotto al piano equatoriale, a formare due piramidi a base triangolare
unite per la base. Sono molecole in cui si verifica l’espansione dell’ottetto.
E’ il caso del Pentacloruro di Fosforo, PCl5
20
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Molecole AX6, AX5E, AX4E2, AX3E3, AX2E4
Tutte queste tipologie di molecole possiedono un NS=6. Per il nostro grado di approfondimento consideriamo solo la prima.
AX6 Molecole con sei legami e nessun doppietto solitario, in base alla ipotesi della teoria VESPR le coppie di
legame, respingendosi, si dispongono alla massima distanza assumendo una configurazione con quattro legami
equatoriali distanziati di 90° e due legami assiali, anch’essi a 90°, per cui la configurazione risulta ottaedrica.
21
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Presenta questa geometria l’Esafluoruro di Zolfo SF6.
4. La struttura elettronica delle molecole
Abbiamo Abbiamo finora trattato l’argomento legame in modo da soffermare la nostra attenzione sugli elettroni, proviamo
adesso a cambiare la nostra prospettiva e a considerare la struttura elettronica di una molecola in modo concettualmente
analogo a quello della struttura elettronica di un atomo. Come ben ti ricorderai è stato possibile individuare la zona dello
spazio in cui si ha la massima probabilità di trovare l’elettrone (orbitale atomico) risolvendo l‘equazione di Scrödinger, in
questo caso il problema è più difficile perché si introducono molte più variabili e l’equazione può essere risolta solo in modo
approssimato ma comunque il risultato dell’equazione permette di individuare la zona dello spazio in cui si ha la massima
probabilità di trovare gli elettroni del legame.
Le tipologie di approssimazione sono due
Sono approcci differenti allo stesso problema, noi svilupperemo solo il primo, più intuitivo, considerandone gli aspetti generali
senza entrare nella trattazione matematica.
4.1 Teoria del legame di valenza (V. B.)
La teoria del legame di valenza (Valence Bond Theory) fu proposta nel 1927 da W. Heitler
e F. London e successivamente ampliata e sviluppata da L. Pauling con l’introduzione dei
concetti di risonanza (1928) e di ibridazione orbitalica (1930).
La teoria è la traduzione, nel linguaggio della meccanica ondulatoria, del concetto di
condivisione di elettroni:
22
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progress
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Il nuovo orbitale appartiene ad entrambi gli atomi legati, ospitando i due elettroni con spin antiparallelo e
sarà tanto più forte quanto maggiore è la sovrapposizione degli orbitali atomici, (cioè degli spazi in cui si ha
la massima probabilità di trovare gli elettroni che stanno interagendo).
Per riuscire ad intuire meglio questo concetto puoi riferirti a ciò che succede quando due stazioni radio emettono su
frequenze che danno origine a interferenza, in seguito alla sovrapposizione delle onde radio emesse; da un punto di vista
matematico le funzioni d’onda (ΨA e ΨB) dei due orbitali si sommano per dare una nuova funzione d’onda che descrive un
nuovo orbitale (ΨA + ΨB), appartenente alla molecola.
Dal punto di vista qualitativo la Teoria del Legame di Valenza, per la sua applicazione, prevede:
 Che la differenza di elettronegatività dei 2 atomi non sia maggiore di 2 (altrimenti il legame assume carattere
prevalentemente ionico).
 Che ognuno dei due atomi debba contribuire alla formazione del legame con un suo orbitale atomico
 Che le energie dei due orbitali coinvolti non debbano essere troppo diverse tra loro.
 Che si utilizzino solo orbitali atomici contenenti elettroni spaiati, trascurando gli altri
 Che gli atomi formino un numero di legami pari al numero di elettroni disaccoppiati nel loro livello energetico più esterno,
questo indipendentemente dal raggiungimento dell’ottetto.
 Che gli atomi debbano congiungersi lungo una direzione che permetta la massima sovrapposizione degli orbitali.
 Che la sovrapposizione degli orbitali, quando possibile, debba avvenire lungo l’asse internucleare, dove gli elettroni
subiscono l’attrazione contemporanea di entrambi i nuclei, in tal modo si formano legami particolarmente forti chiamati
legami σ. L’elevata densità elettronica nella zona internucleare agisce da “collante” fra i due atomi, rendendo minime
le repulsioni internucleari ed interelettroniche e massima l’attrazione elettrone- nucleo.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Tale tipo di sovrapposizione, detta testa a testa, è possibile tra due orbitali di tipo s o uno di tipo s e uno di tipo px o ancora
tra due orbitali di tipo px (se con l’asse x indichiamo l’asse internucleare). L’energia dei legami corrispondenti è direttamente
proporzionale alla densità elettronica internucleare, per cui l‘ordine di stabilità crescente è
Quando gli orbitali non hanno la simmetria corretta per dare origine ad una sovrapposizione testa a testa è possibile una
sovrapposizione laterale, questo accade con gli orbitali di tipo p che hanno direzioni parallele tra loro e perpendicolari
all’asse internucleare.
Alla distanza di legame, gli elettroni dei due atomi non sono più distinguibili ed occupano prevalentemente lo spazio sopra
e sotto la congiungente dei due nuclei formando un legame chiamato π.
Questo orbitale presenta quindi due calotte simmetriche, che rappresentano lo spazio in cui si ha la massima probabilità di
trovare gli elettroni di legame, mentre nel piano compreso tra queste due zone (piano nodale), che contiene l’asse
internucleare e quindi i due nuclei, c’è una probabilità nulla di trovare gli elettroni di legame (pensa ad un panino con una
fetta di formaggio).
La minore sovrapposizione degli orbitali e l’impossibilità per gli elettroni in questo tipo di orbitale di trovarsi nella zona
internucleare, per diminuire le repulsioni nucleo–nucleo, rendono il legame π meno forte di quello σ.
Cambiando la direzione dei due orbitali p (naturalmente sempre paralleli tra loro), cambia di conseguenza anche la direzione
del legame π e del piano nodale.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Quando gli atomi della molecola che si è formata posseggono più elettroni spaiati in diversi orbitai p, solo una coppia di
orbitali p può generare un legame σ lungo la congiungente i due nuclei mentre gli altri genereranno uno o, al massimo,
due legami π costituiti da due nuvole elettroniche disposte simmetricamente (sopra e sotto) rispetto al legame σ.
Nel primo caso avremo un legame doppio e nel secondo un legame triplo, il legame σ avrà la direzione dell’asse internucleare
mentre il o i legami π, saranno perpendicolari all’asse internucleare e fra di loro.
Sintentizzando possiamo dire che in una molecola
Un esempio tipico è fornito dalla molecola biatomica dell’azoto N2, in cui ogni atomo di N ha una configurazione 1s2 2s22p3
ed il cui ordine di legame, come abbiamo visto, è 3.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
I due atomi di Azoto sovrappongono le tre coppie di orbitali p formando
un legame covalente triplo, gli orbitali px si compenetrano lungo la
congiungente i due nuclei, formando un legame di tipo σ, mentre gli altri
orbitali p si sovrappongono lateralmente dando origine a due legami π che
presentano un massimo di densità elettronica sopra e sotto l’asse
internucleare.
4.2 L’ibridizzazione degli orbitali
L’applicazione della teoria del legame di valenza non è però in grado di spiegare le caratteristiche geometriche di molte
molecole tra cui due particolarmente importanti, il metano e l’acqua. Nel primo, abbiamo visto che la capacità del Carbonio
di formare quattro legami invece di due, come farebbe pensare la configurazione atomica fondamentale, è la conseguenza
della promozione di un elettrone in un orbitale p. Ma questo non riesce a spiegare la simmetria della molecola ed il fatto
che i quattro legami siano tutti identici per lunghezza, orientamento e forza. Nell’acqua il criterio della massima
sovrapposizione degli orbitali prevedrebbe un angolo di 90°, che non è rispettata nella geometria della molecola in cui,
come abbiamo visto qualitativamente, applicando la teoria VESPR, l’angolo di legame è di 104,5°.
L. Pauling per poter spiegare questa realtà sperimentale, ampliò la teoria del legame di valenza ipotizzando la possibilità
che gli atomi per formare molecole più stabili potessero utilizzare, oltre che gli orbitali atomici noti s,p,d, anche una loro
ricombinazione, i cosiddetti orbitali ibridi.
Questo processo, detto ibridazione, è un procedimento di combinazione matematica delle funzioni d’onda originarie,
che comporta la formazione di nuove funzioni d’onda che permettono di individuare nuove zone dello spazio in cui si
ha la massima probabilità di trovare gli elettroni, cioè degli orbitali che hanno caratteristiche (energia, forma, dimensioni,
direzioni) intermedie rispetto agli orbitali originari.
L’ibridazione interessa orbitali esterni (di valenza) con contenuto energetico non molto diverso.
Per ogni combinazione, gli orbitali ibridi che si formano sono tutti di uguale forma ed energia e sono orientati in
modo da interferire il meno possibile fra di loro, in questo modo consentono agli atomi di formare legami più forti e più
stabili di quanto non possa essere fatto dagli orbitali atomici semplici da cui originano.
Gli orbitali ibridi più importanti sono quelli che si formano dalla combinazione di un orbitale s con uno o più orbitali p, Il
numero degli orbitali ibridi che si formano coincide con quello degli orbitali atomici semplici uitlizzati per l’ibridazione.
Naturalmente, utilizzando sempre lo stesso tipo di orbitali atomici, il risultato della combinazione cambia se cambia il
numero di orbitali atomici utilizzato.
Consideriamo quindi le possibili combinazioni numeriche tra questi due tipi di orbitali.
Dalla combinazione di tre orbitali di tipo p ed uno di tipo s per quanto detto finora si formeranno quattro nuovi orbitali con
caratteristiche intermedie rispetto agli orbitali di partenza.
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Tali orbitali sono detti orbitali ibridi sp3 e possiedono 1/4 di carattere s e 3/4 di carattere p, (25% s, 75% p) dal momento
che sono ottenuti dalla combinazione di un orbitale 2s e tre orbitali 2p. Gli orbitali ibridi sp3 sono diretti verso i vertici di un
tetraedro e, secondo la teoria del Valence Bond, possono sovrapporsi con gli orbitali atomici semplici, o anche ibridati,
dell’atomo con cui interagisce per formare altrettanti legami. E’ quello che accade nella molecola del METANO, in cui si
formano quattro legami σ perfettamente identici che sono il risultato della sovrapposizione dei quattro orbitali ibridi sp3
del carbonio con i quattro orbitai s dei quattro atomi di idrogeno, confermando le osservazioni sperimentali.
Dalla combinazione di due orbitali di tipo p ed uno di tipo s invece si formeranno tre nuovi orbitali che, avendo un diverso
rapporto numerico di combinazione e quindi una minore influenza della tipologia di orbitale p sul risultato finale, risulteranno
più corti rispetto agli orbitali sp3.
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Tali orbitali sono detti orbitali ibridi sp2 e possiedono 1/3 di carattere s e 2/3 di carattere p, dal momento che sono ottenuti
dalla combinazione di un orbitale 2s e due orbitali 2p.
Gli orbitali ibridi sp2 sono diretti verso i vertici di un triangolo equilatero e possono sovrapporsi con gli orbitali degli atomi
con cui c’è interazione per formare altrettanti legami σ posti a 120° fra loro.
Infine considerando l’unione di un orbitale p ed uno s si ottiene un orbitale ibrido che, per l’ulteriore diminuzione dell’influenza
dell’orbitale nel rapporto di combinazione, risulta essere meno allungato rispetto ai precedenti.
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Tali orbitali sono detti orbitali ibridi sp e possiedono 1/2 di carattere s e 1/2 di carattere p, dal momento che sono ottenuti
dalla combinazione di 1 orbitale 2s e 1 orbitale 2p.
Gli orbitali ibridi sp hanno la stessa direzione ma verso opposto e possono sovrapporsi con gli orbitali degli atomi con
cui c’è interazione per formare altrettanti legami σ posti a 180° fra loro.
Nel caso della formazione degli orbitali ibridi sp2 ed sp, non tutti gli elettroni contenuti negli orbitali atomici p sono utilizzati
nel processo di ibridizzazione, per cui è possibile che l’elettrone spaiato contenuto nell’orbitale p atomico rimasto tal quale,
possa formare altri legami questa volta di tipo π, in seguito alla “sovrapposizione parallela” con orbitali p di altri atomi presenti
nella molecola.
In alcuni casi lo stesso atomo può utilizzare diversi tipi di orbitali ibridi a secondo del tipo di atomo con cui è legato o in
base al diverso tipo di rapporto di combinazione esistente nella molecola; naturalmente sarà utilizzata la situazione che
porterà allo stato energetico più stabile e tutto ciò influirà sulla geometria molecolare, determinata essenzialmente dalla
direzione degli orbitali ibridi e dei conseguenti legami.
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Quando gli atomi coinvolti nei legami contengono un numero
elevato di elettroni è possibile che la configurazione elettronica
presenti qualche elettrone spaiato negli orbitali di tipo d o che in
seguito a delle promozioni energetiche, degli elettroni possano
passare da orbitali p ad orbitali d. Per questo tipo di atomi quindi,
sono ipotizzabili ibridazioni più complesse che coinvolgono
anche quest’ultima tipologia di orbitali e che permettono di
spiegare, con migliore rigore matematico, l’“’espansione
dell’ottetto” della teoria di Lewis e le geometrie molecolari che
abbiamo studiato con la teoria VSEPR.
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Nella tabella che segue sono elencate le varie strutture molecolari.
Riassumendo
0
Geometrie VSEPR
Coppie solitarie
1
2
3
4
NS=2
lineare
NS=3
Trigonale
planare
Angolata
Tetraedrica
Piramidale
trigonale
Angolata
Bipiramidale
trigonale
Altalena o
cavalletto
(Seesaw o
sawhorse)
a forma di T
Lineare
Ottaedrica
Piramidale
quadrata
Planare
quadrata
a forma di T
NS=4
NS=5
NS=6
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Lineare
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5. I legami secondari
5.1 La polarità delle molecole
Abbiamo già definito il momento polare associato ad un legame chimico e abbiamo visto come questo influisca sulle sue
caratteristiche di reattività e sulla sua “forza”, adesso allarghiamo il concetto di polarità passando dal singolo legame all’intera
molecola. E’ chiaro che in questo caso diventa importantissimo lo studio fatto sulla geometria
molecolare, perché l'orientazione dei singoli legami ed in generale la struttura della molecola,
influirà sul momento dipolare totale che, come tutti i vettori, sarà il risultato della somma
vettoriale dei singoli vettori.
Consideriamo il caso emblematico della molecola di CF4 , singolarmente il legame C-F
possiede un momento dipolare abbastanza alto per la differenza di elettronegatività tra i due
atomi e la lunghezza ridotta del legame, ma se consideriamo il contributo di tutti e i quattro
legami le cose cambiano. La struttura di questa molecola presenta infatti quattro legami
perfettamente identici orientati secondo di vertici i un tetraedro, la perfetta simmetria della struttura determina come
conseguenza che la somma vettoriale dei dipoli associati ad i singoli legami si annulli.
Nonostante la forte polarità del legame C-F, la molecola nel suo insieme è APOLARE.
La stessa situazione di simmetria, anche se questa volta lineare, si ritrova nella
molecola della CO2 in cui i doppi legami C-O possiedono due momenti dipolari
esattamente uguali in modulo e direzione ma con verso opposto, il risultato è
l’annullamento del dipolo totale.
Riassumendo
Polarità
Molecola
Polarità
LEGAME
STRUTTURA
MOLECOLARE
Naturalmente esistono tantissime molecole in cui la simmetria non annulla la polarità
come l’ammoniaca, il cui momento dipolare è μ =4,9 ·10-30 C·m, o l’anidride
solforosa il cui momento dipolare è μ = 5,3 · 10-30 C·m.
In questo caso la molecola possiede (o è) un DIPOLO
PERMANENTE.
Tra tutte le sostanze assume una particolare importanza la
molecola dell’acqua, in cui l’elevata polarità del legame e la struttura angolare planare determinano un
valore di μ = 6,2 · 10-30 C·m. Data l’enorme diffusione di questa molecola sul pianeta e la sua importanza
a livello biochimico, questa caratteristica dell’acqua comporta delle enormi e vitali conseguenze.
4.2 Cosa unisce le molecole tra loro
Fino ad ora abbiamo parlato di legami che si formano tra atomi all’interno delle molecole, ma per completare l’argomento
dobbiamo accennare al fatto che in realtà esistono anche delle forze intermolecolari, cioè dei legami che si vengono a
formare TRA le molecole e per questo motivo sono anche indicate come forze molecolari o di coesione. Sono
essenzialmente interazioni di tipo elettrostatico e, anche se molto più deboli di quelle che esistono tra gli ioni di carica
opposta, sono responsabili di importanti caratteristiche fisiche che Legame primario
contraddistinguono le sostanze, come l’esistenza degli stati di aggregazione, la
capacità di passare in soluzione, la possibilità per le MACROMOLECOLE di
formare delle strutture tridimensionali molto complesse come ad esempio il DNA.
Alcune di queste interazioni sono il risultato dell‟esistenza di DIPOLI, altre sono
dovute solamente alla natura elettrica degli elettroni, tutti questi tipi di legame sono
Legame secondario
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
comunque molto più deboli dei quelli interni alla molecola e la loro intensità iminuisce molto velocemente con la distanza.
IONE-DIPOLO
LEGAMI SECONDARI
DIPOLO-DIPOLO
5.3 Interazioni ione dipolo
Se le due molecole che interagiscono sono di natura diversa ed una delle due possiede dei
legami di natura ionica, allora il polo negativo del legame polare sarà attratto dalla carica positiva
------- δ
+
dello ione o viceversa. Questo tipo di interazione è detta ione-dipolo e si verifica quando le
δ+
molecole polari sono in quantità molto superiore a quelle ioniche, come succede quando un
soluto ionico, quale un sale, viene disperso da un solvente polare come l‟acqua. In questo modo
il reticolo cristallino “collassa” ed il sale passa in soluzione; gli ioni di carica opposta
vengono circondati, isolati e quindi dispersi in un processo che si indica in generale
con il termine di solvatazione o idratazione se il solvente è l’acqua. Lo ione in
soluzione acquosa quindi è idratato ed è grazie a questo tipo di interazione che un
sale ionico può passare facilmente dallo stato solido a quello di soluzione.
5.4 Interazioni dipolo dipolo
Dipolo Permanente
Dipolo Permanente
Legame
Idrogeno
Dipolo Permanente
Dipolo Indotto
Interazioni
Dipolo - Dipolo
Dipolo Istantaneo
Dipolo Indotto
Quando un dipolo permanente incontra un altro dipolo permanente, la sua estremità positiva è attratta dalla estremità
negativa dell’altra molecola. In questo caso si parla di interazioni dipolo-dipolo che influenzano l’evaporazione dei liquidi
(e la condensazione dei gas).
Naturalmente, maggiore è la polarità della molecola, maggiore sarà la forza di attrazione
tra le molecole e maggiore è l’energia che deve essere fornita loro per separarle e questo
influisce direttamente sulle temperature di ebollizione
Un tipo particolare di legame dipolo-dipolo è il cosiddetto legame idrogeno che si manifesta tra molecole in cui è presente
un atomo di H legato a N, O oppure F, tre atomi piccoli, con doppietti di non legame e tra i più elettronegativi della tavola
periodica. E’ un’interazione dipolo – dipolo particolarmente forte, che si viene a creare tra l’idrogeno ed un doppietto di non
legame del non metallo, conseguente alla grande differenza di elettronegatività tra gli atomi impegnati nel legame covalente,
fortemente polare.
δ+
H-Fδ- --- δ+H-Fδ
Un esempio molto importante di questo tipo di legame, è quello che si verifica nell’acqua, il cui momento dipolare è alto
dato che l’atomo di idrogeno ha quasi ceduto completamente la propria coppia di legame e viene attratto dal doppietto di
non legame dell’ossigeno, formando un legame che si distingue da quello
covalente, interno alla molecola di acqua, per la sua lunghezza e quindi
la sua forza. La presenza di questo tipo di legame intermolecolare così
forte, è la causa di molte proprietà fisiche caratteristiche
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dell’acqua come ad esempio l’elevato punto di ebollizione e la struttura poco compatta del suo stato solido che, al contrario
della maggior parte delle altre sostanze, presenta un volume maggiore rispetto allo stato liquido.
CURIOSITÀ
Una delle manifestazioni più interessanti del legame a idrogeno è la struttura del ghiaccio. Al di sopra dei 2 kbar esistono
parecchie fasi diverse del ghiaccio, ma a bassa pressione l’acqua cristallizza fornendo celle elementari esagonali, in
cui ciascun atomo di O è attorniato tetraedricamente da quattro altri, tenuti insieme da legami a idrogeno; la struttura
risultante è aperta e spiega perchè la densità del ghiaccio è minore di quella dell'acqua allo stato liquido (d Ih = 0.92,
il ghiaccio ad alta pressione ha invece densità superiore). Quando il ghiaccio fonde, il reticolo dei legami a idrogeno si
dissolve parzialmente (circa 1 su 4 legami).
La forma più comune di precipitazione gelata è il fiocco di neve, una
struttura composita formata da molti minuti cristalli esagonali congelati
insieme. La brina è un tipo di ghiaccio che si forma per passaggio diretto
dallo stato aeriforme a quello solido del vapore presente nell'aria a
contatto con oggetti freddi, contiene un'alta porzione di aria intrappolata,
che la fa apparire bianca invece che trasparente e le conferisce una
densità che è circa un quarto di quella del ghiaccio puro. La galaverna
si forma invece per il congelamento delle gocce d'acqua contenute nella
nebbia sulle superfici, quando la temperatura è inferiore a 0°.
Come nel ghiaccio si forma un reticolo a legami idrogeno, così aggregati di molecole d’acqua (H2O)n possono formare
strutture contenenti cavità che possono ospitare altre molecolee.
L’idrato (o clatrato)
di metano.
La molecola di metano
è in rosso.
Me tanodotto in zone
a clima freddo.
Idrato di metano
che brucia.
Ad esempio, quando una molecola non polare,come un idrocarburo, è posta in acqua, alcuni dei legami idrogeno tra le
molecole di acqua debbono rompersi per formare legami con le molecole di soluto.
Nuovi legami idrogeno si formano che possono compensare, parzialmente o totalmente, i legami idrogeno distrutti.
Ciascuna molecola di soluto viene intrappolata in una struttura a gabbia, tipo ghiaccio, rigida e ordinata per
l’organizzazione delle molecole di acqua. Tale struttura, chiamata "gabbia a clatrato", consiste di un numero ben definito
di molecole d’acqua tenute insieme da legami idrogeno. L’idrato di metano assomiglia ad un cubo di ghiaccio, ma si
comporta molto diversamente, è anche noto come "ghiaccio che brucia", perché brucia se si avvicina una fiamma.
Le maggiori quantità di idrati di metano si trovano sui fondali oceanici, dove sono stabili ad una profondità maggiore di
300 metri. I batteri nei sedimenti sul fondo degli oceani consumano materiale organico e generano metano e in condizioni
di alta pressione e bassa temperatura, cioè ad elevata profondità, si forma l’idrato (o clatrato) di metano. Si stima che le
riserve di idrato di metano sui fondali degli oceani contengano circa diecimila miliardi di tonnellate di carbonio, circa il
doppio di quello contenuto in tutti i giacimenti di carbone, petrolio e gas naturale sulla Terra. Gli idrati di metano, quindi,
costituiscono un’eccezionale riserva di gas metano, e potrebbero essere sfruttati come combustibile.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
L’interazione dipolo dipolo oltre che tra molecole polari può determinarsi anche tra molecole polari e molecole apolari, è
quello che succede ad esempio tra l’O2 e l’acqua ed è dovuto alla formazione di un cosiddetto dipolo indotto. La molecola
polare dell’acqua avvicinandosi all’ossigeno determina infatti una distorsione della distribuzione elettronica del legame,
determinando una separazione delle cariche, in questo modo è possibile spiegare la solubilità di gas apolari nell‟acqua.
Anche le sostanze apolari come l'idrogeno o il neon
al
diminuire della temperatura diventano liquide e poi
Dipolo
Molecola
Dipolo
Dipolo
Permanente Apolare
Permanente Indotto
solide sebbene il loro momento dipolare sia nullo. In
effetti in queste molecole gli elettroni sono distribuiti
mediamente in modo uniforme ma comunque si
muovono, e quindi anche il centro delle cariche
negative si muove, creando dei dipoli istantanei,
che invertono continuamente la loro polarità ma che
determinano l’instaurarsi di deboli interazioni elettrostatiche deformando conseguentemente altre “nuvole elettroniche”.
Queste interazioni sono dette forze di London (o forze di dispersione), ed esistono per tutte le molecole, ma per
molecole apolari sono le uniche interazioni possibili.
MOLECOLE
APOLARI
DIPOLI
ISTANTANEI
INTERAZIONI
(FORZE DI
LONDON)
CURIOSITÀ
I gas si possono disciogliere in acqua perchè vengono continuamente scambiati tra l’atmosfera e l’acqua e questo
passaggio è favorito dalle onde, soprattutto quando si infrangono spumeggiando. E’ questo il motivo per cui, sebbene
la solubilità de i gas nell’acqua aumenti con la pressione, il contenuto di ossigeno diminuisce notevolmente con la
profondità dato che non c’è più scambio con l’atmosfera. La solubilità dei gas diminuisce invece con l’aumentare della
temperatura , perchè l‟energia fornita con il calore è sufficiente a rompere le deboli interazioni dipolo dipolo che uniscono
i gas allacqua. L’ossigeno è uno degli elementi fondamentali della vita, anche di quella acquatica, in acqua però ha una
diffusione estremamente lenta ed il suo trasporto in profondità è legato soprattutto alle correnti. Nelle acque superficiali
si trovano disciolti in media 8 mg/l di ossigeno. L’anidride carbonica, ha un’elevata solubilità in acqua e in mare
raggiunge una concentrazione media di 10 mg/l, questo valore aumenta con la respirazione mentre diminuisce con i
processi fotosintetici, è importantissima poiché permette la formazione del carbonato di calcio, indispensabile per la
formazione di gran parte delle strutture scheletriche degli organismi marini e dei gusci calcarei delle conchiglie (ciclo del
carbonio), inoltre mantie ne costante il tasso di acidità nell’ecos istema. In acqua, l’azoto (N2) che deriva dall’atmosfera,
può essere fissato da alcuni organismi come ad esempio le alghe azzurre (Cianoficee) che sono in grado di trasformare
l’azoto molecolare in ammoniaca (NH3) attraverso un processo che costituisce il punto di partenza per la sintesi dei
composti azotati.
6. Sommario delle forze di interazione fra gli atomi
I legami studiati forniscono un quadro abbastanza completo della tipologia di interazioni esistenti tra gli atomi e sono di
fondamentale importanza perché definiscono di conseguenza il comportamento fisico e chimico delle MOLECOLE.
Abbiamo già considerato alcune delle conseguenze della natura dei legami intermolecolari ma ce ne sono tantissime che
determinano conseguenze essenziali non solo per la chimica ma anche nel campo della biologia, della geologia, della
medicina, della fisica e di tutte le altre scienze che si basano sul comportamento della materia, sia essa di natura inorganica
che organica.
Nel campo più prettamente chimico la possibilità di formazione di LEGAMI INTERMOLECOLARI definirà ad esempio la
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distinzione tra sostanze solubili e non solubili in un determinato solvente o la possibilità a pressione ambiente, di esistenza
nella forma solida, liquida o gassosa di alcune sostanze come lo iodio.
Dal punto di vista chimico la possibilità di comportamento acido o basico o di inerzia è naturalmente legata al tipo di LEGAMI
INTRAMOLECOLARI ed alla possibilità di formare legami intermolecolari per cui è possibile che il comportamento chimico
oltre che da sostanza a sostanza, per una stessa sostanza cambi a seconda del tipo di solvente utilizzato.
Lo schema successivo, se pur in forma qualitativa, ha lo scopo di illustrare tutte le tipologie di interazioni esistenti e la scala
di forza del legame associata, completando quindi il percorso iniziato con questo capitolo.
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MODULO 2
LE SOLUZIONI
• Introduzione
• Diluizione delle soluzioni
• Concentrazione delle soluzioni
• Stechiometria delle reazioni in soluzione acquosa
• Trasformazione da un’unità di concentrazione ad un’altra
• Esercizi
1. Introduzione
Per definizione, una soluzione è una miscela omogenea di due o più sostanze, ossia un sistema costituito da UNA sola
fase, che presenta proprietà chimico-fisiche costanti in ogni punto. In generale, il solvente è il componente presente in
maggiore quantità, mentre i soluti sono tutti gli altri componenti (per parlare di soluzione ci deve essere almeno 1 soluto).
• il solvente, è il componente “che scioglie”
• il soluto, è il componente “che si scioglie”
SOLUZIONE = SOLUTO + SOLVENTE
Una soluzione si può presentare in uno qualsiasi dei 3 stati di aggregazione:
 ci sono le soluzioni gassose, come nel caso di tutte le miscele gassose, prima tra tutte l‟aria che respiriamo
 ci sono le soluzioni solide, come ad esempio alcune leghe metalliche;
acciaio = ferro + carbonio
bronzo = rame + stagno
 ci sono infine le soluzioni liquide, che sono le più comuni.
Ci occuperemo solo delle soluzioni liquide, ossia di quei sistemi omogenei in cui uno
o più soluti (che possono essere gassosi, liquidi o solidi allo stato puro) vengono
disciolti in un solvente liquido.
I meccanismi di dissoluzione dipendono dalla natura del soluto e del solvente. Nel caso
di solvente polare e solido ionico la solubilizzazione porta alla distruzione dell’edificio
cristallino che costituisce il solido ionico con formazione di ioni che sono stabilizzati in
soluzione dal solvente stesso (solvatazione). Nel caso di solvente polare e composti molecolari polari la dissoluzione avviene
a causa della formazione di legami dipolo-dipolo tra solvente e soluto. E’ anche abbastanza frequente il caso in cui il soluto
si “scioglie” attraverso una vera e propria reazione con il solvente che generalmente porta alla formazione di ioni. Se invece
il soluto è una molecola apolare questa potrà essere opportunamente disciolta in un solvente apolare.
In ogni caso: “il simile scioglie il simile”. E’ questa la regola generale per prevedere se un soluto è solubile in un solvente.
Certo è che la quantità di soluto che può solubilizzarsi in un solvente dipende da vari fattori come la costante dielettrica del
solvente (maggiore è il suo valore maggiore sarà la quantità di soluto ionico o polare che è possibile sciogliere in esso) o la
temperatura. In ogni caso, per ogni temperatura, possiamo conoscere, perlomeno sperimentalmente, la quantità massima
di soluto che può essere disciolto in un solvente che chiamiamo solubilità. Quando in una soluzione è presente la quantità
massima solubile di soluto, la soluzione si definisce satura: oltre tale limite la soluzione non è capace di sciogliere altro
soluto, e questo resta sul fondo del recipiente costituendo il cosiddetto corpo di fondo e il sistema diventa un miscuglio
eterogeneo.
La solubilità è la massima quantità di soluto che può essere sciolta in una quantità fissata di solvente ad una
certa temperatura.
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2. Concentrazione Delle Soluzioni
Ora cercheremo di capire come si esprime la composizione di una soluzione liquida.
Quando dobbiamo studiare una soluzione, abbiamo bisogno fondamentalmente di 2 informazioni su di essa:
• da un lato ci serve la composizione qualitativa della soluzione, ossia ci serve sapere QUALI componenti sono presenti;
• dall’altro lato, ci serve la composizione quantitativa della soluzione, ossia dobbiamo conoscere la QUANTITA‟ o
“concentrazione” di ciascun componente nella soluzione.
Proprio sulla concentrazione vogliamo soffermarci e in particolare, vogliamo far vedere le diverse unità di misura in cui
essa può essere espressa.
Possiamo differenziare queste unità di misura in:
• unità fisiche di concentrazione (percentuale in peso, percentuale in volume, rapporto massa/volume)
• unità chimiche di concentrazione (frazione molare, molarità, molalità, normalità).
Va precisato che ci sono altri modi per esprimere la concentrazione delle soluzioni, ma qui esamineremo quelli di uso più
frequente.
2.1 Percentuale in peso: rappresenta il rapporto tra il peso (o la massa) di un soluto presente in una quantità in peso (o
in massa) definita di soluzione moltiplicato per cento:
peso soluto
Percentuale in peso =
massa soluto
x 100 =
peso soluzione
x100
massa soluzione
2.2 Percentuale in volume: rappresenta il rapporto tra il volume di un soluto presente in un certo volume di soluzione
moltiplicato per cento:
volume soluto
Percentuale in volume =
x 100
volume soluzione
2.3 Rapporto massa/volume: rappresenta il rapporto tra la massa di un soluto presente in un certo volume di soluzione:
massa soluto
Rapporto massa / volume =
x 100
volume soluzione
Esercizio svolto n° 1
Determinare la concentrazione di una soluzione costituita da 15 g di cloruro di sodio in 327 g di acqua espressa come
percentuale in peso.
Soluzione
Poiché la percentuale in peso è il rapporto tra massa del soluto e massa della soluzione e la nostra soluzione è costituita
da cloruro di sodio e acqua la massa complessiva della soluzione sarà:
massa soluzione = 15 (g) + 327 (g) = 342 (g)
La percentuale in peso sarà dunque:
15 (g)
Percentuale in peso =
x 100 = 4,4%
342 (g)
Esercizio svolto n° 2
Determinare la massa di soluto in 125 g di una soluzione al 31 % in peso.
Soluzione
Per la soluzione dell’esercizio basta calcolare direttamente la percentuale sui 125 g di soluzione:
125 (g) x 31
massa soluto =
= 38,75 (g)
100
40
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progress
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Esercizio svolto n° 3
Calcolare le quantità di KBr e di acqua da pesare necessarie per preparare 340 g di una soluzione al 7% in peso.
Soluzione
Poiché la soluzione è al 7% la quantità in peso di soluto da pesare sarà:
340 (g) x 7
massa soluto =
= 23,8 (g)
100
La quantità di solvente da pesare sarà quindi uguale alla differenza tra la massa della soluzione e quella del soluto:
massa H2O = massa soluzione - massa KBr = 340 (g) 23,8 (g) 316,2 (g)
Esercizio svolto n° 4
Calcolare i volumi di alcol etilico e di acqua necessari per preparare 500 ml di una soluzione al 30% in volume.
Soluzione
Calcoliamo intanto il volume di alcol che bisogna prelevare:
500 ml x 30
volume di alcol etilico =
= 150 ml
100
In laboratorio come si procede in questi casi?
Intanto c’è da fare una puntualizzazione. I volumi dei liquidi, in generale, non sono additivi diversamente da quanto succede
per le masse. Questo vuol dire che se andiamo a miscelare 50 ml di un liquido A con 50 ml di un liquido B non è detto
che si ottengano 100 ml di soluzione finale ma il volume complessivo potrebbe essere inferiore o superiore a 100 ml.
Quindi in un matraccio da 500 ml si introducono i 150 ml di alcole e poi si porta a volume con acqua (non interessandoci
al volume utilizzato) , solo in questo modo siamo sicuri di aver preparato 500 ml di una soluzione di alcole in acqua al 30%.
Esercizio svolto n° 5
Calcolare la massa di NaCl presente in 30 ml di una soluzione a concentrazione 25 mg/L.
Soluzione
Per risolvere l‟esercizio è opportuno impostare una proporzione:
25 (mg) :1000 (ml) = X (mg) : 30 (ml)
25 (mg) x 30 (ml)
da cui:
X=
1000 (ml)
Esercizio svolto n° 6
Indicare come possono essere preparati 350 ml di una soluzione contenente 60 mg/L di glucosio.
Soluzione
La massa di glucosio da solubilizzare in 350 ml di soluzione può essere ricavata impostando una semplice proporzione:
60 (mg) :1000 (ml) = X (mg) : 350 (ml)
60 (mg) x 350 (ml)
da cui:
X=
= 21 (mg)
1000 (ml)
Per preparare correttamente la soluzione bisogna prima solubilizzare il glucosio in una certa quantità di acqua (chiaramente
inferiore a 350 ml) e poi portare la soluzione ottenuta al volume di 350 ml sempre con acqua.
41
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
2.4 Frazione molare: si indica con χ e rappresenta il rapporto tra il numero di moli di un componente la soluzione e la
somma del numero di moli di tutti i componenti:
ni
χi =
Σni
i
dove χi rappresenta la frazione molare del componente iesimo, ni il numero di moli dello stesso componente e Σ ni la
somma del numero di moli di tutti i componenti la soluzione.
La frazione molare risulta chiaramente un numero compreso tra 0 e 1 e la somma delle frazioni molari di tutti i componenti
è sempre uguale a 1.
2.5 Molarità o concentrazione molare: si indica con M e rappresenta il rapporto tra il numero di moli di soluto presenti
in un litro di soluzione:
moli soluto (mol)
M=
V soluzione (L)
2.6 Molalità o concentrazione molale: si indica con m e rappresenta il rapporto tra il numero di moli di soluto presenti
in un kg di solvente:
moli soluto (mol)
m=
massa solvente (kg)
2.7 Normalità o concentrazione normale: rappresenta il rapporto tra il numero di equivalenti di soluto presenti in un
litro di soluzione:
equivalenti soluto (eq)
N=
V soluzione (L)
E’ importante far rilevare subito che la molarità e la normalità di una soluzione sono riferite al volume della soluzione mentre
la molalità è riferita alla massa del solo solvente.
Per quanto riguarda la normalità, inoltre, compare una nuova grandezza che è il numero di equivalenti. Il numero di equivalenti
dipende dal soluto considerato e può variare, per la stessa sostanza, dipendentemente dalla reazione nella quale il soluto
è coinvolto.
Esercizio svolto n° 7
Calcolare la frazione molare di una soluzione costituita da 1,7 moli di NaCl, 0,4 moli di KOH in 750 g di H2O.
Soluzione
Bisogna subito convertire la massa di acqua in moli:
m(g)
n (mol) =
750 (g)
=
MM (g/mol)
18 (
g
)
mol
= 41,67 (mol)
Le frazione molari saranno dunque:
χNaCl =
χKOH =
χacqua =
42
nNaCl
1,7
=
nNaCl + nKOH + nacqua
nKOH
1,7 + 0,4 + 41,67
0,4
=
nNaCl + nKOH + nacqua
nacqua
nNaCl + nKOH + nacqua
= 3,9 x 10 -2
= 9,1 x 10 -3
1,7 + 0,4 + 41,67
41,67
=
= 0,95
1,7 + 0,4 + 41,67
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Può essere facilmente verificato che la somma delle frazioni molari è uguale a 1.
Esercizio svolto n° 8
Calcolare la molarità di una soluzione che contiene 0,315 g di HNO3 in 250 ml di soluzione.
Soluzione
Bisogna intanto calcolare il numero di moli di HNO3:
m(g)
n (mol) =
0,315 (g)
=
MM (g/mol)
g
63 (
)
mol
= 5x10-3 (mol)
E successivamente la molarità:
5x10-3
moli soluto (mol)
M=
=
V soluzione (L)
= 2 x 10-2 (mol/L)
0,250 (L)
Esercizio svolto n° 9
Determinare la quantità di KNO3 necessaria per preparare 450 ml di una soluzione 0,05 molare.
Soluzione
Devono, intanto, essere calcolate le moli che devono essere presenti nella soluzione.
Questo può essere fatto o impostando una proporzione:
0,05 (mol) : 1000 (ml) = X (mol) : 450 (ml)
e risolvendo rispetto a X:
0,05 (mol) x 450 (ml)
X (mol) =
= 0,0225 (mol)
1000 (ml)
oppure con la formula inversa derivante della definizione di molarità:
n (mol) = M (mol / L) x V (L) = 0,05 (mol / L) x 0,450 (L) = 0,0225 (mol)
Successivamente si procede al calcolo della massa di KNO3 che deve essere solubilizzata in tanta acqua da avere alla fine
450 ml di soluzione:
m(g) = n(mol) x MM(g /mol) = 0,225 (mol) x 101(g /mol) = 22,725(g)
Esercizio svolto n° 10
Determinare la quantità di KNO3 necessaria per preparare 450 g di una soluzione 0,05 molale.
Soluzione
Il procedimento risulta qui più complesso poiché, in questo caso, la concentrazione della soluzione è riferita alla massa del
solo solvente. Quindi intanto bisogna calcolare la massa di soluto che dovrebbe essere sciolta in 1000 g di solvente partendo
dalla molalità:
m(g) = n(mol) x MM(g /mol) = 0,05 (mol) x101 (g /mol) = 5,05 (g)
che deve essere sommata alla massa di solvente per conoscere la massa totale della soluzione:
massa soluzione = 1000 (g) + 5,05 (g) = 1005,05 (g)
Successivamente occorre determinare la massa di soluto da sciogliere attraverso una proporzione:
5,05 : 1005,05 = X : 450
da cui:
5,05 (g) x 450 (g)
X =
= 11,42 (g)
1005,05 (g)
La massa del solvente nel quale devono essere sciolti gli 11,42 g di sale viene determinata per differenza:
massa solvente = 450 (g) - 11,42 (g) = 438,58 (g)
43
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
3. Trasformazioni da una unità di concentrazione ad un’altra
Una volta definite le unità di concentrazione occorre vedere come un’unità può essere trasformata in un’altra. Poiché alcune
unità sono riferite ad una quantità di soluzione o di solvente espressa in massa ed altre ad una quantità espressa in volume,
gioca un ruolo importante, nell‟effettuare queste conversioni, la densità delle soluzioni.
Ricordiamo che la densità è definita come il rapporto tra massa e volume e, quindi, rappresenta l’anello che collega queste
due grandezze:
m
d =
V
Esercizio svolto n° 11
Supponendo di avere una soluzione di acido solforico al 15% (m/m) calcolarne la molarità e la molalità. La densità della
soluzione è 1,105 (g/ml).
Soluzione
Calcolo della molarità.
Supponendo di prendere un litro di soluzione, dalla densità possiamo ricavare la sua massa:
m = d x V = 1,105 (g /ml) x 1000 (ml) = 1105 (g)
e attraverso la percentuale in massa possiamo calcolare la massa di acido solforico “puro”:
macidosolforico = 1105 (g) x
15 = 167,75 (g)
100
e da questa il numero di moli di acido solforico:
m
n=
167,75 (g)
=
PM
= 1,71 (mol)
98 (g/mol)
Poiché siamo partiti da un litro di soluzione, le moli calcolate rappresentano esattamente la molarità della soluzione.
Calcolo della molalità.
Partendo dalla percentuale in massa possiamo calcolare la quantità di acido solforico in 1000 g di soluzione:
macidosolforico = 1000 (g) x
15 = 150 (g)
100
e da questa, per differenza, la quantità di solvente “puro”:
msolvente = 1000 (g) - 150 (g) = 850 (g)
Le moli di acido solforico sono:
m
n=
150 (g)
=
PM
= 1,53 (mol)
98 (g/mol)
e quindi la molalità risulta:
1,53 (mol)
m=
0,850 (Kg)
= 1,8 (mol/Kgsolvente)
Esercizio svolto n° 12
Supponendo di avere una soluzione di NH3 a concentrazione 10,52 (mol/L) e di densità 0.895 (kg/L) calcolarne la
concentrazione espressa come percentuale in massa.
Soluzione
Intanto occorre calcolare la massa totale di un litro di soluzione partendo dalla densità:
m = d x V = 0,895 (kg / L) x 1 (L) = 0,895 (kg)
La massa corrispondente alle 10,52 moli contenute in un litro e quindi in 0,895 kg di soluzione è:
m = n x PM = 10,52 (mol) x 17 (g /mol) = 178,84 (g)
e quindi la percentuale in massa risulta:
% in massa =
massasoluto
massasoluzione
44
178,84 (g)
=
x 100 = 19,98 %
895 (g)
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Esercizio svolto n° 13
Calcolare la percentuale in massa di una soluzione 0,5 molale di HCl.
Soluzione:
Questa soluzione è costituita da 0,5 moli di acido cloridrico in 1000 g di solvente. Quindi intanto bisogna convertire le moli
in massa:
m = n x PM = 0,5 (mol) x 36,5 (g /mol) = 18,25 (g)
e calcolare la massa totale della soluzione:
msoluzione = msoluto = msolvente = 18,25 (g) + 1000 (g) = 1018,25 (g)
La percentuale in massa risulta:
18,25 (g)
% in massa =
x 100 = 1,79 %
1018,25 (g)
4. Diluizione delle soluzioni
Le soluzioni possono essere preparate mescolando, secondo adeguati accorgimenti sperimentali, le
opportune quantità di soluto e solvente, precedentemente misurati oppure attraverso le diluizioni.
Il processo consiste nel prelevare una quantità calcolata di una soluzione più concentrata e diluire
questa con un’opportuna quantità di solvente fino ad avere una nuova soluzione a concentrazione
più bassa. Per effettuare le diluizione il primo passo è quello di effettuare gli opportuni calcoli per
conoscere le quantità esatta di soluzione più concentrata e di solvente che bisogna tra loro mescolare. Con gli esempi che
seguono vediamo praticamente come si opera:
Esercizio svolto n° 14
Avendo a disposizione una soluzione di HCl 0,5 M, calcolare la quantità di soluzione da prelevare per ottenere un litro di
soluzione 0,1 M.
Soluzione
Per effettuare correttamente il calcolo, in questo caso, è opportuno partire dai dati della soluzione più diluita.
Si calcolano quindi le moli di HCl che devono essere presenti alla fine in questa soluzione:
n (mol) = Md (mol / L) x Vd (L) = 0,1(mol / L) x 1(L) = 0,1(mol)
Queste moli devono essere “prelevate” dalla soluzione più concentrata e perciò bisogna calcolare il volume della stessa
soluzione che le contiene:
n (mol)
Vc (L) =
0,1 (mol)
=
= 0,2 (L) = 200 (ml)
Mc (mol/L)
0,5 (mol / L)
In pratica si prelevano accuratamente 200 ml dalla soluzione più concentrata e si diluisce con acqua fino a 1000 ml (1 L).
in questo modo siamo sicuri di aver preparato un litro di una soluzione di HCl 0,1 (mol/L).
Nelle formule usate in questo esercizio Md è la concentrazione della soluzione più diluita (la soluzione di arrivo), Mc è la
concentrazione della soluzione più concentrata (la soluzione di partenza), Vd e Vc rappresentano rispettivamente il volume
di soluzione che volevamo ottenere e il volume di soluzione più concentrata che deve essere prelevato.
Sostituendo il numero di moli (n) che troviamo nella prima formula all’interno della seconda otteniamo:
Vc (L) =
Md (mol/L) x Vd (L)
Mc (mol/L)
che rappresenta l’espressione attraverso la quale è possibile calcolare direttamente il volume di soluzione concentrata
da diluire.
Esercizio svolto n° 15
Calcolare il volume di soluzione 2 M che bisogna prelevare per preparare 500 ml di una soluzione 0,7 M.
45
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Soluzione
Applicando direttamente la relazione dell‟esercizio precedente si ottiene:
Vc (L) =
Md (mol/L) x Vd (L)
Mc (mol/L)
0,7 (mol/L) x 0,5 (L)
=
= 0,175 (L) = 175 (ml)
2 (mol / L)
In pratica si prelevano 175 ml della soluzione più concentrata (che potremmo a questo punto chiamare per ovvi motivi
anche soluzione madre) e si diluisce con acqua fino a 500 ml.
Esercizio svolto n° 16
Determinare la quantità di soluzione di NH3 0,8 (g/L) che occorre prelevare per preparare 200 ml di una soluzione a
concentrazione 0,15 (g/L).
Soluzione
Anche in questo caso si parte dalla soluzione di arrivo (più diluita) e si calcola la massa che deve essere presente in questa
soluzione attraverso una proporzione:
0,15 (g) :1000 (ml) = X (g) : 200 (ml)
da cui:
0,15 (g) x 200 (ml)
X (g) =
= 0,03 (g)
1000 (ml)
La massa così calcolata deve essere prelevata dalla soluzione madre. Si procede quindi al calcolo del volume di soluzione
da prelevare sempre attraverso una proporzione:
0,8 (g) :1000 (ml) = 0,03 (g) : X (ml)
da cui:
1000 (ml) x 0,03 (g)
X (g) =
= 37,5 (ml)
0,8 (g)
L’equazione sopra riportata è assolutamente analoga a quella usata per calcolare i volumi di soluzione da diluire quando le
concentrazioni sono espresse in mol/L; in questa, però, al posto delle concentrazioni molari troviamo le concentrazioni
espresse come rapporto m/V.
Esercizio svolto n° 17
Preparare 250 ml di una soluzione di acido cloridrico 0,5 molare partendo da una soluzione di acido cloridrico concentrato
commerciale.
Si ammetta per l’acido cloridrico concentrato commerciale una concentrazione del 38 % (m/m) e una densità di 1,19 (g/ml).
Possiamo risolvere l’esercizio seguendo due diversi metodi.
Primo metodo
La prima operazione da fare è il calcolo del numero di moli che devono essere presenti nella soluzione finale:
n (mol) = M (mol / L) x V (L) = 0,5 (mol /ml) x = 0,250 (ml) = 0,125 (mol)
che corrispondono ad una massa di acido cloridrico “puro” uguale a:
m(g) = n(mol) x PM(g /mol) = 0,125 (mol) x 36,5 (g /mol) = 4,56 (g)
La massa di acido cloridrico “puro” così calcolata deve essere prelevata dalla soluzione al 38 % (soluzione madre).
La massa di soluzione da prelevare può essere calcolata attraverso una proporzione
38 :100 = 4,56 : X
dalla quale
4,56 x 100
X (g) =
= 12 (g)
38
Poiché in laboratorio la misura dei volumi può risultare più agevole rispetto alla misura della massa è opportuno convertire
la massa di soluzione madre così calcolata in volume avendo a disposizione la densità:
46
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
m (g)
12 (g)
V (ml) =
=
d (g/ml)
= 10,1 (ml)
1,19 (g/ml)
Il risultato rappresenta, quindi, il volume di acido cloridrico concentrato necessario per preparare 250 ml di una soluzione
0,5 molare.
Secondo metodo
Si trasforma prima la concentrazione della soluzione concentrata espressa come rapporto m/m in molarità come già
descritto nell‟esercizio svolto n° 11:
Supponendo sempre di prendere un litro di soluzione, dalla densità possiamo conoscere la sua massa:
m = d x V = 1,19 (g /ml) x 1000 (ml) = 1190 (g)
e attraverso la percentuale in massa calcoliamo la massa di acido cloridrico “puro”:
macidosolforico = 1190 (g) x
38
= 452,2 (g)
100
dalla quale possiamo successivamente calcolare il numero di moli:
m
n (ml) =
452,2 (g)
=
PM
= 12,39 (mol)
36,5 (g/mol)
che rappresentano esattamente la molarità della soluzione dato che siamo partiti da un litro di soluzione.
Calcolata la molarità della soluzione concentrata applicando la relazione trovata nell’esercizio svolto n° 14 possiamo calcolare
il volume di soluzione madre da diluire a 250 ml per ottenere la soluzione richiesta:
Vc (L) =
Md (mol/L) x Vc (L)
Mc (mol/L)
0,5 (mol/L) x 0,250 (L)
=
= 1,01 x 10-2 (L) = 10,1 ml
12,39 (mol/L)
ESERCIZI DA SVOLGERE
Concentrazione delle soluzioni
a) Una soluzione di KCl è stata ottenuta solubilizzando 30 g di sale in 8500 g di acqua. Calcolare la percentuale in peso.
b) Calcolare la massa di HNO3 contenuta in una 820 g di una soluzione al 21% di acido.
c) Quanta acqua bisogna aggiungere a 1,2 g di Na2SO4 per ottenere una soluzione allo 0,7 % in peso?
d) Calcolare la percentuale in peso di una soluzione ottenuta sciogliendo 2 x 1023 molecole di carbonato di calcio in 350 g
di acqua.
e) Determinare il volume di alcool metilico che occorre miscelare con acqua per ottenere 500 ml di soluzione al 3% V/V.
Descrivere come la soluzione può essere preparata in laboratorio.
f) Quale è il volume di acetone che bisogna miscelare con acqua per ottenere 250 ml di soluzione al 25% V/V.
g) A quale volume bisogna portare con acqua 25 ml di alcole per ottenere una soluzione al 3% V/V?
h) Cosa si intende per titolo alcolometrico di una bevanda alcolica? Effettuare una ricerca. Perché nella definizione di titolo
alcolometrico si parla di temperatura?
i) Calcolare la quantità in grammi di KNO3 che bisogna utilizzare per preparare 500 ml di una soluzione contenente 3 g/L di
sale e descrivere il procedimento da seguire in laboratorio per la sua preparazione.
j) Determinare la quantità di NaCl contenuto in 700 ml di una soluzione a concentrazione 0,2 g/L.
k) Calcolare la concentrazione di una soluzione, espressa in g/L, ottenuta sciogliendo 0,4 moli di glucosio (C6H12O6) in
2,8 L di acqua.
l) Calcolare la percentuale in peso e la frazione molare di solfato ferroso in una soluzione ottenuta mescolando 0,3 moli di
sale e 78 moli di acqua.
m) Determinare la frazione molare di KOH e acqua in una soluzione che contiene il 3% di idrossido.
n) Quali sono le frazioni molari di HCl e acqua in una soluzione che contie ne l’1% di ac ido?
o) Calcolare la molarità della soluzione in 2550 ml della quale sono sciolti 35 g di fosfato di litio.
p) Quanti sono i grammi di cloruro di magnesio necessari per ottenere 250 ml di una soluzione 1,7 molare. Descrivere,
inoltre, come deve essere preparata la soluzione stessa.
q) Descrivere come deve essere preparato un litro di soluzione di iodio 0,1 molare.
r) Quante sono le moli e la massa di ipoclorito di sodio presenti in 350 ml di soluzione 0,2 molare?
47
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
s) Quale volume deve avere una soluzione contenente 250 g di fosfato di calcio perché risulti 1,2 molare?
t) Calcolare molalità e frazione molare di una soluzione costituita da 17 g di HNO3 e 560 g di acqua.
u) Determinare le moli e la massa di acido solforico conte nute in 700 g di una soluzione 2 molale.
Conversione tra le unità di concentrazione.
a) Una soluzione di acido cloridrico ha concentrazione di 42 g/L. Calcolare molarità e molalità della soluzione sapendo che
la sua densità è di 1,020 g/ml.
(R: M = 1,15 mol/L; m = 1,18 mol/kgsolvente)
b) Una soluzione al 24,18 % in massa di carbonato di sodio ha una densità di 1,263 g/ml. Calcolare molarità e molalità
della soluzione.
(R: M = 2,75 mol/L; m = 3 mol/kgsolvente)
c) Una soluzione acquosa è costituita da un soluto con PM 63 g/mol e la cui frazione molare è 0,15.
Supponendo che la soluzione ha densità pari a 1,2 g/ml calcolare percentuale in massa, molarità e molalità.
(R: % in massa di soluto = 38,18%; M = 7,27 mol/L; m = 9,80 mol/kgsolvente)
d) Determinare la molarità di una soluzione alcolica al 12 % in volume in alcool etilico. La densità dell’alcol etilico puro
(R: M = 2,10 mol/L)
(C2H5OH) è 0,806 g/ml.
e) L’acido nitrico a l 25 % in massa ha una dens ità di 1,15 kg/L. Determinare la molarità de lla soluzione.
(R: M = 4,57 mol/L)
Diluizione delle soluzioni
a) L’acido solforico puro ha densità 1,89 g/ml. Calcolare il volume di questo acido che occorre diluire per preparare un litro
di soluzione 0,1 molare.
(R: V = 5,2 ml)
b) Determinare il volume di acido cloridrico al 90 % in massa (d = 1,20 g/ml) che occorre prelevare per preparare un litro di
soluzione 0,2 molare.
(R: V = 6,7 ml)
c) Avendo a disposizione una soluzione a concentrazione 1 molare di un acido, determinare il volume che occorre prelevare
per preparare 250 ml di una soluzione 0,5 molare dello stesso acido.
(R: V = 125 ml)
d) Calcolare la concentrazione molare della soluzione che si ottiene diluendo con acqua fino a un litro 25 ml di una soluzione
di acido acetico 2 molare.
(R: M = 0,05 mol/L)
e) L’acido nitrico a l 90% in massa ha una densità 1,5 kg/L. Calcolare il volume di questa soluzione che bisogna diluire con
acqua per ottenere 250 ml di una soluzione 1 molare.
(R: V = 11,7 ml)
48
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
MODULO 3
REAZIONI CHIMICHE II
• Introduzione
• Stechiometria delle reazioni chimiche in soluzione
acquosa
• Reazioni di ossidoriduzione
1. Introduzione
Nel quinto modulo del testo del primo anno sono stati trattati alcuni aspetti delle reazioni chimiche come la loro
classificazione, il bilanciamento e la stechiometria. Tuttavia l’analisi fatta non è sufficientemente esaustiva per diversi motivi:
 è stato analizzato il bilanciamento solo di reazioni all’interno delle quali non varia il numero di ossidazione (n.o.) degli
elementi e invece noi sappiamo che ci sono reazioni (reazioni di ossidoriduzione) in cui lo stesso può variare passando
da reagenti a prodotti.
 i calcoli stechiometrici sono stati eseguiti prendendo in considerazione solo sostanze pure.
In questo modulo quindi verrà:
 trattato il bilanciamento delle reazioni di ossidoriduzione;
 affrontato il calcolo stechiometrico delle reazioni in soluzione acquosa
2. Reazioni di ossidoriduzione
In questo tipo di reazioni il numero di ossidazione degli elementi, passando da reagenti a prodotti, cambia.
Ma cosa significa questo? Riprendiamo la definizione di numero di ossidazione già data nel modulo sul MONDO DELLE
MOLECOLE del testo del primo anno.
Il NUMERO DI OSSIDAZIONE rappresenta la carica reale o formale che un elemento assumerebbe, all interno
di una molecola, se gli elettroni coinvolti nei legami si attribuissero completamente all’elemento più
elettronegativo.
Se il numero di ossidazione cambia, evidentemente, la carica formale o reale di alcuni elementi che partecipano alla reazione
può aumentare o diminuire. E’ ovvio che gli atomi dei vari elementi non possono assumere un valore qualsiasi come n.o.
ma valori determinati dalla configurazione elettronica di un dato elemento e dai legami che questo forma con atomi di altri
elementi all’interno delle molecola.
Ma perchè avviene il cambio del numero di ossidazione degli elementi?
Questo avviene perché c’è un trasferimento di elettroni da un atomo ad un altro.
Cerchiamo di spiegare meglio!
Se un elemento, passando dai reagenti ai prodotti, vede il proprio numero di ossidazione aumentato vuol dire che sta
perdendo elettroni e, viceversa, un elemento che vede il proprio numero di ossidazione diminuire significa che sta
acquistando elettroni dall’elemento che li ha persi.
Le reazioni in cui si ha perdita di elettroni sono reazioni di ossidazione mentre quelle in cui c’è un acquisto di elettroni sono
le reazioni di riduzione.
Una reazione di ossidazione non può avvenire senza una contemporanea reazione di riduzione,non solo anche il numero
degli elettroni persi nella ossidazione deve essere uguale al numero degli elettroni acquistati nella riduzione.
Esempio
Cu → Cu++ + 2eZn++ + 2e- → Zn
(reazione di ossidazione)
(reazione di riduzione)
49
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Poiché in una reazione di ossidoriduzione non possono esserci reazioni di ossidazione senza reazioni di riduzione e viceversa,
chi si ossida induce la riduzione in altre specie chimiche e agisce, quindi, come riducente. Viceversa chi si riduce induce
l’ossidazione e agisce come ossidante.
La maggiore difficoltà nel bilanciamento delle reazioni di ossidoriduzione sta, quindi, nel fatto che non basta effettuare un
bilanciamento degli atomi dei diversi elementi che partecipano alla reazione(bilanciamento delle masse), ma devono anche
essere bilanciati gli elettroni (le cariche), e questo perché,come già detto, gli elettroni persi da alcuni atomi devono essere
necessariamente acquistati da altri.
Per bilanciare correttamente le reazioni di ossidoriduzione deve essere seguito il seguente schema:
1) Determinare il numero di ossidazione di tutti gli elementi della reazione sia tra i reagenti che tra i prodotti e stabilire quali
sono gli elementi che si ossidano e quali si riducono;
2) Effettuare un bilancio preventivo degli atomi degli elementi che si ossidano o che si riducono (come in una reazione non
di ossidoriduzione);
3) Stabilire il numero di elettroni di ossidazione e di riduzione;
4) Determinare quali sono i coefficienti per i quali devono essere moltiplicate le formule che contengono gli elementi che si
ossidano e che si riducono (questa operazione serve per rendere uguali gli elettroni di ossidazione a quelli di riduzione
e, matematicamente, viene effettuata con il calcolo del minimo comune multiplo);
5) Bilanciare le cariche se la reazione è posta in forma ionica (normalmente il bilanciamento va fatto utilizzando ioni H+ o ioni
OH-, dipende sempre dal tipo di molecole che partecipano alla reazione);
6) Bilanciare tutti gli altri elementi il cui n.o. non è cambiato come se si trattasse di una reazione non di ossidoriduzione
evitando di anteporre i coefficienti stechiometrici alle formule che contengono gli elementi che si sono ossidati o ridotti;
7) Infine bilanciare gli atomi di idrogeno, se presenti, con acqua. A questo punto se gli atomi di ossigeno risultano bilanciati
vuol dire che la reazione è stata bilanciata correttamente.
Questo schema proposto è la procedura di massima da seguire per il bilanciamento delle reazioni di ossidoriduzione, ma,
ovviamente, tutto dipende dall‟esercizio e dall‟esperienza acquisita.
Esercizio svolto n° 1
Bilanciare la seguente reazione di ossidoriduzione:
HCl + HNO3 + FeCl2 → NO + FeCl3 + H2O
Seguendo lo schema precedentemente proposto si calcolano i numeri di ossidazione e si scrivono sugli atomi
+1 -1
+1 +5 -2
+2 -1
+2 -2
+3 -1
+1 -2
HCl + H N O3 + FeCl2 → N O + FeCl3 + H2O
Nella reazione l’azoto passa da n.o. = +5 ad n.o.= +2 cioè si riduce, acquistando tre elettroni, il ferro,invece, si ossida,
perdendo un elettrone, passando da n.o. +2 a +3. E’ evidente che per un atomo di azoto, che acquista tre elettroni, sono
necessari tre atomi di ferro, ciascuno dei quali ne perde uno. Quindi, per rendere uguali gli elettroni di ossidazione a quelli
di riduzione le formule che contengono il ferro devono essere moltiplicate per tre:
+1 -1
+1 +5 -2
+2
-1
+2 -2
+3 -1
+1 -2
HCl + H N O3 + 3FeCl2 → NO + 3FeCl3 + H2O
A questo punto sono bilanciati gli elettroni e gli atomi di azoto e di ferro. Rimane da bilanciare il cloro, l’idrogeno e l’ossigeno
(elementi che non hanno partecipato alla di ossidoriduzione).
Di cloro abbiamo tra i reagenti 6 atomi e tra i prodotti 9 atomi e quindi tra i reagenti andranno aggiunti altri tre atomi di cloro
moltiplicando per 3 la formula dell‟acido cloridrico:
+1 -1
+1 +5 -2
+2
-1
+2 -2
+3
-1
+1
-2
3HCl + H N O3 + 3FeCl2 → NO + 3FeCl3 + H2O
Bisogna adesso bilanciare gli atomi di idrogeno.
Tra i reagenti ce ne sono 4 e, quindi, occorre moltiplicare la formula dell’acqua per 2 per avere quattro atomi di idrogeno
tra i prodotti:
+1 -1
+1 +5 -2
+2
-1
+2 -2
+3
-1
+1
-2
3HCl + H N O3 + 3FeCl2 → NO + 3FeCl3 + 2H2O
Se adesso si contiamo gli atomi di ossigeno ci rendiamo conto che risultano bilanciati. La reazione risulta quindi bilanciata.
Esercizio svolto n° 2
Riproponiamo il bilanciamento della reazione precedente, scritta, però, in forma ionica e con i numeri di ossidazione già calcolati
+1
+5 -2
+2
+2 -2
+3
+1 -2
H+ + N O3- + Fe2+ → N O + Fe3+ + H2O
Bilanciando gli elettroni come fatto in precedenza otteniamo:
H+ + N O3- + 3Fe2+ → N O + 3Fe3+ + H2O
50
Book in
progress
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Poiché la reazione adesso è in forma ionica bisogna bilanciare le cariche. Tra i prodotti abbiamo 9 cariche positive, mentre
tra i reagenti, esclusa la carica del protone, abbiamo complessivamente 5 cariche positive. Quindi per avere nove cariche
positive tra i reagenti dobbiamo aggiungere 4 ioni H+ tra i reagenti.
La reazione diventa quindi:
4H+ + N O3- + 3Fe2+ → N O + 3Fe3+ + H2O
Rimangono da bilanciare i 4 idrogeni che ci sono tra i reagenti anteponendo il 2 alla formula dell’acqua:
4H+ + N O3- + 3Fe2+ → N O + 3Fe3+ + 2H2O
In questo modo si può verificare che sono bilanciati anche gli atomi di ossigeno e la reazione intera.
Quello qui proposto è solo un metodo per bilanciare le reazioni di ossidoriduzione.
Vediamo adesso come la stessa reazione può essere bilanciata con un altro metodo: il metodo delle semireazioni.
In pratica la reazione completa viene scomposta in reazioni più semplici (semireazioni) di ossidazione e di riduzione e queste
vengono bilanciate autonomamente seguendo lo schema proposto escludendo il punto 4).
Il bilanciamento degli elettroni, che questa volta compaiono all’interno delle semireazioni, avviene in una fase successiva
come riportato nell’esempio seguente.
Un’ultima fase, non contemplata nello schema precedente prevede la somma membro a membro delle semireazioni per
ottenere la reazione complessiva finale bilanciata.
Esercizio svolto n° 3
La reazione che si propone con i n.o. già calcolati è la stessa degli esempi precedenti:
+1 -1
+1 +5 -2
+2 -1
+2 -2
+3 -1
+1 -2
HCl + H N O3 + FeCl2 → N O + FeCl3 + H2O
Scomponiamo adesso la reazione nelle semireazioni di ossidazione:
+2 -1
+3 -1
FeCl2 → FeCl3
e di riduzione:
+1 +5 -2
+2 -2
H N O3 → N O
Queste reazioni adesso devono essere bilanciate separatamente.
Vediamo che nella reazioni di ossidazione il n.o. del ferro passa da +2 a +3 e quindi si ha la perdita di un elettrone. La
reazione diventa quindi:
+2 -1
+3 -1
FeCl2 → FeCl3 + 1eA questo punto ci si accorge che tra i prodotti c’è una carica negativa mentre tra i reagenti la somma delle cariche è zero,
per cui bisogna aggiungere tra i prodotti una carica positiva ( H+ )
+2 -1
+3 -1
FeCl2 → FeCl3 + 1e- + H+
Per bilanciare l’idrogeno e il cloro in più presenti tra i prodotti si aggiunge tra i reagenti una molecola di HCl. La reazione di
ossidazione è così completamente bilanciata:
+2 -1
+3 -1
FeCl2 + HCl → FeCl3 + 1e- + H+
Nella reazione di riduzione l’azoto passa da +5 a +2 e questo avviene con l’acquisto di 3 elettroni:
+1 +5 -2
+2 -2
H N O3 + 3e-→ N O
Le tre cariche negative devono essere bilanciate, tra i reagenti, con tre ioni H+ :
H N O3 + 3e- + 3H+ → N O
Gli idrogeni e gli ossigeni sono adesso bilanciati con acqua per ottenere la reazione di riduzione finale:
51
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
H N O3 + 3e- + 3H+ → N O + H2O
Le due semireazioni bilanciate sono:
FeCl2 + HCl → FeCl3 + 1e- + H+
X3
H N O3 + 3e- + 3H+ → N O + 2H2O
X1
Si ottiene dunque:
3FeCl2 + 3HCl → 3FeCl3 + 3e- + H+
H N O3 + 3e- + 3H+ → N O + 2H2O
Sommando membro a membro le due semireazioni e dopo le opportune semplificazioni, trattando la reazione come se
fosse un’equazione matematica, abbiamo la reazione finale bilanciata:
3HCl + H N O3 + 3FeCl2 → N O + 3FeCl3 + 2H2O
Esistono delle reazioni di ossidoriduzione nelle quali non necessariamente due elementi diversi si ossidano e si riducono
ma gli atomi di un solo elemento, contemporaneamente, si ossidano e si riducono.
Queste reazione sono chiamate di disproporzione o disproporzianamento o dismutazione.
Un tipico esempio è la dismutazione del Cl2 in ambiente basico che andremo qui a bilanciare.
Esercizio svolto n° 4
Bilanciare la seguente reazione di dismutazione:
Cl2 + OH- → Cl- + ClOSoluzione
La prima fase è sempre il calcolo del numero di ossidazione degli elementi:
+1
0
-1
Cl2 + OH- → +ClO- + ClVediamo che il cloro contemporaneamente si ossida (a ipoclorito) e si riduce (a cloruro).
Usiamo il metodo delle semireazioni
0
-1
Cl2 → +ClO0
semireazione di ossidazione
-1
Cl2 → +Cl-
semireazione di riduzione
La due semireazioni bilanciate sono:
Cl2 + 4OH- → 2ClO- + 2e- + 2H2O
e
Cl2 + 2e- → 2ClEssendo il minimo comune multiplo tra il numero di elettroni di ossidazione e di riduzione uguale a 2, entrambe le reazioni
vengono moltiplicate per 1.
Sommando membro a membro e semplificando gli elettroni si ottiene la reazione finale bilanciata:
2Cl2 + 4OH- → 2Cl- + 2ClO- + 2H2O
Notiamo qui che tutti i coefficienti stechiometrici sono multipli o uguali a 2 per cui possiamo effettuare un ulteriore
semplificazione dividendo tutto per 2. La reazione finale bilanciata è:
Cl2 + 2OH- → Cl- + ClO- + H2O
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Negli esempi proposti sono state prese in esame solo reazioni nelle quali un elemento si ossida e un altro si riduce. In altre
reazioni diversi elementi, presenti tra i reagenti, possono ossidarsi e ridursi.
Queste possono essere agevolmente bilanciate usando il metodo delle semireazioni facendo attenzione a usare nel calcolo
del m.c.m., per il bilanciamento degli elettroni, gli elettroni totali di ossidazione e di riduzione.
Esercizi da svolgere
1. Individua tra le seguenti le reazioni di ossidoriduzione:
a)
b)
c)
d)
2. Data la reazione non bilanciata: Sn + HNO3 + HCl → SnCl4 → NO + H2O
a) quale elemento si ossida?
b) quale elemento si riduce?
c) qual è l’agente ossidante?
d) qual è l’agente riducente?
e) bilanciare la reazione.
3. Data la reazione non bilanciata:
a) quale elemento si ossida?
b) quale elemento si riduce?
c) qual è l’agente ossidante?
d) qual è l’agente riducente?
e) bilanciare la reazione.
4. Data l’equazione non bilanciata:
quale delle affermazioni che seguono è falsa?
a) l’agente riducente della reazione è l’argento
b) nella reazione si ossida l’argento
c) nella reazione si riduce l’idrogeno
d) la reazione avviene in ambiente acido.
5. Quale elemento si ossida nella seguente reazione non bilanciata? NH3 + O2 → NO + H2O
6. Quale elemento si riduce nella seguente reazione non bilanciata?
7. Bilancia le reazioni degli esercizi n° 4,5 e 6.
8. Bilancia le seguenti reazioni di ossidoriduzione:
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
9. Poni l’attenzione sugli elementi in grassetto e completa la tabella come indicato nell’esempio.
Reagente
Elettroni
scambiati
Prodotto
Mg
N.O.
0
N.O.
N2
N.O. .....
2N
N.O. .....
Fe2O3
N.O. .....
2FeO
N.O. .....
Al
N.O. .....
Al (OH)3
N.O. .....
Cr2O3
N.O. .....
2CrO4
N.O. .....
IO3
N.O. .....
Γ
N.O. .....
P4
N.O. .....
4PH3
N.O. .....
CoCl2
N.O. .....
Co(OH)3
N.O. .....
Mg+2
-3
+2
Semireazione di Semireazione di
ossidazione
ossidazione
2
X
3. Stechiometria delle reazioni in soluzione acquosa
Nella pratica comune, di laboratorio o dell’industria, raramente le reazioni sono realizzate usando reagenti allo stato puro,
ma piuttosto in soluzione e con diversi solventi. Negli esempi proposti i reagenti sono in soluzione acquosa, ma sia chiaro
che la trattazione è valida anche per le soluzioni dove il solvente è diverso dall’acqua.
La conoscenza della stechiometria e delle concentrazioni delle soluzioni sono il prerequisito essenziale per effettuare i calcoli
stechiometrici per reazioni in soluzione.
Si ricordi, inoltre, che:
i rapporti tra i reagenti, tra i prodotti e tra reagenti e prodotti, stabiliti dai coefficienti stechiometrici valgono in
molecole o in moli e MAI IN GRAMMI.
Esercizio svolto n° 5
Determinare il volume di soluzione 0.2 M di NaOH che reagisce con 40 ml di HCl 0.15 M.
Soluzione
Bisogna intanto scrivere la reazione bilanciata:
HaOH + HCl → NaCl + H2O
Poiché sappiamo che la molarità è:
moli soluto (mol)
M=
Vsoluzione(L)
possiamo calcolare le moli contenute in 40 ml di HCl 0.15M:
moliHCl (mol) = M (mol/L) x Vsoluzione(L) = 0,15 (mol/L) x 0,040 (L) = 6 x 10-3 (mol)
Poiché dalla reazione il rapporto stechiometrico tra l’acido cloridrico e l‟idrossido di sodio è 1:1 allora possiamo certamente
dire che le moli di idrossido di sodio che reagiscono con l‟acido acido cloridrico sarà uguale a 6x10-3.
Il volume che contiene le 6x10-3 moli di idrossido può essere sempre calcolato con la formula inversa della molarità:
VNaOH (L) =
54
moliNaOH
MNaOH
6 x 10-3 (mol)
=
= 0,03 (L) = 30 (ml)
0,2 (mol/L)
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NEUTRALIZZAZIONE
Il termine deriva direttamente dalle reazione tra un acido e una base (idrossido) e che porta alla formazione di una soluzione
che non è né acida né basica bensì neutra.
In realtà la soluzione è perfettamente neutra (l’argomento sarà approfondito successivamente) solo in alcuni casi.
Il concetto di neutralizzazione è la base di un percorso sperimentale atto alla determinazione di quantità non conosciute
(incognite) di una sostanza nota all’interno di una soluzione (titolazione).
In generale, si può affermare che una sostanza A neutralizza una sostanza B quando, a questa, la sostanza A è aggiunta
in quantità stechiometrica.
Esercizio svolto n° 6
Calcolare quale è il volume di soluzione di acido solforico al 15% in massa (d=1.105(g/ml) necessaria per neutralizzare 25
ml di soluzione di KOH 2M.
Soluzione
Si calcolano le moli di KOH da neutralizzare:
moliKOH (mol) = M (mol/L) x Vsoluzione(L) = 2 (mol/L) x 0,025 (L) = 5 x 10-2 (mol)
e si scrive correttamente la reazione che avviene in soluzione:
H2SO4 + 2KOH → K2SO4 + 2H2O
Si vede che il rapporto stechiometrico tra acido solforico e idrossido di potassio è 1:2. Quindi per calcolare le moli di acido
solforico che servono per neutralizzare l’idrossido è necessario impostare la proporzione:
1
:
2
=
KOH
H2SO4
X
:
5 x 10-2
H2SO4
KOH
da cui:
5 x 10-2
= 2,5 x 10-2
moli di H2SO4 =
2
Poiché la concentrazione dell’acido solforico è espressa come percentuale in massa c’è la necessita di trasformare le moli
di acido in massa:
mH2SO4 (g) = n x MM = 2,5 x 10-2 (mol) x 98 (g/mol) = 2,45 (g)
Quella così calcolata è la massa di acido puro richiesta per neutralizzare la base, ma essendo la soluzione al 15% in massa
dobbiamo calcolare la massa di soluzione di acido:
15 : 100 = 2,45 : X
H2SO4
soluzione
H2SO4
soluzione
2,45 x 100
X=
= 16,33 (g)
15
Una volta conosciuta la massa di soluzione il volume di acido che serve per la neutralizzazione lo possiamo determinare
utilizzando la densità:
m
16,33 (g)
V=
=
= 14,78 (ml)
d
1,105 (g/ml)
Esercizio svolto n° 7
Determinare la concentrazione del sale e del reagente in eccesso che si ottengono dalla reazione tra 30 ml di HCl 0.2M e
45 ml di Mg(OH)2 0.15M.
Soluzione
In questo caso si deve vedere quale tra i due reagenti è il reagente limitante e quale quello in eccesso.
La reazione bilanciata è la seguente:
2HLC + Mg(OH)2 → MgCl2 + 2H2O
Si calcolano le moli di acido cloridrico e di idrossido di magnesio:
moliHCl (mol) = M (mol/L) x Vsoluzione(L) = 0,2 (mol/L) x 0,030 (L) = 6 x 10-3 (mol)
moliMg(OH)2 (mol) = M (mol/L) x Vsoluzione(L) = 0,15 (mol/L) x 0,045 (L) = 6,75 x 10-3 (mol)
55
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Si imposta la proporzione per il calcolo del reagente limitante
2 : 1 - 6 x 10-3 : X
HCl
Mg(OH)2
HCl
Mg(OH)2
da cui:
6 x 10-3
= 3 x 10-3
X=
2
Quelle così calcolate sono le moli di idrossido di magnesio che reagiscono con 6 x 10-3 moli acido cloridrico. Pertanto,
poiché le moli di idrossido di magnesio nell’ambiente di reazione sono maggiori di quelle richieste per la reazione con l’acido,
l’idrossido risulta essere in eccesso della quantità:
moli di Lg(OH)2 in eccesso = 6,75 x 10-3 -3 x 10-3 = 3,75 x 10-3
La concentrazione di idrossido di magnesio in eccesso risulta:
3,75 x 10-3 (mol)
= 5 x 10-2 (mol/L)
MMg(OH)2 =
0,075 (L)
dove 0.075 è la somma dei volumi iniziali delle due soluzioni espressa in litri.
Il calcolo della concentrazione del cloruro di magnesio che si forma dalla reazione viene effettuato calcolando intanto le
moli di sale che si forma usando le moli di reagente limitante:
2 : 1 - 6 x 10-3 : X
HCl
MgCl2
HCl
MgCl2
da cui:
6 x 10-3
= 3 x 10-3
X=
2
La concentrazione risulta quindi.
3 x 10-3 (mol)
MMgCl2 =
= 4 x 10-2 (mol/L)
0,075 (L)
Dove 0.075 è il volume di soluzione complessivo espresso in litri.
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MODULO 4
ASPETTI CINETICI ED ENERGETICI
• Introduzione
• L’energia nelle reazioni chimiche
• Cinetica chimica
1. Introduzione
Nel modulo sul legame chimico si è visto come si formano le molecole dipendentemente dalla struttura degli atomi che le
costituiscono, mentre nel capitolo riguardante la nomenclatura sono state passate in rassegna le classi dei composti della
chimica inorganica associando spesso alla formazione di questi delle reazioni chimiche.
Ma realmente, e quindi non solamente sulla carta, queste reazioni avvengono? E se avvengono, quale è il motivo? E quanto
tempo occorre perché avvenga una reazione?
Potremmo dire che le reazioni avvengono perchè, evidentemente, l’energia dei prodotti è minore rispetto a quella dei
reagenti. Ma questa risposta è piuttosto semplicistica!
Oltretutto potrebbe succedere che dal punto di vista energetico la reazione sia favorita ma che serva un tempo lunghissimo
perché questa avvenga.
L’esempio tipico è la trasformazione del diamante in grafite.
Diamante e grafite sono entrambi costituiti da carbonio ma con una disposizione spaziale degli atomi diversa (ricercare
Allotropia). Tra le due forme quella meno stabile è il diamante e quindi ci si aspetterebbe, perlomeno a temperatura ambiente,
che la sua trasformazione in grafite avvenisse con estrema semplicità. Invece non è così, anzi è tanto lenta che gli amanti
del pregiato minerale possono dormire sonni tranquilli!
Le risposte a queste domande sono date dalla cinetica chimica e dalla termodinamica chimica.
2. Cinetica chimica
La cinetica chimica studia la velocità delle reazioni. Ma cosa si intende per velocità delle reazioni?
Per capire bene il concetto facciamo una parallelismo con la velocità media di un corpo. Questa è data dallo spazio percorso
nell’unità di tempo:
dove Δs rappresenta la distanza tra due punti che il corpo percorre lungo la sua traiettoria e Δt il tempo impiegato per
passare da un punto ad un altro.
Supponiamo ora di avere una generica reazione in cui A e B sono i reagenti, C e D i prodotti, mentre a,b,c e d rappresentano
i coefficienti stechiometrici
La velocità di questa reazione può essere definita come la variazione della concentrazione di uno dei prodotti nell’unità di
tempo:
dove ΔC rappresenta la differenza tra le concentrazioni molari del prodotto C ai tempi t2 e t1.
Ovviamente, la velocità con la quale si formerà il prodotto D sarà esattamente uguale alla velocità con la quale si è formato
C e quindi:
E con quale velocità invece i reagenti A e B si trasformano? Evidentemente con la stessa velocità con la quale si formano
i prodotti. Quindi la velocità per la generica reazione prima scritta può essere espressa considerando uno qualsiasi dei suoi
termini ottenendo una serie di relazioni:
c, d, a, b sono i coefficienti stechiometrici della reazione bilanciata.
57
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Mentre per i prodotti la variazione delle concentrazioni è sempre positiva, la variazione delle concentrazioni dei reagenti è
sempre negativa, il segno negativo davanti alle espressioni della velocità per i reagenti ci consente di avere sempre un
risultato positivo.
Per una reazione che vede i reagenti destinati alla loro completa scomparsa possiamo affermare che le concentrazioni dei
reagenti tenderanno nel tempo a zero, mentre le concentrazioni dei prodotti, partendo da zero, tenderanno ad aumentare
fino ad un valore determinato dalle quantità dei reagenti e dalla stechiometria della reazione.
Occorre, però, fare una puntualizzazione. Non tutte le reazioni vedono la completa scomparsa dei reagenti e la loro
trasformazione in prodotti, ma piuttosto si arriva ad un punto in cui le concentrazioni di reagenti e prodotti rimangono
costanti nel tempo. Ciò avviene quando, nel momento in cui si formano, i prodotti cominciano a reagire tra loro per ridare
i reagenti con un velocità diversa da quella con la quale si formano. Le velocità variano nel tempo ma si arriverà ad un
punto in cui la velocità di formazione dei prodotti sarà uguale a quella della loro scomparsa. Il concetto verrà approfondito
nella parte del testo riguardante l’equilibrio chimico.
Esaminiamo, come esempio, la reazione di sintesi dell’ammoniaca:
L’espressione della velocità di reazione è la seguente:
Dal grafico si può vedere come variano le concentrazioni di reagenti e prodotti nel
tempo nel caso della reazione di sintesi dell’ammoniaca.
La velocità di reazione dipende da diversi fattori: natura dei reagenti, concentrazione,
temperatura, presenza di catalizzatori.
La dipendenza della velocità dalla natura dei reagenti è abbastanza ovvia se si
considera il fatto che normalmente molecole diverse presentano diversa reattività in
funzione degli atomi che le costituiscono e dei legami che questi formano tra loro. La
velocità può dipendere dalla concentrazione di uno dei reagenti o da entrambi.
Per esempio per la generica reazione vista in precedenza
aA+ bB → cC + dD
la velocità potrebbe essere rappresentata con una delle seguenti equazioni cinetiche:
dove k è la costante cinetica e i coefficienti n ed m, quasi sempre numeri interi, in generale diversi dai coefficienti
stechiometrici, sono determinati sperimentalmente. La loro somma rappresenta l’ordine della reazione. Esistono tuttavia
reazioni nelle quali la concentrazione non ha nessuna influenza sulla velocità e per queste l’equazione cinetica è v = k .
Chiaramente in questo caso l’ordine di reazione è zero.
Si vedrà adesso come due teorie, la teoria delle collisioni e la teoria del complesso attivato, interpretano a livello
microscopico le reazioni chimiche chiarendo la dipendenza della velocità dalla temperatura e dalla presenza di catalizzatori.
Teoria delle collisioni o degli urti
Nel 1889 Arrhenius propose un’equazione empirica che associava la costante cinetica alla
temperatura:
Questa equazione consta di due termini: il fattore preesponenziale A ed il fattore esponenziale
che al suo interno incorpora la costante universale dei gas (R) e la temperatura assoluta (T).
Egli ipotizzò che per moderate variazioni di temperatura il termine pre-esponenziale A non
subisse variazioni considerevoli e quindi la variazione della costante cinetica poteva essere
attribuita quasi interamente alla variazione del termine esponenziale.
58
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Nel 1916 Max Trautz e William Lewis, basandosi sull’equazione di Arrhenius, formalizzarono la teoria delle collisioni.
Secondo gli scienziati una reazione avviene se sono soddisfatte le tre seguenti condizioni:
1. le molecole devono urtarsi (collidere);
2. l’urto deve avvenire con una ben determinata orientazione delle molecole;
3. l’urto, deve essere efficace nel senso che deve avere una certa energia (energia di attivazione).
In definitiva ipotizzarono che il termine pre-esponenziale A dell’equazione di Arrhenius fosse composto da due fattori: un
fattore di frequenza (Z) che tiene conto del numero di urti tra molecole nell’unità di tempo e un fattore statistico (ρ) che tiene
conto della probabilità che l‟urto possa avvenire secondo una direzione utile.
L’equazione di Arrhenius diventa quindi:
Esaminando sperimentalmente questa equazione, Trautz e Lewis videro che ρ non è influenzato da variazioni di temperatura
mentre Z aumenta leggermente con l’aumento della stessa a causa dell’aumento dell’energia cinetica media delle molecole,
ma sicuramente il termine più sensibile alle variazioni di temperatura rimane il termine esponenziale.
In generale si può affermare che la costante cinetica aumenta all’aumentare della temperatura.
Teoria del complesso attivato
Nella teoria del complesso attivato si ipotizza che, in seguito all’urto tra i reagenti si formi una specie instabile nella quale
si vede un inizio della rottura dei vecchi legami e un inizio della formazione dei nuovi legami come descritto nella figura
seguente relativa alla generica reazione: AB + C → A+ BC
Le molecole dei reagenti posseggono una propria energia cinetica
e, poiché nell’urto l’energia deve essere conservata, parte
dell’energia cinetica si trasforma nell’energia potenziale
indispensabile per la rottura deilegami preesistenti. L’energia
necessaria affinché venga raggiunto quello stato particolare ad
elevata energia, chiamato stato di transizione, che ospita il
complesso attivato, è l’energia di attivazione (Ea). Questo stato
può essere raggiunto solo dalle molecole che, prima dell’urto,
posseggono un’energia cinetica maggiore dell’energia di
attivazione.
Una volta formatosi il complesso attivato, il sistema può evolvere
verso la formazione dei prodotti o ritornare verso la formazione
dei reagenti. L’energia di attivazione rappresenta, dunque, una barriera energetica che bisogna superare se vogliamo che
la reazione proceda verso la formazione dei prodotti.
I catalizzatori
Possono presentarsi dei casi in cui l’energia di attivazione risulta molto elevata. Per abbassarne il valore, nell’ambiente di
reazione vengono aggiunte altre sostanze: i catalizzatori . Questi non sono considerati reagenti ma molecole che
favoriscono la rottura dei legami nei reagenti e la formazione dei legami nei prodotti restando inalterati alla fine della reazione.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
3. L’energia nelle reazioni chimiche
Nelle generiche reazioni proposte il contenuto energetico dei reagenti è maggiore rispetto a quello
dei prodotti ma, chiaramente, potrebbe anche essere il contrario; tutto dipende dalle energie di
legame tra gli atomi nei reagenti e nei prodotti.
La regola generale è che sostanze che hanno energia maggiore rispetto ad altre saranno meno
stabili poiché nelle prime i legami tra gli atomi sono più deboli rispetto alle seconde. Per come è
stato rappresentato il cammino della nostra generica reazione si passa da reagenti aventi una
loro propria stabilità a prodotti con una stabilità maggiore.
In pratica si possono prospettare due casi riportati. Il primo (Fig.1) si riferisce ad una reazione in
cui, essendo l’energia dei prodotti inferiore rispetto a quella dei reagenti, la reazione avviene con
sviluppo di energia sotto forma di calore (reazione esotermica). Il secondo (Fig.2) si riferisce ad
una reazione in cui l’energia dei prodotti è maggiore rispetto a quella dei reagenti e quindi avviene
con assorbimento di calore (reazione endotermica).
La maggior parte delle reazioni avviene a pressione costante (pratica normalmente seguita in
laboratorio) e il calore scambiato (assorbito o ceduto) prende il nome di entalpia (H). L’entalpia è
una funzione di stato e per una data reazione chimica ne possiamo calcolare la variazione:
ΔH = Hprodotti - Hreagenti = calore scambiato
Si definisce funzione di stato una grandezza i cui valori dipendono solo dallo stato
iniziale e finale del sistema e non dal percorso che il sistema stesso compie dall inizio
alla fine della trasformazione.
Esempio di reazione esotermica è il seguente:
Cioè quando 1 mole di propano ( C3H8 )
reagisce con 5 moli di O2 si formano 3 moli di CO2 , 4 moli di H2O e viene ceduto dal sistema all’ambiente 2044 kJ di
energia termica.
Osservazione: 2044 kJ è il calore svolto quando reagisce 1 mol di propano, se reagiscono 0,5 moli di propano si libererà
una quantità di calore pari a: 0.5 mol x 2044 kJ mol =1022 kJ
Esempio di reazione endotermica è il seguente:
Se una mole di C reagisce con 1 mole di H2O (g) si forma 1 mole di CO(g), 1 mole di H2 (g) e 131 kJ di energia termica viene
trasferita dall’ambiente al sistema.
Se di una reazione chimica conosciamo anche il valore dell entalpia la reazione è chiamata equazione
termochimica.
ENTALPIA STANDARD
La variazione di entalpia di una reazione dipende dalla temperatura, dalla pressione e dallo stato fisico dei reagenti e dei
prodotti, quindi per poter confrontare le variazioni di entalpia di reazioni diverse bisogna farle avvenire nelle stesse condizioni.
Si definisce stato standard di un sistema lo stato in cui la temperatura è di 25°C, la pressione di 1 atm e, per reagenti in
soluzione la concentrazione è 1 M. In queste condizioni la variazione di entalpia ΔH prende il nome di entalpia standard
di reazione e si indica con ΔH°. Questa si può calcolare conoscendo l’entalpia standard di formazione (ΔH°f) dei reagenti
e dei prodotti.
Il ΔH°f di un composto è la variazione di entalpia della reazione di formazione di una mole di composto nel suo stato standard
a partire dai suoi elementi ciascuno nel proprio stato standard (per convenzione il valore di entalpia di tutti gli elementi nello
stato standard è uguale a zero).
Il ΔH°f della maggior parte dei composti chimici è un valore ottenuto sperimentalmente e tabulato; l’unità di misura è il
kJ/mol.
La variazione di entalpia calcolata nelle reazioni degli esempi precedenti non è altro che ΔH°; per capire meglio come viene
calcolato e comprendere il suo significato seguiamo nel dettaglio il calcolo di uno di essi:
dalle tabelle cerchiamo i valori di ΔH°f (entalpia standard di formazione) dei componenti la reazione:
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ENTROPIA
Una trasformazione chimica è spontanea se avviene senza alcun intervento dall’esterno e se è spontanea in un verso non
lo sarà nel verso opposto.
Una reazione esotermica, allora, può essere considerata spontanea?
No, un ΔH < 0 non basta per individuare il verso spontaneo di una reazione. Ci sono reazioni che pur avendo un ΔH > 0
sono spontanee. C’è quindi un altro fattore da considerare: l’entropia.
L’entropia è una misura del disordine molecolare. Il secondo principio della termodinamica afferma che l’entropia
dell’Universo è in continuo aumento (per universo si intende l’insieme sistema + ambiente).
L’entropia si indica con la lettera S ed è anch’essa una funzione di stato la cui unità di misura è J/mol °K.
Di una reazione chimica è importante conoscere anche la variazione di entropia ΔS:
ΔS = Sprodotti - Sreagenti
• se Sprodotti > Sreagenti
• se Sprodotti < Sreagenti
ΔS > 0 il grado di disordine aumenta
ΔS < 0 il grado di disordine diminuisce
Un esempio di processo spontaneo endotermico è la fusione del ghiaccio: il ghiaccio per fondere deve assorbire calore
dall’ambiente quindi il ΔH è > 0 (non spontaneo), ma il passaggio dallo stato solido (il ghiaccio) allo stato liquido avviene
con un aumento del disordine quindi ΔS > 0 (spontaneo).
Riassumendo: in una trasformazione potrebbero verificarsi i seguenti casi:
• ΔH < 0 ΔS > 0 processo spontaneo sempre
• ΔH > 0 ΔS < 0 processo non spontaneo sempre
• ΔH < 0 ΔS < 0 la spontaneità o meno del processo dipende da quale fattore prevale
• ΔH > 0 ΔS > 0 la spontaneità o meno del processo dipende da quale fattore prevale
Il problema dei due casi incerti fu risolto dallo scienziato americano Gibbs con l’introduzione di una nuova funzione di stato
che collega entalpia, temperatura ed entropia in un‟unica relazione: l‟energia libera (G):
G=H-TxS
Anche per questa grandezza termodinamica, per una reazione chimica, si valuta la differenza tra i valori dello stato iniziale
e dello stato finale:
ΔG = ΔH - T x ΔS
Cioè la variazione di energia libera di una reazione è uguale alla variazione di entalpia meno il prodotto della temperatura
per la variazione di entropia.
Il valore del ΔG fornisce il criterio di spontaneità e di equilibrio delle reazioni chimiche che avvengono a pressione costante.
ΔG < 0
ΔG > 0
ΔG = 0
reazione spontanea
reazione non spontanea
reazione in condizioni di equilibrio
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MODULO 5
I GAS
• Lo stato gassoso
• Densità dei gas
• Grandezze fisiche
• Esercizi da svolgere
• Le leggi dei gas
1. Lo stato gassoso
Lo stato gassoso rappresenta uno dei tre stati di aggregazione della materia ed è caratterizzato dal fatto che la materia, in
questo stato, non occupa un volume proprio e non ha forma propria. In pratica la forma dipende dal tipo di contenitore che
ospita il gas e il volume che il gas occupa è esattamente il volume del contenitore stesso.
In pratica se si riesce a far passare un gas da un primo contenitore ad un secondo contenitore il gas assumerà la forma del
secondo contenitore e occuperà tutto lo spazio disponibile del secondo contenitore.
Questo perché nello stato gassoso le distanze tra le molecole risultano molto elevate, in quanto le particelle posseggono
energia cinetica sufficiente a vincere le forze di attrazione intermolecolari e quindi sono in grado di separarsi. Il moto caotico
delle particelle allo stato gassoso determina il fenomeno della diffusione, secondo il quale un gas occupa sempre tutto lo
spazio a sua disposizione.
Alcuni elementi della tavola periodica che esistono allo stato naturale come molecole biatomiche, quali H2, N2, O2, F2, Cl2,
oppure gas nobili come He, Ne, Ar, etc., e molti dei loro composti, purché a basso peso molecolare (ad esempio CH4,
CO2, NH2, H2S, HCl, etc.) sono GASSOSI a temperatura ambiente ed alla pressione atmosferica.
Tra i vari stati di aggregazione della materia, quello gassoso è il più semplice, in quanto le sostanze allo stato aeriforme,
sono caratterizzate, indipendentemente dalla loro natura chimica, da una notevole uniformità di comportamento e dal fatto
che le interazione intermolecolari siano relativamente deboli. Tale comportamento può essere descritto, con ottima
approssimazione attraverso una semplice relazione (l’equazione di stato dei gas), che correla le grandezze fisiche che
caratterizzano lo stato del gas e cioè Temperatura, Pressione, Volume e numero di moli.
2. Grandezze fisiche dei gas
Il Volume
Il Volume è definito come la porzione di spazio occupata da un corpo. L’unità di misura del S.I è il m3 ma in chimica, in
special modo quando si parla di fluidi, lo si misura in litri (L).
La Temperatura
La Temperatura è una proprietà associata alle sensazioni di caldo e freddo e determina la direzione del flusso di calore. In
modo rigoroso si può affermare che la temperatura è correlata all'energia cinetica media delle particelle, ma la sua definizione
è di tipo puramente operativo nel senso che per definire e misurare questa proprietà è necessario avere a disposizione un
termometro.
Celsius, sfruttando il principio della dilatazione termica dei liquidi, costruì , in modo convenzionale, un termoscopio costituito
da un tubo di vetro con all’interno del mercurio, assegnando, alla pressione di 1 atm, al ghiaccio fondente la temperatura
di 0 °C e all'acqua bollente la temperatura di 100 °C.
Egli operò rispettando le seguenti fasi:
• immerse il termoscopio in un becker contenente ghiaccio ed assegnò al livello raggiunto dal mercurio la temperatura di 0°;
• successivamente immerse lo stesso termoscopio in acqua portata all’ebollizione ed assegnò al livello raggiunto dal
mercurio la temperatura di 100°;
• divise lo spazio rappresentato dai due livelli in 100 parti uguali e postulò che ogni spazio rappresentava un grado centigrado
(grado Celsius).
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
In questo modo aveva operativamente costruito un termometro, aveva dato una definizione operativa della temperatura e
aveva creato la scala della temperatura in gradi centigradi (o Celsius).
Esistono tuttavia altre scale per la misura della temperatura:
• la scala Kelvin è costruita partendo dal dato sperimentale che la più bassa temperatura Celsius raggiungibile corrisponde
a -273,15°C in quanto a tale temperatura si annulla il volume e quindi il gas non esiste. Tale valore rappresenta lo zero
assoluto delle temperature.
La scala delle temperature assolute si ottiene quindi aggiungendo alla temperatura in gradi Celsius il valore 273,15 °C.
T(K) = t (°C) + 273,15
Così, ad esempio, lo zero della scala Celsius corrisponde a 273,15 K, mentre l'acqua bolle a 373,15 K.
Quella Kelvin è la scala delle temperature assolute (nel S.I. il Kelvin è l‟unità di misura della temperatura).
• la scala Fahreneit nella quale al ghiaccio fondente ad 1 atm. di pressione è assegnata convenzionalmente una
temperatura di 32 °F, mentre all'acqua bollente è assegnata convenzionalmente la temperatura di 212 °F . A differenza
della scala centigrada dunque, dove tale intervallo è diviso in 100 gradi, nella scala Fahreneit è suddiviso in 180 gradi.
Un grado Fahreneit risulta perciò più piccolo di un grado centigrado. La relazione che correla la temperatura in gradi
Fahreneit alla temperatura in gradi centigradi è la seguente:
t(°F) = ( 9/5 t(°C) +32)
La Pressione
La Pressione si definisce come il rapporto tra l‟intensità di una forza che agisce perpendicolarmente su una superficie e la
superficie stessa:
L’unità di misura della pressione nel S.I. è il Pascal (Pa) che è la pressione eserci tata su una superficie di un m2 da una
forza di un Newton.
Esperimento di Torricelli
Evangelista Torricelli valutò la pressione atmosferica attraverso un esperimento. Egli riempì
completamente un tubo di vetro chiuso ad una estremità lungo un metro con del mercurio.
Successivamente capovolse il tubo in una vaschetta contenente sempre mercurio, facendo attenzione
a non far entrare aria nel tubo stesso, e misurò il livello del mercurio. Si accorse che la colonnina di
mercurio si stabilizzò fino all’altezza di 760 mm e giustificò questo fenomeno immaginando che il peso
del mercurio controbilanciasse la pressione che l’aria atmosferica esercitava sul mercurio nella vaschetta.
Volendo valutare la pressione in Pascal lo si può fare applicando la legge di Stevino:
nella quale ρ è il peso specifico del mercurio, g l’accelerazione di gravità e hHg l’altezza del mercurio
nel tubo.
Ma in questo modo venne anche introdotta un‟altra unità di misura molto utilizzata: l’atmosfera (atm).
La pressione atmosferica normale è definita come il peso che la colonna d’aria dell’atmosfera
terrestre esercita a livello del mare a 15 °C, ad una latitudine di 45° e con umidità relativa pari allo 0%.
Sottomultiplo dell‟atmosfera è, naturalmente, il mmHg o torr in onore di Torricelli.
Altre unità di misura della pressione sono:
 Il Bar definito, nel sistema cgs, come la forza esercitata da 106 dine su 1 cm2 (1 dina è la forza che, applicata alla massa
di 1 g produce un'accelerazione di 1 cm/s2).
1bar = 105 Pa = 0.987 atm
Sottomultiplo del Bar e il millibar (mbar):
1 Bar = 1000 mbar
2
2
 Il chilogrammo su cm (kg/cm )
1kg/cm2 = 98066 Pa = 0.968 atm
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
La Mole
Per la definizione e il concetto di mole si rimanda alla trattazione fatta nel testo del primo anno. E’ però importante, per lo
studio dei gas, introdurre il Principio di Avogadro e, attraverso questo, definire il volume molare.
Il Principio di Avogadro: il Volume Molare
Prima di procedere alla formulazione del Principio di Avogadro è necessario definire quelle che, per convenzione, sono le
condizioni normali di un gas. Si dice che un gas è in condizioni normale quando la temperatura alla quale si trova è 0°C
(273.15 K) ed esercita la pressione di una atmosfera.
Agli inizi dell'800, Amedeo Avogadro formulò l'ipotesi che “nelle stesse condizioni di pressione e di temperatura volumi
uguali di gas diversi contengono lo stesso numero di molecole”.
Poiché questa ipotesi non è mai stata finora contraddetta da nessuna osservazione sperimentale, essa è accettata come
un principio. In sostanza, per il principio di Avogadro, il volume occupato da 1 mole di un qualsiasi gas (volume molare, Vm)
deve essere lo stesso a prescindere dalla composizione del gas e ciò si evince analizzando la tabella sottostante.
Volume molare in litri di alcuni gas in condizioni normali:
Idrogeno
22.43
Azoto
22.40
Ossigeno
22.39
Metano
22.38
Ammoniaca
22.14
Monossido di carbonio
22.40
Protossido d’azoto
22.27
Anidride carbonica
22.26
Sperimentalmente si è visto che 1 mole di un gas qualunque in condizioni
normali (0°C e 1 atm) occupa un volume di 22,414 litri, detto appunto
volume molare. Ma se è vero che il principio di Avogadro dice “volumi
uguali di gas diversi misurati nelle stesse condizioni di temperatura e
pressione contengono lo stesso numero di molecole”, sarà altrettanto
vera la riflessione secondo la quale “lo stesso numero di molecole di gas
nelle stesse condizioni di temperatura e pressione occupano lo stesso
volume”.
3. Le leggi dei gas
Le ricerche sperimentali effettuate sullo stato aeriforme (a partire dai lavori di Robert Boyle verso la metà del Seicento)
dimostrarono che se un gas è sufficientemente rarefatto (bassissima pressione) e/o possiede una temperatura elevata
(basso valore delle forze intermolecolari), il suo comportamento fisico risulta indipendente dalla sua natura chimica e il gas
che si trova in queste condizioni viene definito ideale. Le particelle che compongono il gas “ideale” possono quindi essere
considerate come punti materiali le cui interazioni dipendono esclusivamente dal loro numero per unità di volume e dalla
loro energia cinetica media.
Caratterizziamo il gas ideale.
Un gas si dice ideale o perfetto quando:
• ogni massa gassosa è costituita da un numero enorme di particelle indistinguibil i ed identiche per una stessa specie chimica;
• le particelle del gas si considerano sferette rigide indeformabili, di dimensioni tali da essere rappresentate come oggetti
puntiformi, il cui volume è una frazione trascurabile del volume del recipiente che le contiene;
• le particelle si muovono in un moto continuo e caotico, con la conseguenza che tutte le direzioni del moto sono ugualmente
probabili;
• nell'intervallo di temperatura e di pressione in cui vale l'ipotesi di gas perfetti, le forze di interazione tra le molecole si
considerano praticamente nulle, così che il moto delle molecole tra un urto e l'altro è rettilineo ed uniforme;
• gli urti delle particelle contro le pareti del recipiente sono perfettamente elastici, per cui l'energia cinetica si conserva.
E' evidente che un gas perfetto in realtà non esiste e si tratta solo di una utile astrazione al fine di legare le variabili
macroscopiche P,V,T. Ma in opportune condizioni di pressione molto bassa il comportamento di un gas reale si avvicina a
tale modello ideale.
Le leggi sui gas perfetti sono tre. Sono state ottenute mantenendo costante una delle tre variabili (P,V,T) ed osservando
sperimentalmente la relazione esistente nelle variazioni delle due rimanenti.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Legge di Boyle
Nel 1662 Boyle dimostrò che mantenendo costante la temperatura, il volume di una data massa di gas è inversamente
proporzionale alla pressione esercitata su di esso.
Questo vuol dire che in una trasformazione (compressione o espansione),
a temperatura costante, prendendo due stati dello stesso gas, che
chiamiamo 1 e 2, il prodotto tra la pressione per il volume dello stato 1 sarà
esattamente uguale al prodotto tra la pressione e il volume dello stato 2:
P1 x V1 = P2 x V2 = k
ed in definitiva: PV = k
La curva che si ottiene ponendo in ascisse il volume ed in ordinata la
pressione è un ramo di iperbole equilatera detta isoterma. Si evince dai dati
sperimentali che a diverse temperature si ottengono diverse isoterme ed in
particolare aumentando la temperatura l'isoterma si sposta verso l'esterno.
Legge di Charles o 1a legge di Gay-Lussac
Nel 1787 il francese J.A.C. Charles dimostrò che gas diversi mantenuti a pressione costante subiscono la stessa dilatazione
quando vengono portati da 0°C a 100°C.
Nel 1802 Gay-Lussac, riprendendo le esperienze di Charles, formulò una relazione che lega
il Volume alla Temperatura mantenendo la pressione costante Vt=V0(1 +αt)
dove:
α è il coefficiente di espansione e vale 1/273
Vt = Volume alla temperatura di t°C
V0 = Volume alla temperatura di 0°C
In altre parole ogni aumento di 1°C della temperatura produce un aumento del volume pari
ad 1/273 del volume che il gas occupava alla temperatura di 0°C.
Infatti
da cui si osserva che il volume alla temperatura di t°C (Vt) è pari al volume alla temperatura di 0°C (Vo) aumentato di un
valore pari a t/273 del volume V0.
La precedente relazione può essere ulteriormente scritta come:
e ricordando che 273 + t (°C)= T (K)
Poiché infine il volume a pressione costante e alla temperatura di 0°C assume sempre lo stesso valore, il rapporto Vo/273
è una costante.
Se quindi esprimiamo la temperatura in gradi assoluti (Kelvin), la legge di Gay-Lussac afferma che il volume a P costante è
direttamente proporzionale alla temperatura assoluta secondo la seguente relazione:
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Il valore della costante di proporzionalità K dipende ovviamente dalla pressione alla quale si propone l'esperimento e dalla
quantità di gas che si considera.
Se in ascissa poniamo la temperatura in gradi centigradi, la retta incontra l'asse delle ordinate in Vo. e quello delle ascisse
in -273. Se in ascissa poniamo la temperatura assoluta la retta attraversa l'origine. La retta ottenuta è detta isobara.
Naturalmente i valori espressi dalla retta hanno significato solo fino ad una certa temperatura, al di sotto della quale il gas
liquefa e diventa in pratica incomprimibile. Facendo comunque proseguire idealmente la retta (linea tratteggiata) si raggiunge
lo zero assoluto ( -273°C) al di sotto del quale si otterrebbe il risultato assurdo di un volume negativo della materia. Tale
temperatura è stata calcolata in modo preciso ed è risultata essere circa -273,15°C ( temperatura irraggiungibile).
Anche in questo caso, così come per la legge di Boyle, è importante osservare che, in una trasformazione isobara di un
gas, per due stati della trasformazione vale la relazione:
2a legge di Gay-Lussac
Analogamente a quanto avviene nella prima legge di Gay-Lussac, la pressione di un gas a volume
costante è direttamente proporzionale alla temperatura.
Se si utilizza la temperatura espressa in gradi centigradi si ha:
con:
αt = 1/273
Pt = Pressione alla temperatura di t°C
Po = Pressione alla temperatura di 0°C
In altre parole, mantenendo costante il volume, ogni aumento di 1° della temperatura produce un
aumento della pressione pari ad 1/273 della pressione che il gas esercitava alla temperatura di 0°C. Joseph Louis Gay-Lussac
Infatti
dove si osserva che la pressione alla temperatura di t°C (Pt) è pari alla pressione alla temperatura di 0°C (P0) aumentata di
un valore pari a t/273 della pressione Po.
La precedente relazione può essere ulteriormente scritta come:
e ricordando che 273 + t (°C)= T (K)
Poiché infine la pressione a volume costante e alla temperatura di 0°C assume sempre lo stesso valore, il rapporto Po/273
è una costante.
Se quindi esprimiamo la temperatura in gradi assoluti (Kelvin), la legge di Gay-Lussac afferma che la pressione a V costante
è direttamente proporzionale alla temperatura assoluta e può essere rappresentata come una retta passante per l’origine
di equazione:
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Anche qui, come per le leggi di Boyle e di Charles, si può affermare che tra pressione e temperatura per due stati di una
trasformazione a volume costante vale la relazione:
Equazione di stato dei gas ideali
Le tre leggi dei gas prima viste possono essere opportunamente combinate ottenendo una legge più generale detta
equazione di stato dei gas ideali. Supponiamo che una mole di gas si trovi inizialmente alla temperatura di 0°C, eserciti la
pressione P0 e occupi un volume V0. Supponiamo di riscaldare il gas fino alla temperatura t (°C) mantenendo costante la
pressione. Per la legge isobara avremo:
Ora, mantenendo costante la temperatura, facciamo variare la pressione fino a un valore generico P.
Il gas e assumerà un nuovo volume generico V che dovrà soddisfare la legge di Boyle:
ovvero:
da cui:
Introducendo la temperatura assoluta (T = t + 273) si ha:
Se ci riferiamo ad una sola mole di gas, assumendo per la pressione iniziale P0 il valore normale (P0 = 101325 Pa) e per il
volume il valore del volume molare (V0 = 22.414 L/mol), il termine P0 ·V0 /273 assume un valore ben definito che si indica
abitualmente con la lettera R e rappresenta la costante universale dei gas.
Si ha quindi: PV = RT
Per il calcolo di R si sostituiscono i valori numerici di P0 e V0 e si ottiene:
essendo 1Pa = N/m2
Se, invece, come unità di misura della pressione si usa l’atm si ha: PV = nRT
che rappresenta l’equazione di stato dei gas ideali. Essa è valida con buon approssimazione anche per i gas reali alle
condizioni ambientali di temperatura e pressione. In condizioni differenti si ha di una forma modificata di equazione di stato
detta equazione di van der Waals.
Pressioni parziali: Legge di Dalton
Dalton, agli inizi del 19° secolo, osservò che “Quando due o più gas vengono mescolati in
un recipiente, senza che tra essi avvenga alcuna reazione, la pressione totale esercitata
dalla miscela gassosa è uguale alla somma delle pressioni che ciascun componente la
miscela eserciterebbe se occupasse da solo tutto il recipiente (pressione parziale del
componente)”.
Se indichiamo con A e B due distinti gas contenuti nel medesimo volume V possiamo
osservare che: P = PA + PB
dove
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sono le pressioni parziali che ciascun gas eserciterebbe,
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se occupasse da solo il medesimo volume V. Ne risulta che:
in cui nA e nB indicano rispettivamente il numero di moli del gas A e del gas B per cui in generale:
La pressione parziale del generico componente iesimo sarà pari a:
Ciascun componente gassoso si comporta dunque come fosse da solo e contribuisce alla pressione totale in proporzione
al suo numero di moli.
Se in un recipiente vi sono n1 moli del gas 1, n2 moli del gas 2,.....nn moli del gas n, l'effetto complessivo sarà equivalente
alla presenza di n1+ n2 +......+ nn = n moli di un unico gas nel recipiente.
da cui:
Dividendo membro a membro l'equazione di stato di ciascun componente per l'equazione di stato della miscela si ottiene:
dalla quale, ricordando che la frazione molare di un componente all’interno di un miscuglio è:
si ricava la seguente relazione alternativa per la legge di Dalton, valida per il generico componente iesimo:
La legge di Dalton, quindi, può anche essere espressa nel seguente modo: "la pressione parziale di un componente
gassoso è pari al prodotto tra la sua frazione molare e la pressione totale della miscela".
Legge di Amagat
La legge di Amagat, riguardante i volumi dei singoli gas appartenenti alla miscela gassosa, è analoga alla legge di Dalton
sulle pressioni parziali ed è enunciata nel seguente modo: “il volume occupato da una miscela gassosa costituita da n
componenti che, non reagiscono tra loro, è uguale alla somma dei volumi che ciascun gas occuperebbe nelle stesse
condizioni di pressione e temperatura”.
dove
Importante è il calcolo del peso molecolare di una miscela di gas. Questo in pratica è una medi a ponderata dei pesi
molecolari ( PM ) dei singoli gas:
e ricordando la definizione di frazione molare si ha:
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4. Densità dei gas
Anche per i gas, come per i solidi e i liquidi, possiamo definire la densità assoluta come:
ed essendo V, come già visto, una funzione variabile rispetto a T e P anche la densità d sarà una funzione di T e P.
Infatti:
da cui:
La densità di un gas pertanto aumenta al diminuire della temperatura, all’aumentare della Pressione e del PM (Peso
molecolare) del gas. I valori delle densità dei gas sono, ovviamente, molto più bassi rispetto a quelli di liquidi e solidi.
Molto spesso però si parla di densità relativa di un gas rispetto ad un altro.
Supponiamo che sia d1→2 la densità del gas 1 rispetto a quella del gas 2 d2→1 la densità relativa del gas 2 rispetto a quella
del gas 1.
Le densità assolute dei gas 1 e 2 sono:
La densità del gas 1 rispetto a quella del gas 2 è:
Ricavando le masse dei due gas dall’equazione di stato del gas ideale e sostituendole nell’equazione precedente si ha:
da cui, dopo aver fatto le opportune semplificazioni, è evidente che la densità relativa è data dal rapporto tra i pesi molecolari
dei due gas.
ESERCIZI DA SVOLGERE
1) Calcolare il volume che un gas, inizialmente in condizioni normali, occupa quando la sua pressione viene portata a 64000
Pa mantenendo la temperatura costante.
2) Un gas, inizialmente alla pressione di 200000 Pa, viene fatto espandere isotermicamente fino ad occupare un volume
uguale al triplo del volume iniziale. Calcolare la pressione, in pascal e in atmosfere, che il gas esercita dopo l’espansione.
3) In un recipiente del volume di 2 L è stato introdotto idrogeno alla pressione di 5 atm e alla temperatura di 28 °C. Quale
sarà il nuovo valore di pressione (in Pa) se la temperatura viene portata a 430 K?
4) Una certa quantità di ossigeno, posta all’interno di un cilindro munito di pistone viene portata, isobaricamente, da 30 °C
a 768 K. Calcolare quanto è l’aumento del volume rispetto al volume iniziale.
5) Un gas inizialmente alla pressione di 23 atm è portato a volume costante dalla temperatura di 12 °C alla temperatura di
128 °C. Calcolare la pressione finale in Pascal.
6) Calcolare il volume che 100 g di azoto elementare occupano alla pressione di 230000 Pa ed alla temperatura di 28 °C.
7) Quale pressione esercita un gas, inizialmente alla temperatura di 25 °C, alla pressione di 3 atm ed occupante il volume
di 13 L, quando viene fatto espandere fino al volume di 50 L e portato alla temperatura di 100 °C.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
MODULO 6
L’EQUILIBRIO CHIMICO
• Reazioni reversibili e irreversibili
• Costanti di equilibrio e relazioni tra le stesse
• L’equilibrio chimico
• Il principio di Le Chatelier
1. Reazioni reversibili e reazioni irreversibili
Sono irreversibili (o complete) le reazioni in cui tutta la massa dei reagenti scompare per formare prodotti.
Questi casi non rappresentano però la norma, poiché spesso le reazioni si arrestano prima che i reagenti siano del tutto
consumati cioè la trasformazione dei reagenti in prodotti avviene solo parzialmente. In ogni caso il risultato finale di una
reazione non è un prodotto puro ma una miscela di reagenti e prodotti la cui composizione dipende dal tipo di reazione e
dalle condizioni in cui questa si verifica: le definiamo reazioni reversibili.
Sono reversibili ( o incomplete ) le reazioni nelle quali si instaura una condizione di equilibrio tra reagenti e prodotti, le
cui quantità si mantengono costanti nel tempo.
La condizione di equilibrio si instaura perché i prodotti della reazione, mano a mano che si formano, reagiscono a loro volta
per ricostituire i reagenti iniziali.
2. L’equilibrio chimico
Per chiarire cosa accade in un processo reversibile, consideriamo una generica reazione che avviene a temperatura
costante:
→ cC + dD
aA + bB ←
La doppia freccia indica che si tratta di un equilibrio chimico e che la reazione avviene contemporaneamente nelle due
direzioni.
All’inizio della trasformazione avviene esclusivamente la reazione diretta, la cui velocità Vdir, è proporzionale alla
concentrazione dei reagenti ed è molto elevata.
Mentre la reazione procede, le concentrazioni dei reagenti diminuiscono, aumentano le concentrazioni dei prodotti di
reazione ed avviene contemporanemente anche la reazione inversa, la cui velocità Vinv è naturalmente proporzionale alla
concentrazione dei prodotti di reazione.
Pertanto all’inizio della trasformazione, la velocità della reazione diretta è maggiore di quella inversa ( Vdir > Vinv ), in quanto
nell‟ambiente di reazione sono presenti essenzialmente reagenti e pochi prodotti ; nelle fasi iniziali della reazione si verificherà
quindi:
da cui separando le costanti dai termini concentrazione si ha:
Durante una reazione qualsiasi la conoscenza delle concentrazioni molari dei reagenti e dei prodotti ci permette di calcolare
il rapporto
definito quoziente di reazione ed indicato con la lettera Q.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Con il procedere della reazione, da sinistra verso destra, a temperatura costante, le concentrazioni dei reagenti diminuiscono
mentre quelle dei prodotti aumentano.
Il quoziente di reazione, durante la trasformazione chimica, tende quindi ad aumentare sino a quando le due velocità (diretta
ed inversa ) dinentano uguali.
Vdir = Vinv
Quindi possiamo ancora scrivere che:
da cui si ricava il quoziente di reazione definito in questo caso Costante di Equilibrio
Una possibile descrizione grafica (velocità di reazione/coordinata di reazione) è rappresentata nella figura sottostante.
Il punto in cui le due velocità (diretta e inversa) si uguagliano determina la condizione di equilibrio.
La reazione sembra ferma ma, in realtà, essa continua senza che vi sia una variazione nelle concentrazioni raggiunte,
pertanto l’equilibrio così definito è detto dinamico, cioè particelle di reagenti si trasformano in prodotti e
contemporaneamente particelle di prodotti si trasformano in reagenti.
Il valore della Costante di Equilibrio è caratteristico per ogni reazione e varia solo in funzione della temperatura, mentre
è indipendente da ogni altra condizione (pressione, concentrazione, catalizzatori etc).
Tale relazione è fondamentale nella descrizione degli equilibri chimici ed è nota come legge di azione di massa o legge
di Guldberg-Waage che afferma:
“in una reazione chimica che ha raggiunto l'equilibrio, il rapporto tra il prodotto delle concentrazioni dei prodotti e quello
dei reagenti, ciascuna elevata al proprio coefficiente stechiometrico è una costante.”
3. Costanti di equilibrio e relazioni tra le stesse
Riprendiamo la reazione generale vista precedentemente
→ cC + dD
aA + bB ←
se essa avviene tra sostanze gassose è utile esprimere la costante di equilibrio come rapporto tra le pressioni parziali
(pressioni che avrebbero ciascun componente se da soli occupassero l’intero recipiente di reazione)
La costante che si ottiene in questo caso è detta kp.
tenendo conto che la pressione parziale del reagente A vale
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e che la stessa relazione vale anche per tutte le altre specie chimiche gassose, possiamo esprimere la kp in funzione delle
molarità dei singoli reagenti
Dove Δn rappresenta la differenza tra i coefficienti stechiometrici dei prodotti di reazione e i coefficienti stechiometrici dei
reagenti. Tale relazione ci permette di affermare che, per una medesima reazione, il valore di kc coincide con il valore di kp
solo se reagenti e prodotti sono presenti con lo stesso numero di moli in quanto Δn=0, quindi
È inoltre possibile esprimere la costante di equilibrio in funzione del numero di moli presenti all’equilibrio.
La costante che si ottiene è detta kn.
E’ semplice verificare che tra kc e kn esiste la seguente relazione
Il valore assunto dalla costante di equilibrio (kc, kp o kn) ci informa se la reazione avviene in modo più o meno completo.
Se il valore della costante di equilibrio è elevato (in genere molto maggiore di 1), significa che il numeratore è molto
più grande del denominatore: l'equilibrio viene cioè raggiunto quando le concentrazioni dei prodotti di reazione sono
molto più grandi delle concentrazioni dei reagenti.
In tal caso si dice che l'equilibrio è spostato verso destra (verso i prodotti).
Se il valore della costante di equilibrio è basso (in genere molto minore di 1), significa che il numeratore è molto più
piccolo del denominatore: l'equilibrio viene cioè raggiunto quando le concentrazioni dei reagenti sono molto più grandi
delle concentrazioni dei prodotti di reazione .
In tal caso si dice che l'equilibrio è spostato verso sinistra (verso i reagenti).
Si tenga presente che il valore della costante di equilibrio non fornisce alcuna indicazione sulla velocità della reazione, la
quale dipende essenzialmente dall'energia di attivazione, dalla temperatura e dalle concentrazioni dei reagenti.
I valori delle costanti di equilibrio sono, per le diverse trasformazioni, tabulati. Conoscendo tali valori possiamo ricavare le
concentrazioni delle specie chimiche all'equilibrio.
L’unità di misura delle costanti di equilibrio varia a seconda della stechiometria della reazione ed in genere sarà pari per
la kc a (mol l -1)Δn per la kp a (atm )Δn e per kn a (mol)Δn
4. Il principio di le chatelier
Di particolare interesse pratico nello studio degli equilibri chimici è l'analisi dei fattori che in qualche modo possano influire
sull'equilibrio, spostandolo verso le specie chimiche che si desidera ottenere.
Il principio di Le Chatelier, o principio dell equilibrio mobile, ci offre un criterio generale per prevedere lo spostamento
di un equilibrio in relazione a sollecitazioni esterne.
Il principio afferma che quando l’equilibrio chimico di un sistema è perturbato da fattori esterni esso tende a
mantenere inalterato il suo equilibrio reagendo in modo da controbilanciare, per quanto possibile, l’effetto
dell’azione perturbatrice.
Vi sono in generale tre modi per perturbare un equilibrio chimico:
1) Cambiare le concentrazioni dei reagenti o dei prodotti
2) Modificare la temperatura del sistema
3) Se sono presenti dei gas (reagenti o prodotti), variare la pressione cui sono sottoposti ( ossia variare il volume a
disposizione)
73
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Prima di analizzare le diverse perturbazioni cui può essere sottoposto un equilibrio chimico e gli spostamenti
relativi, prevedibili sulla base del principio di Le Chatelier, ricordiamo che il valore della costante di equilibrio viene
modificato solo da variazioni della temperatura, mentre rimane costante per ogni altra modificazione delle
condizioni sperimentali.
1) Variazione delle concentrazioni delle specie presenti all’equlibrio chimico
Applicando il principio di Le Chatelier possiamo prevedere che in risposta ad una variazione della concentrazione di una
delle specie chimiche che partecipa alla reazione, l'equilibrio si sposta verso destra o sinistra in modo da mantenere sempre
lo stesso valore della Kc.
PERTURBAZIONE
EFFETTO
PERTURBAZIONE
EFFETTO
Aumento di un reagente o
dimunuizione di un prodotto
spostamento a destra
Diminuzione di un reagente
o aumento di un prodotto
spostamento a sinistra
2) Variazione della pressione
Le variazioni della pressione delle specie presenti all’equilibrio chimico, incidono solo sulle reazioni che decorrono in fase
gassosa, in quanto liquidi e solidi sono praticamente incomprimibili.
In base al principio di Le Chatelier possiamo prevedere che una reazione in fase gassosa reagisca ad un aumento di
pressione esterna spostando il suo equilibrio in modo da rendere minimo tale aumento.
PERTURBAZIONE
EFFETTO
PERTURBAZIONE
EFFETTO
PERTURBAZIONE
EFFETTO
PERTURBAZIONE
EFFETTO
Moli reagenti > moli prodotti
Aumento di P
Diminuzione di P
spostamento a destra
spostamento a sinistra
Moli reagenti < moli prodotti
Aumento di P
Diminuzione di P
spostamento a sinistra
spostamento a destra
Moli reagenti = moli prodotti
Aumento o diminuzione di P
Nessuno
Reattivi e prodotti tutti solidi,liquidi o in soluzione
Aumento o diminuzione di P
Nessuno
3) Variazione della temperatura
In base al principio di Le Chatelier una reazione reagisce ad un aumento di temperatura modificando le condizioni di equilibrio
al fine di rendere minimo l'effetto dell'apporto di calore.
Lo spostamento sarà quindi differente a seconda che la reazione sia esotermica o endotermica.
Per prevedere in modo semplice le variazioni dell'equilibrio è possibile trattare il calore di reazione come un reagente nelle
reazioni endotermiche e come un prodotto di reazione nelle reazioni esotermiche.
reazione endotermica
→C + D
A + B + calore ←
reazione esotermica
→ C1 + D1 + calore
A1 + B1 ←
PERTURBAZIONE
EFFETTO
PERTURBAZIONE
EFFETTO
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Reazione esotermica
Aumento di T
Diminuzione di T
spostamento a sinistra
spostamento a destra
Reazione endotermica
Aumento di T
Diminuzione di T
spostamento a destra
spostamento a sinistra
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
MODULO 7
ACIDI E BASI
• Cosa sono gli acidi e le basi
• Il pH
• Misura del pH
• Teorie acido base
• La forza relativa degli acidi e delle
basi
• Esercizi
• Equilibri acido-base: i sistemi
coniugati
1. Cosa sono gli acidi e le basi?
Acidi e basi sono di grande utilità nella vita di tutti i giorni: termini come pH, neutralità, acidità e basicità, sono entrati a far
patte del linguaggio quotidiano. Se prendiamo in considerazione i prodotti che si utilizzano in casa, scopriamo che gli acidi
sono utilizzati per sciogliere determinate sostanze, depositi di calcare, che si formano intorno ai rubinetti o nel lavello o nei
sanitari in genere.
I preparati commerciali hanno come componenti principali l'acido cloridrico (HCl), l'acido fosforico (H3PO4),
o l'acido acetico (CH3COOH ).
L'acido acetico possiede un odore pungente infatti è il componente acido dell'aceto di vino ed è ciò
che conferisce il sapore aceto ai vini scadenti.
Le Basi trovano il loro maggior impiego come detergenti, da quelli per bucato a quelli per i pavimenti. Spesso, come
sinonimo di basico, si usa il termine alcalino, (dall'arabo al-chaest), che richiama la cenere delle piante, un tempo usata
proprio come detersivo per il bucato, in quanto ricca di carbonato di potassio (K2CO3) !
Anche l'uso del limone come deodorante è un’applicazione delle reazioni acido base: infatti, molte sostanze che sviluppano
cattivi odori (le ammine che si formano dalla degradazione dei cibi) sono sostanze alcaline; il loro odore scompare quando
reagiscono con acidi e si trasformano in Sali.
Anche l’uso del comune bicarbonato ( NaHCO3 ) è un esempio di reazione acido-base.
Le caratteristiche degli acidi e delle basi erano già note nei tempi passati: alcuni prodotti naturali, per esempio alimenti o
detergenti manifestavano caratteristiche acide, evidenziabili mediante prove macroscopiche:
- il sapore aspro (tipo limone)
- la colorazione rossa impartita alle cartine al tornasole
- la reazione spontanea con alcuni metalli, accompagnata dallo sviluppo di idrogeno gassoso
Viceversa alcuni materiali possedevano caratteristiche basiche
- il sapore amarognolo
- la sensazione untuosa al tatto
- la colorazione blu impartita alle cartine al tornasole
2. Teorie acido base
Per spiegare tali comportamenti i chimici hanno cercato di trovare dei modelli per le reazioni
acido/base. Può essere utile riportare in sequenza l'evoluzione del concetto di acido/base
attraverso le teorie proposte da S. Arrhenius nel 1887, da Bronsted e Lowry nel 1923 e da
Lewis nel 1916
TEORIA DI ARRHENIUS
Nel 1887 Arrhenius, (nel 1903, Nobel per la Chimica) definì il concetto di acido e di base, partendo
dal concetto che la materia fosse costituita da ioni che si dissociavano in acqua.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Un acido, secondo Arrhenius è una specie chimica che in acqua si dissocia liberando ioni H+, mentre una base è una
specie chimica che in acqua si dissocia liberando ioni OH-.
In generale, indicando con HA un acido , la sua dissociazione in acqua può essere così schematizzata:
mentre indicando con BOH una base la sua dissociazione in acqua viene così schematizzata:
il simbolo ( aq ) indica che le molecole e gli ioni sono idratati cioè circondati da molecole di acqua.
La teoria si basa sui seguenti punti:
1) ha come riferimento le soluzioni acquose;
2) ipotizza che le sostanze siano costituite da ioni, in particolare lo ione H+ o lo ione OH-, che possono essere “liberati”
grazie alla forza dell‟acqua;
3) considera l'acqua solamente come il solvente che favorisce la “dissociazione ionica” delle sostanze e non partecipa
attivamente alle reazioni.
ESEMPI DI ACIDI:
Le sostanze che hanno nella formula atomi di idrogeno (H), per esempio HCl (Acido cloridrico) HNO3 (Acido nitrico), H2SO4,
(Acido solforico) sono acidi, secondo Arrhenius, in quanto in acqua
liberano ioni H+ secondo le reazioni:
l’acido solforico ha due idrogeni e libera 2 ioni H+
ESEMPI DI BASI
Le sostanze che hanno nella formula gruppi OH(ossidrili), per esempio NaOH (Idrossido di sodio), KOH (Idrossido di potassio)
Ca(OH)2(Idrossido di calcio) NH4OH (Idrossido di ammonio) sono basi, secondo Arrhenius, in quanto in acqua liberano ioni
OH- secondo le reazioni:
l’idrossido di calcio ha due gruppi ossidrile e libera 2 ioni OHLa definizione di Arrhenius è stata rivoluzionaria e ancora oggi spiega bene la reattività degli idrossidi ionici che in acqua si
comportano da basi, ma non spiega il comportamento da base di composti come l’ammoniaca (NH3) e il carbonato di
sodio (Na2CO3 ) in acqua pur non possedendo gruppi OH. Inoltre, in acqua, non è rilevata la presenza di protoni isolati (H+).
A causa di questi limiti la teoria di Arrhenius non può essere di applicazione generale.
TEORIA DI BRÖNSTED-LOWRY
La teoria di Brönsted-Lowry allarga il concetto di acidità e basicità anche a soluzioni non acquose,
non presuppone l’esistenza di ioni OH- nelle basi e spiega il comportamento di acido o di base con il
trasferimento del protone H+ tra una coppia di specie chimiche.
Un acido, secondo Brönsted-Lowry è una specie chimica che è in grado di cedere protoni H+ ad
un’altra specie chimica che si comporta da base.
Si definisce, invece, base una specie chimica che accetta protoni H+ da un’altra specie chimica la quale
si comporta da acido.
REAZIONE DI UN ACIDO, HA, in H2O: HA + H2O → H3O+ + AREAZIONE DI UNA BASE, B, in H2O:
B + H2O → OH- + BH+
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L’acqua è un acido o una base?
Come si osserva dalle reazioni precedenti H2O può comportarsi da base, quando reagisce con gli acidi e da acido quando
reagisce da base: questo comportamento viene detto anfotero.
ESEMPI DI ACIDI
Le specie chimiche che hanno nella formula idrogeni H, per esempio HCl (Acido cloridrico), HNO3 (Acido nitrico), H2SO4,
(Acido solforico) sono acidi quando cedono ioni H+: le reazioni in acqua sono:
HCl + H2O → H3O+ + ClHNO3 + H2O → H3O+ + NO3H2SO4 + H2O → H3O+ + HSO4- l’acido solforico ha due idrogeni e cede 2 ioni H+ in due reazioni consecutive
HSO4 -+ H2O → H3O+ + SO42ESEMPI DI BASI
Le specie chimiche che hanno coppie di elettroni di non legame, per esempio NH3 (Ammoniaca), RNH2 (Ammine primarie)
o gli ioni CO3 2- (ionecarbonato) sono basi in quanto acquistano ioni H+:
Le reazioni in acqua sono:
NH3 + H2O → OH- + NH4+
RNH2 + H2O → OH- + RNH3+
CO32-+ H2O → OH- + HCO3lo ione carbonato ha due coppie di e- di non legame e acquista 2 ioni H+ in due
reazioni consecutive
HCO3-+ H2O → OH- + H2CO2In questi esempi l’acqua partecipa direttamente alla reazione mentre secondo Arrhenius svolge solo il ruolo di solvente.
La teoria di Brönsted-Lowry è successiva a quella di Arrhenius e si basa sulle conoscenze della struttura covalente delle
molecole, pertanto è più coerente con il reale comportamento acido/base delle specie chimiche, per esempio giustifica il
comportamento da base di una sostanza come l’ammoniaca NH3, che non possiede gruppi OH nella molecola.
Anche se la teoria di Arrhenius permette di scrivere la reazione di un idrossido, Me(OH)n dove per Me si intende un generico
elemento metallico, come dissociazione ionica, la teoria di Brönsted- Lowry interpreta comunque il comportamento
acido – base in soluzione acquosa e lo generalizza a tutte le coppie acido – base in grado di scambiarsi protoni.
3. Equilibri acido base: i sistemi coniugati
Riprendiamo alcuni concetti fondamentali e consideriamo un acido o una base come un sistema in equilibrio chimico, la
definizione di acido secondo Brönsted-Lowry sarà utilissima per questa trattazione
L'equazione chimica per l’acido HA diventa:
Si definisce base coniugata di un acido, HA, la specie chimica, A- ottenuta dopo che l'acido ha ceduto il protone, H+.
Il sistema HA/A- si definisce coppia coniugata
HF è un esempio di acido di Bronsted-Lowry che reagisce con acqua secondo la reazione
e forma la base coniugata F-.
Analogamente HNO2 è un acido e reagisce con acqua secondo la reazione
e forma la base coniugata NO2-.
L'equazione chimica per la base B diventa:
77
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Si definisce acido coniugato di una base B, la specie chimica ottenuta dopo che la base haacquistato il protone, H+ e si
indica con BH+ . Il sistema B / BH+ , si definisce coppia coniugata NH3 è un esempio di base di Brönsted-Lowry e reagisce
con acqua secondo la reazione
e forma l‟acido coniugato NH4+
Una reazione generica tra un Acido 1 e una Base 2 si può scrivere come reazione di equilibrio con le coppie coniugate
Acido1/Base 1 e Base 2/Acido 2
Tutte le reazioni precedenti sono state scritte come delle reazioni di equilibrio (doppia freccia).
Questa rappresentazione è più generale rispetto a quella che vede i reagenti trasformarsi completamente in prodotti. Il fatto
che acidi o basi si ionizzino completamente in soluzione acquosa rappresenta il caso di acidi e basi forti (equilibrio spostato
verso destra). Ciò implica che se un acido è completamente ionizzato (acido forte) genera una base coniugata debole e,
viceversa, una base completamente ionizzata (base forte) genera un acido coniugato debole. In tutti gli altri casi le reazioni
sono sempre degli equilibri.
Dalla tabella seguente si può notare che ad un acido forte corrisponde una base coniugata debole e viceversa
acidità
massima
↑
acido A1
base B1
HCIO4
CIO4-
HMnO4
HCIO3
basicità
-
MnO4
minima
↓
-
CIO3
↑
H2SeO4
HSeO4
↓
↑
HI
I-
↓
↑
HBr
Br-
↓
HCI
-
↓
↑
↑
-
CI
2-
↓
HCIO2
-
CIO2
↓
↑
HNO2
-
NO2
↓
↑
HF
F-
↓
↑
CH3COOH
CH3COO-
↑
-
HSO4
SO4
↓
↑
HCIO
CIO
↓
↑
+
NH3
↓
NH4
-
↑
HCO3
CO3
↓
↑
H2O2
HO2-
↓
↑
H2O
OH-
↓
acidità
HS-
S2-
basicità
minima
-
2-
-
OH
O
2-
massima
TEORIA DI LEWIS
In base alla teoria di Lewis "si definisce acido una specie chimica in grado di accettare una coppia di elettroni (LONE
PAIRS) da un'altra e base una specie chimica che cede una coppia di elettroni”.
Questa teoria include composti che non erano considerati acidi o basi né da Arrhenius né da Brönsted e Lowry e vengono
chiamati acidi di Lewis e basi di Lewis.
Sono acidi di Lewis : BF3 , AlCl3 , H+ , Na+ , SO4Sono basi di Lewis : NH3 , OH- , H2O , Cl-.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
acido
+
→
prodotto
-
base
H3O
+
OH
→
2 H2O
BF3
+
NH3
→
H3N → BF3
AICI3
+
CI-
→
AICI4-
+
La teoria di Lewis estende ulteriormente le definizione di acido e base anche a specie chimiche che non scambiano protoni.
ESEMPI DI REAZIONI TRA UN ACIDO E UNA BASE DI LEWIS
 Le specie chimiche che hanno atomi con pochi elettroni di valenza, per esempio AlCl3 (nel cloruro di alluminio l’Al non ha
l’ottetto completo), Cu++ (ione rame con configurazione elettronica esterna incompleta) sono acidi in quanto possono
formare un legame con un donatore di coppie di elettroni (legante)
 Le specie chimiche che hanno atomi con almeno una coppia di elettroni di non legame, per esempio Cl- (Ione cloruro),
NH3 (Ammoniaca), sono basi in quanto possono formare un legame con un accettore di coppie di elettroni.
Riepilogando:
Acido : in soluzione acquosa libera ioni H+
ARRHENIUS
Base : in soluzione acquosa libera ioni OHAcido: in grado di donare ioni H+
BRÖNSTED e LOWRY
Base : in grado di acquistare ioni H+
Acido: in grado di accettare coppie di elettroni
LEWIS
Base : in grado di cedere coppie di elettroni
4. Il pH
Il sistema di riferimento per confrontare il comportamento acido/base delle diverse soluzioni acquose è rappresentato
dall'acqua pura: poiché è una specie anfotera, può comportarsi da acido e cedere uno ione H+ a un'altra molecola di
acqua, che si comporta da base, secondo la reazione
Tale equilibrio viene detto di autoprotolisi dell'acqua e la sua costante di equilibrio è data dalla relazione:
Poiché l’acqua è il solvente, la sua concentrazione praticamente non cambia per effetto della scarsa ionizzazione e coincide
in pratica con il valore che avrebbe se non fosse per niente dissociata.
Dato che a 25°C la massa di 1 L d'acqua è circa 1000 g, si ottiene:
Il valore ottenuto si ingloba nella Kc dando una nuova costante che viene indicata con Kw (dove w sta per water), chiamata
prodotto ionico dell'acqua, quindi:
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da cui
Se si considera la reazione di autoprotolisi dell’acqua pura si evince che per ogni molecola di acqua dissociata si forma
uno ione H3O+ e uno ione OH-.
In condizioni di neutralità si ha che:
Risolvendo l’equazione:
si ottiene:
Pertanto, nell'acqua pura, risulta ionizzata circa una molecola per ogni 500 milioni tale da determinare una conducibilità
bassissima.
Il valore di Kw rimane costante a 1.0.10-14 anche in presenza di altre specie chimiche che possono alterare l'equilibrio di
autoprotolisi dell'acqua.
La scala del pH
I valori delle concentrazioni di [H3O+] e [OH-] sono molto basse, pertanto nel 1909, il chimico danese S. P. L. Sørensen
(1868-1939), al fine di utilizzare numeri più semplici, introdusse un nuovo parametro chiamato pH (pi-acca"potential
hydrogen".) definito come il logaritmo, cambiato di segno della concentrazione degli ioni H3O+ che da allora è diventato la
misura dell’acidità o della basicità di una soluzione:
pH = - log10 [H3O+]
L’operazione può essere eseguita con una semplice calcolatrice, utilizzando la funzione log (il segno negativo prima del
logaritmo rende positivi i valori di pH nel caso, comune, di soluzioni in cui la [ H+ ] <1.0 M.
Poiché dall‟equilibrio di dissociazione per ogni molecola di H2O che si dissocia si forma uno ione H+ ed uno ione OH – ossia
[ H+] = [ OH- ]
quindi
valido per soluzioni neutre.
Quindi in una soluzione neutra quella in cui [H3O+] = [OH-] cioè [H3O+] = 10-7 mol/L
Analogamente al pH si può calcolare il pOH tenendo presente la concentrazione degli ioni OH-
Se viene aggiunto un acido si ha una soluzione acida:
Se viene aggiunta una base si ha una soluzione basica:
Per tutti i valori di pH vale la relazione: pKw = pH + pOH
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Nella tabella che segue sono riportati i valori delle concentrazioni e dei rispettivi pH e pOH
Da notare che il pH è tanto minore quanto maggiore è l'acidità di una soluzione
TABELLA
pH di alcune soluzioni utilizzate nei laboratori
pH di alcune soluzioni (a temperatura ambiente)
Sostanza
Conc.
pH
Sostanza
Conc.
pH
acido acetico
1
2,4
ammonio cloruro
0,1 M
4,6
acido acetico
0,01 N
3,4
calcio idrossìdo
sat
12,5
N
0,1 N
2,9
0,1 M
5,2
fenolo
0,1 M
sat.
10,5
acido citrico
0,1 N
2,2
potassio allume
0,1 M
4,2
acido cloridrico
0,1 N
1,1
potassio cianuro
0,1 M
11,0
0,1 M
8,3
acido acetico
acido borico
acido carbonico
acido cloridrico
acido cloridrico
acido formico
acido fosforico
acido ossalico
sat.
1
N
0,01 N
3,8
0,1
2,0
ammonio solfato
magnesio idrossido
potassio fosfato KH2 PO4
0,1 M
sodio acetato
0,1 M
sodio bisolfato
0,1 M
0,1 N
2,3
sodio bicarbonato
0,1 N
1,6
sodio carbonato
0,1 N
5,5
6,0
4,5
8,9
1,4
0,1 M
11,6
N
0,3
sodio dietilbarbiturato
0,1 M
acido solforico
0,1 N
1,2
sodio fosfato NaH2 PO4
0,1 M
4,5
acido tartarico
0,1 N
sodio fosfato Na3PO4
0,1 N
12,0
sodio idrossido
0,1 N
13,0
9,2
acido solforico
1
1,5
0,1 M
0,01 N
2,1
sodio fosfato Na2HPO4
acido tricloroacetico
0,1 N
1,2
sodio idrossido
ammoniaca
0,1 N
11,2
sodio idrossido
0,01 N
ammoniaca
0,01 N
10,7
sodio tetra borato
0,1 N
acido solforico
ammoniaca
1
N
2,2
11,7
0,1 M
1
N
9,4
9,2
14,0
12,0
[A. Caudiano, C. Gaudiano, // laboratorio di chimica, Masson 1998]
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
5. La forza relativa degli acidi e delle basi
Ora che sappiamo come viene misurata l’acidità (o la basicità) di una soluzione poniamoci il quesito: come si può valutare
la forza di un acido o di una base?
La forza di un acido o una base di Brönsted-Lowry, dipende dalla tendenza a donare protoni o ad accettare protoni: si
definiscono acidi forti (HCl, HBr, HI, HClO4, HNO3, H2SO4, ecc,), quelli che trasferiscono completamente il loro protone
all'acqua; si definiscono acidi deboli quelli per cui la reazione di trasferimento di protone è di equilibrio.
In sintesi
la forza di un acido o di una base, viene espressa dalla costante di equilibrio della reazione di trasferimento del
protone all acqua
COSTANTE DI ACIDITÀ PER ACIDI DEBOLI
Un acido generico HA debole, in acqua si dissocia secondo il seguente equilibrio:
La costante di equilibrio Kc della reazione è data da:
Poiché si può considerare costante la [H2O] perché la quantità di H2O che si dissocia è trascurabile, la inglobiamo nella
costante di equilibrio Kc che chiameremo Ka:
Ka è tanto più grande quanto più grande è il numeratore rispetto al denominatore, quanto più la reazione di dissociazione
è spostata verso destra, quanto più forte è l’acido: Ka è la costante di dissociazione acida.
Nell’espressione di Ka non compare [H2O], che risulta costante in quanto in grande eccesso perché si tratta del solvente.
Ka ha un valore caratteristico per ogni acido e dipende dalla temperatura.
Per una generica base B debole, in acqua si ha il seguente equilibrio :
La costante di equilibrio è:
Anche in questo caso la [ H2O ] la consideriamo costante e la inglobiamo nella Kc che chiameremo Kb:
Kb è tanto più grande quanto più grande è il numeratore rispetto al denominatore,quanto più dissociata è la base, quanto
più l’equilibrio è spostato verso destra.
Kb è la costante di dissociazione basica.
In modo analogo si definisce la costante di ionizzazione (o di dissociazione) di una base, detta costante di basicità la
costante di equilibrio della reazione:
Il valore della Ka e, analogamente della Kb, rappresenta la forza relativa di un acido o di una base, in altre parole, a parità di
concentrazione, la Ka (o la Kb) ci permette di stabilire quale acido o quale base è più forte. Per esempio gli acidi ossigenati
del cloro hanno una diversa forza acida:
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Si può notare che la maggior presenza di atomi elettronegativi (O) aumenta la forza di un acido perché permette alla base
coniugata di distribuire meglio la carica negativa e di essere più stabile.
Alcuni acidi e alcuni basi si considerano completamente dissociati e pertanto non hanno Ka o Kb: vengono detti acidi forti
e basi forti. Gli acidi e le basi che possiedono una K di dissociazione sono definiti deboli.
La forza di un acido o di una base, dipendono pertanto dal solvente con cui scambiano il protone, per cui un acido o base
forte in un solvente generalmente non lo è nella stessa misura in un altro.
6. Misura del ph
Il pH di una soluzione è di fondamentale importanza non solo per la chimica ma anche per la vita quotidiana di ciascuno di
noi: è per questo motivo che sono stati messi a punto metodi sperimentali per misurare in pratica il valore di pH e metodi
numerici per effettuare calcoli teorici.
IN LABORATORIO: le misure di pH si possono realizzare in diversi modi, i più
comuni sono
A) con soluzioni colorate (Indicatori di pH)
B) con cartine imbevute di tali indicatori
Nella figura a destra si osservano le diverse colorazioni che assume la cartina
all’indicatore universale in soluzioni a diverso pH
C) con strumenti che, opportunamente tarati, misurano direttamente il valore
GLI INDICATORI ACIDO BASE
Le sostanze che si utilizzano per misurare il pH si chiamano indicatori
acido-base.
Gli indicatori acido-base sono sostanze organiche che hanno la caratteristica di assumere
colori diversi a seconda del pH.
In figura si osservano le diverse colorazioni che assume il succo di cavolo rosso in
soluzioni a diverso pH.
Tale proprietà è dovuta al fatto che essi possono cedere H+ e trasformarsi in anioni: ad esempio se si rappresenta un
indicatore con la formula generale HInd, possiamo così scrivere il suo equilibrio di ionizzazione
+
HInd + H2O →
← H3O +Ind
colore A
colore B
La caratteristica di queste sostanze è che le due forme (quella molecolare HInd e quella ionica Ind- hanno un diverso colore.
Per esempio, la forma HInd del metilarancio è rossa, mentre lo ione Ind- è giallo.
→ H3O+ + Ind HInd + H2O ←
rossa
gialla
ne deriva che se aumentano gli ioni H3O+ (soluzione acida), la reazione di equilibrio è spostata a sinistra e la forma dominante
sarà quella rossa;
+
HInd + H2O →
← H3O + Ind
gialla
mentre se aumentano gli ioni OH- (soluzione basica), e di conseguenza diminuiscono gli ioni H3O+, la reazione sarà spostata
a destra, con prevalenza della forma gialla.
Il passaggio da un colore all'altro (in cui le due specie si trovano alla medesima concentrazione [HInd] = [Ind- ]) viene detto
viraggio e può essere osservato dall'occhio umano in un certo intervallo di pH, che dipende a sua volta dalla Ka
dell'indicatore. Per il metilarancio si colloca intorno a pH 4.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
In altre parole, facendo cadere alcune gocce di soluzione di metilarancio in una soluzione, poniamo, a pH 2,5 essa apparirà
rossa, mentre se la soluzione si trova a pH 6 sarà gialla.
A tale proposito, va anche citato il cosiddetto indicatore universale: una miscela di indicatori, studiata in modo da assumere
colori diversi in certi intervalli di pH. Impregnando con esso un‟apposita striscia di carta, si ottiene la cartina universale.
Tabella: Intervalli e colori di viraggio di alcuni indicatori
Nella figura seguente si osservano le diverse colorazioni che assume l’indicatore universale in soluzioni a diverso pH
pH-METRO
Lo strumento per misurare direttamente il pH si chiama piaccametro (pHmetro): in figura è riportato un esempio di
potenziometro che funziona anche da pH-metro
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ESERCIZI DA SVOLGERE
1) Scrivi la definizione di acido e di base secondo le tre teorie studiate
2) Riconosci tra le seguenti equazioni quali rappresentano reazioni acido/base
a) HCl + NH3 → NH4Cl + H2O
b) NaCl + AgNO3 → AgCl +NaNO3
c) H2S + KOH → K2S + H2O
d) Li2CO3 + CaCl2 → LiCl + CaCO3
3) Completa le seguenti equazioni
a) HF + H2O → ......... + Fb) NH3 + H2O →OH- + .........
4) Individua nei seguenti equilibri le coppie coniugate acido-base
HF + H2O → F- + H3O+
H3PO4 + H2O → H2PO4- + H2O+
HSO4- + NH3 →NH4 + + SO4 2CO32- + H2O → HCO3- + OHS2- + H3O+ → HS- + H2O
5) Scrivi l'equazione della reazione di equilibrio con acqua per i seguenti acidi
b) H2SO3
d) HClO2
e) HSO4a) H2S
6) Scrivi l'equazione della reazione di equilibrio con acqua per le seguenti basi
b) HCO3c) S2d) CH3COOa) NH3
7) Completa le equazioni seguenti e individua le coppie coniugate
→ + CH3COO... + H2O ←
→ ..... + H2S
.... + H2O ←
→ CO32- + ......
.....+ OH- ←
2→ H2O +....
HPO4 +...←
8) Qual è il riferimento per stabilire la neutralità in soluzione acquosa ?
9) Come può essere valutata la forza di un acido o di una base?
10) Indica se le seguenti soluzioni saranno acide o basiche
a) soluzione in cui [H3O+] = 5.10-3 M
b) soluzione in cui [H3O+] = 15.10-11 M
c) soluzione in cui [OH- ] = 3.10-3 M
d) soluzione in cui [H3O+] = 0,9.10-1 M
e) soluzione in cui [OH- ] = 1,7.10-10 M
12) Scrivi la costante di ionizzazione o costante di acidità per HF
13) Scrivi la costante di ionizzazione o costante di basicità per NH3
14) Scrivi l'equazione della reazione con acqua per i seguenti acidi e individua gli acidi completamente ionizzati
c) HClO
d) HBr
a) HCl
b) HNO3
15) Scrivi l'equazione della reazione con acqua per le seguenti basi e individua le basi completamente ionizzate
c) S2d) Ca(OH)2
a) NaOH
b) CO32-
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
16) Indica quali tra le seguenti basi sarà più forte (a parità di concentrazione)
b) Cl- o Fc) NO3- o NO2a) CH3COO- o CH2ClCOO-
d) SO42- o S2-
e) CN- o S2-
17) Indica quali tra i seguenti acidi sarà più forte (a parità di concentrazione)
b) HCl o CH2ClCOOH
c) H3O+ o HSO4a) CH3COOH o NH3
18) Bilancia le seguenti equazioni acido-base
→ Na3PO4 + H2O
NaOH + H3PO4 ←
→ MgCO3 + H2O
Mg(OH)2 + H2CO3 ←
→
H2S + Al(OH)3 ← Al2S3 + H2O
19) Completa e bilancia le seguenti equazioni
→ Ba(NO3)2 + H2O
Ba(OH)2 + ..... ←
→ Li2SO4 + H2O
H2SO4 + ..... ←
→
..... + H2S ← CuS + H2O
→ CaF2 + H2O
..... + HF ←
Problemi con l’uso di calcoli stechiometrici
→ Na3PO4 + H2O
20) Bilancia la seguente equazione acido-base H3PO4 + NaOH ←
e calcola
a) le mol di acido fosforico che reagiscono con 0,34 litri di sodio idrossido 0,23 M
b) le mol di OH- che rimangono in eccesso se si aggiungono 0,16 l di acido fosforico 0,12 M a 0,34 l di sodio idrossido
0,23 M
c) la concentrazione degli OH- finale
→ K2SO4 + H2O
21) Bilancia la seguente equazione acido-base KOH + H2SO4 ←
e calcola:
a) le mol di idrossido di potassio che reagiscono con 0,15 litri di acido solforico 0,16M
b) la concentrazione degli H3O+ che rimangono in eccesso, quando 0,25 L di idrossido
di potassio 0,18 M vengono aggiunti a 0,15 L di acido solforico 0,16 M
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MODULO 8
ELETTROCHIMICA
• Introduzione
• Il potenziale standard di riduzione (E°)
• La corrosione metallica
• Celle galvaniche o pile
• La forza elettromotrice di una pila
• Trasformazione di energia elettrica
in energia chimica: elettrolisi
• Potere ossidante e potere
riducente
• L’equazione di Nernst
• Esercizi
1. Introduzione
Le reazioni di ossidoriduzione permettono due tipi di trasformazioni energetiche: la trasformazione di energia chimica in
energia elettrica e la trasformazione di energia elettrica in energia chimica.
La branca della Chimica che studia tali trasformazioni è l'elettrochimica.
Il dispositivo fisico in cui avvengono tali trasformazioni è la cella elettrochimica.
Le celle elettrochimiche vengono classificate in:
• celle galvaniche (celle voltaiche) o pile sistemi in cui un processo redox avviene spontaneamente fornendo lavoro
elettrico, la differenza di energia tra reagenti e prodotti viene convertita in energia elettrica
• celle elettrolitiche: sistemi che usano energia elettrica per far avvenire una reazione redox non spontanea, l'energia
elettrica fornita da una sorgente esterna serve per trasformare i reagenti a minor contenuto di energia in prodotti a maggior
contenuto di energia.
2. Celle galvaniche o pile
Il comportamento dei metalli in soluzione acquosa
Per comprendere come si possano utilizzare reazioni redox spontanee per produrre energia elettrica possiamo partire da
alcune osservazioni sperimentali sul comportamento dei metalli in soluzione acquosa.
Esperienza n°1:
Immergiamo una lamina di zinco metallico (Zn) in una soluzione acquosa di tetraossosolfato di rame (II), CuSO4 (il cui colore
blu-azzurro è dovuto ad un complesso degli ioni Cu2+ con l'acqua) ed osserviamo che cosa succede.
Lo zinco si ricopre progressivamente di polvere marrone, mentre la soluzione scolora.
Se si pesa la lamina di zinco dopo aver eliminato lo strato che si è depositato, si osserva che la sua massa è diminuita
rispetto alla massa posseduta prima di essere immersa nella soluzione.
I fenomeni osservati si possono così interpretare:
-Il deposito che si è formato sullo zinco (Zn) è costituito da atomi di rame metallico (Cu) provenienti dalla riduzione degli ioni
Cu2+ presenti in soluzione, infatti contemporaneamente la concentrazione di questi ioni in soluzione diminuisce, come
dimostra la perdita progressiva del colore blu-azzurro della soluzione.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
La semireazione di riduzione è la seguente: Cu2+(aq) +2 e- → Cu(s)
- La perdita di massa da parte della lamina di zinco è causata dall'ossidazione degli atomi di zinco che passano in soluzione
come ioni Zn2+ (questo processo non è visibile, dato che Zn2+ è incolore)e cedono ciascuno due elettroni.
La semireazione di ossidazione è la seguente: Zn(s) → Zn2+(aq) + 2 eLa reazione complessiva deriva dalla somma delle due semireazioni ed è la seguente :
Zn(s) + Cu2+(aq) → Zn2+(aq) + Cu(s)
Il numero di elettroni ceduti dalla specie che si ossida, in questo caso, risulta uguale al numero di elettroni acquistati dalla
specie che si riduce e quindi la reazione finale è già bilanciata.
Esperienza n°2
Un'altra attività sperimentale che permette di osservare il comportamento dei metalli in
soluzione acquosa è quella che coinvolge il rame metallico quando viene immerso in una
soluzione di triossinitrato di argento(AgNO3).
Il rame Cu(s) passa in soluzione ossidandosi come ione Cu2+ ed infatti la soluzione,
inizialmente incolore,si tinge di blu, mentre gli ioni Ag+ presenti nella fase liquida si riducono
ad argento metallico Ag(s) e si depositano sulla lamina di rame.
Le semireazioni sono: Cu(s) → Cu2+(aq)+ 2 e_
2 Ag+(aq) + 2e_ → 2Ag(s)
La reazione globale è: Cu(s) + 2 Ag+(aq) → Cu2+(aq) + 2 Ag+(aq)
In questo caso necessita bilanciare gli elettroni affinché quelli persi e quelli guadagnati si uguaglino.
Esperienza n°3
Anche la reazione che avviene tra una lamina di alluminio (Al) immersa in una soluzione acquosa di tetraossosolfato di rame
(II),CuSO4 è una reazione di ossidoriduzione.
In questo caso l'alluminio Al(s) si consuma perché passa in soluzione come ione Al3+ cedendo 3 elettroni, quindi subisce
un'ossidazione , mentre il rame metallico Cu(s) si forma, depositandosi sulla lamina di alluminio, perché lo ione Cu2+ presente
in soluzione acquista 2 elettroni e quindi si riduce.
Le semireazioni sono: 2Al(s) → 2Al3+(aq) + 3 e_
3 Cu2+(aq) + 2 e _ → 3 Cu(s)
La reazione globale è: 2Al(s) + 3 Cu2+(aq) → 2Al3+(aq) + 3 Cu(s)
Nei tre casi esaminati vi è il trasferimento di elettroni ma il sistema non produce energia elettrica perchè l’agente ossidante
e l’agente riducente sono in contatto fisico nello stesso recipiente.
Le reazioni di ossidoriduzione che abbiamo appena esaminato avvengono spontaneamente,ma non sempre ciò è possibile.
Infatti se immergiamo una lamina di rame in una soluzione di tetraossosolfato di zinco non si nota nessun cambiamento,
ossia il rame Cu non si ossida a ioni Cu2+ e gli ioni Zn2+ non si riducono a zinco metallico Zn, ossia la reazione:
non si verifica
Cu(s) + Zn2+ → Cu2+(aq)+ Zn(s)
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3. Potere ossidante e potere riducente
Nel paragrafo precedente abbiamo visto che cosa succede se mettiamo una lamina di zinco in una soluzione di
tetraossosolfato di rame (II).
Per capire la tendenza degli atomi di zinco ad ossidarsi e degli ioni di rame a ridursi dobbiamo interpretare le reazioni di
ossidoriduzione in termini di equilibrio chimico.
Riscriviamo quindi la reazione globale del processo osservato utilizzando la doppia freccia per indicare l’equilibrio chimico:
Zn(s) + Cu2+(aq)
Zn2+(aq) + Cu(s)
La reazione procede in entrambe le direzioni finché non si raggiunge uno stato di equilibrio e i fenomeni osservati ci inducono
a ritenere che tale equilibrio sia spostato verso destra, ossia che lo
Zinco si ossidi ed il Rame si riduca. L’introduzione della freccia grande evidenzia tale situazione.
Le coppie costituite dalle specie chimiche Zn2+/Zn e Cu2+/Cu, analogamente alle coppie coniugate acido-base, si possono
definire coppie di ossidoriduzione o coppie redox.
In una coppia redox la specie che perde elettroni si ossida (il suo n° di ossidazione diventa più grande in termini algebrici)
ed è un agente riducente o più semplicemente riducente; la specie che acquista elettroni si riduce (il suo n° di ossidazione
diventa più piccolo sempre in termini algebrici) ed è un agente ossidante o più semplicemente ossidante.
Nel caso delle coppie redox Zn2+/Zn e Cu2+/ Cu , la prima agisce da riducente e la seconda da ossidante.
L’intensità o forza del potere ossidante e/o riducente di una coppia redox è un concetto relativo perché dipende dal
sistema chimico preso in considerazione.
Se si mettono a confronto diverse coppie redox, tutte alla medesima concentrazione 1 molare ,si possono ottenere
informazioni sulla forza del loro potere ossidante o riducente. I tre sistemi redox precedentemente esaminati portano alle
seguenti conclusioni:
Poiché le coppie Zn2+/Zn e Al3+/ Al sono entrambe riducenti rispetto alla coppia Cu2+/ Cu, bisogna confrontarle tra loro.
Immergendo una lamina di alluminio in una soluzione di ioni Zn2+ si nota che lo zinco si deposita sull'alluminio
metallico,mentre la massa di quest'ultimo diminuisce.
L'alluminio Al(s) passa quindi in soluzione come Al3+(aq), ossidandosi,
gli ioni Zn2+(aq) invece si riducono a Zn(s) e si depositano sulla lamina
di alluminio.
La reazione che avviene tra le due coppie redox è la seguente:
2Al(s) + 3 Zn2+(aq)
2Al3+(aq) + 3 Zn(s)
In termini di forza ossidante e riducente:
Potere riducente Al3+/ Al > Zn2+/Zn
Potere ossidante Zn2+/Zn > Al3+/ Al
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
I risultati ottenuti possono essere rappresentati mediante la seguente scala:
Potere riducente
Potere ossidante
Al
3+
/ Al
Zn2+ / Zn
Cu2+ / Cu
Ag+ / Ag
Questa scala consente di individuare la coppia redox più o meno riducente rispetto ad un altra, ma non fornisce alcun
valore numerico che ci permetta di quantificare il potere ossidante (o riducente) di ogni coppia redox rispetto ad un'altra.
Per un confronto numerico tra le diverse coppie redox bisogna individuare una proprietà che sia correlata al loro potere
ossidante/ riducente. Tale proprietà, che deve essere misurabile tramite un opportuno dispositivo fisico, corrisponde al
potenziale di elettrodo o potenziale elettrochimico.
Il potenziale elettrochimico di una coppia redox, E , indica la sua tendenza ad ossidarsi (potere riducente) o a
ridursi (potere ossidante).
Il dispositivo che permette di confrontare il potenziale elettrochimico di coppie redox è la pila il cui funzionamento è descritto
nel prossimo paragrafo.
La pila: un modo di confrontare coppie redox trasformando energia chimica in energia elettrica
Nelle reazioni di ossidoriduzione sopra esaminate (metalli e ioni metallici in soluzione) il trasferimento
di elettroni da un reagente all'altro avviene direttamente perché l’agente ossidante e l’agente riducente
sono in contatto fisico nello stesso recipiente; l'energia che accompagna queste reazioni spontanee
si libera sotto forma di calore, come si può facilmente verificare toccando il recipiente o immergendo
un termometro nell'ambiente di reazione. Gli elettroni passano dal riducente all’ossidante, ma tali
passaggi avvengono in maniera caotica nella soluzione e non sono utilizzabili per produrre energia
elettrica, che corrisponde invece ad un movimento ordinato di cariche elettriche.
Il dispositivo che permette di ottenere energia elettrica dalle reazioni redox spontanee è appunto la
Fig. 9 pila (o cella elettrochimica o cella galvanica).
http://it.wikipedia.org/
In una pila si crea energia elettrica tramite la connessione tra due coppie redox a diverso potenziale
wiki/Pila_di_Volta
25.gennaio
elettrochimico.
2011ore20,25
Il primo a costruire un simile dispositivo fu Alessandro Volta (1745 - 1827).
La Pila di Volta originale era costituita da una serie di dischi, uno sopra all'altro, di zinco e di argento (si può usare anche
il rame) separati da carta assorbente o feltro, impregnati di acqua salata o acidulata.
Collegando un filo elettrico ai due poli (uno di zinco ed uno di argento) si produceva corrente.
Aggiungendo altri strati di metallo alla rudimentale pila, il voltaggio aumentava a seconda dei materiali usati.
Per ottenere corrente elettrica è quindi sufficiente separare le due coppie redox facendo avvenire le due semireazioni di
ossidazione e riduzione in due ambienti diversi e costringendo gli elettroni ceduti dalla coppia che si ossida (perde elettroni)
a seguire un percorso obbligato, quale è per esempio un filo metallico esterno, per raggiungere la coppia che si riduce
(acquista elettroni).
Inoltre se nel circuito si introduce un galvanometro è possibile riconoscere il verso, l'intensità della corrente elettrica prodotta,
la coppia ossidante e quella riducente e quantificare mediante un numero il potere ossidante e riducente delle due coppie
in esame (definito dalla loro differenza potenziale elettrochimico o più brevemente d.d.p.).
La Pila Daniell (1790-1845) si può considerare un perfezionamento della pila di Volta e permette di chiarire tutti i processi
implicati nella produzione di energia elettrica mediante una reazione redox spontanea.
In questo tipo di pila abbiamo due scomparti distinti , ciascuno chiamato semicella, ogni semicella consiste di un metallo
immerso parzialmente in una soluzione acquosa di un suo sale. Le due coppie redox sono quindi costituite dal metallo e
dagli ioni metallici presenti in soluzione.
Generalmente si utilizza una lamina di Zn immersa in una soluzione di Zn2+( per esempio una soluzione di teraossosolfato
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
di zinco,ZnSO4) ed una lamina di Cu in una soluzione di Cu2+ (per esempio una soluzione di tetraossosolfato di rame,
CuSO4).
I due metalli sono gli elettrodi della pila.
I due elettrodi sono collegati mediante un circuito elettrico esterno che può comprendere un galvanometro, per misurare la
corrente, o un voltmetro, per misurare il potenziale generato dalla cella (concetto che tratteremo tra breve).
Le due soluzioni sono collegate mediante il ponte salino P, costituito da un tubo a U di vetro o altro materiale
isolante,contenente un gel mescolato con una soluzione acquosa concentrata di elettrolita (KCl, NH4Cl, Na2SO4).
Durante il suo funzionamento si osservano i seguenti
fenomeni:
a) l'elettrodo di zinco Zn si consuma progressivamente;
b) l'elettrodo di rame Cu aumenta il suo spessore poiché
si ricopre di uno strato spugnoso, rosso-marrone, di
rame metallico.
La soluzione di tetraossosolfato di rame(II) (CuSO4)
inizialmente azzurra, si decolora progressivamente.
Lo strumento presente nel circuito esterno, indica il passaggio di elettroni dall'elettrodo di zinco a quello di rame.
Cerchiamo di dare una spiegazione a quanto è accaduto:
• L'elettrodo di zinco Zn si consuma perchè passa in soluzione come ione Zn2+ e quindi si ossida.
La semireazione di ossidazione è la seguente:
Zn(s)
Zn2+(aq) + 2 e -
il cui equilibrio è decisamente spostato destra.
Come conseguenza gli elettroni liberati si accumulano sull'elettrodo di zinco, che quindi diventa il polo negativo della pila
o anodo. Nella soluzione invece aumentano le cariche positive dovute agli ioni Zn2+(aq) che si sono formati a seguito
dell'ossidazione.
• L'elettrodo di rame Cu aumenta le sue dimensioni perchè su di esso si deposita il rame metallico proveniente dagli ioni
Cu 2+(aq) presenti in soluzione.
La semireazione di riduzione pertanto è la seguente:
Cu(s)
Cu2+(aq) +2 e Anche questo equilibrio è decisamente spostato destra.
Come conseguenza l'elettrodo di rame, che cede elettroni alla soluzione, diventa il polo positivo della pila o catodo.
• Nella soluzione invece diminuiscono le cariche positive degli ioni Cu2+(aq) a causa della riduzione, a rame metallico, e quindi
la colorazione azzurra si attenua.
• Gli elettroni prodotti sull'elettrodo di zinco si spostano tramite il circuito esterno sulla lamina di rame e qui riducono gli ioni
Cu2+. Questo flusso ordinato di elettroni determina la corrente elettrica rilevata da un galvanometro.
La reazione redox complessiva è quindi:
Cu(s) + Zn2+(aq)
Zn(s) + Cu2+(aq)
Anche se nella pila gli elettroni si spostano dal polo negativo al polo positivo, il verso segnato da un galvanometro segnala
una corrente dal polo positivo, catodo, a quello negativo anodo. La spiegazione di questa apparente contraddizione è
di tipo storico.
Nell'Ottocento si attribuiva alla corrente elettrica segno positivo perchè si pensava che fosse dovuta a cariche positive
non ben identificate e queste cariche, anche se immaginarie, si spostano in senso opposto agli elettroni. Tale convenzione
è attualmente ancora in vigore per cui ne segue che il verso della corrente elettrica è opposto al verso degli elettroni.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
La funzione del ponte salino
Durante le reazioni redox si crea, nelle due soluzioni, uno squilibrio di
carica:nella semicella dell'anodo si determina un aumento di cariche
positive dovute agli ioni Zn2+ (aq) che passano in soluzione, mentre nella
semicella del catodo gli ioni Cu2+ (aq) diminuiscono e quindi si determina
un eccesso di cariche negative. La differenza di carica che si viene a
creare tra gli elettrodi e le soluzioni in cui sono immersi determinerebbe
un immediato arresto delle reazioni redox e quindi la pila non
funzionerebbe più.
Il ponte salino ha la funzione di impedire che ciò avvenga.
Il ponte salino, pur non partecipando alle reazioni che avvengono agli elettrodi, permette il contatto elettrico tra le due
soluzioni e quindi di chiudere il circuito.
Tramite il ponte salino si attua, per diffusione, il passaggio di ioni negativi, verso il recipiente contenente zinco e di ioni positivi
verso il recipiente contenente rame in maniera tale da mantenere la neutralità elettrica delle due soluzioni.
Quando i reagenti Zn e Cu2+ (aq) si sono in gran parte consumati e le reazioni redox hanno raggiunto l'equilibrio, la pila non
funziona più: è quindi scarica.
La rappresentazione convenzionale di una pila
Possiamo ora riassumere le caratteristiche principali di una pila:
Anodo
ossidazione
• all'anodo o polo negativo
avviene l'ossidazione
Catodo
riduzione
• al catodo o polo positivo
avviene la riduzione
La reazione globale è la seguente:
Zn2+(aq) + Cu(s)
Zn(s) + Cu2+ (aq)
• Nelle due soluzioni l’elettroneutralità è assicurata dall’elettrolita presente nel ponte salino
La rappresentazione schematica di una pila segue la seguente convenzione:
• a sinistra si pone l’elettrodo negativo (ANODO) rappresentandolo con un (-) e la coppia redox che si ossida, indicando
prima la forma ridotta e poi quella ossidata, separate da una barra: red / ox come Zn / Zn2+.
• a destra si pone l’elettrodo positivo (CATODO) rappresentandolo con un (+) e la coppia redox che si riduce, indicando
prima la forma ossidata e poi quella ridotta, separate da una barra. ox / red come Cu2+ / Cu.
• Per simboleggiare il ponte salino si usa una doppia barra //.
Nel caso della pila di Daniell lo schema è il seguente :
Catodo
Anodo
Zn (s) / Zn2+ (aq) // Cu2+ (aq) / Cu(s)
La pila di Daniell risulta ingombrante e scomoda per il trasporto, attualmente si usano le pile a secco di cui parleremo nella
scheda di approfondimento.
4. Il potenziale standard di riduzione (e°)
Come abbiamo visto la pila permette di confrontare i potenziali elettrochimici di coppie redox e fornisce informazioni
qualitative sul loro potere ossidante/ riducente.
Poiché è impossibile determinare il potenziale assoluto di una coppia redox, che d'ora in poi chiameremo elettrodo, si
determina, invece, sperimentalmente la differenza di potenziale (d.d.p.) tra elettrodi. A tal fine si è scelto un elettrodo di
riferimento al quale è stato assegnato un potenziale convenzionale uguale a zero in determinate condizioni. Il potenziale
degli altri elettrodi è misurato, sperimentalmente, relativamente all’elettrodo di riferimento nelle stesse condizioni.
L'elettrodo di riferimento è l’elettrodo standard a idrogeno costituito dalla coppia di ossidoriduzione H+/H2 dove le due
specie sono in equilibrio secondo la seguente reazione:
H2(g)
2 H+(aq) + 2 e-
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Tale elettrodo è costituito da una lamina di platino (Pt) immersa in una soluzione acquosa
acida (H3O +) nella quale viene fatto gorgogliare idrogeno gassoso puro (H2), in modo da
permettere il contatto tra le due forme, ossidata e ridotta, della coppia di riferimento.
Le condizioni definite standard del dispositivo sono rappresentate dalla concentrazione
1 M degli ioni H3O +, dalla pressione di 1 atmosfera per l’idrogeno gassoso (H2) e dalla
temperatura che è mantenuta costante e uguale a 25°C (298 K).
Inoltre il valore del potenziale è convenzionalmente sempre uguale a zero per qualsiasi valore
di temperatura (E° = 0.000 volt).
Scelto l'elettrodo di riferimento e accoppiando questo con altri elettrodi si costruisce, di
fatto, una pila e sperimentalmente, attraverso la misura di una differenza di potenziale
(ddp), una scala relativa dei potenziali standard o serie elettrochimica dei potenziali standard di riduzione (tab.1).
Nella serie elettrochimica dei potenziali standard di riduzione maggiore è il valore del potenziale di un elettrodo maggiore
sarà la sua capacità di ossidare le specie con potenziale minore.
Analogamente minore sarà il valore del potenziale di un elettrodo maggiore sarà la sua capacità nel ridurre specie con
potenziale maggiore.
Ciò determina la spontaneità delle reazioni di ossidoriduzione.
TABELLA DEI POTENZIALI STANDARD DI RIDUZIONE A 25° C
Semireazione di riduzione
Pot. std
Semireazione di riduzione
Pot. std
(E°)
-
F2 (g) + 2e- = 2F
H2O2 + 2H+ + 2e- = 2H2O
+
-
-
2+
MnO4 + 8H + 5e = Mn + 4H2O
+
-
2+
(E°)
4+
-
2+
+ 2,87 V
Sn + 2e = Sn
+ 1,77 V
S (s) + 2H+ + 2e- = H2S (g)
+ 1,51 V
+ 0,15 V
-
-
-
NO3 + H2O + 2e = NO2 + 2OH
+
-
+ 0,14 V
-
+ 0,01 V
PbO2 + 4H + 2e = Pb + 2H2O
+ 1,44 V
2H + 2e = H2 (g)
0,00 V
Au3+ + 3e- = Au (s)
+ 1,50 V
Pb2+ + 2e- = Pb (s)
- 0,13 V
-
Cl2 (g) + 2e = 2Cl
2-
-
+ 1,36 V
+
-
3+
+
-
2+
Cr2O7 + 14H + 6e = 2Cr
+ 7H2O
+ 1,33 V
2+
-
- 0,14 V
2+
-
- 0,25V
2+
-
Sn + 2e = Sn (s)
Ni + 2e = Ni (s)
MnO2 (s) + 4H + 2e = Mn + 2H2O
+ 1,23 V
Co + 2e = Co (s)
- 0,28 V
O2 (g) + 4H+ + 4e- = 2H2O
+ 1,23 V
PbSO42- + 2e- = Pb (s)+ SO42-
-0,35 V
-
-
+ 1,07 V
Cd + 2e = Cd (s)
- 0,40 V
NO3-+ 4H+ + 3e- = NO (g) + 2H2O
+ 0,96 V
*2H2O + 2e - = H2 (g) + 2OH-
-0,42 V
Br2 (l) + 2e = 2Br
-
*O2 (g) + 2H2O + 4e = 4OH
-
2NO3- + 4H+ + 2e- = N2O4 (g) + 2H2O
+
-
2+
2+
-
-
+ 0,81 V
Fe
+ 2e = Fe (s)
- 0,44 V
+ 0,80 V
Cr3+ + 3e- = Cr(s)
-0,41 V
2+
Ag + e = Ag (s)
+ 0,80 V
Zn + 2e- = Zn (s)
- 0,76 V
Hg22++ 2e- = 2Hg (l)
+ 0,79 V
**2H2O + 2e - = H2 (g) + 2OH-
- 0,83 V
Fe
3+
+ e- = Fe
2+
+
+ 0,77 V
-
2+
-
Mn + 2e = Mn (s)
3+
-
(s)
O2 (g) + 2H + 2e = H2O2
+ 0,68 V
Al + 3e = Al
I2 + 2e- = 2I-
+ 0,54 V
Mg2+ + 2e- = Mg (s)
+
-
+
-
- 1,18 V
- 1,66 V
- 2,37 V
Cu + e = Cu (s)
+ 0,52 V
Na + e = Na (s)
- 2,71 V
Cu2+ + 2e- = Cu (s)
+ 0,34 V
Ca2+ + 2e- = Ca (s)
- 2,87 V
2-
+
+
-
SO4 +4H = SO2 +2H2O
+ 0,20 V
K + e = K (s)
- 2,93 V
Cu2+ + e- = Cu+
+ 0,15 V
Li+ + e- = Li (s)
- 3,04 V
* ambiente neutro
** ambiente basico
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Esempio 1
Nella pila di Daniell, abbiamo visto che avviene spontaneamente la seguente reazione redox:
Zn(s) + Cu2+(aq) → Cu(s) + Zn2+(aq)
Questo risultato sperimentale è confermato dalla posizione reciproca occupata dalle due coppie redox nella serie
elettrochimica dei potenziali standard di riduzione ( tab.1):
la coppia Cu2+/ Cu ha un potenziale standard di riduzione maggiore rispetto alla coppia Zn2+/Zn, quindi il rame, riducendosi,
induce l’ossidazione dello zinco. Alternativamente si può dire che lo zinco, ossidandosi, induce la riduzione del rame.
Esercizio svolto n.1
In una pila avvengono le seguenti semireazioni:
Sn
Sn2+ + 2eAu3+ +3 eAu
Individua quale è l‟anodo e quale il catodo e schematizza la pila.
Soluzione:
Lo Stagno, avendo potenziale inferiore, si ossida e quindi funziona da anodo (elettrodo negativo)
L’oro, con potenziale maggiore, si riduce fungendo da catodo (elettrodo positivo)
anodo (-) Sn / Sn2+ // Au3+/Au (+) catodo
Esercizio svolto n.2
Individua le semireazioni che avvengono nella seguente pila:
(-) Ni / Ni2+ // Cu2+/Cu (+)
Soluzione:
All’anodo avviene l’ossidazione di una delle due coppie redox, in questo caso Ni / Ni2+
La semireazione di ossidazione è la seguente:
Ni
Ni2+ + 2eAl catodo avviene la riduzione dell‟altra coppia redox, Cu2+/Cu
La semireazione di riduzione è la seguente:
Cu
Cu2+ +2 e-
5. La forza elettromotrice di una pila
Esiste una grandezza fisica che indica la forza con cui gli elettroni vengono spinti a muoversi nel circuito elettrico
rappresentato da una pila, tale grandezza è definita forza elettromotrice della pila e si indica con l’abbreviazione f.e.m. La
forza elettromotrice ha la stessa intensità della differenza di potenziale (d.d.p.) esistente tra i due elettrodi, quando il circuito
è aperto e non circola corrente.
Essa misura la massima differenza di potenziale e quindi il massimo lavoro elettrico che la pila può compiere.
In condizioni standard si ha:
f.e.m.= ΔE° = E°catodo - E°anodo
quindi la forza elettromotrice si ottiene sottraendo algebricamente i due valori ricavati dalla tabella dei potenziali standard
di riduzione.
Ad esempio nella pila di Daniell:
Zn/ Zn2+ || Cu2+/ Cu
si ottiene:
f.e.m. = ΔE° = E°catodo - E°anodo = +0.34 – (–0.76) = +1.1
Esercizio svolto n.2
In una pila gli elettrodi sono costituiti da un elettrodo di nichel immerso in una soluzione 1 M di ioni Ni2+ e da un elettrodo di
argento immerso in una soluzione 1 M di ioni Ag+
a. Individua anodo e catodo utilizzando la tabella dei potenziali standard
b. Scrivi le due semireazioni che avvengono agli elettrodi
c. Scrivi lo schema convenzionale per rappresentarla
d. Determina la f.e.m. della pila
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Soluzione
a. In base alla tabella dei potenziali standard E°Ni = 0,25 V e E°Ag = +0,80 V quindi l’argento ha maggiore potenziale di
riduzione, funge da catodo (+) e all’elettrodo avviene la riduzione, mentre il nichel ha potenziale minore e all’elettrodo avviene
l’ossidazione, funzionando da anodo (-).
b. Le due semireazioni (già bilanciate) sono le seguenti:
anodo → ossidazione Ni → Ni 2+ + 2ecatodog → riduzione 2Ag+ +2 e- → 2Ag
c. (-) Ni / Ni2+ || Ag+ / Ag (+)
d. f.e.m. =ΔE° = E°catodo - E°anodo = 0,80 – 0,25 = 0,55 V.
6. La f.e.m di una pila in condizioni diverse da quelle standard: L’EQUAZIONE DI NERNST
Quando una o entrambe le semicelle di una pila non sono in condizioni standard non è possibile utilizzare i potenziali
standard di riduzione per individuare il catodo e l'anodo e, conseguentemente, è impossibile calcolare la f.e.m. della pila.
Infatti è dimostrato sperimentalmente che il valore della differenza di potenziale di una pila varia con la concentrazione
degli ioni in soluzione e con la temperatura.
L'equazione di Nernst (1889) consente il calcolo del potenziale di riduzione in condizioni diverse da quelle standard.
Per la generica reazione di riduzione: a Ox + neb Red
il potenziale di elettrodo si ricava con l’equazione di Nernst
dove:
R = 8,314 J/(mol K)
T=K
n = elettroni
F = 96500 coulomb /mol
[ Ox ]a= moli/L
[Red ]b= moli/L
• costante universale dei gas
• temperatura espressa in gradi assoluti
• numero di elettroni coinvolti nella semireazione
• costante di Faraday, corrisponde alla carica,in Coulomb, posseduta da una mole di elettroni.
1 F = (6.022•1023)(e-/mol)x (1.602•10-19)(C/e-)= 96485
C/mol ≈ 96500 coulomb /mol
• concentrazione molare (o pressione parziale nel caso di gas) della forma ossidata e ridotta
della coppia redox in gioco, ciascuna elevata al coefficiente stechiometrico che compare nella
semireazione di riduzione considerata.
Alla temperatura di 25°C il rapporto RT/F è una costante e trasformando il logaritmo neperiano in un logaritmo in base 10
(coefficiente di conversione 2,3) , tramite i seguenti calcoli:
(8.31 x 298 x 2.3)/96500 = 0.0592
si ottiene:
Esercizio svolto n.4
Calcola il potenziale della coppia Zn2+/Zn a 25°C di una semicella formata da una lamina di zinco immersa in una soluzione
2.5· 10-2 M di Zn2+ sapendo che E°= - 0.76V.
Soluzione:
Applico l’equazione di Nernst:
Esercizio svolto n.5
Calcola il potenziale di una semicella costituita da una sbarretta di Zn immersa in una soluzione contenente ioni Zn2+ in
concentrazione 1,80 M e il potenziale di una semicella costituita da una sbarretta di Cu immersa in una soluzione 0,20 M
in ioni Cu2+. Calcola la forza elettromotrice della cella che si ottiene abbinando queste due semicelle.
Soluzione:
I potenziali standard di riduzione per le reazioni considerate sono:
Zn2+ + 2e- → Zn (s) E° = - 0,76 V
Cu2+ + 2e- → Cu (s) E° = 0,34 V
Applichiamo alla semireazione Zn2+ + 2e- → Zn(s) l'equazione di Nernst:
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Considerando la concentrazione dei solidi unitaria e sostituendo i valori noti si ottiene:
Analogamente, per l’altra semireazione si ottiene:
f.e.m.=Ecatodo - Eanodo= 0,32 V + 0,75 V = 1,07 V
7. LA CORROSIONE METALLICA
Fig. 14
Con il termine corrosione si intende il graduale ed irreversibile deterioramento dei
materiali,soprattutto metallici; in seguito a reazioni spontanee più o meno
complesse si formano composti la cui resistenza chimica e meccanica è molto
inferiore a quella del metallo. Si producono gravi alterazioni a carico dei manufatti
(es, strutture in ferro e acciaio di ponti, ferrovie, macchine, condutture, tralicci).
La corrosione metallica è determinata dal fatto che tutti i metalli, con poche eccezioni quale oro e platino tendono a ossidarsi
facilmente (basta guardare la scala dei potenziali standard di riduzione) trasformandosi nei corrispondenti ossidi o idrossidi
o formando vari sali minerali.
Il fenomeno della corrosione è un processo spontaneo estremamente complesso che dipende da molteplici fattori.
Si possono distinguere tre processi di corrosione:
- corrosione chimica o in ambiente secco
- corrosione elettrochimica o in ambiente umido
- corrosione elettrolitica provocata da correnti vaganti presenti nel terreno
La corrosione chimica si verifica quando il manufatto metallico viene in contatto con reagenti chimici (acido, base, sale) o
reagenti atmosferici (ossigeno, anidride carbonica, cloro); non è accompagnata dalla produzione di corrente elettrica.
La corrosione elettrochimica o galvanica è un processo che richiede la presenza di zone con differente potenziale elettrico
all’intero di un manufatto metallico e di un elettrolita (acqua, umidità atmosferica,ecc) che chiuda il circuito.
La corrosione elettrolitica è responsabile di notevoli danni a carico delle strutture metalliche interrate (tubature, armature
di calcestruzzo, ecc.).
Nel terreno sono spesso presenti correnti vaganti (normalmente disperse da apparecchiature con “presa a terra”, impianti
radiofonici e telefonici, ecc.).
8. Trasformazione di energia elettrica in energia chimica: elettrolisi
Abbiamo visto che la pila è un dispositivo nel quale si trasforma, spontaneamente, energia chimica in energia elettrica
tramite la connessione tra due coppie redox a diverso potenziale elettrochimico.
Tuttavia è possibile convertire, con altri dispositivi, l’energia elettrica in energia chimica facendo avvenire, forzatamente,
delle reazioni redox agli elettrodi. A tale processo si dà il nome di elettrolisi e i sistemi all’interno dei quali viene condotta
sono le celle elettrolitiche.
Una cella elettrolitica consiste in un recipiente contenente l'elettrolita, in
soluzione o allo stato fuso, nel quale è immersa una coppia di elettrodi
collegati ai poli di un generatore di corrente continua (una pila o una batteria):
l'elettrodo collegato al polo positivo si chiama anodo, quello collegato al
polo negativo si chiama catodo.
Ai due elettrodi è, quindi, imposta una differenza di potenziale che permette
il passaggio di elettroni dall’elettrodo positivo (anodo) all’elettrodo negativo
(catodo) e anche la migrazione degli ioni all’interno della cella.
Gli ioni con carica positiva, presenti nell'elettrolita, migrano verso il catodo
(-) da cui il nome cationi, dove avviene, sull‟elettrodo, l’acquisto degli elettroni
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provenienti dal polo negativo del generatore. Verso l’anodo migrano invece gli ioni di carica negativa, anioni, e qui si
verificano le reazioni di ossidazione con cessione di elettroni all’elettrodo.
Affinché avvenga un processo elettrolitico è necessario che il generatore di corrente continua generi un differenza di
potenziale superiore ed opposta alla f.e.m. della cella galvanica (pila) corrispondente alla reazione spontanea.
Riassumendo:
Catodo : elettrodo negativo (-) ⇒reazione di riduzione
Anodo : elettrodo positivo (+) ⇒ reazione di ossidazione
Confrontiamo quanto avviene in una pila ed in una cella elettrolitica:
Come si può osservare sia nella pila che nella cella elettrolitica l‟anodo è sede di reazioni di ossidazione, mentre il catodo
è sede di reazioni di riduzione, la polarità degli elettrodi è però invertita.
Elettrolisi del cloruro di sodio fuso
Per poter operare la riduzione di molti metalli occorre utilizzare sali fusi anidri invece che soluzioni acquose dei loro sali;
infatti una soluzione acquosa di NaCl sottoposta ad elettrolisi produce idrogeno gassoso e non sodio metallico.
Consideriamo una cella elettrolitica per l‟elettrolisi di NaCl fuso.
Due elettrodi inerti, platino o grafite, sono immersi in NaCl fuso (costituito da ioni Na+ e Cl- liberi di muoversi) e connessi ad
un generatore di corrente elettrica (batteria).
All’elettrodo connesso con il polo negativo della batteria si ha
la riduzione dell’Na+.
All’altro elettrodo si ha la semireazione di ossidazione del Cl-.
riduzione catodica
ossidazione anodica
da bilanciare moltiplicando per 2
reazione complessiva:
Si formano Na elementare e Cl2 secondo il rapporto molare di 2 : 1.
Affinché tale elettrolisi possa avvenire, la differenza di potenziale della batteria deve essere superiore (ed opposta) alla f.e.m.
della pila corrispondente alla reazione spontanea, cioè:
Cl2(g) + e- Cl- E° =1.36V
Na+ + e- Na(s) E°= - 2.71V
ΔE° = E°catodo- E° anodo =1.36V- (- 2.71V)= 4.07 V
In realtà i valori numerici suddetti si riferiscono a condizioni standard con [Na+]=[Cl-]=1M in soluzione acquosa e non a Na+
e Cl- liquidi, per cui essi rappresentano solo una approssimazione.
2 faraday danno due equivalenti (= una mole) di idrogeno e due moli di ioni ossidrile (vedere semirazione catodica).
Quindi si formano 1 x 10-3 moli di ossidrili che si troveranno in 50 ml, cioè 5 x 10-2 litri, di soluzione.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
ESERCIZI DA SVOLGERE
1) Nella scala dei potenziali di riduzione standard le specie chimiche sono ordinate in base a:
a) Il loro numero di ossidazione
b) La tendenza ad acquistare elettroni
c) La loro capacità di cedere elettroni
d) L‟energia liberata nella reazione redox
2) Dopo aver consultato la tavola dei potenziali standard indica quali dei seguenti metalli è più facilmente ossidabile:
α) Al
β) Au
χ) Fe
δ) Cu
3) Indica il più forte OSSIDANTE tra le seguenti specie:
E0 NO3 /NO(g) = + 0,96 V
a. NO3-(aq)
+
b. Ag (aq) Ag Ag(s)
E0 Ag /Ag(s) = + 0,80 V
E0 Cr2O7 /Cr = + 1,33 V
c. Cr2O7 2-(aq) 2- 3+ Cr2O7 Cr
-
+
2-
3+
4) Scrivi le seguenti specie in ordine CRESCENTE di potere RIDUCENTE
E0 I2 /2I = + 0,54 V
a) I-(aq)
b) Fe(s) (s)
E0 Fe2 / Fe(s) = + 0,44 V
c) Mn2+ 2- 2+
E0 MnO4 / Mn = + 1,51 V
-
+
2+
2+
5) Considera la reazione: I2 + Ag → Ag + + Iα) determina ossidante e riducente
β) bilanciala
χ) schematizza la pila della reazione spontanea
δ) determinale la f.e.m in condizioni standard
6) Considera la reazione: Sn4+ +Fe2+ → Sn2+ +Fe3+
a. determina ossidante e riducente
b. bilanciala
c. verificane la spontaneità
d. schematizza la pila della reazione spontanea
e. determinale la f.e.m in condizioni standard
7) Considera la reazione: Pb2++Cd Pb + Cd 2+
a. determina ossidante e riducente
b. bilanciala
c. verificane la spontaneità
d. schematizza la pila della reazione spontanea
e. determinale la f.e.m in condizioni standard.
8) Una pila è formata dall’accoppiamento di un semielemento Zn(s)/Zn2+(aq) con un semielemento Sn2+(aq)/Sn(s). Dai dati dei
potenziali di riduzione standard, calcola:
a) la f.e.m standard della pila
b) schematizza la pila, scrivi le reazioni agli elettrodi e la reazione totale. I due semielementi sono collegati tra loro mediante
un ponte salino di KCl acquoso.
9) Una pila è formata dall’accoppiamento di un semielemento Cr(s) /Cr3+(aq) con un semielemento Ag+(aq)/Ag(s). Dai dati dei
potenziali di riduzione standard, calcola:
a) la f.e.m standard della pila;
b) schematizza inoltre la pila, scrivere le reazioni agli elettrodi e la reazione totale. I due semielementi sono collegati tra
loro mediante un ponte salino di KCl acquoso
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10) Quale affermazione riguardante il cosiddetto ponte salino è ERRATA? CORREGGILA!
a) Il ponte salino contiene una soluzione elettrolitica
b) Nel ponte salino possono circolare gli elettroni che vanno dalla semicella positiva a quella negativa
c) Il ponte salino è necessario per chiudere il circuito, cioè per collegare le due soluzioni della pila
d) Dal ponte salino fluiscono ioni che mantengono l’elettroneutralità delle soluzioni contenute in ogni semicella
11) Dati i potenziali standard di riduzione
Fe3+ + e- → Fe2+
E° = 0,77 V
E° = 1,07 V
Br2 + 2e- → 2Br Cl2 + 2e → 2Cl
E° = 1,36 V
valuta se le reazioni ai punti a. b. e c. possono avvenire in condizioni standard e calcola la forza elettromotrice di ciascuna.
a. Ossidazione di Fe2+ a Fe3+ usando come ossidante Br2
b. Ossidazione di Br- a Br2 usando come ossidante Cl2
c. Ossidazione di Cl - a Cl2 usando come ossidante un sale di Fe3+
Soluzione reazione a.
In base ai valori di E°, il bromo ha maggiore tendenza a ridursi, mentre il ferro si ossida.
catodo (riduzione)
Br2 + 2e- → 2Br2Fe2+ → 2Fe3+ + 2eanodo (ossidazione)
______________________
Br2 + 2e- + 2Fe2+ → 2Fe3+ + 2e- + 2Br
L’ossidazione di Fe2+ a Fe3+ con Br2 è possibile e la reazione complessiva è:
Br2 + 2Fe2+ → 2Fe3+ + 2BrIl coefficiente 2 davanti al ferro è stato introdotto per bilanciare gli elettroni ceduti/acquistati
(questo non modifica il valore del potenziale).
La forza elettromotrice è data da:
E° = E°c - E°a = 1,07 V - 0,77 V = 0,30 V
Soluzione reazione b.
In base ai valori di E°, il cloro ha maggiore tendenza a ridursi, mentre il bromo si ossida.
Cl2 + 2e- → 2Cl- catodo (riduzione)
2Br- → Br2 + 2e- anodo (ossidazione)
______________________
Cl2 + 2e- + 2Br - → 2Cl- + 2e- + Br2
L’ossidazione di Br- a Br2 con Cl2 è possibile e la reazione complessiva è
Cl2 + 2Br - → 2Cl- + Br2
La forza elettromotrice è data da:
E° = E°c - E°a = 1,36 V - 1,07 V = 0,29 V
Soluzione reazione c.
In base ai valori di E°, il cloro ha maggiore tendenza a ridursi, mentre il ferro si ossida. Non è quindi spontanea una
reazione in cui il cloro funge da anodo ed il ferro da catodo, la cui forza elettromotrice è:
E° = E°c - E°a = 0,77 V - 1,36 V = - 0,59 V
Il valore negativo dice che la reazione non avviene spontaneamente, mentre è spontanea la reazione nel verso opposto
(ossidazione di Fe2+ a Fe3+ con Cl2)
Cl2 + 2e- → 2Clcatodo (riduzione)
2Fe2+ → 2Fe3+ + 2eanodo (ossidazione)
_________________________________
Cl2 + 2e- + 2Fe2+ → 2Fe3+ + 2e- + 2ClLa forza elettromotrice è data da:
E° = E°c - E°a = 1,36 V - 0,77 V = 0,59 V
12) E’ possibile ossidare un sale di Fe(II) a Fe(III) usando un sale di Sn(IV) che si riduce a Sn(II)?
Sn4+ + 2e- → Sn2+ E° = 0,15 V
Fe3+ + e- → Fe2+ E° = 0,77 V
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Soluzione
In base ai valori di E°, si osserva che il ferro ha maggiore tendenza a ridursi rispetto allo stagno, che quindi si ossida;
l’ossidazione del ferro con Sn(IV) non è spontanea in condizioni standard ed avviene la reazione opposta.
catodo (riduzione)
2Fe3+ + 2e- → 2Fe2+
anodo (ossidazione)
Sn2+ → Sn4+ + 2e__________________________________
Sn2+ + 2e- + 2Fe3+ → Sn4+ + 2e- + 2Fe2+
La reazione complessiva è:
Sn2+ + 2Fe3+ → Sn4+ + 2Fe2+
La forza elettromotrice è data da:
E° = E°c - E°a = 0,77 V - 0,15 V = 0,62 V
13) Valuta se si ha sviluppo di H2 in una soluzione acquosa di acido forte 1 M
a. per aggiunta di Fe
b. per aggiunta di Cu
Fe2+ + 2e- → Fe(s) E° = - 0,44 V
2H+ + 2e- → H2 E° = 0,00 V
Cu2+ + 2e- → Cu(s) E° = 0,34 V
Soluzione
Lo ione H+ tende a dare riduzione più del ferro, ma meno del rame. Il ferro in soluzione acida viene ossidato con sviluppo
di H2 secondo la reazione:
2H+ + Fe → Fe2+ + H2
E° = E°c - E°a = 0,00 V + 0,44 V = 0,44 V
Se introduciamo un frammento di ferro in soluzione acquosa di acido forte, ad esempio di HCl 1 M, si ha sviluppo di
idrogeno ed il metallo lentamente scompare, passando in soluzione come Fe2+, introducendo invece un pezzetto di rame,
questo rimane inalterato e non si ha sviluppo di idrogeno.
Generalizzando questo risultato, si può affermare che soltanto i metalli il cui potenziale standard è negativo sono in grado
di sviluppare idrogeno da soluzioni acide; i metalli con E° > 0 non danno questa reazione.
14) Individua anodo e catodo e calcola la forza elettromotrice di una pila in cui una semicella sia costituita da una sbarretta
di Zn immersa in una soluzione di ZnSO4 1,00 M e la seconda semicella da un elettrodo di Ag immerso in una soluzione
1,00 M di AgNO3.
Zn2+ + 2e- → Zn(s) E° = - 0,76 V
Ag+ + e- → Ag(s) E° = 0,80 V
Soluzione
In base ai valori di potenziale, l’Ag si riduce comportandosi da catodo, lo Zn si ossida e funge da anodo. La reazione
complessiva si ottiene sommando la prima reazione scritta nel verso opposto alla seconda moltiplicata per due (in modo
da tenere conto degli elettroni scambiati).
2Ag+ + 2e- → 2Ag
catodo (riduzione)
anodo (ossidazione)
Zn → Zn2+ + 2e______________________
Zn + 2Ag+ → Zn2+ + 2Ag
La forza elettromotrice è data da:
E° = E°c - E°a = 0,80 V + 0,76 V = 1,56 V
15) Sapendo che E° (Cu2+/Cu) = 0,34 V e E°(Ag+/Ag) = 0,80 V, calcola il valore della f.e.m standard della pila ottenuta
accoppiando un semielemento a rame con uno ad argento.
[ R .0,46 V]
16) Sapendo che E° (Cl2/Cl-) = 1,36 V e E°(Br2/Br-) = 1,07 V, scrivi la reazione che in condizioni standard avviene tra queste
due coppie redox .
[R. Cl2 + 2Br-→ 2Cl- + Br2]
17) Sapendo che E° (Mg2+/Mg) = - 2,37 V e E°(Fe2+/Fe) = - 0,44 V, stabilisci quale delle seguenti reazioni ha luogo
spontaneamente in condizioni standard.
[ R. Mg + Fe2+→ Mg2+ + Fe]
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
18) Date le seguenti coppie redox:
Ce(IV)/Ce(III)
E° = 1,44 V
Au(III)/Au(I)
E° = 1,29 V
a) Individua la reazione spontanea
Soluzione
Gli ossidanti sono il Ce(IV) e l’Au(III) e dei due è più forte è il Ce(IV), avendo esso il potenziale di riduzione più alto. Perciò
la reazione che può avvenire spontaneamente è:
2Ce4+ + Au+  2Ce3+ + Au3+
b) Calcola la FEM di una pila con [Ce3+]=[Au3+]=[Au+] = 0,01M e [Ce4+] = 0,1M.
Soluzione
Si applica l’equazione di Nernst a ogni singolo semielemento della pila:
19) Calcola la fem della pila basata sulla reazione di ossidoriduzione
2 Ag+ + Cu  2Ag + Cu2+ nel caso in cui [Ag+] = 10-4 M e [Cu2+] = 0.1 M.
Soluzione
Il catodo è l’argento, Ag , che si riduce, l’anodo è il rame che si ossida, quindi si determina il
ΔE°=E°catodo - E°anodo = + 0,80V - 0,34V = + 0,46 V
Poi si applica l’equazione di Nernst
20) Nella pila mostrata in figura, una lamina di argento viene immersa in una soluzione di nitrato di argento e una lamina di
piombo viene immersa in una soluzione di nitrato di piombo (II). I due becher sono collegati mediante un ponte salino.
Stabilisci:
a) Qual è l’anodo
b) Qual è il catodo
c) Dove avviene l’ossidazione
d) Dove avviene la riduzione
e) In quale direzione scorrono gli elettroni nel filo
f) In quale direzione migrano gli ioni attraverso la soluzione
Soluzione
a) L’anodo e Pb
b) Il catodo è Ag
c) Pb (anodo)
d) Ag (catodo)
e) Gli elettroni scorrono lungo il filo metallico dal piombo all’argento
101
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
f) Gli ioni nitrato migrano dalla soluzione di nitrato di argento alla soluzione di nitrato di piombo
21) Sulla base dei potenziali di riduzione standard indica la specie che ha maggior tendenza a ridursi:
a) F2
b) Co2+
c) Cl2
d) H+
102
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MODULO 9
CHIMICA ORGANICA
• Introduzione
• I derivati funzionali
• L’importanza della chimica organica
• Le biomolecole
• Gli idrocarburi
I composti del carbonio
sono in numero gigante
e compongon gli organismi
delle bestie e delle piante.
Quindi accade qualche volta
di trovar cento composti
che la formula hanno uguale
e i caratteri hanno opposti;
Una volta eran creduti
dei composti assai speciali,
non potendo riprodursi
con sistemi artificiali:
onde spesso ci si trova
nella grave congiuntura
che la greggia non ci basti:
ci vuol quella di struttura.
si pensava ad una forza
che negli esseri viventi
desse luogo a quei prodotti
così strani e differenti;
E a cercarla gioveranno
due principi generali
che s'avverano pur sempre,
salvo casi eccezionali.
finché Wöhler, ottenendo
mercé sintesi l'urea
e con metodi inorganici,
non fugò la falsa idea.
L'uno dice che un composto
per esistere - badate vuol che gli atomi abbian tutte
le valenze saturate;
E se organica e inorganica
restan campi separati,
è perché forma il carbonio
dei prodotti sconfinati,
l'altro afferma che il carbonio
può talor diversamente
comportarsi, ma di norma
si può dir tetravalente.
in virtù dei suoi stessi atomi,
che si posson molto bene
collegare fra di loro
per formar lunghe catene;
E s'è inoltre constatato,
senza tema ormai d'errore,
che le sue quattro valenze
han l'identico valore.
vi concorre pure il fatto
che il carbonio, alla fin fine,
oltre che per altri corpi,
per se stesso è molto affine.
Le catene che fan gli atomi
son di due grandi sistemi:
o son chiuse, se ad anello
si congiungono agli estremi,
Fra i caratteri ai composti
del carbonio peculiari,
è che in essi assai prevalgono
i legami non polari,
o, al contrario, sono aperte,
se ciascuna estremità,
dritta oppur ramificata,
per suo conto invece va.
e perciò gli atomi assumono
posizioni assai svariate,
dando origine a molecole
da stessi atomi formate,
A catena aperta sono
quei composti non invano
detti grassi, o detti pure
derivati del metano.
mentre i corpi risultanti
differiscon tuttavia
ed è questa, in fondo in fondo,
la famosa isomeria.
Chi di chimica è digiuno,
di comprendermi non speri:
non è facile afferrare
questi lugubri misteri
Da “La chimica in versi” (1926) di Alberto Cavaliere (Mursia Ed.)
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1. Introduzione
Breve viaggio nella chimica del carbonio
Quando nel 1926 Alberto Cavaliere scrisse il suo curioso libro “La chimica in versi”, la chimica organica, come allora veniva
chiamata la chimica del carbonio, era già molto sviluppata, per cui molti dei concetti da lui espressi sono validi ancora
oggi. Proviamo quindi ad utilizzare la sua introduzione alla chimica del carbonio in modo critico, analizzandone i concetti
ancora attuali ed eventualmente introducendo i correttivi che si sono sviluppati negli anni a seguire:
I composti del carbonio
sono in numero gigante
e compongon gli organismi
delle bestie e delle piante.
I composti del carbonio finora conosciuti sono più di 18 milioni, molti di più di quelli già noti ai tempi del nostro chimicopoeta. Non solo: il progredire delle conoscenze fa si che nuovi composti, non esistenti in natura, vengano sintetizzati
arricchendo cosi questa numerosa famiglia di composti.
Una volta eran creduti
dei composti assai speciali,
non potendo riprodursi
con sistemi artificiali:
si pensava ad una forza
che negli esseri viventi
desse luogo a quei prodotti
così strani e differenti;
I composti organici vennero a lungo ritenuti di natura differente da quella dei composti inorganici e si pensava che la loro
sintesi potesse avvenire solo negli organismi viventi - da cui la definizione di CHIMICA ORGANICA per la chimica che si
occupava di questi composti così particolari - per azione di una “forza vitale” presente solo negli esseri viventi e capace
di operare solo entro di essi.
finché Wöhler, ottenendo
mercé sintesi l'urea
e con metodi inorganici,
non fugò la falsa idea.
Wolher era un chimico tedesco convinto che gli esseri viventi fossero dotati di una sorta di laboratorio chimico interno
grazie al quale riuscivano a sintetizzare i composti organici, ed era perciò altrettanto convinto che in un laboratorio artificiale
si potessero riprodurre le condizioni di sintesi di queste sostanze. Prova che ti riprova, Wolher riuscì a sintetizzare, a partire
dall’ammoniaca (una sostanza inorganica) un grammo di urea, sostanza che era stata isolata dall’urina e che era quindi di
sicura origine organica. Wolher dimostro quindi che non esisteva nessuna “forza vitale” e che quindi la chimica dei composti
organici seguiva le stesse leggi di quella dei corpi inanimati!
E se organica e inorganica
restan campi separati,
è perché forma il carbonio
dei prodotti sconfinati,
in virtù dei suoi stessi atomi,
che si posson molto bene
collegare fra di loro
per formar lunghe catene
In effetti la caratteristica peculiare che differenzia il carbonio dagli altri elementi e quella di dare luogo a lunghe catene di
atomi di carbonio: questa caratteristica è all‟origine del grande numero di composti del carbonio esistenti e sintetizzabili.
vi concorre pure il fatto
che il carbonio, alla fin fine,
oltre che per altri corpi,
per se stesso è molto affine.
Il concetto di affinità chimica risale agli alchimisti per i quali era una proprietà, degli elementi chimici, che indica la tendenza
di uno di loro a legarsi con un altro. Goethe nel suo capolavoro “Le affinità elettive” utilizza gli argomenti dell'affinità chimica
(da cui il titolo) come metafora per le relazioni interpersonali. Ora in effetti il carbonio ha affinità per se stesso… cioè si
combina con se stesso e questa è una proprietà rara da riscontrarsi tra gli elementi che, tendenzialmente, preferiscono
combinarsi con altri elementi.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Fra i caratteri ai composti
del carbonio peculiari,
è che in essi assai prevalgono
i legami non polari,
Il carbonio nei composti organici si combina con se stesso dando legami covalenti puri, con l’idrogeno H dando legami
sostanzialmente apolari, e con altri atomi più elettronegativi come ossigeno O, azoto N, zolfo S, alogeni, dando legami
discretamente polari. Le molecole organiche risultano però nella maggior parte dei casi globalmente apolari.
mentre i corpi risultanti
differiscon tuttavia
ed è questa, in fondo in fondo,
la famosa isomeria.
e perciò gli atomi assumono
posizioni assai svariate,
dando origine a molecole
da stessi atomi formate,
Gli atomi delle molecole organiche, come vedremo meglio parlando degli idrocarburici possono collegare tra loro in più
modi per cui si possono avere molecole con caratteristiche chimico fisiche diverse ma composte dallo stesso tipo e numero
di atomi. Tali molecole vengono dette isomeri ed il fenomeno è detto ISOMERIA.
Quindi accade qualche volta
di trovar cento composti
che la formula hanno uguale
e i caratteri hanno opposti;
onde spesso ci si trova
nella grave congiuntura
che la greggia non ci basti:
ci vuol quella di struttura
A differenza delle sostanze inorganiche che possono essere spesso identificate solo dalla formula greggia (che descrive
solo il tipo ed il numero di atomi che costituiscono la molecola), le sostanze organiche necessitano quindi anche della
cosiddetta formula di struttura, che illustra in modo sintetico come sono collegati gli atomi tra loro e dà quindi una idea
della disposizione nello spazio degli atomi oltre che della forma complessiva della molecola.
E a cercarla gioveranno
due principi generali
che s'avverano pur sempre,
salvo casi eccezionali.
L'uno dice che un composto
per esistere - badate vuol che gli atomi abbian tutte
le valenze saturate;
l'altro afferma che il carbonio
può talor diversamente
comportarsi, ma di norma
si può dir tetravalente
Anche il concetto di valenza è sostanzialmente superato. La valenza è un termine usato per indicare la capacità degli atomi
di combinarsi con altri elementi: un atomo tetravalente è un atomo che può formare 4 legami. Oggi si preferisce usare il
numero di ossidazione che esprime la carica fittizia che un atomo assume quando si combina con un altro atomo e che
dipende dal numero di elettroni che l'atomo in questione assumerebbe se si assegnassero al più elettronegativo degli atomi
interessati dal legame tutti gli elettroni che danno origine al legame. Nei composti organici l’atomo di carbonio forma
sempre 4 legami.
E s'è inoltre constatato,
senza tema ormai d'errore,
che le sue quattro valenze
han l'identico valore
Questa affermazione non è del tutto condivisibile: avremo infatti, abbiamo visto nel capitolo dei legami, legami singoli,
doppi o tripli, e, quindi, lunghezze ed energie di legame diverse!
Le catene che fan gli atomi
son di due grandi sistemi:
o son chiuse, se ad anello
si congiungono agli estremi,
o, al contrario, sono aperte,
se ciascuna estremità,
dritta oppur ramificata,
per suo conto invece va.
Abbiamo dunque detto che il carbonio forma lunghe catene: queste possono essere aperte o chiuse ad anello. Inoltre
le catene possono avere delle ramificazioni come accade al ramo di un albero.
A catena aperta sono
quei composti non invano
detti grassi, o detti pure
derivati del metano.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
La cosiddetta serie grassa indicava gli idrocarburi saturi, oggi con il termine grassi si indicano i trigliceridi ed altre sostanze
di interesse prevalentemente biologico. Il metano è invece il composto più semplice tra carbonio ed idrogeno, di formula
grezza CH4.
Chi di chimica è digiuno,
di comprendermi non speri:
non è facile afferrare
questi lugubri misteri!
Speriamo che invece questo breve volo nel mondo della chimica organica vi aiuti a chiarire almeno alcuni di questi misteri!
2. L’importanza della chimica organica
Per chimica organica dunque s’intende comunemente la chimica dei composti del carbonio.
Già abbiamo incontrato dei composti con questo elemento, il monossido e il diossido di carbonio
(CO e CO2) per esempio, l’anione carbonato (CO3=), formalmente derivante dall’acido carbonico,
l’acido cianidrico (HCN) etc.; li consideriamo composti inorganici.
La molecola dell’urea
August Kekulé
Oggi la distinzione in auge fino alla prima metà dell’800, ovvero tra
chimica inorganica, che studia i composti provenienti dal mondo
minerale e chimica organica, la quale invece si occupa dei composti Friedrich Wohler
provenienti dal mondo animale e vegetale, è accettata solo a livello
simbolico e storico; preferiamo considerare come “organici”, quei composti in cui compare l’atomo
di carbonio con numero di ossidazione inferiore a + 4 (con l’eccezione del monossido di carbonio).
Fu il chimico svedese Jacob Berzelius a usare per la prima volta il termine “chimica organica” nel
1807 e, come menzionato, fu il grande chimico tedesco Friedrich Wohler a dare l’avvio “ufficiale”
all’epopea dei composti organici, quando si rese conto di essere stato “in grado di preparare l’urea
senza l’ausilio di un rene” (lo scienziato la ottenne facendo reagire cianato d‟argento con cloruro
d’ammonio, composti inorganici, con l’intenzione di ottenere cianato d’ammonio); la sua scoperta
ovviamente aprì un orizzonte pressoché illimitato alla sintesi organica. D’altro canto Kekulè (Friedrich
August Kekulé Von Stradonitz), che avrebbe in seguito studiato a fondo il benzene, stabilì nel 1858
la tetravalenza del carbonio, ovvero la proprietà di formare quattro legami.
Come si è già detto, questo elemento ha una grande affinità per i legami chimici con altri atomi leggeri, tra cui il carbonio
stesso; trovandosi inoltre al centro della tavola periodica (quarto gruppo, secondo periodo) il carbonio non manifesta una
grande attitudine né a perdere, né ad acquistare elettroni, comportandosi quindi da non metallo con una elettronegatività
media.
Da qui l’attitudine a formare catene che possono,
teoricamente, arrivare all’infinito. Oggi si conoscono oltre
diciotto milioni di composti organici e un gran numero di
questi si ottiene per sintesi. Il grande sviluppo della chimica
organica parte dalla seconda metà del secolo XIX ed è parte
integrante della seconda rivoluzione industriale, al pari
dell’avvento dell’elettricità. Da allora tale sviluppo non
conosce battute d’arresto e oggi questa branca della
chimica riveste importanza vitale in molti campi; vediamone
alcuni.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Biologia
Gli amminoacidi, costituenti primari delle proteine, le proteine stesse, gli enzimi, i carboidrati (zuccheri), i lipidi (grassi), i
neuromediatori (adrenalina, acetilcolina, dopamina), strutture che hanno il compito di tradurre il messaggio a livello delle
terminazioni nervose, sono tutte molecole di natura organica.
Saccarosio
DNA
Watson e Crick
Il saccarosio è il comune zucchero da tavola, un disaccaride formato da due zuccheri semplici, così come gli acidi nucleici
(DNA, la cui complessa struttura a elica fu messa a punto da James Watson e Francis Crick nel 1953, RNA), depositari
dei caratteri e della trasmissione biologica, e gli enzimi, veri e propri messaggeri biologici che “viaggiano” all’interno del
nostro organismo.
1.1.1 Farmaci
La preparazione di medicamenti utili a curare i disturbi più vari, è un’attitudine tanto antica
quanto l’uomo; egli conosce e usa le erbe fin dall’alba della sua storia e intuisce già dall’inizio
che queste contengono quelli che oggi chiamiamo “principi attivi” (la frazione di farmaco
che possiede attività farmacologia).
Già nel 3000 a.c. comparvero i primi scritti che tendevano a classificare le piante in base ai
loro poteri magici e terapeutici.
La molecola dell‟acido
Gli antichi romani usavano succhiare la corteccia di salice allo scopo di alleviare il dolore; acetilsalicilico
(Aspirina)
questa contiene una sostanza (anche se i nostri antenati non lo sapevano), l’acido salicilico,
una molecola organica che, opportunamente modificata, è alla base della moderna aspirina.
Furono gli alchimisti del medioevo a decretare la nascita di una farmacologia chimica intesa in senso moderno, come
sviluppo ragionato della fitoterapia (la scienza che studia le piante in senso più ampio, anche se il termine “fitoterapia” viene
introdotto nel XIX secolo).
Intendiamo per “farmaco” un composto chimico, di origine naturale o sintetica, in grado di effettuare un’azione terapeutica,
inducendo una modificazione a livello dei processi biologici; gli antichi non ne avevano consapevolezza ovviamente, ma i
principi attivi presenti in natura erano in realtà capolavori di ingegneria molecolare.
Oggi la ricerca farmacologia ha raggiunto livelli straordinari, soprattutto a partire dagli anni sessanta del ventesimo secolo,
grazie a un’approfondita conoscenza dei processi biologici e grazie anche ai recenti sviluppi della biologia molecolare.
L’esatta individuazione dei vari processi biochimici, permette alla moderna industria farmaceutica di “disegnare” il farmaco
più idoneo per quel tipo specifico di patologia; basti pensare ai moderni preparati contro l’ipertensione, o agli anti-ulcera
che riducono la secrezione a livello dello stomaco.
La molecola dell’atenololo principio introdotto nel 1976 per la cura dell’ipertensione
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Polimeri
I polimeri sono delle macromolecole (ad altissimo peso molecolare), che si formano dall’unione di molecole semplici chiamate
monomeri.
Sono polimeri naturali l’amido e la cellulosa, polisaccaridi (cioè lunghi filamenti composti da zuccheri semplici) formati da
lunghe catene di glucosio (il monomero) e molto diffuse nel regno vegetale (l’amido si trova nelle patate e nei cereali), il
glicogeno, polisaccaride di riserva dei tessuti animali, le proteine, ovvero catene di amminoacidi, gli acidi nucleici (dna, rna),
i cui monomeri sono rappresentati dai nucleotidi.
Struttura dell‟amido
Oggi praticamente gran parte dei materiali che ci circondano sono costituiti da polimeri sintetici,
i quali, a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo hanno sostituito i più costosi
materiali naturali.
L’industria dei polimeri sintetici è cresciuta di pari passo con quella petrolifera ed è con essa in
stretta relazione. Nel 1844 si ha una prima produzione del “linoleum” a partire da olio di lino,
mentre il primo polimero sintetico, la “parkesine”, usato come impermeabilizzante è del 1856.
Nel 1865 John Hyatt utilizza un polimero analogo alla parkesine per ricoprire le palle da biliardo
e all’inizio del secolo successivo, nel 1907, Leo Baekeland sintetizza la “bakelite”.
Altre date importanti sono il 1912, anno in cui viene sintetizzato il PVC (polivinilicloruro), il 1930,
anno della messa a punto del polistirene (polistirolo) e il 1940, che vede la prima produzione
del nylon.
Telefono di bakelite degli anni
quaranta
I nomi di molti polimeri sintetici ci risultano familiari e
vengono impiegati per la fabbricazione di oggetti di uso
molto comune. Vediamo alcuni esempi:
- POLIPROPILENE (moquettes, imballaggi)
- POLIVINILCLORURO (PVC)
- POLISTIRENE (polistirolo espanso)
- POLIESTERI (fibre tessili, dacron, terital)
- TETRAFLUOROETILENE (teflon, pentole)
- POLIAMMIDI (nylon)
- POLIETILENE (isolanti, buste di plastica)
- POLIVINILI (colla, vinavil)
- POLIMETILMETACRILATO (plexigas)
- POLIETILENTEREFTALATO (PET, bottiglie)
Il nylon (che si ottiene dalla reazione di due molecole organiche,
esametilendiammina e acido adipico), venne usato per la fabbricazione
di paracadute durante la seconda guerra mondiale
Le comuni buste di plastica sono realizzate in
polietilene (il monomero è l’etilene, idrocarburo
di formula CH2=CH2)
Energia e Industria Petrolifera (idrocarburi)
Gli idrocarburi (composti organici formati unicamente da carbonio e idrogeno) sono i componenti principali del petrolio e
del gas naturale.
Il petrolio è attualmente il più importante dei combustibili fossili e si trova in giacimenti sugli strati superficiali della crosta
terrestre. È conosciuto da secoli (ne parla Marco Polo ne “Il Milione”, secolo XIII) ed era già noto nell’antico oriente.
L'industria petrolifera nasce in USA nel 1850 e il primo pozzo viene aperto nel 1859. Il suo utilizzo ha influenzato in maniera
fondamentale lo sviluppo industriale, politico e sociale a partire dalla seconda metà del XIX secolo; è stato inoltre fattore
scatenante di numerosi conflitti (Guerra del Golfo, 1990).
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Il petrolio è una miscela complessa di idrocarburi formati nel corso di un tempo
lunghissimo grazie alla decomposizione di organismi animali e sostanze vegetali; tale
decomposizione è dovuta essenzialmente a batteri anaerobi. La teoria biogenica
indica che il petrolio deriva dalla maturazione termica di materia organica rimasta
sepolta. In condizioni di elevatissima temperatura e di fortissima pressione, vengono
liberati idrocarburi.
Si distinguono una fase liquida (petrolio) e una gassosa (gas naturale), principalmente
costituita da metano, ma anche etano e propano. Sia la fase liquida che quella
gassosa tendono a migrare verso l’alto attraverso rocce porose, finché incontrano
degli strati impermeabili dove restano intrappolate.
Il seguente schema illustra quali prodotti si ottengono dalla lavorazione (distillazione
frazionata) del petrolio.
Le varie frazioni ottenute sono composte da idrocarburi a vario numero
di atomi di metano: gli idrocarburi gassosi (C1-C4), le benzine (C6-C12),
il kerosene (C9-C15), il gasolio (C15-C18), olio combustibile (C16-C20).
La benzina verde è ottenuta aggiungendo alla benzina una certa quantità
di benzene (idrocarburo aromatico), per sostituire il piombo tetraetile un
tempo usato come antidetonante; ma il benzene è una molecola molto
stabile e dotata di tossicità e contribuisce notevolmente all’inquinamento
atmosferico.
L’industria petrolchimica, che si va affermando a partire dal 1930, si
occupa di tutti quei processi di lavorazione del petrolio e dei prodotti da
esso ottenibili; con lo sviluppo dell’industria del petrolio, il carbone, per
lungo tempo fonte primaria dei prodotti chimici industriali, ha
progressivamente perso la sua importanza.
Diversi sono i processi possibili a carico del prezioso minerale, in particolare il cracking e il reforming, tesi ad ottenere prodotti
“intermedi” di grande importanza,.
Il “cracking” è un processo utilizzato per ricavare idrocarburi più leggeri, tramite
rottura dei legami tra gli atomi di carbonio degli idrocarburi più pesanti; si possono
ottenere in tal modo alcheni leggeri (etilene, propilene, butadiene), idrocarburi
ramificati o acetilenici, alcuni di questi di fondamentale importanza per la
produzione di materie plastiche, fibre tessili etc.
Il “reforming” è un processo che consente di trasformare frazioni petrolifere per
migliorarne le caratteristiche. Per esempio la trasformazione di idrocarburi saturi
alifatici in composti aromatici, consente un miglioramento delle caratteristiche
antidetonanti delle benzine.
3. Gli idrocarburi
Sono detti idrocarburi i composti che il carbonio forma con l’idrogeno. In questi composti ogni carbonio forma sempre
quattro legami covalenti con atomi di idrogeno o altri atomi di carbonio.
Idrocarburi saturi: Se i legami tra atomi di carbonio sono tutti singoli avremo i cosiddetti idrocarburi saturi. In essi il
carbonio è sempre legato ad altri quattro atomi. Gli idrocarburi saturi a catena aperta vengono anche detti alcani, quelli
a catena chiusa cicloalcani. Nella seguente tabella sono riportati i nomi, la struttura di Kekulé o formula di struttura (che
indica come sono collegati tra di loro gli atomi), la struttura condensata ( che mette in evidenza i legami tra gli atomi di
carbonio, cioè il cosiddetto scheletro carbonioso) e il modello a sfere e bastoncini (che dà un’idea della reale forma della
molecola).
109
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Ovviamente il carbonio può dare anche composti con molti più atomi di carbonio che verranno battezzati con un nome
che deriva dal numero di atomi di carbonio che li costituiscono ( pentano, esano, eptano, ottano, …).
I nomi degli alcani semplici non ramificati sono costituiti da una radice che indica il numero di carboni che costituisce la
catena e dalla desinenza ano (definita anche suffisso) che indica la classe di appartenenza. La tabella seguente riporta i
nomi degli alcani lineari semplici.
Rimuovendo un idrogeno da una catena alchilica si ottiene un radicale alchilico. Il nome di un radicale alchilico si ottiene
sostituendo il suffisso ano dell’alcano corrispondente con il suffisso ile.
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Gli idrocarburi con 4 o più atomi di carbonio possono avere isomeri di struttura, cioè molecole che pur avendo la stessa
formula greggia hanno una diversa concatenazione degli atomi. Queste molecole hanno anche diverso punto di fusione
e diverso punto di ebollizione. Esistono ad esempio 2 possibili strutture che possiamo scrivere per un alcano con quattro
atomi di carbonio (formula molecolare C4H10): una struttura lineare e una ramificata. Butano e isobutano sono isomeri di
struttura. Per un alcano di formula C5H12 possiamo scrivere 3 possibili strutture: una lineare, il pentano, e due ramificate.
Per assegnare il nome ad alcani ramificati dobbiamo utilizzare delle regole previste:
1. Individuare la catena carboniosa continua più lunga.
2. Individuare il sostituente e numerare la catena.
3. Il nome finale si costruisce scrivendo nell’ordine da sinistra a destra: posizione del sostituente, trattino, nome del
sostituente, nome della catena principale (fusi in un'unica parola).
Un alcano con 15 atomi di C può avere 4.347 isomeri diversi, mentre con 20 atomi di C
possiamo costruire 366.319 isomeri diversi! Questo dà una idea del perché il numero di
composti organici possa essere così grande. La formula generale degli alcani è CnH2n+2
dove n è uguale al numero di atomi di carbonio che costituiscono la molecola. Se quindi un
alcano ha 15 atomi di carbonio la sua formula greggia sarà C15H32.
4-Etil Ottano
Queste sono invece le formule di alcuni ciclo alcani, il più importante dei quali è il cicloesano:
Gli alcani sono insolubili in acqua e solubili in solventi apolari (benzene, etere, cloroformio); hanno inoltre bassi punti di fusione
e bassi punti di ebollizione (essendo infatti apolari, tra le molecole degli alcani si instaurano deboli forze di Van der Waals):
111
Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
La fonte principale degli alcani è il petrolio e, poiché la loro combustione è fortemente esotermica, vengono utilizzati come
combustibili . Questo utilizzo è in realtà poco razionale: essi sono infatti anche una importantissima fonte di materie prime
(non inesauribile!) utilizzate per la sintesi di molti altri composti: finito il petrolio niente più materie plastiche, farmaci, pesticidi,
collanti, vernici, etc etc!!
Idrocarburi insaturi: Vengono denominati Idrocarburi insaturi quegli idrocarburi, denominati alcheni, che presentano
doppi legami tra atomi di carbonio e quegli idrocarburi, denominati alchini, che presentano tripli legami tra atomi di
carbonio. I loro nomi sono caratterizzati dalla desinenza.
–ene per gli alcheni (es: pentene) e dalla desinenza –ino per gli alchini (es: esino). Se due molecole di idrocarburi insaturi
hanno la stessa formula greggia ma differiscono per la posizione nella catena dei legami doppi o tripli ci troveremo di fronte
ad un tipo di isomeria detta isomeria di posizione.
Il seguente composto è l’etino, detto anche acetilene, il più semplice degli alchini.
Viene utilizzato nei dispositivi di illuminazione utilizzati dagli speleologi dove
viene prodotto in situ a partire dal carburo di calcio facendolo reagire con
l'acqua.
Idrocarburi Aromatici: Molte sono le sostanze, polveri, spezie o piante medicinali, utilizzate
nel corso della storia.
Cristoforo Colombo (1451-1506), Vasco De Gama (1469- 1524), Ferdinando Magellano
(1480-1521), Sir Francis Drake (1549-1596), furono solo alcuni tra coloro che, durante i loro
viaggi, approfondirono la ricerca delle spezie; queste, unitamente alle piante medicinali, furono
le prime sostanze naturali studiate dai chimici organici. Vediamone alcune.
Il toluene è un composto (idrocarburo) che si ottiene dal balsamo del tolù, grande pianta (fino a venticinque metri)
della famiglia delle fabaceae, presente soprattutto in Venezuela; il balsamo è noto in erboristeria, perché in grado
di favorire la fluidificazione del catarro presente nei bronchi e di ridurre la tosse.
La benzaldeide è un composto isolato dall’olio di mandorle amare e dal caratteristico odore; inoltre tale
composto è il più semplice membro della categoria delle aldeidi aromatiche nonché quello più sfruttato a
livello industriale.
L’alcol benzilico è un composto nocivo; una lozione al 5% di alcool benzilico è stata proposta
come trattamento per la pediculosi (pidocchi). L’alcol benzilico si ottiene dalla resina del Benzoino,
una pianta arbustiva delle Styracaceae che cresce nel sudest asiatico, dotata di proprietà
emollienti ed espettoranti.
Anche l’acido benzoico è un composto rintracciabile nella resina del Benzoino. L’acido benzoico e i suoi
sali sono usati come additivi alimentari (E210); è inoltre usato nell’industria della plastica.
Altro composto aromatico è l’azulene (dallo spagnolo AZUL, azzurro), molto usato in
cosmetica, idrocarburo aromatico, solido di colore blu-violetto.
Erodoto di Alicarnasso, storico greco vissuto quattro secoli prima di Cristo, narrò nelle sue
“Storie” che esisteva un “popolo più resistente perché usava mangiare le foglie di salice”.
Queste contenevano l’acido salicilico, antesignano della moderna Aspirina.
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Alcol benzoico
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E potremmo citare tantissimi altri casi. Ma cosa hanno in comune tutti i composti fin qui citati?
Sono “composti aromatici” e il benzene è la struttura di base.
Il termine “aromatico” identificava tradizionalmente quei prodotti profumati e dall’aroma caratteristico e i loro principi. In
senso moderno tale termine identifica le proprietà specifiche dell‟anello benzenico (anello aromatico).
Il benzene fu isolato per la prima volta nel 1825 dal chimico inglese Michael Faraday (1791-1867), che lo
ottenne dal gas illuminante, ottenuto per distillazione dal litantrace (ovvero il carbon fossile, ancora oggi
carburante di notevole importanza). Faraday lo chiamò Bicarburo d’Idrogeno. Nel 1845, il chimico inglese
Charles Mansfield lo isolò dal catrame. Oggi il benzene viene estratto dal petrolio.
La peculiare struttura a doppi legami alternati fu proposta nel 1865 da August Kekulè. Egli avanzò l'ipotesi
che i legami doppi e semplici della molecola scambiassero la loro posizione lungo l'anello con velocità tanto
elevata che le reazioni caratteristiche degli alcheni non potevano avvenire, conferendo la particolare stabilità
e le proprietà chimiche del benzene. La leggenda narra come egli fu ispirato in sogno da un “serpente che
si morde la coda” ed intuì che in realtà tali legami “ruotano” continuamente, proprio a formare una nuvola
ad anello.
Prima di essere scoperto come cancerogeno, veniva usato al posto del piombo tetraetile come antidetonante delle benzine
(oggi il piombo ovviamente non si usa più). A temperatura ambiente è un liquido incolore e dall’odore caratteristico, poco
solubile in acqua e molto solubile nei solventi organici.
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4. I derivati funzionali
Gli idrocarburi sono solo una piccola parte dei composti organici. Da essi infatti derivano moltissimi altri composti
caratterizzati dalla presenza di altri atomi: l’ossigeno, l’azoto, gli alogeni. Come conseguenza della presenza nella
molecola, al posto di uno o più idrogeni, di questi atomi, avremo dei composti con caratteristiche e reattività molto diverse.
La presenza di un certo gruppo funzionale nella molecola influenza la sua reattività conferendole caratteristiche chimiche
peculiari. I composti organici vengono pertanto raggruppati a seconda del la presenza di questi gruppi di atomi, fermo
restando che in una stessa molecola possono essere presenti più gruppi funzionali! Si tratta cioè di una comoda
esemplificazione che ci consente di studiare la reattività di quel determinato gruppo. Passeremo ora a trattare sinteticamente
i principali gruppi funzionali prendendo come esempi le molecole più comuni e diffuse di ogni gruppo.
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Gli alogenuri alchilici: Se uno o più idrogeni di un idrocarburo viene sostituito da uno o più atomi di alogeni avremo gli
alogenuri alchilici. Vengono denominati anteponendo al nome dell’idrocarburo da cui derivano il nome e la posizione
dell’alogeno. Nella nomenclatura tradizionali si assegna il suffisso -uro alla radice del nome dell’alogeno e si scrive il nome
dell’alchile corrispondente (ad esempio CH3Cl si chiamerà cloruro di metile).
Di seguito sono riportati gli alogenuri più interessanti e il loro utilizzo.
È molto usato come solvente.
È un anestetico.
Più noti come clorofluorocarburi sono dei fluidi refrigeranti molto economici e
venivano utilizzati nelle bombolette spray; ora sono proibiti perché danneggiano lo
strato di ozono atmosferico che ci protegge dalle pericolose radiazioni UV.
Il cloroformio è stata la prima sostanza ad essere usata come anestetico, ma è nocivo. Oggi è utilizzato
come solvente.
Il tricloroetilene è un ottimo solvente: si può usare per decaffeinare il caffè, per estrarre olio dai semi
ma anche per il cosiddetto lavaggio a secco degli indumenti. Quest’ultimo uso è stato abbandonato
per la sua tossicità ed al suo posto viene utilizzato il tetracloroetilene.
Il tetracloretilene viene utilizzato nelle lavanderie a secco, come solvente per lo sgrassaggio dei
metalli, nell'industria chimica e farmaceutica, nell'uso domestico.
Il DDT (diclorodifeniltricloroetano) è stato il primo insetticida ad essere utilizzato (1939)
ed ha contribuito, essendo efficace contro la zanzara che la trasmette, ad eliminare la
malaria da vaste zone del mondo. Oggi è accusato di accumularsi nei tessuti e di essere
cancerogeno.
L’OMS però né ha consigliato l’uso nelle zone infestate dalla zanzara nelle quali i rischi
per la salute legati alla malaria sono di molto superiori rispetto a quello di ammalarsi di
cancro.
La diossina è molto tossica e cancerogena. Si produce durante le combustioni
(anche nel fumo di sigaretta…).
Costituisce il principale ostacolo alla combustione indiscriminata dei rifiuti in
quanto si produce se in questi ultimi sono presenti materiali plastici
Gli alcoli: Sono molecole caratterizzate dalla presenza di un gruppo –OH (ossidrile). Vengono generalmente rappresentati
con la formula generale ROH, dove R rappresenta la parte idrocarburica della molecola. Il loro nome deriva dall’idrocarburo:
ad esempio se prendo il metano CH4 e sostituisco un suo idrogeno con un OH otterrò il metanolo o alcool metilico CH3OH,
se prendo l’etano C2H6 e sostituisco un suo idrogeno con un OH otterrò l’etanolo o alcool etilico C2H5OH e così via. Il
gruppo OH è fortemente polarizzato e può dare legami a idrogeno, pertanto gli alcoli a basso peso molecolare sono più
alto bollenti degli idrocarburi da cui derivano e sono solubili in acqua. All’allungarsi della catena idrocarburica l’influenza
del gruppo OH sulle proprietà della molecola diminuisce e gli alcoli diventano insolubili in acqua.
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Se nella molecola sono presenti due ossidrili avrò i dioli, se tre i trioli.
L’alcool metilico (CH3OH) è un composto che si ottiene dalla distillazione del legno – veniva infatti
chiamato spirito di legno (“spirito” è un vecchio modo di indicare gli alcoli) – ma si forma in piccole quantità
anche durante la fermentazione alcolica. È un composto estremamente pericoloso anche in quantità
molto piccole (non può superare lo 0,25% nei vini e l’1% nei superalcolici), in quanto il fegato lo trasforma
in formaldeide, una sostanza molto tossica. Negli anni ‘80 si verificarono delle intossicazioni molto gravi,
che portarono in qualche caso anche alla morte, causate dal consumo di vino adulterato con metanolo
per aumentarne il grado alcolico.
L’alcool etilico (C2H5OH) è il costituente principale del vino e delle bevande alcoliche. È noto sin
dalla antichità e si ottiene dalla fermentazione (trasformazione ad opera di alcuni microrganismi)
degli zuccheri contenuti nell’uva (vino) o in altre frutta (sidro, cherry…) o cereali (birra, whisky….).
Nel fegato l’alcool etilico viene convertito nella tossica acetaldeide; per questo motivo è bene
limitarne l’uso. Ha inoltre un effetto neurotossico (danneggia i neuroni) con conseguenze sulle
funzioni psichiche e motorie. Se assunto in eccesso può dare il cosiddetto “coma etilico” che può portare anche alla morte.
Dà dipendenza e danni fisici gravi soprattutto al fegato in caso di abuso prolungato nel tempo. Gli effetti sulla vigilanza,sulla
memoria, sulla coscienza (fino al delirio…), sulla coordinazione motoria e sui tempi di reazione hanno indotto il legislatore a
mettere dei limiti alla sua assunzione per i guidatori. Per i neopatentati tale limite è zero! Vuol dire divieto di assumere alcolici
se ci si mette alla guida….
Il Glicol etilenico (CH2OHCH2OH) è un diolo e viene usato come additivo anticongelante nell’acqua di raffreddamento
dei motori della automobili. È tossico se ingerito.
La Glicerina (CH2OHCHOHCH2OH) è un triolo utilizzato come emolliente in molti prodotti cosmetici (saponi, creme,
detergenti…); è anche il composto da cui si parte per produrre la nitroglicerina (un potente esplosivo ma anche un efficace
vasodilatatore usato nelle malattie dell’apparato cardiovascolare).
Se l’ossidrile è unito ad un anello benzenico, i composti vengono detti fenoli. Sono acidi deboli, tanto che il fenolo
(il più semplice di questi composti) è anche detto acido fenico ed è usato come disinfettante.
Le aldeidi: Sono composti caratterizzati dalla presenza di un carbonile, cioè di un ossigeno legato con un
doppio legame
ad un carbonio.
L’aldeide più semplice ma anche la più famosa è la formaldeide. la sua soluzione acquosa al 37%, detta
formalina, veniva usata per conservare reperti biologici o piccoli animali e come disinfettante. La maggior parte
della produzione della formaldeide è utilizzata per produrre polimeri. Trova impiego come collante nei truciolati:
i mobili con essi costruiti rilasciano formaldeide nel tempo e questo è un problema perché questo composto è inserito dal
2004 nell’elenco delle sostanze cancerogene. C’è da dire che la quantità emessa è veramente molto piccola, mentre per
esempio fumare in una stanza quattro sigarette fa raggiungere il livello massimo tollerabile di formaldeide (visto che una
delle schifezze che si sviluppa dalla loro combustione è proprio la formaldeide). Morale: abbiamo trovato un altro ottimo
motivo per non fumare!
Esistono altre aldeidi decisamente più piacevoli, come quella che dà il profumo alla citronella, la pianta con la cui essenza
si possono preparare candele utili a tener lontane le zanzare nelle sere d’estate.
La benzaldeide (di cui abbiamo già parlato a proposito dei derivati del benzene) è una aldeide aromatica
dal caratteristico odore di mandorle amare. Viene utilizzata come aroma per i dolci a base di mandorle ed
è da preferire alle mandorle amare perché queste ultime contengono acido cianidrico, un veleno molto
pericoloso! Come vedete non tutte le cose “naturali” sono benefiche!
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I chetoni: Sono parenti stretti delle aldeidi.
Il chetone più conosciuto è l’acetone, quella sostanza che viene utilizzata per togliere lo
smalto dalle unghie. L’acetone viene infatti utilizzato principalmente come solvente (riesce a
sciogliere anche l’Attak!) ma trova utilizzo anche nella produzione di polimeri acrilici.
Acidi carbossilici: Sono caratterizzati dalla presenza del carbossili, cioè il gruppo –COOH.
L’acido carbossilico più importante è l’acido acetico che si ottiene dall’acetificazione del vino e che è noto sin dall’antichità.
E’ un acido debole: per questo non è pericoloso condire l’insalata con l’aceto!
Quest’ultimo è in grado di denaturare le proteine ( un processo che avviene durante la cottura degli alimenti
che le contengono), per cui può essere utilizzato per preparare delle ottime acciughe marinate
nell’aceto! (Se abitate in montagna prendete delle acciughe sotto sale, sciacquatele bene,
mettetele sotto aceto per qualche ora, sgocciolatele, conditele con olio e un po’ di aglio tritato e scoprirete
che la chimica non è fatta solo di schifezze!)
L’acido carbossilico più semplice è l’acido formico, quello che le “simpatiche” formiche rosse vi iniettano se vi
pizzicano. I corvi, animali più intelligenti di quel che si pensa, molestano le formiche in modo da farsi spruzzare
di acido formico: in questo modo l’uccello si libera dei suoi parassiti!
L’acido formico uccide la salmonella, il batterio responsabile di pericolose intossicazioni alimentari: può quindi
essere addizionato ai mangimi dei pollami per prevenire la contaminazione delle loro carni e delle uova con la salmonella.
Molto importanti sono anche gli acidi grassi, di cui parleremo nel paragrafo dedicato alle biomolecole.
Gli esteri: Derivano dalla reazione tra alcoli e acidi carbossilici. Gli esteri hanno solitamente odori gradevoli e
danno il loro profumo caratteristico a molti frutti.
Le ammine: Sono composti molto interessanti caratterizzati dalla presenza del gruppo –NH2. Noi ci soffermeremo
sull’anilina, dalla quale un chimico inglese, William Henry Perkin, ricavò nel 1856 un colorante viola, il primo
colorante sintetico, detto polvere di anilina o malveina. Ovviamente in quell’anno il viola malva fu molto
di moda, anche perché era un colorante molto meno costoso di quelli di origine naturale. Dall’anilina
successivamente si sintetizzarono molti altri coloranti; oggi però si sa che l’anilina è cancerogena. Fate
attenzione specialmente con le scarpe: se vi macchiano i piedi non le usate più perché potrebbero essere
state colorate con coloranti all’anilina!
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5. Le biomolecole
Gli organismi viventi, sono in grado di sintetizzare circa mille miliardi di molecole
differenti, molte delle quali indispensabili per la vita; a ben pensarci i “pochi” milioni di
molecole create artificialmente in laboratorio, sono poca cosa rispetto a tutto ciò!
Noi traiamo energia da carboidrati e grassi, i nostri muscoli sono formati da proteine; non
potremmo neanche funzionare tanto bene senza piccoli messaggeri dalla importante struttura
detti “ormoni”, o senza le proverbiali vitamine.
Il nostro sistema nervoso funziona per mezzo di certi mediatori chimici ai quali è affidato il
compito di trasferire l’impulso; inoltre, le particolari informazioni riguardanti il nostro essere,
sono fedelmente e impeccabilmente riportate nel nostro DNA (acido desossiribonucleico),
esponente di spicco della categoria degli acidi nucleici insieme a RNA (acido ribonucleico).
Proteine, zuccheri e acidi nucleici sono “polimeri”, ossia molecole ad altissimo peso
molecolare formate da unità più semplici dette monomeri (rispettivamente, amminoacidi,
monosaccaridi e nucleotidi); più precisamente, si usa definirli polimeri naturali, per distinguerli
dalla categoria dei “polimeri sintetici” di cui abbiamo accennato in precedenza.
Carboidrati: chiamati anche glucidi, zuccheri o saccaridi, i carboidrati sono composti organici tra i più abbondanti in natura
e rappresentano una indispensabile fonte di energia. A questa categoria appartiene ad esempio il glucosio, prodotto dalle
piante per mezzo della fotosintesi clorofilliana.
Quest’ultima è un meccanismo biologico molto raffinato e intelligente, nel quale viene sintetizzata una molecola
energeticamente molto utile a partire da molecole inorganiche comuni. Inoltre, durante questo processo, viene trasformata
energia luminosa in energia chimica. Un grammo di glucosio contiene circa 17kJ di energia.
6CO2 + 6H2O
Anitride Acqua
carbonica
CLOROFILLA
C6H12O6 + 6C2
Glucosio
Ossigeno
I carboidrati erano classicamente indicati come “idrati di carbonio”, in quanto la loro formula generale è Cn(H2O)n.
In base alla loro struttura vengono classificati come monosaccaridi zuccheri semplici che non possono essere ulteriormente
idrolizzati a zuccheri più semplici, oligosaccaridi, formati da poche unità di monosaccaride (i disaccaridi sono i più importanti),
e polisaccaridi, glucidi complessi che contengono numerosissime unità di monosaccaride; in tutti i casi, oligo e polisaccaridi,
le molecole di monosaccaride sono saldate per mezzo di un legame detto legame glicosidico.
I monosaccaridi rappresentano la più importante forma di energia; quando non utilizzati, vengono immagazzinati dagli
organismi sotto varie forme (es. glicogeno nel fegato degli animali, amido nelle piante etc.). Caratteristica comune a tutti i
monosaccaridi, è la presenza simultanea di un gruppo funzionale carbonilico, aldeidico o chetonico, e di gruppi ossidrile; li
definiamo poliidrossialdeidi o poliidrossichetoni.
Distinguiamo i monosaccaridi in aldosi e chetosi , a seconda che contengano la funzione aldeidica o chetonica, e in triosi,
tetrosi , pentosi, esosi , a seconda che contengano, tre, quattro, cinque o sei atomi di carbonio.
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Più precisamente, il fruttosio sarà un cheto-esoso, in quanto contenente sei atomi di carbonio e il gruppo chetonico; per
contro il glucosio sarà un aldo-esoso e il ribosio un aldo-pentoso e così via.
Il glucosio è l’esponente di spicco della categoria dei monosaccaridi, oltre ad essere probabilmente il composto organico
più presente in natura; attraverso il processo della glicolisi, è coinvolto nella produzione di ATP, strettamente connesso al
contenuto energetico delle cellule.
Altro monosaccaride estremamente importante è il fruttosio, che forma insieme al glucosio il disaccaride saccarosio (il
comune zucchero da tavola!).
I monosaccaridi si presentano sia in forma aperta, come quelle riportate finora, che in forma chiusa, ciclica, in equilibrio
con la forma aperta.
Come accennato, gli oligosaccaridi sono costituiti da due o più (in genere poche) unità di monosaccaride; a seconda del
numero vengono denominati di-, tri- tetrasaccaridi etc.
I disaccaridi sono i più importanti e sono formati da due unità di zucchero semplice.
Nella formazione dei disaccaridi si instaura un legame tra le due molecole di monosaccaride (legame glicosidico), con
perdita di una molecola di acqua.
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Tra i principali disaccaridi abbiamo:
• Il lattosio, formato da glucosio e galattosio, è uno dei principali
disaccaridi ed è il componente zuccherino del latte (vedi figura sopra).
• Il maltosio è formato da due molecole di glucosio e deriva dall’idrolisi
del malto.
• Il saccarosio è lo zucchero di canna o di barbabietola ed è il
dolcificante più comune nelle nostre tavole; è formato da una molecola
di glucosio e una di fruttosio.
Cellulosa, amido e glicogeno sono senz’altro tra i polisaccaridi più importanti in natura; i polisaccaridi sono polimeri
naturali ad elevatissimo peso molecolare.
La cellulosa è sicuramente il polisaccaride più presente in natura ed è materiale di sostegno dei tessuti vegetali (il legno è
costituito per il 50% da cellulosa); è composta da lunghissime catene di β-D-Glucosio e da essa si ricava, tra gli altri prodotti,
la carta. L’uomo, mancante degli enzimi appropriati, non è in grado di digerirla, al contrario dei ruminanti.
L’amido rappresenta un’eccellente bacino di riserva delle piante; è presente nei cereali, nel grano e nel riso e consiste un
una catena di molecole di α-D-Glucosio.
Distinguiamo due forme, l’amilosio a catena lineare e l’amilopectina, a
struttura ramificata.
Il glicogeno, come accennato, è invece il polisaccaride di riserva degli
organismi viventi ed è rintracciabile soprattutto nel fegato e nei
muscoli; al momento del bisogno, l’organismo demolisce il glicogeno
allo scopo di ottenere glucosio (glicogenolisi).
La cellulosa è il principale
materiale di sostegno delle piante
Lipidi: alla classe dei lipidi appartengono sostanze strutturalmente molto diverse tra loro, con diverse funzioni; caratteristica
comune a queste sostanze, è di essere insolubili in acqua e solubili in solventi apolari (etere). I lipidi (dal greco “lipos”,
grasso) rappresentano un’importante riserva energetica; durante l’attività fisica vengono consumati insieme ai carboidrati
(un grammo di “grasso” produce ben 37 kJ di energia contro i 17 kJ dei carboidrati!). Quella energetica non
è l’unica funzione biologica dei lipidi, che svolgono anche mansione strut turale e di trasporto (fosfolipidi,
lipoproteine, ormoni di natura steroidea etc.).
Grassi e oli sono i lipidi più semplici e i più comuni, solidi i primi e liquidi i secondi; da un punto di vista
strutturale essi sono esteri del glicerolo, o meglio triesteri, dato che il glicerolo è un alcol che contiene tre
funzioni alcoliche.
I trigliceridi si ottengono dall’esterificazione delle funzioni alcoliche del glicerolo con tre molecole di acido
grasso. Gli acidi grassi sono acidi monocarbossilici alifatici, con un numero pari di atomi di carbonio (in genere
tra 4 e 30). In base alla presenza o meno di doppi legami, distinguiamo gli acidi grassi in saturi e insaturi.
Ecco alcuni esempi di acidi grassi saturi:
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I grassi liquidi (oli), contengono invece una percentuale piuttosto elevata di acidi grassi insaturi , come l’oleico o il linoleico:
Un opportuno processo di idrogenazione a carico dei doppi legami consente di ottenere un
“indurimento” dei grassi liquidi di origine vegetale; tale processo è alla base della produzione delle
cosiddette margarine.
Proteine: sono polimeri naturali che si compongono di aminoacidi (i monomeri) legati tra loro mediante un legame
ammidico (-CO-NH-) detto legame peptidico; sono essenziali per la struttura, il funzionamento e la riproduzione dei viventi.
Gli aminoacidi, monomeri delle proteine, rappresentano il 15% del peso del corpo umano; dal
nome si arguisce che sono caratterizzati da un gruppo amminico (-NH2) e da un gruppo
carbossilico (-COOH). Il gruppo –R è quello che caratterizza i vari amminoacidi. Nonostante il gran
numero di proteine conosciute, gli amminoacidi presenti in natura sono solo venti. Poiché
l'organismo umano non è in grado di sintetizzare alcuni aminoacidi o,
se lo è, la velocità di sintesi non è sufficiente al bisogno, esso deve
assumere questi aminoacidi dall'esterno, mediante l'alimentazione, e ciò ad evitare la comparsa
di manifestazioni morbose. Tali amminoacidi sono detti "aminoacidi essenziali" e sono: leucina,
isoleucina, treonina, metionina, lisina, fenilalanina, triptofano, valina e, sicuramente per i neonati,
istidina.
Come detto, gli amminoacidi si saldano tra loro tramite legame peptidico per formare catene peptidiche; tale legame fu
ipotizzato da Emil Fischer e riguarda il gruppo carbossile di un aminoacido e il gruppo amminico dell’amminoacido
adiacente:
Gli oligopeptidi (di-, tri-, tetra peptici etc. fino a circa dieci unità) sono catene costituite da pochi amminoacidi; catene più
lunghe vengono definite propriamente peptidi. Alcuni peptidi sono molto importanti a livello biologico e fisiologico, pur non
concorrendo alla formazione di proteine (ad esempio la bradichinina, nonapeptide che interviene nella regolazione della
pressione sanguigna, l’ossitocina, secreta dal lobo posteriore dell’ipofisi, o la vasopressina, ancora un nonapeptide che
concorre alla regolazione della pressione arteriosa).
La descrizione della struttura delle proteine è abbastanza complessa; distinguiamo quattro tipi di struttura: primaria,
secondaria, terziaria e quaternaria.
La struttura primaria descrive il numero, il tipo e la sequenza degli amminoacidi impegnati nella catena:
legame peptidico
Gly –Ile-Val-Glu-Gln-Cys-Cys-Thr-Ser-Leu-Tyr
Struttura primaria di un frammento della catena dell’insulina
La struttura secondaria riguarda il modo in cui tale catena si dispone; fondamentalmente sono possibili due tipi di struttura,
ad elica (α-elica) o a foglietto:
Struttura dell’α-elica
Struttura del foglietto β
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A determinare la struttura secondaria concorrono deboli legami a idrogeno (quelli tratteggiati nelle
figure) che si formano tra l’idrogeno legato all’azoto e l‟ossigeno del gruppo carbonilico.
Il modo in cui si ripiegano le α-eliche o i foglietti, ovvero la sistemazione nello spazio tridimensionale,
riguarda invece la struttura terziaria, dipendente in gran parte dai gruppi alchilici –R.
Emoglobina
Infine, alcune proteine sono in realtà costituite da due o più sub-unità (struttura quaternaria); è il caso dell’emoglobina,
struttura formata da quattro sub-unità peptidiche.
Acidi nucleici: sono svariati milioni gli organismi viventi in grado di riprodursi; ciò vale sia per gli organismi monocellulari,
che per gli individui strutturalmente superiori. Questa capacità di riprodursi si esplica attraverso un meccanismo altamente
sofisticato che porta alla generazione di un individuo del tutto simile al progenitore. Ogni cellula dovrà dunque possedere
un “codice” in grado di tradurre tutte le informazioni necessari alla “progettazione” e alla costruzione del nuovo essere.
Questo complesso “dossier” di informazioni, chiamato genoma, è contenuto nel DNA, acido desossiribonucleico, sostanza
a cui si deve la biosintesi delle proteine, nonché la costruzione di un indispensabile messaggero, l’acido ribonucleico, RNA,
l’altro esponente degli acidi nucleici.
Il DNA fu isolato per la prima volta nel 1869 dal biochimico svizzero Friedrich Miescher, il quale gli assegnò il nome di
“nucleina”. Una struttura definitiva fu invece proposta nel 1953 da James Watson e Francis Crick, in servizio presso il
Cavendish Laboratori di Cambridge.
Friedrich Miescher
James Watson e Francis Crick
Strutturalmente DNA e RNA sono piuttosto simili; entrambi sono polimeri costituiti da nucleotidi e questi ultimi sono formati
da acido fosforico, da uno zucchero (ribosio nel caso dell’RNA e desossiribosio nel DNA) e da una base organica
eterociclica, purinica o pirimidinica.
Ciascun acido nucleico contiene quattro diverse basi, due puriniche, guanina e adenina, e due pirimidiniche, timina e
citosina; nell’RNA l’uracile è al posto della timina.
basi puriniche
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basi pirimidiniche
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La molecola di zucchero e quella della base (legate tramite legame glicosidico) costituiscono il nucleoside, il quale, legato
al gruppo fosfato (mediante legame estereo) forma il nucleotide.
un nucleotide
La struttura a doppia elica proposta da Watson e Crick, prevede due catene di DNA in cui le basi si attraggono mediante
legame a idrogeno. L’accoppiamento non è casuale; infatti l’adenina si lega sempre alla timina e la guanina alla citosina.
Adenina
Guanina
Timina
Citosina
Come accennato prima, il DNA contiene le informazioni adeguate per la sintesi delle proteine;
ad ogni tripletta di basi (codone) corrisponde un determinato amminoacido. Il codice genetico,
universale e comune a tutti gli organismi, può essere definito come la relazione tra DNA, che
contiene il “messaggio” e lo trascrive su un opportune frammento di RNA, detto messaggero,
e la sequenza degli amminoacidi che vanno a costruire una data proteina.
Le cellule contengono tre tipi di RNA: l’RNA messaggero (mRNA), il quale presiede alla
trascrizione del codice genetico (il DNA è confinato nel nucleo e per “dirigere” la biosintesi delle
proteine, che avviene nei ribosomi, ha bisogno di un mediatore, l’mRNA appunto); l’RNA
transfer, che ha il compito di trasportare gli aminoacidi per la formazione dei legami peptidici (il
t-RNA ha in altre parole il compito di tradurre le triplette del codice genetico nel “linguaggio”
degli amminoacidi) e l’RNA ribosomiale (rRNA), principale componente dei ribosomi.
L’essere umano è dunque “costruito” in base alle istruzioni impartite dal DNA; una cellula contiene
circa due metri di acido nucleico, il quale a sua volta porta svariati miliardi di nucleotidi.
Il DNA ha la capacità di replicarsi, cioè è capace di sintetizzare dei filamenti identici a sé stesso; il filamento serve per la
sintesi dell’RNA, il tutto catalizzato da una serie di enzimi, tra cui DNA sintetasi e RNA sintetasi.
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L’RNA messaggero passa dunque nei ribosomi, dove si trovano frammenti di RNA transfert, ognuna delle quali contenente
una tripletta di nucleotidi in grado di trasportare un determinato amminoacido :
Il codice genetico: a ogni tripletta di basi corrisponde un amminoacido
Concludiamo il nostro viaggio nella chimica del carbonio così come lo avevamo iniziato, con il nostro amico chimico-poeta Alberto Cavaliere che,
sempre a suo modo e cioè in versi, ci fornisce la scomposizione chimica del corpo umano:
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
IL CORPO UMANO
Ecco un'analisi
non troppo amena,
che ha fatto un màcabro
dottore a Jena:
Ma ciò che supera
le previsioni
più catastrofiche
sono i bottoni;
preso un cadavere,
l'ha decomposto,
con molto scrupolo
stimando il costo.
ne ottieni un numero
fenomenale,
sì che un legittimo
dubbio t'assale:
L'ossa forniscono
tanta calcina
dal far l'intonaco
d'una cucina,
fece l'analisi
quell'alchimista
sopra lo scheletro
d'un giornalista?
e si ricupera
tanta grafite
da far al massimo
cento matite
Volendo vendere
questi elementi
ai poco modici
prezzi correnti,
I grassi abbondano
- strano contrasto! pure in chi è solito
saltare il pasto.
ci si ricavano
venti lirette:
alcune scatole
di sigarette!
Da tutto il fosforo,
piedi compresi,
al più ci scappano
mille svedesi,
Che cifra misera!
Solo conforto,
se si considera
che l'uomo morto,
mentre distillasi
dal corpo vile
d'acqua…potabile
tutto un barile.
oscuro o celebre,
ricco o pezzente,
sciocco o filosofo,
vale ugualmente.
Il ferro è in minime
tracce, di modo
che non ci fabbrichi
neppure un chiodo:
Ed è ridicolo,
in fondo in fondo,
che, mentre vivono
su questo mondo,
fatto stranissimo
perché da vivi
di chiodi, in genere,
non siamo privi.
sia dian cert'arie
tanti mortali,
se poi gli scheletri
son tutti uguali!
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Scienze Integrate/Chimica - secondo anno
Hanno collaborato alla stesura dell opera:
Caratto Alessandra
ITI “Molinari” MI
Fiorentino Giuseppe
ITIS- Liceo Scientifico “Majorana “ BR
Giuli Roberto
ITIS “ Cassata” Gubbio PG
La Torre Angela
ITIS- Liceo Scientifico “Majorana “ BR
Lasagna Cinzia
ITCG “Maggiolini” Parabiago MI
Margarito Gioacchino
ITIS- Liceo Scientifico “Majorana “ BR
Pellei Lucia
ITIS “ Volterra Elia” AN
Serio M. Rosaria
ITIS- Liceo Scientifico “Majorana “ BR
Vinjau Beatrice
ITIS- Liceo Scientifico “Majorana “ BR
Luglio 2015
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