FISICA ElettroMagnetismo LA CORRENTE ELETTRICA

FISICA
ElettroMagnetismo
LA CORRENTE ELETTRICA
Autore: prof. Pappalardo Vincenzo
docente di Matematica e Fisica
1. LA CORRENTE ELETTRICA E LA FORZA ELETTROMOTRICE
Nei comuni apparecchi elettrici si riproduce sempre sostanzialmente la stessa situazione: una sorgente di
energia elettrica è collegata per mezzo di un circuito elettrico a un utilizzatore (lampadina, altoparlante,
stufa,ecc.). In ogni caso attraverso il circuito si ha un moto di cariche elettriche.
Nei metalli, in particolare, i portatori di carica in movimento sono gli elettroni di conduzione.
Come le molecole di un gas, gli elettroni di conduzione si muovono in modo caotico, con una
velocità media dell'ordine di 105 m/s. Tuttavia questo moto disordinato, chiamato moto di
agitazione termica, non costituisce una corrente, in quanto per ogni elettrone che si muove in
un verso ne esiste sempre un altro che si muove in verso opposto.
La situazione cambia se agli estremi del conduttore si applica una differenza di
potenziale fornita da una sorgente elettrica (generatore). All'interno del conduttore,
non più in condizioni di equilibrio elettrostatico, si stabilisce allora un campo elettrico
e gli elettroni di conduzione assumono una velocità nella stessa direzione e in verso
opposto rispetto al campo.
Tale velocità, chiamata velocità di deriva, è dell'ordine di 10-4 m/s, di gran lunga
più piccola della velocità di agitazione termica ma sufficiente a far sì che il moto
ordinato d'insieme dei portatori di carica manifesti concretamente i suoi effetti
(lampadine che si accendono, altoparlanti che emettono suoni, stufe che riscaldano,
ecc.). Diciamo allora che il conduttore è percorso da una corrente elettrica.
Nonostante la lentezza del moto di deriva degli elettroni, il segnale elettrico si propaga pressoché
istantaneamente: premendo un interruttore sulla Terra, in poco più di un secondo potremmo accendere,
attraverso un ipotetico filo metallico teso fino alla Luna, una lampadina sul nostro satellite.
In realtà il segnale non è trasportato dalle cariche, bensì dal campo elettrico, che nei conduttori
metallici si propaga praticamente alla velocità della luce nel vuoto.
In altri sistemi che conducono elettricità, tuttavia, il trasporto del segnale è molto più lento. Per esempio, lungo gli assoni delle cellule
nervose dell'uomo e degli animali il segnale elettrico, detto potenziale di azione, si propaga con una velocità di appena 30 rn/s. Il tal caso
il meccanismo di conduzione implica il movimento di ioni e non di elettroni.
INTENSITA’ DI CORRENTE ELETTRICA
Per corrente elettrica s’intende qualsiasi movimento ordinato di
cariche elettriche. Per intensità di corrente elettrica s’intende il
rapporto tra la quantità di carica elettrica che attraversa una sezione
qualsiasi del conduttore in un certo intervallo di tempo e l'intervallo
di tempo stesso:
i=
∆q
∆t
Unità di misura: Ampère [A]
Agli inizi del secolo XIX, quando venne data la definizione di corrente, non erano ancora stati
scoperti gli elettroni e si definì come verso convenzionale della corrente quello secondo cui si
muovono le cariche positive, cioè il verso del campo elettrico. Noi, come è consuetudine,
manteniamo tale convenzione, per cui quando diciamo che un filo metallico è percorso da una
corrente elettrica dall'estremo A all'estremo B, ciò vuol dire che nel filo esiste un flusso di
elettroni in verso opposto, cioè da B ad A.
Affinché una corrente scorra stabilmente lungo un conduttore, è necessario mantenere una differenza di
potenziale fra gli estremi del conduttore. Il flusso degli elettroni nel filo metallico ovviamente diminuire il
potenziale dell'estremo A e aumentare il potenziale dell'estremo B; quindi tende ad annullare la differenza di
potenziale e, conseguentemente, anche l'intensità di corrente.
Per mantenere costante nel tempo il flusso degli elettroni, è necessario perciò ripristinare in ogni istante la differenza di potenziale
iniziale. Si raggiunge tale scopo con un generatore di tensione, per esempio una pila o un accumulatore.
Ogni generatore di tensione è formato da due elettrodi, comunemente costituiti da materiali conduttori
diversi, immersi in una soluzione elettrolitica. Dei due elettrodi, in seguito a reazioni chimiche, uno si carica
positivamente e prende il nome di polo positivo (indicato con il segno +) mentre l'altro si carica
negativamente e prende il nome di polo negativo (indicato con il segno -).
SPIEGAZIONE – L’elettrodo di zinco manda in soluzione ioni Zn++, caricandosi negativamente grazie agli
elettroni liberati dagli atomi di zinco (reazione di ossidazione); contemporaneamente gli ioni idrogeno H+
presenti nella soluzione elettrolitica sottraggono ognuno un elettrone all’elettrodo di rame, che in tal
modo si carica positivamente (reazione di riduzione)
Altezza maggiore
=
polo positivo
= d.d.p.
Altezza minore
=
polo negativo
Pompa = generatore
di tensione
Il ruolo di un generatore è analogo a quello di una
pompa in un circuito idraulico. Infatti il movimento
di cariche elettriche fra le due estremità a diverso
potenziale di un filo metallico può essere paragonato al
flusso d'acqua fra due vasi comunicanti a diverso livello.
Se vogliamo che il flusso continui, dobbiamo mantenere
costante il dislivello, mediante una pompa che fa salire
il liquido nel recipiente dove raggiunge l'altezza
maggiore. La pompa sposta il liquido verso l'alto, cioè in
verso opposto a quello secondo cui si muoverebbe se
fosse
soggetto
alla
sola
forza
del
campo
gravitazionale.Per innalzare una massa liquida a una
certa altezza, una pompa idraulica deve compiere,
contro la forza gravitazionale, un lavoro uguale
all'aumento di energia potenziale del liquido. In modo
analogo un generatore deve compiere un lavoro ∆L
contro la forza del campo elettrico per portare una
carica positiva ∆q dal polo negativo al polo positivo.
FORZA ELETTROMOTRICE
La forza elettromotrice (f.e.m.), definita come la differenza di potenziale fra i
poli del generatore a circuito aperto, è data dal rapporto fra il lavoro ∆L
compiuto dal generatore per portare la carica positiva ∆q dal polo negativo al
polo positivo e la carica ∆q:
f =
∆L
∆q
Unità di misura: Volt [V]
I generatori possono essere collegati fra loro in due modi: in serie (fig. a) e in parallelo (fig.
b). Nel collegamento in serie, detto anche batteria, il polo negativo di un generatore è
connesso con il polo positivo dell'altro, mentre nel collegamento in parallelo sono connessi
fra loro i poli positivi e quelli negativi. È ovvio che la f.e.m. di un sistema di generatori in
serie è uguale alla somma delle f.e.m. dei singoli generatori.
2. LEGGI DI OHM
Se agli estremi di un filo conduttore applichiamo una d.d.p. V, il filo è
attraversato da una corrente elettrica la cui intensità dipende, oltre che da V,
dalle proprietà del conduttore. Riguardo alla relazione fra differenza di
potenziale e intensità di corrente, nel 1826 il fisico tedesco Georg Simon Ohm
(1787-1854) trovò sperimentalmente la seguente legge:
PRIMA LEGGE DI OHM
A temperatura costante, la differenza di potenziale ∆V applicata a due
estremità di un conduttore metallico è direttamente proporzionale
all'intensità i della corrente che percorre il conduttore:
∆V = R ⋅ i
Il coefficiente di proporzionalità R è chiamato resistenza elettrica del
conduttore.
La 1a legge di Ohm non è una legge generale e vale entro un campo limitato di condizioni, per esempio per correnti non troppo elevate.
R, la cui unità di misura nel SI è l’ohm [Ω], è una misura della resistenza che il conduttore oppone al
passaggio della corrente elettrica, infatti, per una determinata differenza di potenziale, più grande è R, meno
intensa è la corrente che scorre nel conduttore:
i=
∆V
R
Data la proporzionalità diretta fra ∆V e i, misurando l'intensità di
corrente in un conduttore metallico al variare della d.d.p. applicata agli
estremi e riportando i valori di queste due grandezze su un sistema di
assi cartesiani, otteniamo una retta passante per l'origine; questa retta
è la curva caratteristica del conduttore considerato. Tutti i conduttori la
cui curva caratteristica è una retta si chiamano conduttori ohmici.
Poiché la pendenza della retta vale 1/R, a pendenza maggiore
corrisponde resistenza minore.
Stabilito che ogni conduttore ha una propria resistenza elettrica, si
pone il problema di determinare da quali parametri dipenda.
SECONDA LEGGE DI OHM
La resistenza di un filo conduttore è direttamente proporzionale alla lunghezza L e
inversamente proporzionale alla sezione S, cioè:
R=ρ
L
S
in cui ρ è una costante di proporzionalità, chiamata resistività, dipendente solo dalla
natura fisica del conduttore.
Sperimentalmente si trova che nei metalli la
resistività aumenta con la temperatura secondo una
legge lineare del tipo:
ρt = ρ0 ⎡⎣1 + α(t − 20)⎤⎦
dove ρt indica la resistività alla temperatura
centigrada t, ρ0 la resistività a 20°C e α un
coefficiente
caratteristico
del
metallo
considerato. L’unità di misura della resistività
è: [Ω·m]
È da notare che nel caso del germanio e del silicio, tipici
semiconduttori, il coefficiente α è negativo e di elevato valore
assoluto, per cui la resistività diminuisce notevolmente
all'aumentare della temperatura. La ragione di questo
particolare
comportamento
risiede
nel
fatto
che
i
semiconduttori, a differenza dei conduttori, liberano un
numero di elettroni di conduzione sempre maggiore con
l'aumentare della temperatura.
La variazione della resistività con la temperatura viene
sfruttata nel bolometro, termometro molto sensibile che
permette di apprezzare variazioni di temperatura fino a
10-4 °C attraverso la misura della resistenza di alcuni
conduttori, come il platino o il bismuto, al variare della
temperatura.
3. CIRCUITI ELETTRICI IN CORRENTE CONTINUA
Quando agli estremi di un conduttore si applica una differenza di potenziale
costante nel conduttore scorre una corrente continua, una corrente cioè la
cui intensità non varia nel tempo.
In termini energetici, se ricordiamo
che il potenziale è l'energia elettrica
per unità di carica, il generatore
cede alla carica unitaria che lo
attraversa l'energia elettrica f a
spese della propria energia, e la
carica ne dissipa una parte,
esattamente r·i, nella resistenza del
generatore.
Finora abbiamo assunto che un generatore
fornisca a un circuito semplicemente una forza
elettromotrice. In realtà aggiunge al circuito
anche una resistenza. Infatti la corrente scorre
anche all'interno del generatore, dove, per varie
cause, il moto dei portatori di carica incontra
degli ostacoli. Questa resistenza è detta
resistenza interna del generatore.
Spostandosi nel verso della corrente attraverso la resistenza R, il potenziale
subisce, per la prima legge di Ohm, una diminuzione, detta caduta di
tensione:
∆V1 = R·i
Se ci si muove invece entro il generatore nel verso della corrente interna,
cioè dal polo negativo a quello positivo, il potenziale subisce un aumento f
uguale alla f.e.m. del generatore, oltre a una diminuzione ∆V2 = r·i
dovuta alla resistenza interna del generatore.
PRINCIPI DI KIRCHOFF (1824-1887)
Esempio
Due resistenze, 7 Ω e 13 Ω, sono
collegate in parallelo e alimentate
da una tensione di 12 V. Calcolare
l’intensità di corrente erogata dal
generatore e quella che attraversa
ogni singola resistenza.
Per calcolare la corrente erogata dal generatore, dobbiamo prima determinare la resistenza totale. Poiché le due resistenze sono in
parallelo, la resistenza totale si calcola come:
1
1
1
1
1
1
=
+
= +
= 0,22Ω −1 ⇒ R T =
= 4.5Ω
RT
R1 R 2
7 13
0,22
e, pertanto, il circuito sarà equivalente a quello indicato in figura. Applicando a questo circuito la legge di Ohm, si ottiene la corrente
erogata dal generatore:
RT =
V
12
V
⇒I=
=
= 2,7A
RT
4,5
I
Poiché le due resistenze sono collegate in parallelo, e quindi sottoposte alla stessa differenziale di potenziale del generatore, la corrente
che le attraversa sarà:
I1 =
V
12
=
= 1,7A
R1
7
I2 =
V
12
=
= 0,9A
R 2 13
Ovviamente:
I = I1 + I2 = 2,7A
Questo risultato esprime il cosiddetto: 1° principio di Kirchoff
Resistenze in serie
Due o più resistenze sono collegate in serie quando sono
attraversate dalla stessa intensità di corrente.
COLLEGAMENTO DI RESISTENZE IN SERIE
Due o più resistori collegati in serie sono equivalenti a un unico
resistore avente una resistenza Req pari alla somma delle
resistenze dei singoli resistori.
R eq = R1 + R 2 + ... =
∑R
i
La d.d.p. agli estremi di tale resistore è uguale alla somma delle
cadute di tensione su tutti i resistori e l’intensità di corrente ì che
lo attraversa è uguale a quella che scorre in ogni resistore.
∆V = ∆V1 + ∆V2 + ...
Resistenze in parallelo
Due o più resistenze sono collegate in parallelo quando sono sottoposte alla stessa d.d.p. ∆V.
COLLEGAMENTO DI RESISTENZE IN SERIE
Due o più resistori collegati in parallelo sono equivalenti a un unico
resistore avente una resistenza Req il cui reciproco è uguale alla
somma dei reciproci delle singole resistenze.
1
1
1
=
+
... =
R eq R1 R 2 +
1
∑R
i
La d.d.p. agli estremi di tale resistore è uguale a quella esistente fra
gli estremi di ciascun resistore e la corrente che lo attraversa è pari
alla somma delle intensità di corrente che attraversano le singole
resistenze.
∆V = ∆V1 = ∆V2 = ...
i = ii + i2 + ... =
∑i
i
1° PRINCIPIO DI KIRCHHOFF
La somma delle correnti entranti in un nodo è uguale alla somma delle
correnti uscenti
∑I
Entranti
=
∑I
Uscenti
Infatti:
I = corrente entrante nel nodo A
I1 = corrente uscente dal nodo A
I2 = corrente uscente dal nodo A
I1 = corrente entrante nel nodo B
I2 = corrente entrante nel nodo B
Oppure:
I = corrente uscente dal nodo B
Nodo: punto di un circuito in cui confluiscono, o da cui si diramano, più di due rami di un circuito.
Esempio
Due lampadine di 10 Ω e di 5 Ω collegate in serie sono alimentate da tre generatori di
tensione inseriti in serie come in figura, aventi ciascuno un valore, rispettivamente, di 10 V,
13 V e 7 V. Calcolare l’intensità di corrente che attraversa il circuito.
2° PRINCIPIO DI KIRCHHOFF
La somma algebrica delle f.e.m. (V) applicate in un
circuito è uguale alla somma delle cadute di tensione
(VR = R·I) provocate dal passaggio della corrente
nelle resistenze presenti nel circuito:
Convenzione:
∑ V = ∑R ⋅ I
1.
Il verso della corrente nel circuito, quando sono
presenti più generatori di tensione, viene fissato a
piacere. Se il valore trovato è positivo, allora il verso
fissato è quello giusto; se il valore trovato è negativo,
allora il verso giusto sarà contrario a quello fissato.
2.
La f.e.m. (forza elettromotrice) è positiva se la corrente
la attraversa dal polo negativo al polo positivo; la f.e.m.
è negativa se la corrente la attraversa dal polo positivo
al polo negativo, nel qual caso si chiama f.c.e.m. (forza
controelettromotrice)
Applichiamo il 2° principio di Kirchhoff:
V − V2 + V3 10 − 13 + 7
=
= 0,27A
V1 − V2 + V1 = (R1 + R 2 ) ⋅ I ⇒ I = 1
R1 + R 2
10 + 5
dove:
‰ in base alla convenzione adottata, V1 e V3 sono
positive, quindi si comportano come f.e.m., e V2 è
negativa, quindi si comporta come una f.c.e.m.
‰ le due resistenze, essendo in serie, sono state
sommate
Poiché il valore trovato è positivo, il verso fissato alla corrente nel circuito è quello giusto.
Ripetiamo l’esercizio con i seguenti valori delle f.e.m.:
Applichiamo il 2° principio di Kirchhoff:
V1 = 10 V
V2 = 20 V
V1 − V2 + V1 = (R1 + R 2 ) ⋅ I ⇒ I =
V3 = 6 V
V1 − V2 + V3 10 − 20 + 6
=
= −0,27A
R1 + R 2
10 + 5
Poiché il valore trovato è negativo, il verso giusto della corrente nel circuito sarà contrario a quello
fissato.
4. STRUMENTI DI MISURA
L’amperometro è uno strumento che
serve per misurare l’intensità di corrente e
viene collegato in serie. È caratterizzato da
una resistenza interna r molto minore della
resistenza esterna R.
Rappresentazione simbolica
del circuito
Un amperometro misura l'intensità di corrente che lo attraversa, e quindi deve essere inserito in serie nel circuito su cui si vuole eseguire la misura, in
modo che strumento e circuito siano percorsi dalla stessa corrente. Poiché il dispositivo possiede una polarità, è inoltre necessario fare attenzione a
collegare il morsetto positivo con il polo positivo del generatore e il morsetto negativo con il polo negativo.
Poiché l'amperometro presenta una resistenza interna r, il suo inserimento nel circuito fa aumentare la resistenza totale. Di conseguenza, la corrente
che si misura ha un'intensità minore rispetto a quella che scorreva prima. Affinché questa perturbazione sia trascurabile, la resistenza r deve essere molto
piccola rispetto alla resistenza totale del circuito.
Il voltmetro è uno strumento che serve per
misurare la differenza di potenziale e viene
collegato in parallelo. È caratterizzato da una
resistenza interna r molto maggiore della
resistenza esterna R.
Per misurare la d.d.p. fra gli estremi di un resistore è necessario
che questi siano allo stesso potenziale dei morsetti del voltmetro.
Quindi il voltmetro deve essere inserito in parallelo con il
resistore, avendo cura di collegare il morsetto positivo con
l'estremo a potenziale maggiore e quello negativo con l'estremo a
potenziale minore.
Se i è la corrente che attraversa il resistore e R è la sua resistenza, la d.d.p. da misurare è uguale a Ri. Pertanto è necessario che l'inserimento del
voltmetro non alteri apprezzabilmente l'intensità della corrente che scorre nel circuito.
Poiché d'altra parte le intensità di corrente che attraversano due resistori collegati in parallelo sono inversamente proporzionali alle resistenze, bisogna
che la resistenza interna r del voltmetro sia molto più grande di R. In tal caso, infatti, la corrente che passa attraverso il voltmetro è trascurabile e il
resistore è percorso con buona approssimazione dalla stessa intensità di corrente, con o senza l'inserimento del voltmetro nel circuito.
Rappresentazione simbolica
del circuito
Vogliamo ora occuparci di un altro componente fondamentale dei circuiti elettrici, il reostato.
Rappresentazione simbolica
Questo dispositivo è costituito da un resistore realizzato con un filo
metallico, avvolto a spirale su un cilindro isolante e con gli estremi
terminanti su due morsetti A e B. Le spire del filo sono fra loro isolate.
Un cursore, scorrevole sull'avvolgimento e collegato con un terzo
morsetto C, è a contatto con il filo.
Un reostato può essere impiegato come:
resistenza variabile: si basa sul fatto che la resistenza di un filo
conduttore è direttamente proporzionale alla sua lunghezza (seconda
legge di Ohm). Se colleghiamo i morsetti A e C del reostato ai poli di
un generatore, la parte di resistenza inserita nel.circuito è quella
compresa fra A e il cursore. Spostando con continuità il cursore da B
ad A, la resistenza inserita nel circuito varia dal massimo valore,
corrispondente alla resistenza di tutto il filo, a zero.
potenziometro: spostando il cursore da A a B, il voltmetro segna una tensione crescente da
zero a un valore massimo ∆V0, uguale, a meno della caduta ohmica sulla resistenza interna
del generatore, alla fe.m. del generatore. Infatti la corrente che attraversa il reostato, di
resistenza complessiva R, è:
(1) i =
∆V0
R
∆V1 = iR1
Se indichiamo con R1 la parte della resistenza compresa fra A e C, la d.d.p.
fra gli stessi punti è:
Tenendo conto dell'espressione (1) si ha perciò:
∆V1 =
R1
∆V0
R
Essendo R1 compresa fra zero e R, fra i morsetti A e C si può ottenere una tensione variabile fra zero e ∆V0, con la quale è
possibile alimentare un qualsiasi circuito.
Nelle misure elettriche viene spesso utilizzato un singolo strumento, chiamato
multimetro, che può assolvere alle funzioni di amperometro, voltmetro e
ohmmetro (strumento per la misura di resistenze). Come tutti gli strumenti che
abbiamo descritto, i multimetri possono essere di tipo analogico o digitale.
In generale nei circuiti elettrici, tranne i casi in cui si hanno
correnti di elevata intensità, si usano dei resistori di piccole
dimensioni realizzati con carbone opportunamente trattato, la
cui resistenza può assumere valori compresi fra qualche ohm
e molti megaohm.
Questi resistori presentano un involucro diviso in quattro fasce colorate: le
prime tre rappresentano, rispettivamente, la prima, la seconda cifra e il
numero di zeri del valore della resistenza espresso in ohm, mentre la quarta
indica l'errore percentuale sulla resistenza.
Codici dei colori delle resistenze
Vari tipi di resistori comunemente
usati nei circuiti elettrici
Esempio
Se le fasce presentano la successione dei colori: verde-rosso-arancione-oro
la resistenza è: 52000 Ω = 52 kΩ, con un errore del 5%.
5. ENERGIA E POTENZA ELETTRICA
Esistono diversi elettrodomestici quali l'asciugacapelli o il ferro da stiro che, una volta collegati alla presa
della corrente, si riscaldano. Qual è la ragione fisica?
SPIEGAZIONE - Sappiamo che l'energia non si crea dal nulla. Vediamo allora in quale
maniera si ottiene l'energia termica finale a partire da quella elettrica iniziale. Nel generatore
le cariche acquistano energia potenziale e nel conduttore collegato al generatore stesso gli
elettroni, a causa delle forze del campo elettrico, si mettono in movimento, per cui la loro
energia potenziale inizia a trasformarsi in energia cinetica. Tuttavia, gli elettroni non si
spostano in uno spazio vuoto. Considerata la struttura del conduttore, dopo un percorso più o
meno breve essi urtano contro gli ioni del reticolo cristallino, i quali accrescono così la loro
energia di oscillazione a scapito di quella delle particelle cariche.
Dopodiché, gli elettroni, la cui velocità dopo l'urto è diminuita, vengono nuovamente accelerati dalle forze del campo elettrico: il processo
si ripete. Tali eventi, che a livello microscopico provocano un aumento dell'energia cinetica media di oscillazione degli ioni del reticolo,
equivalgono a livello macroscopico a un innalzamento della temperatura del conduttore. Questo fenomeno viene definito effetto Joule.
L’effetto Joule è quel processo fisico nel quale l’energia elettrica si dissipa, nel passare della corrente
attraverso i conduttori, sotto forma di calore
Cerchiamo adesso di quantificare le conseguenze dell' effetto Joule:
In base al principio di conservazione dell' energia, possiamo dedurre che tutta l'energia termica Q
(calore) dissipata deve essere uguale al lavoro L compiuto dalle forze del campo elettrico per
spostare la carica q da un estremo all'altro del conduttore, tra i quali si ha la d.d.p. ∆V:
Q=L
Conseguentemente, la potenza P = Q/∆t perduta nell’intervallo di tempo ∆t in seguito al passaggio
nel conduttore della corrente I, che provoca uno spreco di energia sotto forma di calore Q,
coincide con la definizione della potenza P = L/∆t. Ricorrendo alla definizione di d.d.p., a quella di
intensità di corrente elettrica, e alla 1a legge di Ohm, si ottiene:
∆V =
L
q
I=
q
∆t
∆V = R ⋅ I
P=
L
∆V ⋅ q
=
= ∆V ⋅ I = R ⋅ I2
q
∆t
I
LEGGE DI JOULE
Un conduttore ohmico di resistenza R, percorso per un tempo ∆t da una corrente di intensità
costante I, dissipa per effetto Joule un’energia elettrica pari a:
Q = R ⋅ I2 ⋅ ∆t
dove la quantità:
P = R ⋅ I2
⎡⎣Watt : W ⎤⎦
⎡⎣ Joule : J⎤⎦
rappresenta la potenza elettrica dissipata.
Dal momento che questa potenza dissipata deve essere resa disponibile dal generatore per garantire il
passaggio della corrente, ne segue che:
P = ∆V ⋅ I
POTENZA EROGATA DAL GENERATORE
L'effetto Joule ha numerose applicazioni: la stufa elettrica, la cucina elettrica, l'asciugacapelli, il ferro da stiro, ecc. Un'importante
applicazione si ha nelle cosiddette valvole fusibili (o semplicemente fusibili), costituite da un tratto di conduttore a basso punto di fusione,
come può essere un sottile filo di piombo. Quando l'intensità di corrente supera un determinato valore, dannoso per gli apparecchi inseriti
nel circuito, il filo, a causa del riscaldamento per effetto Joule, fonde, interrompendo così il passaggio della corrente.
6. CIRCUITI RC
Finora abbiamo considerato circuiti elettrici comprendenti un generatore di forza elettromotrice costante e
una o più resistenze. L'intensità della corrente che percorre tali circuiti non muta nel tempo.
Ora vogliamo introdurre anche il condensatore come elemento di circuito. Ciò porterà a considerare correnti
variabili nel tempo.
Carica di un condensatore
Collegando un condensatore di capacità C, inizialmente scarico, attraverso una resistenza R ai
poli di un generatore di f.e.m. f, la carica q sulle armature, inizialmente nulla, raggiunge il valore
nominale Q = C·f con un certo ritardo, che dipende dalla capacità del condensatore e dalla
resistenza R del circuito.
Analogamente, la d.d.p. fra le armature aumenta dal valore iniziale zero al valore nominale f
L'intensità di corrente invece è massima all'istante iniziale e successivamente tende ad
annullarsi. La corrente è dovuta all'allontanamento di elettroni di conduzione dall'armatura
positiva del condensatore e all'afflusso di un uguale numero di elettroni all'armatura negativa;
ovviamente non c'è alcun passaggio di elettroni attraverso lo spazio vuoto (o riempito di
materiale dielettrico) compreso fra le armature.
Applicando il 2° principio di Kirchoff al circuito otteniamo la
seguente equazione differenziale:
f−
q
= Ri
C
f −t / τ
=0
e
t →∞ R
lim i(t) = lim
t →∞
Facendo uso del calcolo integrale si ottiene la seguente
soluzione:
i(t) =
f −t / τ
= i0 e− t / τ
e
R
dove: τ = RC
costante di tempo del circuito
In pratica dopo un tempo t ≈ 5τ la corrente, che decresce
esponenzialmente con il tempo, si annulla ed il processo
di carica si può ritenere terminato.
Durante la fase di carica, la quantità di carica che si accumula sulle armature e la d.d.p. tra le armature assumono le seguenti espressioni:
∆V
f
(
q(t) = Cf 1 − e− t / τ
)
lim q(t) = lim Cf(1 − e− t / τ ) = Cf
t →∞
t →∞
In pratica dopo un tempo t ≈ 5τ la
quantità di carica sulle armature del
condensatore, è massima ed il
processo di carica si può ritenere
terminato.
(
∆V (t) = f 1 − e− t / τ
)
lim ∆V (t) = lim f(1 − e − t / τ ) = f
t →∞
t →∞
In pratica dopo un tempo t ≈ 5τ la
d.d.p.
tra
le
armature
del
condensatore è pari a quella del
generatore per cui il processo di
carica si può ritenere terminato.
Scarica di un condensatore
Se, dopo aver caricato il condensatore, si disinserisce il generatore dal circuito, il condensatore si
scarica sulla resistenza del circuito, dando origine a una corrente d'intensità variabile nel tempo.
Contemporaneamente la carica sulle armature e la d.d.p. fra le stesse diminuiscono dai valori
massimi iniziali a zero.
Applicando il 2° principio di Kirchoff al circuito otteniamo la seguente equazione
differenziale:
q
= Ri
C
Facendo uso del calcolo integrale si ottengono le seguenti relazioni:
i(t) =
f −t / τ
= i0 e− t / τ
e
R
q(t) = Cfe − t / τ = q0 e− t / τ
dove: τ = RC
lim i(t) = lim
t →∞
t →∞
costante di tempo del circuito
f −t / τ
=0
e
R
lim q(t) = lim Cf ⋅ e − t / τ = 0
t→∞
∆V (t) = fe− t / τ
t→∞
Tutte e tre le grandezze q, ∆V e i decrescono
esponenzialmente con il tempo, e dopo un tempo t ≈ 5τ
sono pressoché nulle.
lim ∆V (t) = lim f ⋅ e − t / τ = 0
t→∞
t →∞
L'andamento dell'intensità di corrente è lo stesso di quello che si ha durante il
processo di carica, solo che il verso è l’opposto.
7. L’EFFETTO TERMOIONICO
All'interno di un metallo gli elettroni di conduzione si muovono disordinatamente come le molecole di un gas.
Il fatto che, almeno in condizioni normali, nonostante il moto di agitazione termica gli elettroni non escano
fuori dal metallo s'interpreta ammettendo che in prossimità della superficie esista una barriera di
potenziale, che ne riduce progressivamente l'energia cinetica fino ad annullarla.
In figura è rappresentato, qualitativamente, l'andamento dell'energia potenziale U di un elettrone nel passaggio
dall'interno del conduttore alla regione immediatamente esterna. Come possiamo vedere, essa cresce
bruscamente attraverso la superficie del conduttore. La differenza fra l’energia totale Ei e l'energia potenziale U
rappresenta l'energia cinetica Ec dovuta al moto di agitazione termica.
Poiché Ei è minore del valore Ue che l'energia potenziale assume
all'esterno del metallo, l'elettrone non può fuoriuscire dal materiale a
meno che non si fornisca a esso una quantità di energia sufficiente a
superare la barriera di potenziale. L'energia minima necessaria,
chiamata energia di estrazione o lavoro di estrazione, è pari alla
differenza fra l'energia potenziale esterna e l'energia totale che
l'elettrone già possiede all'interno del materiale, cioè:
Il potenziale di estrazione, ossia l'energia di
estrazione per unità di carica, è definito come:
∆V =
∆E = Ue − Ei
In questo modo l'elettrone potrà fuoriuscire
dal conduttore ma si troverà all'esterno con
energia cinetica nulla. Fornendo un'energia
maggiore, l'elettrone sfuggirà dalla superficie
con una certa energia cinetica.
∆E
e
L'energia di estrazione e il potenziale di estrazione dipendono dalla natura del metallo e dalla temperatura.
Nella tabella sono riportati i potenziali di estrazione di alcuni metalli alla temperatura ambiente di 20°C. Per il rame, ad esempio, il
potenziale di estrazione è uguale a 4,4 V. Ciò significa che per produrre l'emissione di elettroni da un pezzo di rame è necessario fornire
una quantità di energia almeno pari a 4,4 eV per elettrone.
Uno dei meccanismi con cui è possibile cedere agli elettroni questa energia consiste nel riscaldamento del
metallo. Si ha così l'effetto termoionico, scoperto nel 1883 dall'americano Thomas A. Edison, meglio noto
come l'inventore della lampadina a incandescenza. Si tratta dell' emissione di elettroni da parte di conduttori
sufficientemente riscaldati, in pratica portati all'incandescenza: infatti, se aumentiamo la temperatura del metallo,
aumenta l'energia cinetica media degli elettroni, così, quelli che hanno acquistato una quantità di energia almeno pari
all'energia di estrazione possono essere emessi dal metallo. Il numero di elettroni emessi in un certo intervallo di tempo
aumenta con l'aumentare della temperatura del materiale.
L'effetto termoionico è sfruttato nei diodi (impiegati come raddrizzatori, ossia si lasciano attraversare dalla
corrente solo in un verso), nei triodi e nelle altre valvole termoioniche. L'interesse pratico di questi
dispositivi elettronici è andato però diminuendo con la comparsa di analoghi dispositivi, realizzati con
materiali semiconduttori, di dimensioni estremamente più piccole e capaci di svolgere le stesse funzioni.
Una delle applicazioni più importanti dell’effetto termoionico è:
L’OSCILLOGRAFO A RAGGI CATODICI
L'oscillografo a raggi catodici è uno strumento di grande importanza, non solo per lo studio di
fenomeni elettrici, ma anche per l'analisi di fenomeni periodici di natura diversa, come, per esempio,
la vibrazione di una sorgente sonora o le pulsazioni del cuore, rivelabili sotto forma di impulsi elettrici.
Una rappresentazione schematica semplificata del dispositivo è la seguente:
Sostanzialmente è costituito da un tubo di vetro sotto vuoto spinto, all'interno del quale si trovano un filamento F (catodo), un elettrodo A (anodo) e due coppie di piastre
metalliche P1 e P2, disposte le prime orizzontalmente e le seconde verticalmente. Quando si collega il filamento al polo negativo e l'anodo al polo positivo di un generatore di
tensione, fra i due elettrodi si stabilisce una differenza di potenziale che accelera gli elettroni emessi, per effetto termoionico, dal filamento. Essendo munito di uno stretto
foro, l'anodo lascia passare un fascio molto sottile di elettroni che, giungendo sullo schermo S, lasciano un puntino luminoso, a causa della fluorescenza prodotta nell'impatto
con uno strato di solfuro di zinco. Il fascio di elettroni, prima di giungere sullo schermo, passa fra le due coppie di piastre metalliche. Applicando alle piastre orizzontali P1 una
differenza di potenziale, il fascio è deflesso verticalmente e quindi il puntino luminoso si sposta sullo schermo nella stessa direzione. Per effetto di una seconda tensione
applicata alle piastre verticali P2, esso si sposta anche orizzontalmente. Se poi la tensione delle piastre P2 varia linearmente con il tempo, il puntino luminoso descrive una
traiettoria che rappresenta l'andamento temporale della differenza di potenziale fra le piastre P1.
La d.d.p. ∆V2 applicata alle piastre verticali P2 è generata all'interno dell'oscillografo. Se ora applichiamo dall'esterno una d.d.p. ∆V1 alle
piastre orizzontali P1, si ha contemporaneamente uno spostamento verticale del puntino luminoso proporzionale alla d.d.p. applicata.
Se per esempio ∆V1 varia nel tempo con una legge sinusoidale di periodo T, descritta dalla funzione:
⎛ 2π ⎞
∆V1 = ∆V sin ⎜
t⎟
⎝ T ⎠
sullo schermo si osserverà il grafico di questa funzione, esteso a un certo
numero di periodi.
8. L’EFFETTO VOLTA E L’EFFETTO SEEBECK
Mettendo a contatto due metalli diversi, per esempio rame e zinco, alla stessa
temperatura si stabilisce fra di essi una differenza di potenziale. La scoperta del
fenomeno, noto come effetto Volta dal nome del suo scopritore Alessandro Volta (17451827), fu stimolata da una disputa scientifica sull'interpretazione dei celebri
esperimenti di Galvani sull' elettricità animale.
L'effetto Volta è regolato dalle seguenti leggi:
LEGGI DELL'EFFETTO VOLTA
PRIMA LEGGE: al contatto fra due metalli diversi alla stessa temperatura si stabilisce una differenza di
potenziale caratteristica della natura dei me-talli e indipendente dall'estensione del contatto.
SECONDA LEGGE: in una catena di conduttori metallici tutti alla stessa temperatura, la differenza di
potenziale fra i due metalli estremi è la stessa che si avrebbe se essi fossero a contatto diretto.
TERZA LEGGE: fra due metalli della stessa natura si produce una differenza di potenziale se essi sono gli
estremi di una catena della quale fanno par-te due metalli diversi a contatto con una soluzione
elettrolitica.
L'effetto Volta è una conseguenza del fatto che ogni metallo, a una temperatura fissata, è caratterizzato da un determinato potenziale di
estrazione. Per esempio, lo zinco ha un potenziale di estrazione ∆VZn minore del potenziale di estrazione ∆VCu del rame; ciò vuoI dire che il
reticolo cristallino dello zinco esercita una minore forza di attrazione sugli elettroni di conduzione in prossimità della superficie del metallo.
Di conseguenza, al contatto zinco-rame alcuni elettroni di conduzione passano dallo zinco al rame, dando luogo in tal modo a una d.d.p.
VZn - VCu (positiva perché lo zinco, perdendo elettroni, si carica positivamente, mentre il rame, acquistandoli, si carica negativamente).
Il flusso di elettroni si arresta nel momento in cui la d.d.p. uguaglia in valore assoluto la differenza dei potenziali di estrazione, cioè
quando è:
VZn − VCu = ∆VCu − ∆VZn
Nell'esempio considerato, essendo ∆VZn = 3,4 V e ∆VCu = 4,4 V, si ha: VZn – VCu = 1,0 V
La stessa teoria elettronica interpreta anche la seconda legge dell'effetto Volta.
Supponiamo infatti di avere una catena di tre
conduttori diversi, i cui potenziali di estrazione
siano ∆V1, ∆V2, ∆V3. Ai contatti 1-2 e 2-3 si
producono le seguenti d.d.p.:
V1 − V2 = ∆V2 − ∆V1
Eseguendo la somma
membro a membro, si ha:
V1 − V3 = ∆V3 − ∆V1
V2 − V3 = ∆V3 − ∆V2
cioè fra i conduttori estremi 1 e 3 della catena si produce una d.d.p. opposta alla differenza dei rispettivi potenziali di estrazione e perciò
indipendente dal metallo interposto.
Sull'interpretazione della terza legge ci soffermeremo quando affronteremo la conduzione elettrica nelle
soluzioni elettrolitiche (prossimo paragrafo)
Dalla seconda legge dell'effetto Volta segue che in una catena chiusa, costituita tutta da conduttori metallici, non si può avere passaggio di
corrente. Se infatti si taglia la catena in un punto qualunque di un conduttore, fra le estremità del taglio non esiste alcuna differenza di
potenziale.
D'altra parte, se per assurdo in una catena chiusa ci fosse un passaggio di corrente senza alcun generatore esterno a compensare la dissipazione di
energia per effetto Joule, si assisterebbe a una violazione del principio di conservazione dell'energia.
Se invece le due giunzioni di una catena bimetallica chiusa sono mantenute a temperatura diversa mediante
opportune sorgenti di calore, uno strumento inserito nella catena rivela il passaggio di una corrente elettrica.
Questo fenomeno è conosciuto come effetto Seebeck, dal nome del fisico estone Thomas J. Seebeck (17701831).
Nel circuito in figura la corrente attraversa la giunzione a temperatura
maggiore nel verso che va dal rame al ferro. Le differenze di potenziale,
dell’ordine dei mV, che si producono alle due giunzioni non sono uguali, in
quanto i potenziali di estrazione dipendono dalla temperatura: gli elettroni
di conduzione che attraversano la giunzione a temperatura maggiore
ricevono l'energia sufficiente a compensare la perdita per effetto Joule oltre
a quella subita nella giunzione a temperatura inferiore.
La forza elettromotrice in un circuito bimetallico dipende pertanto dalla
differenza di temperatura fra le giunzioni; di conseguenza, se si fissa la
temperatura a una giunzione, la forza elettromotrice è funzione della
temperatura dell'altra. In questo modo una coppia bimetallica, detta
termocoppia, può essere usata per determinare, dalla misura della forza
elettromotrice, una temperatura incognita.
9. LA CONDUZIONE ELETTRICA NELLE SOLUZIONI
ELETTROLITICHE
Immergiamo in un recipiente di vetro contenente acqua distillata due elettrodi metallici collegati uno al polo positivo e l'altro al polo
negativo di una batteria; del circuito fa parte anche una lampadina. A circuito chiuso osserviamo che la lampadina rimane spenta, cioè
l'acqua pura non conduce l'elettricità.
Se sciogliamo nell'acqua un composto organico, per esempio zucchero, non si nota alcun mutamento,
mentre sciogliendo del sale da cucina la lampadina si illumina: la soluzione acqua-sale è conduttrice. Si
ottengono soluzioni conduttrici sciogliendo in acqua un sale (NaCl, CUS04, AgN03, ecc.), o un acido
(HCl, H2S04 , ecc.) oppure una base (per esempio NaOH).
I sali, gli acidi e le basi si chiamano elettroliti e le loro soluzioni in acqua
soluzioni elettrolitiche.
SPIEGAZIONE - Il diverso comportamento degli elettroliti rispetto a quello delle sostanze organiche ai fini della
conducibilità in soluzione è da attribuirsi alla particolare natura del legame chimico, che nei sali, negli acidi e nelle basi
è di tipo ionico.
Poiché la forza elettrica con cui si attraggono gli ioni di carica opposta è inversamente proporzionale alla costante
dielettrica relativa del mezzo, quando il cloruro di sodio si trova in acqua (εR = 80) diventa 1/80 di quella che si ha in
aria (εR = 1). In pratica le molecole d'acqua, inserendosi fra gli ioni del reticolo, ne indeboliscono il legame, per cui, a
causa del moto di vibrazione termica, gli ioni Na+ e Cl- si staccano dal cristallo nello stesso rapporto uno a uno in cui
sono presenti nel reticolo.
Il fenomeno descritto, comune a tutti i sali, gli acidi e le basi, prende il nome di dissociazione elettrolitica e fu
spiegato in questi termini dallo svedese Svante A. Arrhenius nel 1887, per interpretare la conduzione
dell'elettricità nelle soluzioni elettrolitiche, scoperta da Michael Faraday nel 1833.
Gli ioni liberi migrano disordinatamente per tutta la soluzione come gli elettroni di conduzione entro il
reticolo cristallino di un metallo; l'unica differenza rispetto ai metalli è che ora le cariche libere sono sia
positive sia negative.
Se immergiamo nella soluzione elettrolitica due elettrodi e stabiliamo fra essi una differenza di
potenziale, il campo elettrico spingerà gli ioni positivi (cationi) verso l'elettrodo negativo (catodo) e
quelli negativi (anioni) verso l'elettrodo positivo (anodo). Si ha così una corrente elettrica dovuta a un
movimento di cariche positive e negative. Tale fenomeno si chiama elettrolisi e il recipiente in cui
avviene questo processo prende il nome di voltametro.
Quando gli ioni arrivano sugli elettrodi cedono a questi la loro carica, diventando neutri; successivamente
possono svilupparsi allo stato gassoso, o depositarsi sugli elettrodi, oppure reagire con la soluzione o
anche con gli elettrodi stessi. Le eventuali reazioni chimiche sono fenomeni secondari e il loro verificarsi
dipende dal tipo di soluzione considerata e dalla natura degli elettrodi.
ESEMPIO - Nell'elettrolisi dell'acido cloridrico, per esempio, gli ioni H+ e Cl-, che derivano dalla scissione della molecola HCl, dopo aver neutralizzato la
loro carica rispettivamente sottraendo un elettrone al catodo e cedendo un elettrone all'anodo si sviluppano allo stato gassoso sugli elettrodi (se questi
sono chimicamente inattivi, per esempio di carbone).
Faraday, misurò quantitativamente le sostanze che nell'elettrolisi si sviluppano o si depositano agli elettrodi,
giungendo alla formulazione delle seguenti leggi:
LEGGI DELL' ELETTROLISI
Prima legge: la massa di sostanza che si deposita a un elettrodo è direttamente
proporzionale alla quantità di carica elettrica che passa nel voltametro.
Seconda legge: in più voltametri, contenenti elettroliti diversi, e collegati in serie
in modo che siano attraversati dalla stessa quantità di carica elettrica, le masse
delle sostanze che si depositano agli elettrodi sono direttamente proporzionali agli
equivalenti chimici.
INTERPRETAZIONE LEGGI - La prima legge si spiega facilmente osservando che la quantità di elettricità q che in un certo tempo ∆t passa nel
voltametro è dovuta al movimento degli ioni, per esempio, nel caso dell'elettrolisi dell'acido cloridrico, H+ e Cl- . Se teniamo chiuso il circuito per un tempo
doppio, mantenendo costante l'intensità di corrente, raddoppia la carica che passa nel circuito e raddoppia perciò il numero di ioni H+ e Cl- che
raggiungono rispettivamente il catodo e l'anodo. Di conseguenza anche le masse di idrogeno e di doro che si sviluppano agli elettrodi diventano il doppio.
Per interpretare la seconda legge, si deve ricordare qualche nozione di chimica; per esempio che gli elettroni di valenza sono quelli che, nell'edificio
atomico, si trovano più lontani dal nucleo e sono pertanto disponibili per la formazione di legami chimici con altri atomi dello stesso o di altri elementi. Il
numero di valenza indica il numero di tali elettroni. L'equivalente chimico di un elemento è definito come il rapporto fra la massa atomica e il numero di
valenza dell'elemento. Poiché l'idrogeno ha numero di valenza 1 e massa atomica 1,008 u, l'equivalente chimico dell'idrogeno è pari a 1,008 u. L'ossigeno
invece, che è bivalente e ha massa atomica 16,00 u, ha l'equivalente chimico uguale a 8,000 u.
La figura mostra due voltametri contenenti rispettivamente HCl e CuS04 inseriti in serie in un circuito alimentato da una batteria; del circuito fa parte
anche un reostato, da regolare in modo che l'amperometro segni sempre la stessa intensità i di corrente. Misurando con un cronometro l'intervallo di
tempo ∆t durante il quale il circuito resta chiuso, si può calcolare la carica q = i · ∆t che nel tempo ∆t ha attraversato tutti i voltametri.
Gli equivalenti chimici degli elementi i cui ioni danno luogo al processo di elettrolisi nei due
voltametri (tralasciando lo ione S04--) sono:
idrogeno: (1,008 u)/1 = 1,008 u
cloro (monovalente): (35,453 u)/1 = 35,453 u
rame (bivalente): (63,546 u)/2 = 31,773 u
Per la seconda legge, le masse di idrogeno, cloro e rame che si sviluppano oppure si depositano agli
elettrodi stanno fra loro come i numeri 1,008 : 35,453 : 31,773.
La ragione risiede nel fatto che ogni ione trasporta, in valore assoluto, una quantità di carica pari q = z·e (z = numero di valenza; e = carica elementare).
Perciò, poiché i due voltametri sono attraversati dalla stessa carica elettrica, per ogni ione Cu++ che giunge al catodo del secondo voltametro, al catodo
del primo arrivano due ioni H+.
Pertanto, nel tempo ∆t, al catodo del primo voltametro si sviluppa la massa di una mole di idrogeno, cioè 1,008 g, mentre al catodo del secondo
voltametro si deposita la massa di mezza mole di rame, cioè (63,546 g)/2 = 31,773 g, proprio come previsto dalla seconda legge di Faraday.
Possiamo derivare ora una relazione che compendia entrambe le leggi.
Supponiamo che a un elettrodo si sviluppino n atomi di un elemento avente numero di valenza z, nel tempo in cui nel voltametro scorre
una carica q. Ricordando che la massa di un atomo, espressa in grammi, è uguale al rapporto M/NA fra la massa per mole M dell'elemento
e il numero di Avogadro, possiamo esprimere la massa totale m della sostanza depositata nella forma seguente:
m=n
M
NA
D'altra parte, poiché ogni ione dell'elemento considerato cede all'elettrodo, in valore assoluto, una
carica q = z·e, possiamo scrivere:
Eliminando n da queste due equazioni otteniamo:
Fissato un certo elemento, M e z sono costanti, per cui nel secondo
membro l'unica variabile è la carica q. Possiamo così concludere che:
Se invece fissiamo la carica q e consideriamo elementi diversi, la
grandezza variabile al secondo membro è M/z, per cui:
M q
m=
z NA e
q = nze
Permette di calcolare la massa m
(espressa in grammi) di una sostanza che
si sviluppa o si deposita su un elettrodo in
seguito all'elettrolisi, in funzione della
carica che attraversa il voltametro.
la massa di sostanza che si sviluppa a un
elettrodo è direttamente proporzionale alla
carica elettrica che attraversa il voltametro
(prima legge).
la massa di sostanza m è direttamente
proporzionale al rapporto fra la massa atomica
dell'elemento e il numero di valenza, cioè
all'equivalente chimico
(seconda legge).
Fra le applicazioni dell'elettrolisi ricordiamo la galvanoplastica, processo che consiste nel ricoprire un
oggetto di materiale qualsiasi (stampo) con un metallo pregiato o con altro metallo dotato di particolari
requisiti (nichelatura, cromatura, argentatura, ecc.).
L'elettrolisi viene anche utilizzata per la preparazione di prodotti quali il cloro, gli alcali, ecc., per
l'estrazione di alcuni metalli dai loro minerali grezzi e anche per ottenere metalli con alto grado di purezza.
GENERATORI DI FORZA ELETTROMOTRICE
Una tappa storica fondamentale del progresso scientifico e tecnologico nel campo dell'elettricità fu segnata,
nel 1800, dall'invenzione della pila da parte di Alessandro Volta.
Il termine "pila", usato correntemente per indicare un generatore
di forza elettromotrice costante, trae origine dalla disposizione a
pila del generatore costruito da Volta, formato da coppie di dischi
di rame e zinco alternati da un panno imbevuto di una soluzione
elettrolitica secondo la successione:
1. un elemento della pila
2. strato di rame
3. contatto negativo
4. contatto positivo
5. feltro o cartone imbevuto
in soluzione acquosa
6. strato di zinco
rame-zinco-soluzione elettrolitica-rame ...
Ogni singolo elemento della pila di Volta, chiamato elemento voltaico, è composto
da due elettrodi, uno bimetallico rame-zinco e l'altro di rame, entrambi a contatto
con una soluzione molto diluita di acido solforico. Poiché la forza elettromotrice
della pila è dovuta, in massima parte, non alla giunzione fra i due metalli diversi
ma alle reazioni chimiche che avvengono entro la soluzione elettrolitica,
trascurando l'effetto della giunzione schematizziamo un elemento voltaico, come in
figura, avente un elettrodo di zinco e uno di rame.
FUNZIONAMENTO - Osserviamo che all'elettrodo di zinco avviene la reazione:
Zn → Zn+ + + 2e−
Reazione di ossidazione
Contemporaneamente sull'elettrodo di rame avviene la reazione:
2H+ + 2e− → H2
Reazione di riduzione
l'elettrodo manda in soluzione ioni
Zn++, assumendo una carica negativa
dovuta agli elettroni liberati dagli
atomi di zinco
gli ioni idrogeno H+ presenti nella soluzione
sottraggono ognuno un elettrone all'elettrodo,
per cui l'elettrodo di rame si carica positivamente
mentre sulla sua superficie si deposita l'idrogeno
gassoso sotto forma di bollicine
La differenza di potenziale che si produce fra gli elettrodi a causa delle due reazioni è di circa 1,1 V.
Se ora colleghiamo i due elettrodi con un filo di rame si genera nel circuito esterno un flusso di elettroni dallo zinco al rame; questi, giunti
sull'elettrodo di rame, riducono gli ioni H+ a idrogeno molecolare. Per ogni due elettroni che fluiscono nel circuito esterno dallo zinco al
rame, l'elettrodo di zinco manda in soluzione uno ione Zn++ ripristinando la carica negativa perduta, e così via. In questo modo si
stabilisce una circolazione di corrente che, secondo il verso convenzionale, nel circuito esterno va dal rame (elettrodo positivo) allo zinco
(elettrodo negativo).
Con la reazione di ossidazione lo zinco dell'elettrodo negativo passa in soluzione; l'elettrodo perciò si esaurisce con il tempo.
L'arresto della corrente avviene però molto prima per un'altra causa nota come polarizzazione della pila. Infatti l'idrogeno, che si sviluppa
all'elettrodo positivo di rame, circonda l'elettrodo stesso, alterandone le proprietà e determinando un rapido annullamento della forza
elettromotrice.
FUNZIONAMENTO - Le pile a secco comunemente usate sono costruite in modo da
eliminare il fenomeno della polarizzazione e funzionano in base allo stesso principio
della pila di Volta. Nel tipo più diffuso, l'elettrodo positivo è formato da una bacchetta
di grafite contenuta, insieme alla soluzione elettrolitica formata da un impasto umido
di doruro di ammonio NH4Cl e di biossido di manganese MnO2, in un contenitore di
zinco che si comporta come elettrodo negativo.
Lo zinco manda in soluzione ioni positivi caricandosi negativamente, mentre
l'elettrodo di grafite si carica positivamente cedendo elettroni agli ioni H+ forniti dal
doruro di ammonio. Il biossido di manganese, d'altra parte, reagisce con l'idrogeno
che si forma in seguito alla cattura di elettroni da parte degli ioni H+. Si evita in tal
modo l'inconveniente della polarizzazione, cioè il deposito dell'idrogeno sull'elettrodo
positivo.
Qualunque tipo di pila dopo un certo intervallo di tempo esaurisce la propria
energia chimica e non può più funzionare. Per avere correnti di maggiore durata
si utilizzano gli accumulatori di carica elettrica, conosciuti come batterie
ricaricabili. E’ una batteria la cui carica può essere completamente ristabilita
mediante l'applicazione di un'adeguata energia elettrica.
Ogni accumulatore è caratterizzato da una capacità espressa in
ampere-ora. Un accumulatore che ha la capacità di lO ampereora potrà erogare una corrente di 1 A per 10 h, oppure di 5 A per
2 h, ecc.
10. LA CONDUZIONE ELETTRICA NEI GAS
Un gas, in condizioni normali, cioè in assenza di agenti ionizzanti, è costituito da molecole neutre e quindi
non può condurre l'elettricità.
Particolari agenti esterni, però, come particelle cariche veloci e radiazioni elettromagnetiche, investendo le molecole neutre possono
strappare ad esse, se nell'interazione cedono una quantità di energia superiore all'energia di ionizzazione che è di alcuni elettronvolt, uno o
più elettroni e trasformarle così in ioni positivi. Gli elettroni liberati possono essere poi catturati da altre molecole neutre, che diventano
ioni negativi.
In tal modo gli agenti ionizzanti generano nel gas ioni positivi, ioni negativi ed elettroni; queste particelle conducono l'elettricità e rendono
il gas conduttore.
PROPRIETÀ DELLA CORRENTE NEI GAS A PRESSIONE NORMALE
Per studiare l'andamento dell'intensità di corrente attraverso l'aria in funzione della differenza di potenziale fra
due elettrodi, possiamo ricorrere a un dispositivo come quello schematizzato in figura.
Se l'aria fra le due piastre è secca, il galvanometro non segnala passaggio di corrente. Se invece ionizziamo
l'aria, irraggiandola con raggi X, lo strumento rivela una corrente, che è costituita da un movimento di ioni
negativi ed elettroni verso l'armatura positiva e di ioni positivi verso l'armatura negativa.
Se facciamo variare la d.d.p. ∆V fra i piatti del condensatore e per ogni valore di ∆V misuriamo la
corrispondente intensità di corrente i, riportando i dati su un sistema di assi cartesiani, otteniamo una curva
del tipo indicato in figura.
L'esperimento può essere eseguito anche con un gas diverso dall'aria, utilizzando, al posto del condensatore,
un tubo di vetro contenente il gas e con due elettrodi al suo interno. La curva che si ottiene, detta funzione
caratteristica o semplicemente caratteristica del tubo, assume un aspetto qualitativo simile a quello dell’aria.
Poiché la caratteristica non è una linea retta, deduciamo che la conduzione in un gas
a pressione normale non è regolata dalla legge di Ohm.
Dall'esame della caratteristica notiamo che:
1) Per piccoli valori della tensione l'intensità di corrente aumenta quasi proporzionalmente con la tensione. Questo andamento si
interpreta con il fatto che, se la tensione è bassa, il numero di ioni che per unità di tempo arrivano sugli elettrodi è inferiore al numero
di ioni che in un tempo unitario vengono prodotti dagli agenti ionizzanti.
2) Quando la tensione arriva a un certo valore ∆Vs (tensione di saturazione), la corrente assume un valore costante is chiamato corrente
di saturazione. Col crescere della tensione, cresce anche il numero di ioni che in un secondo raggiungono gli elettrodi e quindi aumenta
l'intensità di corrente. Quando invece la tensione è tale che tutti gli ioni prodotti arrivano sugli elettrodi, la corrente raggiunge la
saturazione e non può più aumentare.
3) Finché la d.d.p. si mantiene inferiore al valore della cosiddetta tensione d'innesco ∆Vi, l'intensità di corrente si mantiene uguale a is;
poi torna ad aumentare molto rapidamente. Per ottenere un'intensità di corrente superiore al valore di saturazione è necessario produrre
un maggior numero di ioni per secondo e per unità di volume. È quello che accade quando la tensione supera il valore d'innesco ∆Vi. In
queste condizioni il campo elettrico esistente fra gli elettrodi è tanto intenso da accelerare gli ioni, fra un urto e il successivo, fino a
imprimere ad essi un'energia cinetica maggiore dell'energia di ionizzazione. Urtando le molecole neutre, gli ioni producono così altri ioni,
in grado a loro volta di ionizzare altre molecole. Si innesca quindi un processo di produzione a valanga di ioni che provoca un notevole
aumento di corrente, noto come scarica a valanga.
La tensione d'innesco ∆Vi è direttamente proporzionale alla pressione del gas. Infatti, con l'aumentare della
pressione diminuisce il percorso compiuto in media dagli ioni fra due urti successivi e quindi diminuisce
l'energia cinetica da essi acquistata sotto l'azione di un determinato campo elettrico. Ne segue che, se la
pressione aumenta, occorre un campo elettrico di maggiore intensità per accelerare gli ioni fino a energie
superiori all'energia di ionizzazione.
Indicando con d la distanza fra gli elettrodi e
con
Ei
l'intensità
del
campo
elettrico
corrispondente alla tensione d'innesco ∆Vi si ha:
Ei =
∆Vi
d
Da questa equazione è evidente che, a parità di
aumenta
distanza
fra
gli
elettrodi,
∆Vi
all'aumentare di Ei. Pertanto, un incremento
della pressione fa crescere anche la tensione
d'innesco. Inoltre, a parità di pressione, la
tensione d'innesco è direttamente proporzionale
alla distanza fra gli elettrodi.
L'intensità del campo elettrico d'innesco coincide con la rigidità dielettrica del gas, che per l'aria, alla
pressione normale, ha il valore di 3· 106 V/m.
FENOMENI LUMINOSI NELLA SCARICA A PRESSIONE NORMALE
La scarica elettrica attraverso l'aria o un altro gas qualsiasi produce, in determinate condizioni, anche
fenomeni luminosi. Ne sono un esempio i tubi a scarica adoperati nelle insegne luminose.
SPIEGAZIONE - Gli ioni accelerati dal campo elettrico, urtando contro molecole neutre, oltre a produrre ionizzazione possono anche
eccitare le molecole, cioè trasferire ad esse una certa quantità di energia utilizzata per modificare la distribuzione degli elettroni nello
spazio intorno ai nuclei atomici. Dopo un tempo molto breve gli elettroni, che rimangono comunque legati alle molecole, ritornano nella
configurazione iniziale e l'energia prima assorbita viene riemessa sotto forma di luce.
In genere il passaggio della corrente elettrica in un tubo a scarica non produce fenomeni luminosi finché la tensione è inferiore al valore
d'innesco ∆Vi . Si ha invece emissione di luce durante il processo di ionizzazione a valanga. La scarica elettrica, che si manifesta come un
tratto molto luminoso fra i due elettrodi, prende anche il nome di scintilla.
I lampi e i fulmini sono scariche a scintilla che avvengono, i primi, fra due nubi
temporalesche e, i secondi, fra una nube e la Terra.
SPIEGAZIONE - Durante l'attività temporalesca le nubi si caricano negativamente nella parte inferiore; la
carica negativa è così elevata che la superficie sottostante della Terra, negativa in condizioni normali, si
carica positivamente per induzione. Fra la nuvola e la Terra si produce allora una d.d.p. di alcune centinaia
di milioni di volt, sufficiente perché avvenga la scarica. Il fulmine trasporta sulla Terra una carica elettrica
di alcuni coulomb in un tempo così breve che la corrispondente intensità di corrente è di alcune decine di
migliaia di ampere.
Con la scarica, inoltre, si produce un intenso riscaldamento dell'aria, che espandendosi produce un'onda
sonora.
Un particolare tipo di scarica elettrica, caratterizzato da una bassa tensione ma da un'elevata intensità di
corrente, è l'arco voltaico.
SPIEGAZIONE - Portando a contatto due cilindri di carbone di storta, mantenuti a una d.d.p. di
circa 30 V, si raggiunge per effetto Joule una temperatura così elevata che le estremità a
contatto diventano incandescenti. Staccando i due cilindri e separandoli di circa 1 cm, si forma
fra di essi un arco di vapore incandescente che emette una luce vivissima. La scarica elettrica
ha origine dagli elettroni emessi per effetto termoionico dal catodo, i quali generano nella
ionizzazione per urto altri elettroni e ioni.
L'arco voltaico è utilizzato industrialmente per la fusione dei metalli, dato che produce
temperature superiori a 4000 °c.
SCARICA NEI GAS RAREFATTI
In figura è rappresentato un dispositivo con cui è possibile studiare come varia la
scarica elettrica nell'aria al diminuire della pressione.
SPIEGAZIONE - In un tubo di vetro sono disposti due elettrodi metallici collegati a un generatore di alta
tensione (qualche migliaio di volt) e una pompa da vuoto estrae progressivamente l'aria dal tubo.
Se gli elettrodi sono sufficientemente lontani, inizialmente, quando l'aria si trova alla pressione normale di 760
mmHg, la d.d.p. fornita dal generatore è inferiore al valore d'innesco ∆Vi per cui la scintilla non si forma.
Se si estrae progressivamente l'aria, avviene dapprima una scarica che assume l'aspetto di una sottile
colonna luminosa fra i due elettrodi. Continuando ad abbassare la pressione, la luce invade tutto il
tubo; si ha allora la scarica a bagliore, cioè il tipo di scarica che avviene nei tubi per l'illuminazione.
Per pressioni ancora più basse, la colonna luminosa inizia a stratificarsi e a ritirarsi dall'anodo, mentre
si forma una luminosità in prossimità del catodo. Il colore della luce emessa dipende dalla natura del
gas che riempie il tubo.
Quando infine la pressione residua è dell'ordine di 10-3 mmHg, la luminosità prima si affievolisce e poi
scompare del tutto. Contemporaneamente però il tubo di vetro assume un colore verde-giallastro, a
causa della fluorescenza prodotta dagli elettroni emessi dal catodo (raggi catodici) che colpiscono le
pareti del tubo.