3. TRASFORMAZIONI COMPLESSE: LIVELLO CORTICALE E

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3. TRASFORMAZIONI COMPLESSE: LIVELLO CORTICALE
3.1 L’elaborazione talamica
E’
conveniente
segmentare
il
flusso
dell’elaborazione
dell’informazione in diversi stadi. I criteri adottati, tuttavia, non sono
univoci e variano a seconda del livello di analisi che vogliamo ottenere.
Come già accennato in precedenza, il principio che verrà abbracciato è
prevalentemente di carattere funzionale.
E’ quindi possibile operare una distinzione preliminare fra un primo
stadio di input, contemporaneo livellamento di parte del rumore, estrazione
delle variazioni di luminanza, ed una successiva elaborazione che porterà a
combinare queste grandezze fondamentali, vale a dire incrementi e
decrementi di illuminazione, in un sistema più complesso in grado di
rendere l’organismo, in questo caso la rete artificiale, capace di interagire
con profitto con l’ambiente.
Come già detto, il modello opera delle ovvie semplificazioni della
circuiteria neurale. In questa fase introdurremo un ulteriore stadio di
elaborazione che riceve come input le efferenze dello strato di unità
intermedie e, come vedremo in seguito, input di carattere diverso oltre che
segnali di feed-back.
Dal punto di vista anatomico, le strutture fondamentali che ci
troveremo a modellare sono alcune cellule della corteccia visiva primaria
(V1). Allo stato attuale della ricerca la trasformazione che avviene
nell’interazione bipolari-amacrine-gangliari non è del tutto chiara, seppure
almeno una nuova classe di cellule, le Y, sono presenti a questo livello.
Tuttavia, non esistono grosse evidenze a favore di una profonda
differenziazione fra cellule bipolari, gangliari e genicolate (Hubel e Wiesel,
1961): in tutti questi neuroni è presente un’organizzazione circolare del
campo recettivo, con una separazione delle vie center-on ed off, come
originariamente rilevato da Kuffler (Kuffler, 1953) e da Barlow (Barlow,
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1953). Se ci basiamo su una modellistica prettamente funzionale, quindi,
possiamo accattare una semplificazione di questi stadi. Nel modello un solo
strato di neuroni artificiali, quelli intermedi, riassume alcune delle
caratteristiche computazionali delle cellule bipolari, gangliari, genicolate ed
annessi interneuroni.
Viene tuttavia da chiedersi quale sia, allora, la funzione di alcune di
queste formazioni. Il discorso si fa molto più intrigante per il nucleo
genicolato laterale. Quest’ultimo riceve più connessioni dalla V1 che dalla
stessa retina: le fibre che dalla V1 giungono al NGL sono quattro volte
maggiori di quelle che da quest’ultimo si dipartono verso la corteccia
(Sherman e Koch, 1986). E’ improbabile che questo nucleo funga da
semplice stazione di ritrasmissione dell’informazione. Sarebbe stato
alquanto antieconomico creare una struttura tanto complessa per una
funzione che avrebbe potuto essere espletata da una semplice “estensione”
dell’assone delle cellule gangliari fino alla V1. Il NGL sembra invece
essere un sito importante di elaborazione dell’informazione visiva, sede di
interazione fra segnali reticolari (arousal), feed-back corticali (V1) ed input
retinici. E’ particolarmente importante notare che la trasformazione non
appare implicare la modifica del campo recettivo, cosa che invece vedremo
accadere a livello corticale. L’interazione deve avere qualche altro, notevole
effetto. Una delle differenze fondamentali risiede nella presenza di forti
segnali inibitori, mediati da interneuroni presenti nello stesso nucleo. Si
potrebbe ipotizzare, quindi, che la massa di connessioni di feedback
provenienti dall’area V1 abbia come scopo principale quello di “spegnere”
l’input che giunge alla corteccia. Questa funzione potrebbe avere importanti
proprietà, in quanto permetterebbe un maggior controllo delle afferenze. In
questo modo l’unità corticale potrebbe ricevere una sorta di segnale
codificato in “pacchetti di spike” piuttosto che un flusso continuo di
potenziali, evitando che il segnale che arrivi al neurone sia costituito da una
sorta di media dell’attività del nodo di input lungo un arco di tempo troppo
ampio.
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Quest’ipotesi potrebbe essere sostenibile. Va tuttavia rilevato che un
risultato analogo potrebbe essere ottenuto mediante una più semplice ed
economica inibizione ricorrente basata su interneuroni locali che operino
analogamente al neurone corticale, ottenendo una simile funzionalità con
costi notevolmente minori, senza la necessità di precise connessioni a feedback a lungo raggio.
In questa tesi verrà abbracciata questa seconda ipotesi: mentre lo
“spegnimento” dell’input è addebitato ad interazioni di carattere
eminentemente locale, le afferenze che dallo strato 6 della V1 proiettano al
NGL sono di segno prevalentemente eccitatorio. E’ noto dai dati
neurofisiologici che i tempi di propagazioni dei potenziali dalle cellule
dello strato 6 di V1 verso il talamo sono piuttosto lenti: le fibre
amielinizzate necessitano dai 2 ai 20 o più msec per trasmettere il segnale al
NGL (Tsumoto et al, 1978). Le connessioni sono inoltre molto selettive e
retinotopicamente
organizzate:
le
cellule
corticali
proiettano
preferenzialmente agli stessi neuroni dai quali ricevono afferenze, evitando
quindi che il segnale si propaghi ai neuroni contigui. La caratteristica di
indirizzare proiezioni di feedback verso le aree di afferenza è una qualità
formante di tutto il SN: la stessa V1 riceve proiezioni retinotopicamente
organizzate dalle aree visive superiori alle quali è connessa. L’elaborazione
di uno stadio è quindi influenzata dal risultato della “computazione” di
quello successivo.
Queste proprietà, vale a dire segnali di feed-back ritardati e
connessioni selettive, potrebbero far pensare ad un meccanismo di
riverberazione che coinvolga V1 e NGL. Questo concetto è spesso indicato
come una delle caratteristiche che stanno alla base dei processi coscienti nel
SNC (Llinàs 1988).
In questo lavoro non tratteremo in dettaglio la dinamica temporale
del modello, anche se il tema è indubbiamente affascinante. Lo faremo en
passant, ma non raggiungeremo una profondità tale da farci apprezzare
appieno il suo significato. Quale potrebbe essere, allora, la conseguenza
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eminentemente computazionale di queste connessioni di feed-back? Come
abbiamo visto dalle simulazioni, il modello è in grado di cogliere alcune
proprietà della stimolazione, come i decrementi e gli incrementi di
luminanza. Le superfici che giacciono all’interno ed all’esterno di questi,
tuttavia, vengono pressoché ignorate dalle cellule bipolari: queste si
dimostrano molto sensibili per i bordi degli oggetti, ma la loro codifica per
le superfici uniformi risulta impoverita. Questo è il prezzo che si paga: un
modulo elaborativo estrae informazione a scapito di altra informazione.
Solo la cooperazione fra più stadi permette di mitigare questa perdita.
Anche se, come abbiamo notato in precedenza, gran parte dell’informazione
visiva rilevante è presente nei confini fra le superfici, un organismo
incapace di cogliere e distinguere due oggetti in base alla quantità di
illuminazione che riflettono risulterebbe enormemente deficitario in un
contesto adattivo. Mentre l’illuminazione assoluta abbiamo visto essere una
informazione trascurabile, la perdita completa dei valori di luminanza
potrebbe avere effetti catastrofici. Vedremo come la corteccia sarà in grado
di porre rimedio a questo deficit.
Le funzioni del LGN possono essere quindi comprese in relazione al
pattern di connessioni con V1 e, quindi, con l’organizzazione funzionale di
quest’ultima. Mentre gli insetti, i crostacei, i rettili e gli uccelli sono in
possesso di neuroni con proprietà di risposta piuttosto complesse fin dai
primi stadi di elaborazione visiva, lo stesso non sembra valere per i
mammiferi, dotati di un sistema visivo corticale altamente sviluppato. Se
consideriamo come il successo evolutivo di quest’ultima specie sia
indissolubilmente legato allo sviluppo esplosivo della neocorteccia lungo la
filogenesi, uno studio della sua organizzazione, nel nostro caso dell’area
visiva primaria, è indispensabile per una piena comprensione dei processi di
elaborazione e trasformazione dell’input visivo.
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3.2 Corteccia visiva primaria
Il target principale delle proiezioni alla corteccia visiva primaria
(area 17 di Brodmann, V1) è lo strato 4, anche se terminazioni sono presenti
negli strati 1, 3 e 6 (Hubel & Wiesel 1972). Il pattern che lega V1 con le
altre aree è invece più complesso. La rappresentazione del campo visivo è
alquanto modificata nella corteccia, con un dilagare della superficie
devoluta all’analisi del centro del CR. Questa osservazione è compatibile
con l’esperienza, accessibile a chiunque, dell’impoverimento dell’analisi
nelle zone più periferiche del campo visivo.
La scoperta forse più importante fatta da Hubel e Wiesel nei loro
studi pionieristici sulla V1 è quella che individuò la presenza di cellule
selettive per pattern con uno specifico orientamento spaziale (Hubel &
Wiesel 1959). Non solo: essi proposero anche come tali campi recettivi
potessero venire formati attraverso l’organizzazione degli input talamici. La
figura 38 esemplifica le loro idee.
Fig. 38 Struttura del campo recettivo di un campione di cellule retiniche e del
NGL (A1 e A2) e di cellule corticali semplici (B - F) con asse di orientamento
verticale. X = zone eccitatorie, ∆ zone inibitorie. (Modificata da Hubel e Wiesel,
1962)
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Sempre nelle loro prime ricerche, Hubel & Wiesel (1959, 1962)
fecero notare come le cellule semplici a livello della V1 fossero non solo
selettive per l’orientamento, ma in qualche modo fossero anche sensibili
alla frequenza spaziale dello stimolo. Questa selettività è cruciale per
comprendere quella notevole messe di ricerche che si sono succedute fino
ad oggi al riguardo di una probabile codifica della stimolazione visiva
attraverso una sua analisi in termini di frequenza spaziale.
La funzione di sensibilità al contrasto (contrast sensitivity function ,
CSF, fig 39) evidenzia come il sistema visivo umano possieda una banda di
frequenza preferenziale all’interno della quale la stimolazione è
massimamente visibile. Mentre negli anni ’60 la CSF veniva spiegata
ipotizzando un unico meccanismo alla base, che vedeva tutte le cellule
gangliari in possesso di un profilo di sensitività riproducente la funzione, a
partire dalla ricerca pionieristica di Campbell e Robson (Campbell &
Robson 1968) si ebbe una vera e propria rivoluzione nella visione del
problema. Questi autori suggerirono la presenza di una serie di canali
indipendenti, ciascuno con una propria, ristretta sensibilità ad una data
frequenza spaziale. La CSF sarebbe allora il risultato dell’attività combinata
di questi canali indipendenti (fig 40B) come dimostrano gli esperimenti
sull’adattamento selettivo. (fig 40A). Questa proposta incontrò notevole
Fig 39 Curva di sensibilità al contrasto (CSF) misurata da Campbell e Robson
utilizzando come stimoli delle griglie in bianco e nero con frequenza spaziale
variabile (Campbell e Robson, 1968).
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favore in quanto gettava le basi per una condivisione dei principi ispiratori
di sistemi percettivi alquanto diversi come quello uditivo e visivo. Mentre
per il primo ha senso una codifica dell’input in termini di frequenza
temporale, data la natura ridondante della stimolazione acustica, il perché il
sistema visivo debba comportarsi analogamente non è del tutto evidente in
prima analisi.
Fig 40 A. CSF misurata prima (linea piena) ed in seguito (punti) ad adattamento
ad una griglia di frequenza spaziale pari a 10 c/deg (cicli per grado di angolo
visivo). B. Modello schematico del funzionamento dei canali sensibili a diverse
frequenze spaziali (De Valois e De Valois, 1988). Tre canali (A, B e C) sono qui
raffigurati. X ed y sono due stimoli con diversa frequenza spaziale. Una volta che
il canale B viene adattato e la sua sensibilità diventa B’, il rapporto fra i due
stimoli risulta alterato. prima analisi.
Che cosa intendevano essenzialmente Campbell e Robson con il
termine canale? In generale, ci si riferisce a questo come ad un meccanismo
capace di filtrare l’informazione, nel caso specifico una frequenza spaziale,
a scapito di altra informazione. Il sistema proposto da questi ricercatori,
quindi, suggerisce che ogni data localizzazione spaziale venga analizzata in
parallelo da un certo numero di canali, ciascuno con una sensibilità
preferenziale (ma non esclusiva) ad una data frequenza (vale a dire, capace
di rilevare energia a quella data frequenza). Se, allora, una data immagine
può essere codificata in termini della somma indipendente dell’attivazione
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di questi singoli canali, il sistema visivo potrebbe in realtà portare a termine
qualcosa di simile ad un’analisi di Fourier dello stimolo. Baron Jean
Fourier, nel 1822, dimostrò come un’onda periodica di qualsivoglia
complessità possa essere decomposta nella somma di una serie di onde più
semplici e con una frequenza specificata (fig 41).
Fig 41 Trasformazione di Fourier. Qualsiasi onda può essere scomposta (o
sintetizzata da) un numero arbitrario di onde con diversa frequenza, ampiezza e
fase. L’onda raffigurata in alto, quindi, può essere ottenuta sia sommando
linearmente le tre onde in A che un numero maggiore di onde, come in
B.(Adattato da De Valois De Valois, 1988).
Non è negli obiettivi di questa tesi entrare nei dettagli della teoria e
delle sue implicazioni. E’ sufficiente rilevare come il concetto di un sistema
visivo considerato come equivalente ad un “decompositore” di frequenze
spaziali complesse in frequenze più semplici è alquanto popolare e
supportata da una notevole mole di dati empirici (per una rassegna, vedere
De Valois & De Valois, 1988). Che vantaggi potrebbe trarre un sistema
visivo nel portare a termine un’analisi di questo tipo? Mentre una certa
regolarità è presente nella stimolazione acustica, con un relativo vantaggio
di un sistema recettivo in grado di rilevarla, si può forse dire altrettanto per
quella visiva? Per rispondere a questa domanda non è necessaria una
riflessione approfondita. E’ sufficiente che fissi la struttura regolare della
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tastiera del computer sul quale sto scrivendo, o guardi fuori da una delle
tante finestre ugualmente spaziate dell’edificio in cui mi trovo, o volti lo
sguardo verso la mia destra, dove si trovano dozzine di scaffali ordinati
contenenti centinaia di libri regolarmente disposti. Oppure osservi il
soffitto, costellato di decine di luci al neon distanziate circa tre metri l’una
dall’altra in un soffitto a quadri regolari. O, semplicemente, basta guardare
la maglia che indosso, tessuta con una trama sottile di righe verticali
parallele, come i miei jeans. Si potrebbe obiettare che queste regolarità non
siano molto significative dal punto di vista evoluzionistico, in quanto il
nostro sistema visivo si è sviluppato di gran lunga prima dell’avvento della
moderna carpenteria e degli stilisti di grido. Va tuttavia rilevato che, se
l’uomo è così tanto attratto dalle strutture simmetriche e periodiche da
costruirle con incredibile perseveranza, ci sarà pure qualche motivo.
Fig 42 A sinistra è rappresentata la CSF rivista secondo l’interpretazione di
Campbell. La curva è una “composizione” di curve più finemente orientate verso
una frequenza spaziale preferenziale. A destra vengono confrontate due visioni di
come la funzione possa essere generata: ogni cellula ha una curva di sensibilità
uguale alla CSF (sinistra); alternativamente, ogni zona del CR è analizzata in
parallelo da più canali con diversa sensibilità (destra). (Adattato da De Valois De
Valois, 1988).
Ma accogliamo l’obiezione per buona e volgiamo la nostra
attenzione al mondo fisico e biologico. Quella minoranza degli uomini che
vive ancor oggi a stretto contatto con la natura non incontrerà meno
strutture periodiche dei cugini civilizzati. Gli alberi di una foresta, le foglie
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di un ramo, i fili d’erba in un prato: tutte strutture che presentano alta
simmetria e ridondanza. Alla base di tali entità giacciono delle costrizioni di
carattere fisico e biologico. Per esempio, gli alberi di un bosco tenderanno a
spaziarsi regolarmente: se un albero crescesse troppo vicino ad un altro, ne
sarebbe oscurato; se fosse troppo lontano perderebbe il riparo dal vento
offerto dal primo e permetterebbe ad un'altra pianta di crescere e rubargli
spazio e risorse. Ecco allora che esiste una distanza preferenziale che
massimizzi l’adattamento dei due alberi. Altrettanto si può dire per molti
altri organismi biologici. Anche molti animali presentano delle strutture
periodiche nella loro pelle, come zebre, tigri, molti pesci, uccelli, rettili,
insetti. Tali strutture altamente simmetriche e periodiche, evolute a scopo
prevalentemente mimetico, non avrebbero senso in un ambiente che non
presentasse queste caratteristiche.
Nello stesso dominio fisico è possibile riscontrare una simile
periodicità, come nella struttura dei cristalli, della neve, nella regolare
increspatura del mare e dei laghi, nella forma delle rocce, nella loro
stratificazione regolare. Nei cristalli, per esempio, le forze che governano le
relazioni reciproche fra gli atomi li fanno oscillare attorno ad una posizione
di equilibrio, come se fossero mutuamente legati da delle fasce elastiche. La
posizione di equilibrio dei queste particelle rende conto della struttura
altamente ripetitiva e simmetrica di questi materiali.
Il concetto di simmetria ha da sempre affascinato filosofi, matematici
e fisici, alla ricerca delle ragioni per cui il mondo fisico, così come quello
biologico, presentino tale organizzazione. Ad esempio, il matematico
Hermann Weil, nel suo libro “Symmetry” (Weil 1952), analizza come la
simmetria dell’organizzazione della materia sia una caratteristica pervasiva
del nostro universo, fisico e biologico.
Quindi si può affermare a ragion veduta che la periodicità è la regola,
non l’eccezione del mondo percettivo. Laddove vi sia una periodicità
spaziale, allora l’informazione visiva può essere più velocemente ed
economicamente codificata in termini di frequenza piuttosto che da una
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costosa analisi punto a punto dell’ambiente. Viene da chiedersi a questo
punto se l’esistenza di meccanismi biologici per la codifica di questa
informazione siano alla base della percezione delle strutture simmetriche o,
viceversa, sia questa simmetria che ha facilitato, da un punto di vista
adattivo, lo sviluppo di organismi in grado di cogliere questa basilare
proprietà del mondo fisico. Il classico problema dell’uovo e della gallina,
insomma. Si può dire che, qualunque sia la risposta, le strutture
simmetriche sono altamente gradite al nostro sistema visivo e sono state in
grado di fare evolvere con profitto le specie in possesso di facoltà in grado
di rilevarle. Con buona pace di tutte le altre proprietà del mondo fisico che
non siamo in grado di percepire.
Sappiamo dagli esperimenti di adattamento selettivo ad una certa
frequenza spaziale (Blakemore & Campbell, 1968) come sia probabile
l’esistenza di canali relativamente indipendenti per la codifica della
frequenza dello stimolo. La risposta ad un dato input, inoltre, vede la
partecipazione parallela di tutti questi canali, come evidenziato dai risultati
ottenuti da Blakemore e Sutton (Blakemore & Sutton, 1969). Nella figura
40 si vede come la percezione di griglie con medesima frequenza e
contrasto venga alterata dall’adattamento selettivo ad una certa frequenza
spaziale. L'aftereffect in questione potrebbe essere spiegato ipotizzando il
venir meno del contributo del canale adattato. Se la percezione delle griglie
è una funzione complessiva dell’attivazione di questi canali, ecco che
laddove sia stato adattato il canale sensibile alle basse frequenze spaziali la
percezione della griglia “propenderà” per le alte frequenze, in quanto
determinata in gran parte dai canali integri.
Il concetto di analisi delle frequenze spaziali sembra essere in
parziale dissonanza con la classica visione tipica dello Human Information
Processing e della neurobiologia che assume una precoce codifica
dell’informazione spaziale in termini di primitive quali bordi, segmenti con
un
certo
orientamento,
angoli,
ed
una
successiva
combinazione
gerarchicamente organizzata di queste grandezze. In realtà, sembra che
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