1 2 IV Ciò che è reale è razionale Ciò che è razionale è reale Dal romanticismo all’esistenzialismo _t y|ÄÉáÉy|t áxvÉÇwÉ Åx Sandro Montorfano IV 3 4 Sandro Montorfano Sommario Ciò che è reale è razionale Ciò che è razionale è reale I L’Illuminismo “L’Età dei Lumi”………………p. 6 II Montesquieu …………………………………...p. 13 III Voltaire………………………………………….p. 15 IV Il Romanticismo………………………………...p. 21 V Gian Giacomo Rousseau………………………..p. 24 V I Immanuel Kant………………………………….p. 31 VII Il Diciannovesimo secolo………………………p. 51 Dal Romanticismo all’Esistenzialismo _t y|ÄÉáÉy|t áxvÉÇwÉ Åx VIII Johann Fichte……………………………………p. 56 IX Friedrich Joseph Schelling………………………p. 62 X Wolfgang Von Goethe…………………………..p. 66 XI Georg Friedrich Hegel…………………………..p. 68 XII Arthur Schopenhauer……………………………p. 85 XIII Soren Kierkegaard…………………………….. p. 90 XIV Ludwig Feuerbach…………………………….…p. 93 Click su di una riga per andare alla pagina 5 6 Sommario IV Volume I XVIII Secolo L’ Illuminismo ”L’Età dei lumi” Scritti Precedenti So solo di non sapere 2006 Credo per capire Capisco per credere 2007 Cogito ergo sum Penso dunque sono 2008 Volume IV anno 2009 Se il XVII secolo è stato il secolo della ragione scientifica, il XVIII è senza dubbio il secolo della razionalità illuminata. L’uomo esce dal suo stato di minorità culturale avvalendosi del proprio intelletto, senza la guida o il sostegno di nessun intermediario, ma con la forza della sua intelligenza, del suo coraggio, della sua decisione, che fino ad allora gli facevano difetto. “Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza!” E’ questo il motto dell’Illuminismo. Esso rappresenta il movimento culturale che contraddistingue e caratterizza il XVIII secolo in Europa. Questo movimento ha avuto il maggiore e più importante sviluppo in Francia, ma le sue radici si formarono e si svilupparono in Inghilterra, presso quella scuola culturale, politica e filosofica, madre di intellettuali e scienziati come Locke, Newton, Hume, Hobbes, la quale seppe esaltare nelle coscienze di questi illuminati la ragione, fondata sull’esperienza e la scienza secondo un indirizzo riconducibile a Bacone. Con il termine “Illuminismo” si vuole indicare sia il periodo della storia europea che coincide con il XVIII secolo, sia l’orientamento culturale e l’evoluzione generale delle idee che si manifestarono in tale periodo. Volendo ampliarne il concetto si può qualificare “illuministica” ogni forma di pensiero e corrente filosofica che si propone di rischiarare la mente degli uomini per liberarli dalle tenebre dell’oscurantismo, della superstizione e dell’ignoranza, attraverso la conoscenza e la scienza. Non vi è alcun dubbio che lo scopo principale dei pensatori illuminati, anche se non dichiarato e non di tutti, è soprattutto di smascherare quella che viene considerata la più potente e radicata superstizione, la religione. 7 Questo atteggiamento in sede storica lo si può già ravvisare I * “L’Età dei lumi” nel mondo greco nei sofisti, con la negazione delle leggi e dei valori assoluti e la critica razionalista all’antropomorfismo religioso. Illuministi si possono considerare per certi aspetti anche gli scettici, gli stoici, ma soprattutto gli epicurei i quali, proponendosi di librare gli uomini dalla paura degli dei, avanzano una dura critica alla religione in nome della ragione. Tratti caratteristici dell’Illuminismo settecentesco sono: la fiducia totale nella ragione umana, la sola capace di promuovere il progresso dell’umanità una ragione fondamentalmente critica e controllata dall’esperienza, alla quale è affidato il compito di liberare l’uomo dai vincoli assurdi della tradizione, dell’ignoranza, della superstizione e dell’oppressione su questi fondamenti prioritari della ragione, costruire una società nuova, tollerante, la quale garantisca i diritti naturali di ciascuno e la pacifica convivenza improntata alla sicurezza e alla “pace perpetua” dopo averne rimosso i privilegi sociali una società cementata da una nuova religione, più naturale perché razionale, il deismo, sicuro baluardo contro il fanatismo delle religioni tradizionali. In pratica sostituire alla religione storica la scienza e al prete il filosofo. La classe sociale nella quale l’Illuminismo è maggiormente rappresentato è quella borghese. Già dal Cinquecento in continua ascesa politica, economica e culturale, con il proprio dinamismo connaturato trova negli strumenti dell’epoca nuovi e più forti impulsi. La figura del filosofo Illuminista, spesso si confonde con quella del mercante essendo egli un uomo in mezzo ad altri uomini che coltiva un sapere utile e in grado di migliorare la società. Non si crede in esilio in questo mondo, non è in mezzo a nemici, ma da saggio economo vuol partecipare dei beni che la natura le offre, cerca di accordarsi con coloro, con i quali ha un 8 rapporto sociale di qualsiasi tipo, trovando nello stesso tempo un motivo di convenienza. In questa situazione l’uomo diventa I * “L’Età dei lumi” misura di tutte le cose e questo processo, iniziato con il Rinascimento e fortemente accelerato, vede il suo compimento nella concezione pienamente laica ed empirica della cultura. Benché fosse generalmente moderato, l’illuminismo inglese conobbe alcuni tratti di radicalismo, soprattutto riguardo al problema religioso, mentre dal punto di vista politico la sua monarchia liberal-borghese rappresentò, per gli estimatori continentali, un modello da imitare e se necessario da imporre, con la lotta all’assolutismo monarchico, all’aristocrazia e al clero. Molto cruenta si presentò la battaglia illuminista per potersi affermare in Francia, dovendosi trasferire dai concetti ai fatti, dalle idee all’azione. Costretto ad affrontare ostacoli e resistenze di ogni genere, l’illuminismo francese maturò una forte coscienza storico politica, che venne assunta, anche se con qualche adattamento, dal resto dell’Europa come guida delle rivendicazioni spirituali e materiali dei popoli, delle classi sfruttate, della grande e piccola borghesia in ascesa. La battaglia per la diffusione della cultura a tutti i livelli della società, promossa da d’Alambert e Dideron per mezzo dell’Enciclopedia, è stata la premessa fondamentale per la propagazione di un nuovo ideale capace di incrinare e di sconvolgere il dogmatismo conservatore della Francia e dell’Europa, rimasta per molti tratti ancora feudale nei costumi e nelle istituzioni, avviando (forse senza volerlo), la contestazione, il malumore e la rivolta delle popolazioni delle periferie, delle halles, (i mercati generali), verso lo sbocco tragico della grande rivoluzione. In Italia e in Germania l’Illuminismo prese delle vie più moderate e generalmente differenti. In Italia si favorirono maggiormente le riforme e gli studi di scienza della legislazione e di economia politica, e i centri di maggior diffusione furono 9 10 Milano, con i fratelli P. e A. Verri, e Cesare Beccaria; Napoli, dove la scuola di Vico aveva una certa influenza, l’Illuminismo diffusione delle nuove idee, attirandosi la condanna della Chiesa in seguito a motivi anticlericali e antidogmatici. Anche i I * “L’Età dei lumi” si fece strada principalmente con A. Genovesi e M. Pagano. Non è un caso che gli stati italiani che si mostrarono più aperti all’influsso della Enciclopedia erano dominati dall’Austria di Giuseppe II, grande estimatore della nuova filosofia. In Germania venne privilegiata la linea moderata oscillante tra radicalismo e tradizionalismo moderato che si riassumevano nel concetto di Bildung (formazione, educazione), i cui massimi assertori erano M. Mendelssohn, I. G. Herder e altri. Un altro tratto specifico del filone illuminista tedesco è il permanere di una forte vocazione metafisica-speculativa. Fuori dalla specificità del pensiero tedesco si pone Kant, che riassume e armonizza nella sua opera il filone inglese, quello francese (di Rousseau) e la grande tradizione filosofica tedesca da Leibniz, a Wolff, Lambert, ecc.. Gli aspetti fondamentali dell’illuminismo che ho accennato, hanno rappresentato la rottura nei confronti della cultura dominante, rimasta chiusa e circoscritta entro i perimetri accademici e la liberazione dai vincoli che la legava al potere politico ed economico. La diffusione tra un pubblico, prima francese e poi europeo, sempre più vasto dell’Enciclopedia, oramai salutata come la voce dei ceti emergenti e delle loro aspirazioni, dava all’intellettuale una nuova indipendenza, liberandolo dal bisogno del Signore, dal quale dipendere economicamente e al quale dedicare la sua opera, avendo in sé l’ambizione di influenzare le coscienze dei nuovi padroni, i lettori, verso i quali rivolgere direttamente il suo credo. Altri furono i mezzi di diffusione del sapere e della nuova scienza oltre all’Enciclopedia: le Accademie in primo luogo che già dal Cinquecento si aprirono agli studiosi garantendo la libertà di critica e di indagine. La Massoneria sorta in Inghilterra nel Settecento, portatrice di istanze di pace e di tolleranza, animata da motivi filantropici, contribuì non poco alla I * “L’Età dei lumi” salotti, soprattutto quelli parigini, diventarono luoghi di ritrovo per letterati e studiosi dove scambiarsi idee e opinioni ai quali, per la prima volta, parteciparono anche le donne. Gli epistolari e i saggi pubblicati nella forma di pamphlet col loro taglio ironico e canzonatorio scalzarono la solennità del trattato, assumendo una veste di più facile comunicazione, alla quale concorsero anche i quotidiani e i periodici facilitando la formazione di una opinione di massa. Riguardo all’Enciclopedia quali erano gli argomenti maggiormente trattati? Le voci che occupavano la maggiore parte di questo grande dizionario, erano le materie relative all’economia e alla tecnologia, dato che gli ambienti a cui si rivolgeva e da cui prendeva ispirazione, si contavano tra la nascente borghesia imprenditoriale. Questi volevano conoscenze concrete che assecondassero i loro interessi, chiedevano la scienza al posto della religione, perché scienza significava progresso economico e questo comportava il cambiamento alla guida delle posizioni di potere tra la vecchia aristocrazia feudale , il clero e i nuovi ceti capitalisti. L’altro tema fortemente trattato dall’Enciclopedia è la critica del principio di autorità e dei privilegi (clero e aristocrazia), contro i quali gli illuministi condussero una lotta ideologica e pedagogica capillare in favore della libertà di pensiero e del diritto di ogni uomo di usare la propria intelligenza indipendentemente da ogni autorità. Anche contro le religioni storiche e i caratteri antropomorfi attribuiti alle divinità, le credenze di fenomeni soprannaturali e divinatori, i miracoli e i misteri, si levarono voci di forte critica in particolare rivolte alla religione ebraica e cristiana, mettendo in luce le manipolazioni operate dalla chiesa su testi sacri, l’inattendibilità filologica e storica di parti di essi, le incongruenze delle situazioni descritte, il fanatismo, 11 12 l’aggressività dell’inquisizione e tutta quella scia di soprusi e coercizioni che l’hanno accompagnata e tutti quei pretesti e vedendo nella storia nient’altro che la collezione dei delitti e delle sventure del genere umano. Ma esso diventa il tema I * “L’Età dei lumi” pregiudizi settari e faziosi di ordine religioso che hanno motivato lo spargimento di sangue in tutta l’Europa per parecchi secoli. Un posto non secondario occupa l’idea di ritorno ad una vita più naturale e primitiva. La nostalgia per lo stato ancestrale dell’uomo la riscoperta di civiltà esotiche e selvagge alimentano il mito naturista, denunciando l’azione corruttrice della modernità e della civilizzazione. Nonostante questo ripensamento per lo stato selvaggio e il ritorno alla natura, più di maniera che reale, l’illuminismo, valutato globalmente nel suo processo storico, va considerato aperto ad un cauto ottimismo. La lotta dei lumi contro le tenebre dell’ignoranza, lo sviluppo della tecnica e dell’industria, l’aumento della ricchezza, il diffondersi della cultura, sono una garanzia di progresso e strumenti di sicuro miglioramento per il genere umano. Tutti i temi speculativi dell’illuminismo sono desunti da quello inglese, tutti tranne uno, di specifica competenza dell’illuminismo francese: quello della storia. La contrapposizione di storia e tradizione è senza dubbio il contributo più originale e notevole dell’illuminismo francese al pensiero filosofico del XVIII secolo. Il primo a porsi il problema del modo di accertare i fatti e di come affrontare una metodologia storica fu Pierre Bayle il quale, riassumendo il suo pensiero, chiedeva allo storico che vuol compiere fedelmente il suo compito, di spogliarsi dello spirito di lusinga, dello spirito di maldicenza e mettersi il più possibile nello stato di uno stoico, insensibile ad ogni passione e a tutto il resto, attento solo agli interessi della verità, sacrificando ad essa il risentimento e l’ingiuria, il ricordo per un beneficio, l’amore stesso della patria. Uno storico in quanto tale è, come Melchisedec, senza padre, senza madre, senza genealogia. Bayle tuttavia non si è posto il problema dell’ordine storico, anzi non aveva senso per lui, I * “L’Età dei lumi” speculativo dei filosofi francesi come Montesquieu, Voltaire, Condorcet, Turgot, i quali portano avanti la ricerca sul problema dell’ordine storico o sull’ordine problematico della storia. In generale, della storia, l’Illuminismo ha avuto una visione critica e polemica serbando un atteggiamento di giudizio più che di tolleranza, nella convinzione che non costituisce prova di valore il fatto che un accadimento o una credenza sia stata accettata nel passato. Tuttavia la ragione, pur limitata alla e dall’esperienza, rimane la guida infallibile per smascherare gli errori del passato nella fiducia di un futuro migliore. Se non possiamo cogliere il senso totale della storia, comunque “noi bisogna che coltiviamo con speranza il nostro orto” (Voltaire). In conclusione dell’illuminismo si può dire che ha contribuito a mettere in crisi in maniera definitiva tutta la concezione obsoleta del potere feudale, mettendo in ridicolo la sacralità dei suoi poteri, la critica sferzante ai privilegi del clero e i fanatismi da esso fomentati. Grande impulso nel favorire l’istruzione e la diffusione della cultura anche tra i ceti più bassi, l’uso delle scienze in funzione del’utilizzo in campo economico e strumentale, la filosofia non in chiave metafisica ma piegata al criterio dell’utile, improntata alla libertà totale, perché solo così può essere utile all’uomo e avere cittadinanza culturale. Per queste caratteristiche,l’illuminismo privilegia la critica e l’analisi, esalta lo scetticismo ravvisando nel dubbio il primo passo verso la verità. Si ispira all’empirismo di Locke e al meccanicismo di Newton. La libertà di ricerca e di analisi viene sacrificata alla necessità dell’utilitarismo e del materialismo, l’uomo e il suo corpo vengono pensati alla stregua di macchina, dove l’anima non ha dimora, le sue azioni sono la conseguenza necessaria di condizionamenti interni o esterni, modulati dal temperamento e dall’educazione ricevuta. L’empirismo si Sommario 13 14 radicalizza, e le conoscenze umane, lungi dal considerarle innate, si creano in dipendenza della semplice sensazione caso per caso la dinamica interna facendo uso di criteri costanti. Si potrà così costatare che ad ogni forma di governo II * Montesquieu II Montesquieu Charles de Sécondat barone di Montesquieu nato nei pressi di Bordeaux il 18 gennaio 1689 muore a Parigi 20 febbraio del 1757 è autore dell’opera Lettere Persiane nella quale mette in ridicolo la civiltà occidentale del tempo, mostrandone l’incongruenza e la superficialità, combattendo soprattutto l’assolutismo religioso. Nell’opera sulle “Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza”, Montesquieu individua le cause della grandezza dei romani nell’amore della libertà, del lavoro e della patria, nei quali erano allevati sin dall’infanzia; mentre le cause della loro decadenza vanno trovate nell’eccessivo ingrandimento dello stato, nelle guerre troppo lontane, nell’estensione del diritto di cittadinanza, nella corruzione introdotta con il lusso asiatico, nella perdita di libertà nell’età imperiale. Montesquieu, partecipò anche al movimento dei “philosophes” collaborando alla stesura dell’Enciclopedia scrivendo un saggio sul gusto. Nello Spirito delle Leggi, la sua opera fondamentale, egli è un convinto assertore della possibilità di stabilire dei principi che regolano le leggi e ne determinano i caratteri e la natura. La sua ricerca è diretta a mostrare che ogni tipo di governo si realizza e si articola in un insieme di leggi specifiche. La legge è il rapporto necessario che deriva dalla natura delle cose per cui ad ogni essere corrisponde la sua legge. Essa si forma seguendo una direzione che viene imposta da un insieme di condizioni che è compito del filosofo indagare. Lo spirito delle leggi indica il carattere di quel complesso di norme che regolano le relazioni umane nelle diverse società. Poiché tali norme variano nei diversi popoli non è possibile valutarli in relazione a uno schema di principi dotati di validità assoluta, ma va chiarito corrispondono determinate forme di legislazione politica, di leggi sulla giustizia, sull’educazione, leggi militari, leggi civili, ecc… legati tra loro da quella forma di governo che fa di esse un complesso organico. Montesquieu ha fissato i tipi fondamentali di governo, la repubblica, la monarchia, il dispotismo, riconoscendo ad ognuno un principio. Alla repubblica riconosce la virtù intesa come amore della politica della patria e dell’uguaglianza, alla monarchia il principio dell’onore cioè il pregiudizio personale o di classe, nel dispotismo il timore dei sudditi verso il despota. Quest’ultimo risulta essere la peggiore forma naturale di governo, assolutamente da evitare, avendo la radice della sua corruzione nel principio stesso che lo regge. Tali principi non è detto che si trovino nei diversi governi ma bisognerebbe che ci fossero, senza dei quali sarebbero governi imperfetti. Questo dover essere, come richiamo incessante ai loro principi, in tutte le forme storiche dello stato, sono un appello per garantirne la sua conservazione. Quando un governo viene meno ai suoi principi si corrompe, ed una volta corrotto le migliori leggi divengono cattive e si rivolgono contro se stesso. Montesquieu, per meglio garantire l’indipendenza e la libertà, che sono due caratteristiche dei governi moderati, ha prospettato la separazione del governo dello Stato nei tre poteri, del resto già realizzata dalla costituzione inglese, il legislativi, l’esecutivo, il giudiziario, in cui ogni potere trovi in sé il limite per non prevaricare sull’altro (la teoria dei pesi e contrappesi). La libertà del cittadino deve essere garantita dalla natura stessa delle leggi, le quali devono dargli la sicurezza nell’esercizio dei suoi diritti. A tale scopo servono soprattutto leggi che regolino la conduzione del potere giudiziario. 15 Sommario 16 denunciava senza mezzi termini l’azione disgregatrice operata dal cristianesimo sulle strutture della società Romana. Quella fu III * Voltaire III Voltaire François Marie Arouet detto Voltaire nacque il 21 novembre 1694 a Parigi da famiglia borghese benpensante, il padre era un avvocato molto stimato e la madre aristocratica ma questa morì nel metterlo al mondo. Di costituzione fragile e spesso malaticcio sembrava destinato alla fine di sua madre invece campò fino a ottantaquattro anni con una intensità da lasciare meravigliati. Già da molto giovane venne introdotto nella vita dell’aristocrazia cortigiana parigina, della quale divenne il punto di riferimento intorno al quale girava tutta la società salottiera e libertina del tempo. Persona di grande spirito, spregiudicatezza ed eleganza, con le sue battute e la sua eloquenza non tardò a scontrarsi con qualcuno della nobiltà, il quale riuscì a farlo rinchiudere alla Bastiglia. Uscito di prigione con il foglio di via per l’Inghilterra si recò in esilio a Londra dove la sua fama lo aveva già preceduto. Assimilò la cultura e ne imparò la lingua in breve tempo, rimanendo colpito per la spregiudicatezza con cui gli intellettuali criticavano anche aspramente la monarchia, il governo e la società. Lesse e studiò con grande interesse Bacone e Shakespeare, la filosofia di Hobbes, Locke, e Newton. Da questa esperienza ne derivò una raccolta di saggi sulla vita, la cultura e i costumi degli inglesi, sottolineando con particolare attenzione i temi che divennero propri della sua attività filosofica, politica, letteraria e storica. Tra il 1734 e il ‘740 pubblicò numerosissime opere letterarie e filosofiche. Nel 1750 accettò l’ospitalità di Federico di Prussia rimanendo per circa tre anni al suo servizio. Rotta la collaborazione con Federico per un litigio da lavandaie, Voltaire peregrinò qualche anno per l’Europa causa il bando da Parigi quale castigo per la pubblicazione dell’opera: “Saggio sui costumi” nella quale la prima volta che uno storico contestava la parte da protagonista all’Europa, per dare spazio e centralità alla storia dell’India, della Persia, della Cina. Dopo Copernico e Galileo che degradarono la terra dal centro dell’universo, Voltaire aveva osato degradare l’Europa dal centro della terra. Imperdonabile! Intorno al 1760 si stabilì definitivamente al castello di Ferney e da li continuò la sua opera instancabile per la quale divenne il capo riconosciuto dell’illuminismo europeo, il difensore della tolleranza religiosa e dei diritti dell’uomo. Ritornò a Parigi all’età di 84 anni accolto con onori trionfali per assistere alla rappresentazione della sua ultima tragedia, l’Irene. Il trionfo fu totale anche se il lavoro, a detta di molti critici contemporanei non valeva gran che. Morì lo stesso anno era il 30 maggio 1778 Voltaire, nel corso della vita ha sempre mantenuto una linea coerentemente equidistante tra pessimismo e ottimismo. Il male come il bene sono ugualmente una realtà intrinseca del mondo, una realtà non spiegabile con i lumi della ragione per cui l’uomo, deve riconoscere la sua condizione così come essa è, senza doversene lamentare né negare il mondo stesso, ma ipotizzare una serena accettazione della realtà. Diversamente da Pascal che concludeva la sua meditazione sulla condizione umana in modo negativo, avanzando l’esigenza di rifugiarsi nel trascendente, Voltaire, identifica nella stessa la sola condizione possibile, pertanto l’uomo deve accettarla e trarne tutto l’insegnamento possibile. Inutile disperarsi della sua ignoranza tanto varrebbe lamentarsi di non avere 4 piedi o due ali. L’uno e l’altro riconoscono che l’uomo per la sua condizione è legato al mondo e all’errore, ma mentre Pascal vuole che se ne liberi rifugiandosi nella metafisica, Voltaire, suggerisce di riconoscerne l’ineluttabilità e l’accetti come parte stessa della natura. 17 18 Nessuno più e meglio di lui rappresentò il Settecento e può contendergli il titolo di direttore della coscienza europea. La sua congetture sull’immortalità e materialità, portando a sostegno di ciò la disparità di opinioni sull’argomento. Sulla libertà dell’uomo, Voltaire, pensa sia molto limitata III * Voltaire opera continua ad essere, dopo oltre due secoli, di una modernità intellettuale mai eguagliata da nessuno, per il modo di pensare libero da ogni condizionamento e la capacità di scrittura tanto penetrante ed efficace quanto di facile comprensione. Non solo “ha distrutto la Francia”, come ebbe a dire Luigi XVI già rinchiuso nella prigione in attesa della ghigliottina, ma demolito anche quel modo di pensare, di essere, di agire, quella concezione della vita, della cultura, della civiltà, che ancora oggi va sotto il nome di ancien regime. Tutto viene spazzato via con l’umorismo, la satira, l’ironia, il sarcasmo, l’irrisione più o meno velata. Le risorse inesauribili del suo spirito geniale, vengono usate contro la metafisica scolastica o le credenze religiose tradizionali. Voltaire non è ateo, anzi, concepisce il mondo secondo gli empiristi e deisti inglesi, per cui Dio esiste come “grande orologio del mondo” e se, sostenere questa opinione si incontrano molte difficoltà, le difficoltà per la tesi opposta sono ancora maggiori, (“esiste qualcosa, dunque esiste un eterno che l’ha creato, perché nulla si produce dal nulla. Ogni opera che ci mostra dei mezzi e un fine rivela un artefice”). Per contro non accetta l’idea che Dio possa intervenire nel mondo umano e nell’uomo, “Dio ha messo gli uomini e gli animali sulla terra, ed essi devono pensare a condursi del loro meglio”, per cui il bene e il male non sono comandi divini, ma attributi di ciò che è utile o dannoso alla convivenza. È interesse degli uomini comportarsi in modo da rendere possibile la loro vita associata. Dell’anima ha un’idea lockiana (secondo cui la materia è capace di pensiero), osservando che l’esistenza come sostanza immateriale non permette di chiarirne le proprietà, per cui la sua eternità diventa pura materia di fede non potendo formulare che III * Voltaire come del resto tutte le nostre facoltà. “Sarebbe molto strano che tutta la natura, tutto il cosmo obbedisse a leggi eterne, e che ci fosse solo un piccolo essere che a dispetto di queste leggi, potesse agire sempre come gli piace seguendo il suo capriccio”. Nel “Dizionario filosofico” analizza i fatti storici della vita e i luoghi comuni ponendosi, come Cartesio e Bacone, di fronte ad una lavagna vuota, cioè negando ogni precedente verità che non sia preceduta dalla verifica della ragione. “Il dubbio non è piacevole –diceva-, ma la certezza è ridicola. Soltanto gli imbecilli sono sicuri di ciò che dicono “ Inizia così intorno ai sessant’anni di età con rinnovata energia, un nuovo e più profondo cambiamento nella metodologia storica, che invece di fermare l’attenzione sulle vicende dinastiche e sugli episodi di guerre, pone al centro dell’interesse storico le arti, i costumi, i cambiamenti dello spirito umano, le rivoluzioni dei popoli, abbandonando quella concezione provvidenzialistica che aveva privilegiato la storiografia cristiana. In una visione metodologica più laica, anche i documenti della storia sacra e in particolare la Bibbia, perdono il loro valore di testi rivelati, per assumere la veste di fonti di documentazione sugli usi e costumi dell’antichità. La cronologia biblica ne viene fortemente rivisitata e dilatata nel tempo, nuove popolazioni entrano nella scena della storia, e in armonia con i principi della filosofia voltairiana, la divinità regola il mondo con leggi uniformi, universali ed eterne. La catastrofe tellurica che in quegli anni sconvolge Lisbona e l’orrore provato per alcuni fatti tragici di cronaca, per altro non direttamente coinvolto, segnano una ulteriore progressiva presa di coscienza che lo portano ad impegnarsi nel campo umanitario e propagandistico, contro quello che per lui era in quel momento l’infame, cioè il potere rappresentato dal clero e 19 20 tutto il sistema politico che lo sorreggeva e dal quale si faceva sorreggere. Seguì il “Trattato sulla tolleranza” e tutta una serie di Del cambiamento di umore della società parigina, Voltaire, dovette rendersene conto quando ricevette da G. Giacomo Rousseau, che lui detestava, un saggio intitolato “Discorso sull’origine dell’ineguaglianza”, in cui si diceva che l’uomo, III * Voltaire racconti filosofici e libelli di straordinaria efficacia da lasciare il segno anche fuori dai confini francesi, dove oramai la fama l’aveva preceduto. Tanto la Chiesa quanto il potere laico ebbero paura, e tentarono di tappargli la bocca offrendogli la porpora cardinalizia, ma questi rifiutò convinto come era che oramai la rivoluzione batteva alle porte. Che questa era vicina non vi erano dubbi, ma non nella maniera da lui immaginata. Da vero illuminista, intendeva la rivoluzione come una serie di profonde riforme volute da una elite di illuminati di cui il popolo fosse il soggetto beneficiario. Il dilemma monarchia, repubblica non lo interessava più di tanto. Ai Re di Francia preferiva la Repubblica, ma alla Repubblica preferiva un Re come Marco Aurelio. In quanto alla democrazia la rifiutava decisamente (quando il popolo si mette a ragionare, è perduto), e sull’uguaglianza, concepiva solo quella di fronte alla legge. La sua rivoluzione era soltanto una evoluzione senza traumi, guidata dalla ragione e basata sul progresso morale di un liberalismo laico, non immaginando lontanamente quello che poi accadde, della quale avrebbe sicuramente inorridito. Questa speranza fu alimentata, nella convinzione di Voltaire, dall’ascesa e dall’affermazione di Turgot (suo amico) al potere, che gli fece dire “siamo nell’età aurea fin sopra i capelli”, facendo sognare l’intellighenzia francese e consentendo al vecchio regime francese di modernizzarsi. Purtroppo con la caduta di Turgot tutto si rimescolò e gli intellettuali delusi si spinsero su posizioni di contestazione radicale, non credendo più nella capacità riformatrice del vecchio regime, del quale, Voltaire era pur sempre un prodotto, anche se ribelle. III * Voltaire senza le cattive leggi, è per sua natura buono, come lo sono i selvaggi e gli animali, alle cui condizioni esso dovrebbe ritornare. Voltaire lo lesse e rispose all’autore con frasi sprezzanti, “Leggendo il vostro libro vien voglia di camminare a quattro zampe, ma da oltre sessant’anni ne ho perso l’abitudine” come già in precedenza l’aveva stigmatizzato. Lo considerava un pessimo filosofo e un cattivo scrittore. Mai avrebbe immaginato che gli illuminati francesi, in massa si stavano iscrivendo alla sua scuola e che il profeta riconosciuto della rivoluzione, della quale anche lui presentiva il fremito ritenendosi uno dei promotori, sarebbe stato proprio Rousseau “il cane impazzito di Diogene”. 21 Sommario 22 giudizi erano netti e duri, solo erano basati su principi etici del tutto nuovi e diversi da quelli delle precedenti generazioni. Da oltre cent’anni per le contrade d’Europa, le guerre di religione e le rivolte civili si susseguivano con regolarità, il caos e l’anarchia causate dalle passioni erano sempre presenti per IV * il Romanticismo IV Il Romanticismo Dalla seconda metà del XVIII secolo fino ad oggi, la letteratura, l’arte, la filosofia e la politica, sono state influenzate nel bene o nel male, da un modo caratteristico di sentire e di comportarsi, conosciuto come movimento romantico. Agli inizi questo movimento non era legato alla filosofia, ma ne venne coinvolto in seguito. Diversamente, la politica attraverso Rousseau, fin da principio legò a sé e fece sue quelle tendenze di simpatia e sensibilità già esistenti. Il romanticismo inaugurato da Rousseau, non è altro che l’esaltazione, la drammatizzazione, in certi casi la caricatura, di quel culto della sensibilità che fa scorrere fiumi di lacrime all’uomo sensibile alla vista di una misera famiglia di contadini, alla quale il malvagio signorotto di turno, approfittando della salute cagionevole del capofamiglia, era pronto a piombare sul poderetto e magari sulla virtù della giovane figlia con il raggiro e le lusinghe. Il romantico riteneva i poveri fossero più virtuosi dei ricchi, non erano mai cittadini o operai, ma possedevano il poderetto paterno e vivevano dei prodotti del loro lavoro senza bisogno di commerci. Oppure il saggio e malinconico aristocratico che disgustato dagli obblighi e dalle maniere futili della vita di corte, ritorna al suo castello lontano dalla civiltà per godersi gli ultimi anni nella pace della sua campagna. Il romantico ha appreso il disprezzo per le pastoie burocratiche, per l’abbigliamento, per le buone maniere, il minuetto delle corti, fino all’arte, all’amore e tutta la morale perbenista. Esso non era senza una morale, al contrario, i suoi cui la tranquillità e la prudenza erano le virtù più apprezzate, le buone maniere e il contenersi dall’esprimere le proprie passioni erano qualità molto gradite come baluardo contro la violenza. Ma al tempo di Rousseau, l’aria che si respirava cominciava ad essere pesante, molti erano stanchi di quel clima di immobilismo forzato, di apatia e qualcuno cominciava a desiderare le emozioni. Rousseau intuì il momento e come un amplificatore fu pronto a raccogliere queste eccitazioni rimandandole enormemente amplificate. La rivolta romantica fu in parte rivoluzionaria e in parte reazionaria. Non vedeva di buon occhio l’industrialismo perché la ricerca del guadagno sembrava indegno alla sua morale, ed anche il nascere delle moderne organizzazioni economiche interferivano con la libertà individuale, aspirando principalmente ad una intensa e appassionata vita individuale. Dopo la rivoluzione, si fece strada la concezione che lo Stato dovesse corrispondere i propri confini con la Nazione avendo questa un’anima collettiva; mancando tale condizione non ci poteva essere libertà. Da qui si alimentò il nazionalismo, che per oltre il primo mezzo secolo del ‘800 fu il più vigoroso principio rivoluzionario, sostenuto dai più ardenti romantici. La libertà per le nazioni cominciò ad essere considerata dagli uomini di Stato, non solo da Mazzini, come qualcosa di assoluto, rendendo in pratica difficile la cooperazione internazionale. Anche la sostituzione degli schemi estetici con quelli utilitaristici è una caratteristica del movimento, dovuto ai mutati gusti personali del momento, che intesero il sentimento per la bellezza in modo diverso dal precedente, in architettura, 23 24 nelle arti e pure nella letteratura. Il movimento romantico, nella sua essenza, aspirava a liberare la persona umana dai vincoli delle convenzioni sociali e della morale tradizionale, ma purtroppo si liberarono anche le passioni egoistiche. Nel campo morale, questa rivolta incoraggiò un nuovo Io Sommario IV * il Romanticismo V senza leggi abbandonando i suoi discepoli di fronte all’alternativa: anarchia o dispotismo. Nel campo religioso il romanticismo estense a tutte le religioni storiche, comprese quelle politeistiche, il concetto di rivelazione. In generale, pur considerando la rivelazione per eccellenza quella su cui si fonda la religione cristiana, l’arco storico delle religioni viene inteso come una sorta di rivelazione progressiva di Dio. Molta parte degli esponenti di rilievo del romanticismo ebbero forti crisi religiose e momenti di intensa religiosità. Per i romantici la religione è intesa per lo più come un rapporto dell’uomo con l’Infinito e l’Eterno, rivalutandola ben al di sopra della considerazione che ne avevano avuto gli illuministi. Gian Giacomo Rousseau Gian Giacomo Rousseau (1712-1778), pur non essendo un filosofo, esercitò un potente influsso sulla filosofia, non meno che sul gusto, sul costume, sulla politica. Questa immensa importanza sociale le derivò dal suo appello al cuore e al sentimento, quello che allora si chiamava “sensibilità”. Egli fu il padre del romanticismo, l’inventore della filosofia politica delle dittature democratiche in opposizione alle monarchie assolute tradizionali. Da allora la schiera dei riformatori si è divisa tra, i seguaci di Rousseau e coloro che hanno seguito Locke. Col tempo le due correnti si sono separate nettamente e le conseguenze si videro nel XX secolo, Hitler e Stalin, come conseguenza di Rousseau, Churchill e Roosevelt di Locke. Gian Giacomo, nacque a Ginevra da famiglia povera, la madre morì nel metterlo al mondo. Visse in indigenza trascurato anche dal padre, e affidato alle cure, di botte e patate, di uno zio. A dodici anni smise di studiare per mettersi a lavorare, dopo avere già combinato guai di tipo sessuale, tendenzialmente era un frustrato e autolesionista. Del resto fu sempre un solitario masochista e sciupò regolarmente tutte quante le amicizie per il piacere di sentirsi tradito e perseguitato. A sedici anni se ne andò da Ginevra, e per sbarcare il lunario si offrì di convertirsi al cattolicesimo. Seguirono diverse vicissitudini finche trovò protezione presso una signora, Madame de Warens, anche lei convertita dal protestantesimo, la quale riceveva una discreta pensione dal re di Savoia per servigi resi alla religione. Per una decina di anni visse praticamente con lei, divenne suo amante 25 26 anche se lei se la faceva con il suo factotum, fino a quando questo morì. In seguito si procurò un posto da precettore presso una famiglia di Lione, e poi come segretario e copista di musica presso l’ambasciatore di Francia a Venezia. Di nuovo a Parigi riuscì a farsi conoscere e introdursi in importanti salotti patriarcale, ma questa è stata distrutta con l’istituzione della proprietà privata, causa di ogni disuguaglianza economica e ingiustizia sociale, con la quale prospera il cosiddetto “progresso”. Questa volta però i filosofi si allarmarono, rendendosi ben V * Gian Giacomo Rousseau della capitale, dove conobbe Condillac e Dideron che lo presentarono a Madame d’Epinay, titolare di uno dei più accreditati salotti parigini. Fu in questo periodo (1745) che prese con sé Teresa Le Vasseur che tenne con sé per il resto della vita. Nessuno ha mai capito che cosa ha rappresentato per lui, tanto era brutta e ignorante. Non sapeva leggere, ne scrivere, ma gli dette cinque figli, che abbandonò tutti regolarmente all’Ospizio dei Trovatelli. Pur non avendola sposata, lui la trattava quasi come una moglie, e tutte la grandi dame sue amiche dovettero avere a che fare con lei. Il primo successo letterario lo ebbe a trentotto anni quando presentò un saggio ad un concorso indetto dall’Accademia di Digione intitolato “Discorso sulle Arti e le Scienze”. Vinse il primo premio sostenendo che: le scienze, le lettere, le arti, la cultura in genere, lungi dall’averlo migliorato, sono le peggiori nemiche della morale e dell’uomo, perché creando dei bisogni, si collocano all’origine della schiavitù. L’uomo ha dato il meglio di sé solo allo stato di natura. Era esattamente il contrario di quanto sosteneva Dideron e tutti i filosofi dell’Enciclopedia. La cosa sorprendente è stata l’accoglienza entusiasta che la classe colta parigina ebbe a riservare al “Discorso”, nonostante questo fosse un’invettiva contro la cultura dominante, della quale la stessa Parigi ne aveva fatto una religione. A questo primo saggio fece seguito, quattro anni dopo, un secondo, ugualmente presentato alla stessa Accademia “Origini dell’ineguaglianza fra gli uomini” nel quale sosteneva: l’uomo è per natura buono e le cattive istituzioni e le leggi, lo hanno reso cattivo e disonesto. La società ideale è la famiglia V * Gian Giacomo Rousseau conto di quanto rivoluzionario fosse il pensiero di Rousseau, che credevano dalla loro parte, ma viceversa tuonava contro il progresso. Gl’Illuministi erano uomini che volevano riformare la società, ma non sovvertirla, perché di essa facevano parte e ne condividevano il costume e le abitudini. Rousseau, al contrario, era un anarchico asociale che non stava alle regole, per cui finì con l’inimicarsi e litigare con tutta Parigi. Solo Madame d’Epinay, cercò di mettere pace mettendogli a disposizione una casetta nel bosco l’Ermitage, nella quale Rousseau andò a vivere con Teresa, continuando a scrivere con buona lena. In questi cinque anni dal ‘757 al ‘762, scrisse le sue tre opere più significative “La nuova Eloisa, Emilio o dell’educazione e Il contratto sociale”, che alla loro uscita esercitarono sui contemporanei una influenza travolgente. Gli ultimi due libri, pur accrescendo grandemente la sua fama gli attirarono contro una tempesta di condanne sia dall’ortodossia cattolica che da parte protestante, tanto da obbligarlo a fuggire dalla Francia; anche la sua città natale Ginevra, gli rifiutò l’asilo, così pure Berna. Infine Federico di Prussia il Grande ebbe pietà e gli diede asilo in una cittadina vicino a Neuchatel. Trascorse qui circa tre anni ma, in seguito ad una denuncia degli abitanti guidati dal pastore, dovette fuggire. Trovò ospitalità in Inghilterra dove Giorgio III gli assicurò una pensione. Qui venne accolto con grande simpatia, fece amicizia con Burke e con Hume, ma oramai cominciava a soffrire di manie di persecuzione, sospettando gli amici di complotti contro la sua vita. Infine la sua immaginazione superò la verità, e fuggì abbandonando anche i bagagli. Tornò a Parigi 27 dove trascorse gli ultimi anni di vita in grande povertà dedicandosi al completamento delle “Confessioni”, iniziato nel ’65 e pubblicato postumo. Morì nel 1778, lo stesso anno di Voltaire suo grande rivale, senza aver vissuto la rivoluzione. Il lascito di idee e di azioni che si ricavano dall’opera di V * Gian Giacomo Rousseau Rousseau si vedono già nel primo saggio del “Discorso” dove manifesta una posizione di rottura netta con il fronte dello schieramento Illuminista, principalmente, la dove nega al progresso delle scienze e della cultura, il miglioramento della vita morale e della libertà dell’uomo, ponendo a confronto il mondo delle città Stato greche o della Roma repubblicana, con il mondo civilizzato, esaltando la semplicità dei costumi e la virtù degli antichi, in contrapposizione ai guasti della cultura moderna, corruttrice ed egoista. Nel secondo “sull’ineguaglianza”, prospetta la storia dell’umanità a partire da un ipotetico “stato di natura” in cui l’uomo non conosce ancora la socialità, ma questa si costituisce in dipendenza delle calamità naturali, raccogliendosi nei primi nuclei, sulla base dei quali si forma tutto ciò che è propriamente umano: il linguaggio, le passioni, il lavoro, le tecniche, le arti. E’ a questo punto che si instaura un rapporto di diseguaglianza, non in relazione a delle differenze originarie, ma su basi casuali, che permettono ad alcuni di accaparrare i beni esistenti, costringendo altri a vendere il proprio lavoro per sopravvivere. Su questa base parziale e casuale si costituisce lo Stato. L’argomento sulla formazione dello stato deontologico, è ciò che dibatte il “Contratto sociale”. Centro della dottrina dello stato di Rousseau è la nozione di volontà. Lo Stato nasce attraverso un contratto, in cui ciascuno rinuncia allo stato di libertà illimitata della condizione di natura, non per consegnarsi nelle mani di un sovrano, bensì per ricevere da ogni membro della comunità la stessa rinuncia. Questo atto di cessione dà origine ad una persona sociale, la cui volontà diventa la volontà generale. Il potere sovrano viene esercitato dall’assemblea di 28 tutti i membri riuniti insieme, ogni legge è l’espressione della volontà generale che promuove l’interesse comune. Un rilievo particolare lo riserva alla religione civile, che deve contenere il minimo di articoli di fede e di morale e come principio fondamentale, quello della tolleranza religiosa. In V * Gian Giacomo Rousseau quanto alla religione della Chiesa cattolica, questa deve essere privata di ogni potere non avendo questa l’inclinazione ad uniformarsi allo Stato, ma pretendendo un potere paritario. Per rispondere alla domanda posta in precedenza, si può dire con certezza che pose fine al sogno dei Filosofi, l’Illuminismo, cioè a quel tentativo posto in atto dalla classe colta europea di riformare e modernizzare i regimi delle monarchie assolute senza traumi rivoluzionari. La chiusura del conto tra la dea Ragione e i diritti del Cuore, venne regolato a favore di Rousseau, nel 1794 da Robespierre, proclamando il culto dell’Essere Supremo tipicamente rousseauiano. I motivi politici che scatenarono la rivoluzione si ritrovano tutti nei suoi scritti, che vennero esplicati e propagandati da schiere di contestatori globali, tra le masse proletarie e diseredate delle periferie cittadine, gente questa che aveva fame vera di pane e non di libertà o di istruzione o di scuole. Questa, per salire sulle barricate aveva bisogno di motivazioni immediate, facili da capire e sicure, e Rousseau additava nelle istituzioni la causa di tutti i mali. Egli non si soffermava sulla libertà, problema di chi aveva già soddisfatto tutte le altre esigenze, quanto sulla giustizia cioè sulla ripartizione dei beni materiali. La stragrande maggioranza dei cittadini francesi con le pance vuote, a questo punto cominciarono a rendersi conto e ad accorgersi. L’uguaglianza è più importante della libertà! Secondo la teoria della volontà generale (propagandata ad arte), la comunità ha il diritto di impedire usando anche la forza, che una sfrenata economia liberista abbandonata ai suoi sviluppi naturali più radicali, possa 29 30 creare delle profonde disuguaglianze e disparità sociali; e questo anche a costo di sopprimere e sacrificare la libertà. Tutto era pronto per abbattere il traballante ancien regime, bastava una piccola scossa per “risolvere” definitivamente il problema. Questo principio ebbe applicazione, praticamente immediata con il regime del terrore di Robespierre. meccanico trasferimento di esperienze da perpetuare da una generazione all’altra, ma debba elaborare modelli di vita nuovi e alternativi. In letteratura fu ancora lui a scatenare tutta quell’ondata di romanticismo, intesa come rivincita del sentimento sulla ragione, del cuore sull’intelletto, della fantasia sulla realtà, della fede sulla scienza, della natura sulla civiltà. V * Gian Giacomo Rousseau Purtroppo, ancora oggi molti dittatori guardano al mito dell’uguaglianza, sacrificando ad esso qualsiasi libertà individuale. Del resto, tutta la sociologia moderna che detronizza l’uomo dalla parte di protagonista della Storia per attribuirla alle “strutture”, alle “infrastrutture ” alle “sovrastrutture”, cioè alle istituzioni, non fa altro che rincorrere quanto andava scrivendo e dicendo Rousseau. Per quelli del suo tempo, fu l’apostolo di una rivoluzione proletaria che pretese di fare tabula rasa di tutta una civiltà e delle sue istituzioni, padre di una democrazia non meno assoluta della monarchia, della quale prendeva il posto in nome di un egalitarismo, imposto con l’ideologia e i plotoni di esecuzione. Ma Rousseau (per fortuna) non fu solo politico, fu anche pedagogo e rinnovatore dei costumi, probabilmente con migliore fortuna, di sicuro con meno danni. L’indirizzo pedagogico lo troviamo nel suo capolavoro “l’Emilio” e prima ancora nella “nuova Eloisa”, con i quali espone come l’uomo debba essere educato al controllo degli istinti per mezzo della ragione, la quale lo accompagni verso la “libertà ben guidata” principio fondamentale della pedagogia. Grazie a lui le donne europee ebbero il coraggio di liberarsi dalle stringhe e dai corsetti che le impagliavano nei loro abiti, per mostrarsi libere sulle barricate di Parigi. Fu lui che per primo indicò un nuovo rapporto pedagogico, basato sullo spontaneismo, sul colloquio, sull’esercizio, che fece scuola tra i Pestalozzi, i John Dewey, le Montessori, rendendo il rapporto tra educatore e allievo molto più umano, gradevole, e libero. Molto importante fu l’idea che l’educazione non può essere un V * Gian Giacomo Rousseau Nei rapporti sociali la passione e l’impeto sono d’obbligo, come prima lo era la misura e il distacco, anche il linguaggio si modifica, entrano nuove vibrazioni sentimentali, i toni si fanno più sfumati, gli aggettivi si coniugano al superlativo. Gran parte della passerella letteraria dell’Ottocento è occupata da figli suoi, come Byron, Lamartine, Chateaubriand, Hugo, Musset, Sand,Shelley, Keats, e altri. Quanto Rousseau, amato ed ugualmente odiato, oppresso e tormentato dalle sue stesse pazzie, abbia lasciato di letteratura è poco in rapporto a quanto di enorme egli suggerì agli altri. Fu sicuramente un genio “alla Moda” nel suo tempo, anche se una moda che si rinnova oramai da oltre due secoli. Vale però un monito: alla “scuola di Rousseau si può diventare anche degli oppressori, sia pure in nome del popolo”. La storia, di qualche decennio fa, quella appena trascorsa e l’attuale, ci ha dato e continua a darci esempi tragici di suoi allievi. 31 Sommario 32 popolarità e successo. Gli ultimi anni, pur se gravemente debilitato, li spese a riformulare il suo sistema, ma non ebbe la possibilità di terminarlo: i frammenti sono stati editi post morte sotto il titolo Opus Postumum. L’attività letteraria di Kant è possibile dividerla, a grandi linee, in tre periodi ognuno dei quali corrisponde un impegno e V I * Immanuel Kant VI Immanuel Kant Massimo rappresentante dell’illuminismo tedesco, autore di una vera e propria rivoluzione filosofica. Punto di separazione tra la metafisica dogmatica prima, e ciò che la filosofia ne è risultata dopo la sua analisi critica, con la quale ha determinato i limiti e le condizioni delle capacità conoscitive dell’uomo. Immanuel Kant (1724-1804), nacque a Konigsberg da modesta famiglia, educato dalla madre ad una morale pietista, e forgiato alla severa disciplina di internista. Dopo il collegio si iscrisse all’università Albertina della sua città. I suoi primi scritti risalgono 1746 mentre esercitava il mestiere di precettore, fino a quando non ottenne il dottorato e la libera docenza. Col 1755 iniziò un lungo periodo di studi e lezioni dedicate a diverse discipline principalmente scientifiche, dalla logica, alla geografia fisica. Nel 1770 ottenne finalmente la nomina a professore ordinario di logica e metafisica nell’università della sua città, dove rimase fino al 1796. Il progetto, di porre in discussione la metafisica nel quadro di una critica della ragione, lungamente meditato, vide la realizzazione almeno nella prima edizione nel 1781, alla quale seguì nel 1787 una seconda edizione, notevolmente modificata, affiancata da numerosi scritti di notevole interesse. Seguirono altre pubblicazioni e scritti fino a un terza edizione uscita nel 1790 che trattava il giudizio estetico e teologico. La produzione che ha accompagnato le opere principali è stata vasta e di grande interesse scientifico e culturale, che gli ha procurato vasta uno studio specifico e monotematico. Nel primo, che va fino al 1760, prevale l’interesse per le scienze naturali. Nel secondo, fino al 1781, è prevalente l’interesse filosofico dove domina l’orientamento verso l’empirismo inglese e il criticismo (analisi). L’ultimo periodo è dedicato completamente alla stesura e alla definizione della sua filosofia del trascendente. La “Storia naturale universale e teoria dei cieli” è l’opera più importante del primo periodi, nel quale descrive la formazione dell’intero sistema cosmico, a partire da una nebulosa primitiva, che si forma e si espande in conformità alle leggi della fisica di Newton. Altri scritti sui terremoti, e sulla teoria dei venti e una Monadologia physica, dove al posto delle monadi di Leibniz, pone corpi fisici semplici che occupano una minima quantità di spazio, circoscritto dalla sua sfera di attività, dove la impenetrabilità dei corpi viene definita dalla forza di attrazione e repulsione, la quale impedisce alle monadi circostanti di avvicinarsi ulteriormente. Questo è anche il periodo in cui viene a trovarsi in polemica con Voltaire, per la questione del terremoto di Lisbona giudicato da questi in modo pessimistico. Kant si schiera a difesa della visione cosmologica dell’avvenimento e da questo punto di vista afferma, che certamente Dio non avrebbe potuto fare diversamente, risolvendo la disputa con un atteggiamento del tutto ottimistico. Il secondo periodo segna il deciso prevalere degli interessi filosofici, cominciano a delinearsi temi e motivi che sfoceranno nei suoi scritti critici. Con l’analisi critica al valore della Logica aristotelica-scolastica, definita “un colosso coi piedi di argilla e la testa tra le nuvole dell’antichità”, ha inteso sottolineare come 33 34 il compito della logica è di chiarire le cose e non complicarle, non scoprire, ma esporre chiaramente. Già è presente nella sua mente, l’idea che per la metafisica come per la matematica, sia possibile raggiungere la certezza della verità. Pur riconoscendo le differenze che intercorrono tra le due discipline, ovviamente più facile e semplice per la vengono considerate (come Home e Berkeley, anche se in maniera diversa) qualità soggettive. Il fenomeno, per quanto riguarda la conoscenza sensibile, si compone di due parti: quella dovuta all’oggetto la materia, che causando la sensazione, provoca la modificazione dell’organo di senso testimoniando la presenza dell’oggetto stesso. Questo dipende dal nostro V I * Immanuel Kant matematica, più difficile e complesso per la filosofia; “la metafisica è senza dubbio la più difficile di tutte le conoscenze umane; per questo essa non è stata ancora scritta”, Kant, sostiene con decisione l’applicabilità del metodo scientifico alla filosofia, rendendo necessario corrispondere un criterio della stessa natura matematica, seguendo il medesimo procedimento, dell’analisi sperimentale e la riduzione dei fenomeni a regole e leggi. Con questa impostazione, Kant, procede alla distinzione tra conoscenza sensibile e intellettuale. La prima, conoscenza sensibile, dovuta alla ricettività del soggetto, ha per oggetto il fenomeno, nel suo modo di apparire o manifestarsi al soggetto. Per Kant il fenomeno, è l’oggetto della conoscenza umana, ciò che della cosa può apparire all’uomo e viene riconosciuto, ma non è la cosa “in sé”. La seconda, conoscenza intellettuale, è una facoltà del soggetto di rappresentare il fenomeno per quegli aspetti che per loro natura non sono percepiti dai sensi ma come noumeni (ciò che non è possibile dimostrare, che si pensa), concetti sui quali si fonda la metafisica, che non derivano dai sensi, come la possibilità, l’esistenza, la necessità, ecc… Naturalmente la conoscenza umana in quanto sempre conoscenza di fenomeni, è sempre esperienza non apparenza illusoria, essa è un oggetto reale e in quanto tale sensibile, ma solo nel rapporto con il soggetto conoscente cioè l’uomo. I fenomeni, secondo Kant, sono dovuti in parte a cause esterne e in parte al nostro personale apparato percettivo. Sia le qualità secondarie (colori, odori, suoni, ecc) che quelle primarie I * Immanuel Kant apparato percettivo quindi è soggettivo. L’altro è la forma del fenomeno. Questa è la legge che ordina la materia sensibile, non è in s’è una sensazione, rimane indipendente dalle accidentalità dell’ambiente per cui è sempre la stessa, la portiamo con noi ed è a priori nel senso che non dipende dall’esperienza. Oltre a queste vi è anche l’apparenza, che è la conoscenza sensibile anteriore all’uso dell’intelletto logico. La conoscenza riflessa, fatta dall’intelletto, nata dal confronto di molteplici apparenze, da luogo all’esperienza. E’ avvalendosi dell’intelletto che, attraverso la riflessione, si passa dall’apparenza all’esperienza, i cui oggetti sono i fenomeni. La forma del fenomeno o intuizione pura, come abbiamo visto, è la legge che contiene il fondamento della conoscenza immediata dell’insieme universale sensibile ed è formata da due elementi, lo spazio e il tempo, una per il senso esteriore, l’altra per l’interiore rispettivamente. Questi sono i due elementi indispensabili senza i quali non è possibile alcuna rappresentazione sensibile. Sono le forme a priori della sensibilità, ma tuttavia reali di una realtà empirica, nel senso di appartenere effettivamente alle cose come sono da noi percepite, con i caratteri temporali e spaziali già pronti nella forma soggettiva che consente la loro percezione. Riguardo la conoscenza intellettuale, Kant, chiarisce che l’uso logico dell’intelletto non elimina il carattere sensibile delle conoscenze, dovuto già dalla loro origine. Nella metafisica non si trovano principi empirici, essendo i suoi principi inerenti alla natura stessa dell’intelletto puro e per quanto non innati ma 35 36 acquisiti, sono estranei alle leggi connaturate nella mente. Dato che l’intuizione della nostra mente è un fatto passivo, essa è possibile solo quando qualcosa colpisce i nostri sensi. L’intuizione del divino essendo essa il principio degli oggetti, è indipendente e non causata da questi, trattandosi dell’archetipo degli oggetti. Essa è perciò perfettamente ragione e la convinzione di pervenire alla vera conoscenza per mezzo della scienza, la quale sola può dare la risposta con assoluta certezza. La filosofia kantiana, in questa fase della conoscenza, lascia intravedere certe posizioni molto vicine all’agnosticismo. Kant, affronta il periodo, più importante e “copernicano” (è lui che lo V I * Immanuel Kant intellettuale. Per cui la filosofia non avendo i mezzi adeguati per dimostrare l’esistenza di Dio, a causa della limitazione intellettuale dell’uomo, altro non può fare in questo campo di ricerca che sospendere il giudizio, anche se all’uomo non è preclusa la possibilità di pensarlo o immaginarlo pur senza poterlo dimostrare. Il metodo kantiano, comprende come regola fondamentale quella per cui: i principi della conoscenza sensibile non devono varcare i loro limiti e invadere il campo dei concetti intellettuali. Un concetto sensibile non può essere esteso a qualificare o a determinare una realtà non sensibile. “Tutto ciò che non può essere conosciuto per intuizione, non può assolutamente essere pensato, quindi è impossibile. (Tralasciando quella intuizione pura e intellettuale non soggetta alla legge del tempo, quale è l’intuizione divina, che Platone chiama Idea). Poiché con nessun sforzo della mente né tantomeno con l’immaginazione è possibile raggiungere altra intuizione che non risponde alla forma dello spazio e del tempo, si ritiene impossibile ogni intuizione non legata a queste leggi.” Se il principio della metafisica non è concepibile per mezzo di rappresentazioni ricavate dai sensi e la materia della nostra conoscenza è data solo da questi, il concetto intelligibile in quanto tale non è conoscibile mancando dei dati dell’intuizione umana. L’impossibilità della conoscenza, di trascendere il limite dell’esperienza, diventa la garanzia dell’effettiva validità della conoscenza. Alla domanda: che cosa posso conoscere? Che cosa c’è di cui posso essere sicuro? La risposta che si dà è: del cielo stellato che sta sopra di me. Quindi la piena fiducia nella V I * Immanuel Kant dice), quello della filosofia critica, mostrando come il suo orientamento sia stato influenzato e perfezionato dall’empirismo inglese. A questo va aggiunto anche l’importante apporto ricevuto dall’illuminismo di Wolff e dei suoi seguaci tedeschi, con il metodo della ragione fondante, cioè il metodo secondo il quale, si ritiene fondato (giustificato) un concetto, solo se di questo se ne dimostra la possibilità, oppure quando non vengono riscontrate contraddizioni interiori. Questo principio recepito da Kant, è stato da lui in seguito modificato, osservando come non è sufficiente la mancanza di contraddizione per dare valore alla possibilità, ma è necessario anche altro. Primo tra tutto, deve esistere ed essere reale, senza il quale non vi è possibilità, perché dal nulla non è dato nulla che sia pensabile. Ciò che è possibilità deve contenere, per essere tale, un’esistenza, una realtà, un dato, oltre naturalmente, alla pura logica formalità della non contraddittorietà. Nel vuoto e nell’astratto non è possibile adoperare la ragione come metodo, ma soltanto sul terreno solido dell’esperienza può rendersi utile. La metafisica è la scienza che determina il limite intrinseco del possibile, i limiti della ragione umana, cioè dell’esperienza. “Io non ho determinato questi limiti, ma li ho indicati, perché riflettendo, il lettore, trovi che può dispensarsi dalle inutili ricerche, intorno a questioni i cui dati si dovrebbero trovare in un mondo diverso da quello che egli sente”. Con questa affermazione Kant, si allinea con il punto di vista di Locke riassumibile in queste due definizioni fondamentali: 37 38 1° La ragione non può spingersi oltre i limiti dell’esperienza. 2° L’esperienza è il mondo dell’uomo, il mondo di quei problemi che “stanno a cuore all’uomo”. Con l’inserimento e la fusione di queste due esigenze, nasce la filosofia critica di Kant. Questa affronta il problema connesso la natura e l’estensione dei limiti della ragione umana. Da dove viene già esistenti dentro le singole cose, ma sono intuizioni che precedono ogni conoscenza sensibile e sono indipendenti da essa, quindi pure. Sono perciò condizioni soggettive ed essenziali alla mente umana, per coordinare a sé tutti i dati sensibili, avvalendosi di una legge. Il tempo, rende possibile intuire la contemporaneità o la V I * Immanuel Kant l’indicazione di questi limiti? Qual è la loro estensione? Questi limiti danno la garanzia della vera conoscenza? Fondamentale, per la sua filosofia, è stato l’accertamento della “Scienza dei limiti della ragione umana”, ma anche e soprattutto la giustificazione dei poteri della ragione. Punto fermo dal quale parte e si sviluppa tutta la critica nella sua opera, è la certezza che: il limite della ragione umana, è determinato soltanto dalla ragione stessa, che in ultima analisi è il limite posto dalla capacità dell’uomo. L’analisi fatta da Hume sul sapere umano, anche se limitata all’esperienza, si conclude con l’impossibilità di raggiungere la sicurezza e la stabilità di un sapere autentico. Diventa tutt’al più un sapere probabile, ma anche questa probabilità viene a mancare quando l’uomo si avventura sulle vie della metafisica. A queste enunciazioni di scetticismo, Kant contrappone una fiducia autentica nella conoscenza attraverso la nuova scienza matematica della natura. Anche per la metafisica, pur registrando la grande confusione nella quale si trova che la mantiene lontana dalla strada della scienza, si interroga come mai la natura ha posto nella ragione umana una così forte tendenza verso i problemi metafisici. La risposta a questi quesiti, Kant, la da impostando il problema della conoscenza in modo del tutto nuovo e rivoluzionario. Invertendo i ruoli di approccio alla conoscenza da come sino ad allora si era svolta. La dottrina dello spazio e del tempo è la parte più importante della Critica della ragion pura (almeno secondo B. Russell). Tempo e spazio non sono concetti generali e comuni, V I * Immanuel Kant successione, secondo questi due modi, a tutti gli oggetti sensibili. Lo spazio, consente di intuire i fenomeni in un rapporto universale, le cui leggi e principi sono quelli della geometria. Dello spazio si può dire essere il presupposto al quale si riferiscono le sensazioni che si rivolgono a qualcosa di esterno, infatti l’esperienza esterna è possibile solo presupponendo lo spazio; è necessariamente una rappresentazione a priori, poiché noi non possiamo immaginare che non esista; è anche un concetto reale esistente nelle relazioni tra le cose, è uno solo, si presenta come un infinita dimensione data, la quale contiene in sé tutte le parti, anche se noi chiamiamo spazi ciò che sono solo sue parti, per cui è intuitivo e non concettuale. In generale, se noi accettiamo come ipotesi che le nostre percezioni abbiano delle cause esterne quindi materiali, possiamo stabilire che tutte le caratteristiche reali della percezione, siano differenti dalle loro cause non percepite. Prendiamo per esempio i colori, per considerare l’argomento spazio visto in generale, come sono riconosciuti dai sensi e la corrispondente lunghezza d’onda, come è misurata dai fisici (dalla scienza). Ora tra l’uno e l’altro modo di essere colore, ci deve essere una relazione spaziale partecipante tra la percezione sensoriale, e lo spazio partecipante per il sistema delle cause non percepite dalla percezione. Per cui, secondo il principio, stessa causa stesso effetto e il suo inverso, diverso effetto diversa causa, ci dovrebbero essere due tipi di spazi, uno soggettivo noto attraverso l’esperienza, e uno oggettivo unicamente dedotto. A questo riguardo però tra spazio, e gli altri 39 40 aspetti della percezione colore o suono non c’è differenza. Tutti nelle loro forme rispettivamente soggettiva e oggettiva, sono riconosciuti, empiricamente o supposti, per mezzo di una massima inerente alla causalità. Non vi è quindi ragione per considerare la nostra conoscenza dello spazio differente in qualche modo dalla nostra conoscenza dei colori, dei suoni, nelle cose nell’atto stesso di conoscere gli oggetti. Trascendentale è la condizione della conoscibilità degli oggetti. La sensibilità è intuitiva, l’intelletto è discorsivo; perciò i concetti intellettivi sono funzioni e non intuizioni. Funzione propria dei concetti è di unificare, ordinare un molteplice sotto una rappresentazione comune e in quanto tale ha la facoltà di giudicare. Questa capacità di unificare è detta sintesi e i vari V I * Immanuel Kant degli odori. Per quanto riguarda il tempo, il ragionamento è assolutamente diverso perché se prendiamo come esempio il lampo e il tuono, pur verificandosi in contemporanea vi è un tempo reale e un tempo percepito che segue comunque il tempo reale. Perciò mentre esiste una buona ragione per cui lo spazio percettivo sia soggettivo, non vi è alcuna possibilità per il tempo percettivo che sia oggettivo. Queste condizioni mostrano come ogni nostra intuizione non è altro che la rappresentazione di un fenomeno. Non è la cosa in se stessa che noi conosciamo, ma ciò che la nostra sensibilità percepisce in rapporto alla cosa stessa. La conseguenza è che l’oggetto della nostra attenzione, perde le sue facoltà proprie, per prendere quelle del soggetto che lo pensa, secondo il suo intuito e la sua percezione. E’ questa la rivoluzione copernicana di Kant, l’aver intuito che è l’oggetto a modellarsi attorno all’esperienza del soggetto. Kant ritiene non essere il soggetto a scoprire le leggi dell’oggetto, ma viceversa è l’oggetto che si modella alla capacità di conoscenza e di intuito del soggetto, o meglio ancora, alle leggi della sua sensibilità e del suo intelletto. E’ la nostra conoscenza a priori, ciò che noi stessi mettiamo nelle cose. I “modi di conoscere a priori del soggetto”, sono i modi di conoscere propri della sensibilità e dell’intelletto; ossia le strutture della sensibilità e dell’intelletto. Kant chiama trascendentale, quella conoscenza che ha a che fare con il nostro modo di conoscere gli oggetti. Ciò che il soggetto mette V I * Immanuel Kant modi con cui l’intelletto unifica sono i concetti puri o categorie. Queste categorie, sono forme pure del pensiero, e dovranno essere tante quante sono le forme del giudizio e queste, quantificate in dodici, danno luogo ad altrettante categorie o concetti puri. I concetti puri sono le condizioni con le quali è possibile che qualcosa venga pensato come oggetto d’esperienza, così come spazio e tempo sono le sole condizioni possibili per poter cogliere sensibilmente l’oggetto dell’intuizione. La sintesi ultima del pensiero kantiano è che il fondamento dell’oggetto sta nel soggetto. L’ordine e la regolarità degli oggetti della natura è l’ordine che il soggetto, con il suo intelletto, mette dentro la natura. Si comprende allora perché Kant introduce la figura dell’Appercezione trascendentale, e la connessa figura “dell’io penso” come sintesi unificante delle dodici forme di pensiero, che si concretizzano nell’unità suprema della coscienza o dell’autocoscienza, appunto “l’Io penso “ di Kant. Oltre la conoscenza sensibile, della quale abbiamo detto a proposito del fenomeno e all’intuizione pura spazio tempo, l’uomo ha una seconda fonte di conoscenza: l’intelletto. Mediante la prima gli oggetti sono dati, con la seconda sono pensati. Queste due facoltà vanno di pari passo, senza che l’una sia al di sopra dell’altra. L’altra importante opera di Kant, “La critica della ragione pratica” ha lo scopo di determinare (muovere) la volontà, la 41 42 quale possiede in se una realtà oggettiva. Basta allora provare che vi è una ragione “pura pratica”, la quale può muovere da sola a determinare la volontà, per eliminare ogni problema circa la sua legittimità. Quindi è la ragione pratica in generale che andrà criticata, e in speciale modo quella empiricamente condizionata la quale ha la pretesa di determinare essa sola la volontà. possono essere consigli di prudenza quando gli scopi sono più generali, come per esempio la ricerca della felicità (dato che il conseguimento di questo obbiettivo può essere variamente inteso, non possono che essere formulati in “consigli alla prudenza”, la cortesia, farsi ben volere, ecc.). L’altro tipo di imperativo, pure determinato dalla volontà ma che non consegue un effetto desiderato e prescinde dagli V I * Immanuel Kant E’ la preoccupazione che la ragione pratica limiti la volontà conoscitiva della ragione stessa. Si tratta insomma di mostrare che esiste una ragion pura pratica sufficiente a muovere da sola (proprio come pura ragione) la volontà, perché solo in questo modo i principi morali per l’uomo possano valere come leggi aventi un valore universale. I principi pratici sono le regole generali, le quali sono le regole generali della volontà, entro ad esse stanno altre regole pratiche secondarie. Questi principi pratici vengono suddivisi in due gruppi, le massime e gli imperativi. Le massime si intendono regole o principi pratici che valgono singolarmente ma non sono vincolanti per tutti gli uomini per cui sono soggettive. Gli imperativi invece sono principi pratici oggettivi, valevoli per tutti, sono quindi comandi o doveri che esprimono la necessità oggettiva dell’azione quando la ragione ne determinasse completamente la volontà seguendo la regola data. Questi imperativi sono di due tipi. Sono ipotetici se determinano la volontà a raggiungere determinati obbiettivi. Tali imperativi valgono solo a condizione che si voglia raggiungere lo scopo per i quali sono preposti, per questo si intendono ipotetici (nell’ipotesi che), ma valgono oggettivamente anche per tutti coloro che si propongono quel fine. Importante per questi imperativi è avere o no il desiderio di raggiungere il fine, pertanto la loro necessità il loro imporsi è a “condizione che”, per cui si configurano come regole dell’abilità se indirizzati a obbiettivi ben precisi; oppure V I * Immanuel Kant scopi che si ottiene, è detto imperativo categorico. Questi sono quindi leggi pratiche che valgono incondizionatamente per l’essere razionale, e rispondono al principio “devi perché devi” e non “se vuoi… devi”, (devi e basta). Degli imperativi categorici fanno parte le leggi morali, le quali sono necessarie e universali ma possono anche non attuarsi perché soggette alla volontà umana la quale ubbidisce, oltre che alla ragione alle inclinazioni sensibili, per cui possono confliggere. Solo le leggi naturali non possono non attuarsi. La legge morale cioè l’imperativo categorico, non è tale in forza del suo contenuto per quanto nobile ed elevato possa essere. Proprio perché soggetto alle inclinazioni sensibili, può cadere nell’empirismo o nell’utilitarismo, per cui l’imperativo morale è tale in virtù della sua forma di legge, per la sua razionalità, che chiede di essere rispettata in quanto valore universale senza eccezioni. In altre parole non è morale ciò che si fa ma l’intenzione con cui la si fa; (secondo la moralità evangelica della buona volontà, della buona azione). La legge morale non consiste nel comandare questa o quella cosa, ma l’intenzione secondo cui è fatta. In questo senso il principio della moralità è la forma e non il contenuto. Pertanto, la moralità consiste nel modo in cui si fa ciò che si fa. Stando così le cose, la formula più adeguata secondo Kant è: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre, al tempo stesso come principio di una legislatura universale”. 43 44 L’esistenza della legge morale, voluta dalla nostra razionalità è dunque una proposizione determinata (mossa) a priori oggettivamente, quindi non bisognosa di giustificazione o prova, ma che si impone come un fatto della ragione, che si realizza però solo nella situazione di essere liberi. La libertà non è una acquisizione del dovere, ma al contrario, la coscienza del dovere Kant pensa che ogni azione che ci apprestiamo a compiere debba essere sottoposta ad analisi e questa deve corrispondere alla legge universale, cioè abbia la capacità di diventare legge necessaria per tutto l’universo. Ebbene se il nostro giudizio, posto di fronte a questo schema, è positivo vuol dire che essa è conforme alla legge morale; altrimenti no. Elevando dunque l’azione (soggettiva) al livello dell’universalità, sono in grado di V I * Immanuel Kant è una conquista dovuta alla coscienza della libertà. La conseguenza è un fatto assolutamente unico e nuovo; il sentirsi in dovere di…, da la misura di quanto sono libero. La libertà è l’indipendenza della volontà dalla legge naturale dei fenomeni, indipendentemente dai loro contenuti. Essa è il carattere fondamentale del dovere come “fatto della ragione”. E’ la condizione per rendere il dovere possibile (devi, dunque puoi). La volontà libera (indipendente) è in grado di determinare da sé la propria legge e questo auto-determinarsi in senso positivo è detto da Kant autonomia, il suo contrario è l’eteronomia, cioè il far dipendere e determinare la volontà da qualcos’altro che non sia lei. Come esempio di morale eteronoma, si può pensare all’etica greca, perché basata sulla ricerca della felicità la quale inquina la purezza dell’intenzione in quanto ricerca fini materiali (ciò che si deve fare e non sull’intenzione del fare). Per contro la morale evangelica non è eudemonistica perché proclama la purezza del principio morale, la purezza della volontà (dell’intenzione). Per Kant il concetto di buono e cattivo non è determinato a priori, prima della legge morale, ma è un effetto della legge morale la quale pone e fa essere bene o male ciò che essa vuole, secondo l’intenzione pura o la volontà pura. Come ha risolto il problema del passaggio dal formalismo teorico, all’agire concreto alla pratica? Come posso conoscere se è bene o se è male l’azione che sto per compiere? Se è morale e quindi oggettiva oppure no? V I * Immanuel Kant riconoscere se essa è un’azione morale oppure no. In altre parole il concetto evangelico “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, è il termine di confronto per la tua azione. Un’azione, anche se fatta in conformità alla legge non basta per essere morale, è semplicemente legale. Per essere morale la volontà che sta alla base dell’azione, non deve subire o essere mediata da una qualunque forma di sentimento. Qualsiasi movente intervenga sulla volontà, che sia estraneo alla legge morale provoca ipocrisia. L’uomo, come essere sensibile, non può prescindere dal sentimento e dall’emozione ma questi, se partecipano all’azione morale non possono che inquinarla, o nella migliore delle ipotesi farla scadere al piano puramente legale. L’unico sentimento che Kant ammette è il rispetto, perché è un sentimento suscitato dalla stessa legge morale, la quale contrastando le inclinazioni e le passioni, si impone su di esse, suscitando nella sensibilità dell’uomo appunto rispetto verso se stessa. Contemporaneamente la legge morale, escludendo tutte le inclinazioni e gli influssi sulla volontà, si palesa come obbligatorietà ponendo il dovere al di sopra di tutto. La dottrina del noumeno è una parte importante della filosofia di Kant. Essa intende chiarire la differenza tra il fenomeno, che è la parte del mondo sensibile, con il noumeno, cioè il mondo intelligibile. Dice Kant “ciò che è pensato sensibilmente, è la rappresentazione delle cose come appaiono, ciò che è pensato 45 46 intellettualmente è la rappresentazione delle cose come sono”. Con questa definizione chiarisce in modo definitivo che la conoscenza umana è chiusa entro i limiti dell’esperienza e che questa non è riferibile ad altra realtà che il fenomeno. Fuori da questa realtà è ciò che Kant ha definito come noumeno, cioè essere intelligibile. Esso è un oggetto di pensiero che non ha la corrispettiva intuizione, è un concetto problematico pensato Questo mondo intelligibile che Kant non era riuscito a conoscere e ad afferrare per mezzo della ragion pura, ma che non di meno le era presente, risulta accessibile ora per via pratica. Concetti come libertà, immortalità, Dio, da semplici esigenze strutturali della ragione diventano postulati nella Critica della Ragion Pratica. I postulati sono i “presupposti di un punto di vista necessariamente pratico;.. e.. danno alle idee V I * Immanuel Kant Solo dall’intelletto, il quale non racchiude contraddizione e che quindi come tale lo possiamo pensare ma non effettivamente conoscere. Il concetto di pensare, in quest’ottica, è semplicemente la funzione logica del giudicare e va quindi distinto in senso stretto dal conoscere, poiché l’oggetto viene appunto pensato mediante la categoria, ma non è ancora dato mediante l’intuito. Il concetto di noumeno si può intendere in senso positivo o negativo, ma il solo modo di comprenderlo per noi è in senso negativo essendo la cosa pensata, quale essa è, senza la relazione con la nostra maniera di intuire. Il noumeno è una realtà ignota, una X, alla quale si attribuisce la funzione di influire sulla sensibilità e di essere il substrato dei corpi materiali empiricamente percepiti. Il noumeno sarebbe, da questo punto di vista, la vera sostanza intima a noi sconosciuta dei corpi materiali, in quanto questi sarebbero solo il fenomeno che si manifesta a noi attraverso le sue rappresentazioni, per mezzo della nostra sensibilità che è soggettiva. Risulta evidente da queste considerazioni, che il noumeno non è soltanto una possibilità logica, ma una realtà, una possibilità trascendentale, anche se ignota e non somigliante al fenomeno. Il noumeno diventa anche il concetto limite della sensibilità, senza perciò porre nulla di positivo al di fuori del dominio di essa. Il noumeno in senso positivo sarebbe invece l’oggetto di una intuizione intellettiva la quale è assolutamente al di fuori della nostra facoltà conoscitiva. L’intuizione intellettuale è propria e solamente di un intelletto superiore a quello umano. V I * Immanuel Kant della ragione speculativa in generale, una realtà oggettiva”. Questi sono necessari per poter dar ragione della legge morale e poiché questa è un fatto innegabile, anche la realtà di quelli è altrettanto innegabile. Il primo dei postulati riguarda la condizione della libertà e dell’imperativo che da essa ne discende, per il quale coinvolge qualcosa che va oltre il mondo dei fenomeni. Ora se è vero che il concetto di causalità è teoricamente impossibile da applicare al mondo noumenico, è però possibile la sua applicazione in campo morale cioè alla volontà pura e concepire quest’ultima come causa libera. L’uomo si scopre così appartenere a due mondi; come fenomeno si riconosce determinato e soggetto alla causalità meccanica; in virtù della legge morale si scopre come essere intelligibile e libero. In una tale situazione non è preclusa ad una azione prodotta da una causa libera, quindi noumenica, comportarsi secondo le leggi della necessità in dimensione fenomenica. L’altro postulato riguarda l’esistenza di Dio. La virtù come esercizio e attuazione del dovere è bene supremo, tuttavia non è ancora il bene nella sua interezza e compiutezza dato che questa è mancante della felicità. È’ la felicità che conferisce alla virtù il bene sommo. Se la virtù rende degni di felicità questa di per sé non sempre viene generata, ed essere degni di felicità e non essere felici è un assurdo. Da questo assurdo si esce solo ammettendo (postulando) un mondo intellegibile prodotto soltanto da una volontà santa ed onnipotente, cioè di Dio che adegui ai meriti e al grado della virtù la felicità. La legge morale 47 48 comanda la virtù, ciò mi rende degno di felicità, per questo rappresento (postulo) l’esistenza di un Dio che faccia corrispondere la felicità al merito, anche se in altro modo. Il postulato come bisogno della ragion pratica, è una fede e precisamente una fede razionale. Per l’immortalità dell’anima, Kant formula questo postulato. L’imperativo categorico comanda la “perfetta La critica della Ragion pratica si è occupata di legislazione della libertà ma sviluppata nel campo pratico. Pertanto questo dominio ha rappresentato i propri oggetti come questi sono in sé (sopra-sensibili), senza poterli teoricamente conoscere. Alle cose in sé e ai noumeni si può dare solo una realtà pratica. In questa condizione la spaccatura tra fenomeno e noumeno è evidente ed appare inconciliabile. Kant con la Critica del V I * Immanuel Kant adeguatezza della volontà alla legge morale” ma questa è la santità, cioè la conformità completa della volontà alla legge. Ora siccome nessuno in questo mondo la può attuare “ essa potrà trovarsi solo in un processo all’infinito che si avvicini pienamente a quella adeguatezza completa”. Tale “progresso infinito è possibile solo presupponendo un’esistenza e una personalità dell’essere ragionevole stesso perduranti all’infinito: e ciò prende il nome di immortalità dell’anima”. L’immortalità è un postulato della ragion pratica, una proposizione teoretica, quindi non dimostrabile, ma legata inseparabilmente ad una legge pratica, che vale incondizionatamente a priori. Per Kant l’immortalità e l’altra vita sono un approssimarsi sempre più alla santità un continuo accrescimento di questa dimensione. Con La Ragion Pratica ha dunque riempito quelle esigenze della ragion pura che erano le idee e ha dato loro una realtà morale. In nessun caso la ragion pura risulta sovrapposta o anteposta all’interesse della ragion pratica, anzi, è questa che da alla prima il giusto significato “solo condizionatamente e nell’uso pratico”. Per riassumere in poche righe i concetti di queste pagine si può dire che la Ragion pura si è occupata della facoltà teoretica e dell’aspetto conoscitivo della ragione umana, dominata dalla sfera dei fenomeni e da48ll’esperienza reale e possibile. E’ l’intelletto umano che impone la legge ai fenomeni, e questi regolati dall’intelletto, costituiscono la natura caratterizzata dalla causalità meccanica e dalla necessità impressa dall’intelletto. V I * Immanuel Kant Giudizio si propone di ricercare una mediazione tra i due mondi e recuperare per quanto possibile l’unità, anche se questa non potrà avere un carattere “conoscitivo” e “teoretico”. Questo fondamento che si trova in una posizione intermedia tra l’intelletto e la ragione, Kant lo individua nella facoltà di Giudizio. Secondo Kant il Giudizio è la facoltà di pensare il particolare come contenuto nell’universale. Il giudizio è la capacità di osservazione, di riflessione degli oggetti, dei quali oggettivamente ci manca del tutto una legge. Questo principio universale della riflessione consiste in ultima analisi, nell’Idea di finalità. L’uomo deve realizzare la propria libertà nella natura, per cui ha bisogno che la natura stessa sia in accordo con la sua libertà e in qualche modo la renda possibile con le sue stesse leggi, proprio per non contravvenire al suo meccanismo. Questo accordo può solo risultare da una riflessione sugli oggetti naturali che sono già come tali determinati dai principi dell’intelletto. Tale accordo può essere appreso immediatamente senza il tramite di un concetto e allora è un giudizio estetico, oppure alla luce di uno scopo e di un fine ed allora sarà un giudizio teologico. Queste sono le due forme di giudizio in cui si realizza il giudizio riflettente, cioè l’espressione dell’accordo con la natura e la libertà. Nel primo caso quello estetico, è un giudizio soggettivo, ha per oggetto il piacere del bello e la facoltà con cui si giudica tale piacere è il gusto. Il gusto è pertanto la facoltà di giudicare un oggetto o una rappresentazione commisurato al nostro 49 50 sentimento di piacere o dispiacere e che noi attribuiamo agli oggetti stessi. L’oggetto che procura piacere disinteressatamente si dice bello, anche se l’immagine del medesimo riferita al sentimento del piacere non dà alcuna conoscenza, né chiara né confusa, all’oggetto stesso. Il sentimento del bello, pur nella sua natura soggettiva non esclude l’universalità, la quale però non ha validità oggettiva propria considerarla organizzata in modo finalistico, “dato che in noi c’è una tendenza irrefrenabile a considerarla in questo modo”; e questo fine ultimo della natura (della creazione) non può non essere l’uomo quale soggetto morale, mancando il quale, cioè in assenza di un essere ragionevole, l’intera creazione sarebbe un inutile deserto. Questa considerazione teologica, pur nell’impossibilità di venire utilizzata teoricamente come sapere V I * Immanuel Kant della conoscenza intellettuale ma nella comunicabilità, cioè nella possibilità di essere condiviso da tutti gli uomini. Kant definisce il bello come “ciò che piace universalmente senza concetto”. Il piacere del bello è universale nel senso che vale per ogni soggetto commisurato al sentimenti di ognuno. Affine al bello, perché anch’esso piace per sé stesso e presuppone analogamente un giudizio di riflessione, è il sublime. Il sentimento del sublime è nell’uomo stesso e non nelle cose, non ha limitazione quindi non è compreso dalla forma, è caratterizzato dall’immensamente grande e dall’immensamente potente, predispone l’animo alla commozione e può produrre un sentimento di dispiacere. Il sublime provoca nell’uomo due tipi di sentimenti: il primo di estrema piccolezza e vulnerabilità, schiacciato dalla potenza della natura e dall’immensità che lo circonda, dall’altro, pur conscio della sua fragilità, si scopre essere superiore a quell’immensamente grande e potente di carattere fisico della natura, in quanto reca in sé le Idee della ragione che sono le Idee della totalità assoluta, le quali sovrastano ciò che può sembrare di gran lunga più forte. Proseguendo con l’altra forma di giudizio riflettente, quello teologico, esso è la forma oggettiva del giudizio e ha per oggetto la finalità della natura che esprime l’accordo stesso della natura con le esigenze della libertà, cioè della vita morale dell’uomo. Noi non sappiamo come sia in sé la natura avendone conoscenza solo fenomenica, tuttavia, non possiamo non V I * Immanuel Kant oggettivo, consente di dimostrare come gli scopi che si propone l’uomo come soggetto morale, sono gli stessi della natura in cui vive. E’ in questo senso che la teologia rende possibile una prova morale dell’esistenza di Dio. La moralità, essendo fondata unicamente sulla ragione è possibile anche senza la fede in Dio, ma questa, garantisce altresì la possibilità della sua realizzazione nel mondo. Termino ricordando una frase che ritengo riassuntiva di tutta l’opera di Kant e dello spirito della sua filosofia “ Amici dell’umanità…. accettate pure ciò che vi sembra più degno di fede dopo un esame attento e sincero, sia che si tratti di fatti, sia che si tratti di principi razionali; ma non contestate alla ragione ciò che fa di essa il bene più alto sulla terra: il privilegio di essere l’ultima pietra di paragone della verità”. Non so quanto e come e se sono riuscito a comprendere Kant, di certo, lo confesso, parecchie volte ho pensato di non farcela e abbandonare. 51 Sommario 52 proseguita dai suoi successori i quali seppero influenzare un idealismo assolutista di stampo nazionale che ebbe grande peso presso quei popoli. Già in precedenza tra il 1770 e l’80 un movimento culturale denominato Sturm und Drang che significa “tempesta e impeto” o “impeto tempestoso” o anche “tempesta di sentimenti” si era imposto in Germania con la prerogativa di superare definitivamente l’Illuminismo. Questo movimento VII * Il Diciannovesimo Secolo VII Il Diciannovesimo secolo Siamo alla fine del periodo del terrore e la vita intellettuale del nuovo secolo si preannuncia con nuovi cambiamenti. L’Illuminismo volterriano della ragione è stato offuscato dal neoromanticismo passionale di Rousseau trionfante sulle barricate parigine con le tragiche conseguenze che sono seguite. Tutta la cultura europea, al seguito delle conquiste di Napoleone sembra abbracciare la nuova filosofia del romanticismo. La Germania e la Russia entrano a far parte delle nazioni che producono cultura come lo erano già Francia e Inghilterra e in modo inferiore l’Italia. Anche le scienze con le nuove conquiste in campo biologico, geologico, chimico e la produzione di macchine, con l’inizio dell’era industriale, diedero un grande contributo al cambiamento della nuova classe dirigente. Il profondo rivolgimento filosofico e politico, che la rivoluzione aveva promosso contro i sistemi tradizionali del pensiero dell’economia e della politica, diede luogo ad attacchi alle molte convinzioni e istituzioni fino ad allora ritenute inattaccabili. Questo rivolgimento prese in campo intellettuale e filosofico due direzioni ben distinte: una romantica con Byron, Schopenhauer, Nietzsche e altri, la seconda più razionalista, con i filosofi della rivoluzione francese, in parte con i radicali inglesi per poi affermarsi con Marx. Un altro aspetto importante e nuovo di quel periodo è il predominio intellettuale della Germania iniziata con Kant, e aveva come precetti, tra gli altri: “l’esaltazione del natura come forza creatrice di vita. Alla concezione deistica propria dell’Illuminismo si contrapponeva il panteismo sostenuto da personaggi della cultura come Goethe o Reinhold Lenz. Il sentimento patrio si manifestava nell’odio verso il tiranno e nell’esaltazione della libertà. Vengono esaltati e molto apprezzati i sentimenti forti e le passioni impetuose”. Lo Sturm und Drang avrebbe avuto scarsa fortuna, se non fosse stato influenzato da figure della cultura di grande risonanza come Schiller, i filosofi Jacobi ed Herder, alcuni poeti inglesi come James Macpherson, e lo stesso Goethe che assunse un ruolo da protagonista soprattutto all’inizio. Alcuni studiosi hanno paragonato questo movimento ad una specie di rivoluzione anticipata per la Germania, o ad una reazione anticipata alle conseguenze che l’Illuminismo avrebbe causato in Francia. Si è trattato comunque di una riscossa dello spirito tedesco che dopo secoli di torpore riemergeva con atteggiamenti peculiari dell’animo germanico, preludio in ogni caso al romanticismo. Fino ad allora la Germania era praticamente emarginata dal contesto europeo imperante, a causa della frammentazione interna che la esponeva alla mercé dell’esercito francese. L’unico Stato che seppe resistere alla colonizzazione fu la Prussia, ma anch’essa dovette capitolare contro Napoleone, subendo una severa sconfitta nella battaglia di Jena. Con la rinascita di questo Stato ad opera di Bismarck parve affacciarsi il ritorno del grande passato di Alarico e del 53 54 Barbarossa. Questa parte orientale della Germania benché fosse predominante politicamente, era rimasta culturalmente relegata ad una situazione di poco superiore al medio evo, mentre la parte occidentale, essendo stata fino al XVII secolo sottoposta alla Francia, ebbe la possibilità di usufruire delle istituzioni liberali ed assimilare i nuovi fermenti culturali, quindi si presentava culturalmente più avanzata. grandi filosofi Greci, da Platone a Eraclito, ad Aristotele, ecc.. E’ proprio dall’impatto di tale rinnovato ordine e misura che, intelligentemente accostato e fuso allo Sturm, nascerà il momento propriamente romantico. All’inizio il termine “romanticismo” voleva indicare il rinascere dell’istinto e dell’emozione che il prevalente razionalismo Illuminista del XVIII secolo non era riuscito a VII * Il Diciannovesimo Secolo Questo spiega come molti illustri tedeschi Goethe compreso, e molti principi (che sentivano vacillare il loro potere), fossero oppositori dell’unità tedesca che si andava prefigurando e non si dispiacquero della vittoria di Napoleone a Jena che si mostrava ai loro occhi come missionario di una cultura superiore alla prussiana con la quale si identificava la parte protestante della Germania. L’importanza dello Sturm è stata l’aver attirato e riunito attorno a sé, anche se in modo caotico e disordinato, l’espressione spirituale collettiva di un intero popolo. Bismarck era finalmente riuscito a far accettare l’unificazione della nazione tedesca sotto la guida della Prussia. La letteratura, l’arte, ma principalmente la filosofia, quest’ultima soprattutto con Fichte e Hegel, furono impegnati a fondo per aprire la strada all’identificazione patriottica germanica. Col tempo anche lo Sturm und Drang subì una correzione nelle sue manifestazioni più scomposte e disordinate, in seguito ad un ripensamento intorno all’idea del classico, inteso come rivisitazione in chiave nuova e attuale dei motivi, delle opere e delle idee, che resero grande e inarrivabile la “Classicità” greca. Questo neoclassicismo romantico, formatosi organicamente nello spirito e dallo spirito della cultura tedesca, era ispirato e sorretto da una miracolosa e misteriosa rinascita dei valori più alti dell’antichità, non ripetendo ma rinnovando tali valori. Con il recuperato spirito di rinnovamento del classico, nell’arte come nella letteratura, è stato restituito slancio alla filosofia e ridato ai suoi operatori un nuovo interesse verso i VII * Il Diciannovesimo Secolo sopprimere interamente. Oggi si identifica in un atteggiamento o stato d’animo che si riassume nella parola “Struggimento” e consiste nella condizione di dissidio e di lacerazione del sentimento che non si sente mai appagato pur continuando a ricercare una meta che per’altro non conosce e non potrà conoscere. Per il romantico la Natura assume un’importanza fondamentale, che escludendo completamente la concezione illuministica- meccanicistica, è intesa come eterna creatrice di vita, dove la morte è soltanto un trucco per poter avere più vita. Strettamente connesso con la natura è la sete di infinito del romantico che esprime questa tendenza come un perenne “tendere”, una tensione che non ha mai posa, essendo le esperienze umane tutte limitate in quanto il loro oggetto è sempre finito e per questo motivo vanno trascese. I romantici nutrono un forte anelito verso la libertà, come lievito della coscienza e parola di Dio. Fichte farà della libertà il fulcro del suo sistema, mentre per Hegel la libertà è l’essenza dello Spirito. Come si può constatare la religione in genere viene rivalutata dalla condizione che l’Illuminismo l’aveva ridotta. Naturalmente è quella cristiana, anche se intesa nei diversi modi, la religione considerata per eccellenza intesa per lo più come rapporto dell’uomo con l’Infinito e l’Eterno. Per ciò che riguarda il romanticismo filosofico, Benedetto Croce, in disaccordo con parecchi studiosi, scrive in termini elogiativi di questa filosofia, che dando risalto all’intuizione, alla poesia, all’arte, alla fantasia e in ultima analisi alla genialità umana, si contrappone a quei sistemi che sembrano 55 riconoscere la verità solo attraverso la fredda ragione. Ponendosi in contrasto con l’intellettualismo kantiano e cartesiano del secolo XVIII, fa indirettamente un’apologia a tutta la filosofia romantica maturata con l’idealismo. Abbiamo potuto vedere, anche se solo di sfuggita, come il movimento romantico oltre ad essere una corrente filosofica e letteraria, ha coinvolto altresì le arti figurative e la musica, 56 libro “Sulla Germania” e in Giovanni Berchet “Lettera semiseria di Grisostomo” del 1816 che segna la nascita del romanticismo italiano. Sommario VII * Il Diciannovesimo Secolo influenzando non poco la politica nel momento storico post rivoluzionario dalla fine Settecento fino alla prima metà dell’Ottocento. Le prime anticipazioni del movimento si manifestarono in Inghilterra e poi man mano si propagarono per tutta Europa, assumendo caratteristiche peculiari diverse nelle varie nazioni. Ma è in Germania, che il movimento acquista enorme importanza, e consegue quella specifica e forte impronta propria dell’animo e del sentire tedesco. Jena (la città che vide la sconfitta dell’esercito prussiano) è la città in cui si costituì il primo e più famoso Circolo dei romantici. Da qui poi, causa contrasti, alcuni tra i soci si trasferirono a Berlino fondando un nuovo circolo iniziando anche la pubblicazione della prima rivista del movimento “Athenaeum” la quale ebbe notevole successo anche se di breve durata. Il circolo degli Schlegel aveva pronunciato la parola magica che esprimeva il sentire spirituale della nuova epoca. Tutta l’Europa di quell’inizio di secolo venne conquistata dalle istanze spirituali del romanticismo, quali la rivalutazione del sentimento e della fede, l’amore per la storia e in particolare per il medioevo, l’esaltazione per gli aspetti magici e mistici della vita, la libera espressione della creatività soggettiva con l’adozione di forme aperte e frammentarie, liriche ecc.. Merito principale di ciò è stata l’opera di divulgazione svolta da intellettuali e filosofi tedeschi nelle maggiori città germaniche ed europee. Anche in Francia e in Italia più tardi il verbo del romanticismo ebbe i suoi seguaci in Madame de Stael con il VIII Johann Gottlieb Fichte Johann Fichte nacque a Rammenau nel 1762 da genitori molto poveri, di origine contadina. Ebbe una giovinezza poverissima si direbbe di miseria, ma di questa condizione non ebbe mai vergogna anzi in più occasioni dichiarò di esserne fiero e orgoglioso. Un ricco cittadino né intuì le grandi capacità già da giovanissimo e lo indirizzò agli studi. Frequentò il ginnasio a Pforta, poi si iscrisse alla facoltà di teologia a Jena e poi a Lipsia. Quando i contributi del suo protettore finirono dovette arrangiarsi a procurarsi il denaro dando lezioni private come precettore. Si interessò a Spinoza e Montesquieu ma quando incontrò (non di persona) Kant, ebbe un’autentica folgorazione. La sua prima opera, fu un “Saggio sulla critica di ogni rivelazione” e la presentò a Kant stesso, il quale la fece pubblicare nel 1792 suscitando un discreto interesse, perché venne scambiato per un lavoro dello stesso Kant, ma quando l’equivoco fu chiarito il nome di Fichte divenne improvvisamente celebre e fu invitato all’università di Jena come successore di Reinhold, dove rimase fino al 1799. In quell’anno scoppiò una vivace polemica sull’ateismo, e Fichte si trovò nel bel mezzo, fino a degenerare andando a scontrarsi con le autorità politiche, tanto che alla fine fu costretto a rassegnare le dimissioni. 57 Si trasferì a Berlino dando lezioni private, incontrando alcuni intellettuali del movimento “romantico”. Insegnò all’università di Erlangen che dovette lasciare perché la città fu perduta dalla Prussia. Si impegnò culturalmente e politicamente con i “Discorsi alla nazione tedesca” in cui sostiene la tesi che la nazione germanica si deve risollevare e superare la sconfitta politico–militare attraverso un nuovo rilancio morale e culturale, nel quale si riaffermi il primato spirituale del popolo XIII * Johann Gottlieb Fichte tedesco. Quando nel 1810 venne fondata l’università a Berlino venne chiamato a insegnare e fu anche eletto rettore. Tra le opere più importanti ricordiamo “Fondamenti della dottrina della scienza”, “Fondamenti del diritto naturale”, “Sistema della morale”, “La missione dell’uomo”, “Tratti fondamentali dell’epoca presente”, “Lo Stato commerciale chiuso” ed altri. Della “Dottrina della scienza” sulla quale lavorò praticamente per tutta la vita con numerosi rifacimenti, i romantici trovarono una risposta fondamentale alle loro istanze, tanto che Schlegel disse che rappresentava una delle tre direttive principali del secolo assieme a Goethe e alla rivoluzione francese. Johann Fichte morì nel 1814 di colera, contagiato dalla moglie, che prestava la sua opera di infermiera curando i soldati negli ospedali militari dove si era propagata l’infezione. Dopo l’incontro folgorante con il pensiero kantiano; “pur essendo immerso in una situazione economica precaria, sto vivendo i giorni più felici che mi ricordi di aver vissuto”, questa è l’espressione usata da Fichte per illustrare la sua condizione emotiva, si immerge con entusiasmo nello studio delle opere del maestro, allo scopo di trovare quel principio unificatore che sta alla base di tutta la filosofia e che, a suo giudizio, Kant non aveva rivelato nei principi ma solo indicato nel risultato. “Kant possiede la vera filosofia, ma solo nei risultati, non nei suoi principi”, dunque Kant ha fornito e predisposto la 58 condizione per costruire il sistema, ma non lo ha costruito. Questo è quanto Fichte si propone , cioè costruire il sistema che sappia trasformare la filosofia in una rigorosa scienza la quale scaturisca da un unico principio supremo. Il principio della filosofia fichtiana è: L’io pone se stesso. Con questo modo di impostare la filosofia, ponendo cioè l’Io come principio primo dal quale dedurne la realtà, che lui ritiene in pratica essere la stessa di Kant presentata in modo XIII * Johann Gottlieb Fichte diverso, Fichte crea l’idealismo. La filosofia di Kant pone come principio incondizionato quello dell’identità A=A. Questo principio però è solo formale perché si pone solo presupponendo l’esistenza di A, solo allora A=A. In questo legame logico, di indispensabile c’è: “se….allora”, quindi oltre al legame A=A si riconosce anche la A, e questa viene creata contemporaneamente dall’Io (e non da altri) nello stesso momento in cui si pone il legame A=A, il quale, risultando posto quindi non originario, non può essere il principio primo. Questo non può che essere l’Io stesso il quale, non essendo posto da nessun altro, si auto-pone. Se l’Io è condizione prima di se stesso, allora costruisce se stesso, è posizione di se stesso, in definitiva è auto-creazione. La metafisica classica sosteneva che l’azione consegue all’essere delle cose, cioè una cosa per agire prima deve essere, l’essere è la condizione dell’agire. La nuova posizione idealistica rovescia esattamente questo principio affermando che l’azione precede l’essere, l’essere è una conseguenza dell’azione. Fichte diceva chiaramente che l’essere non è un concetto originario ma derivato, dedotto, prodotto, dall’agire. L’Io di Fichte è l’Io puro, esattamente auto-intuizione, nel senso di auto-posizione, che si pone da sé, l’Io come condizione incondizionata, che è un atto, un’attività originaria. Questo Io, questa Intelligenza di Fichte, non è quella del singolo uomo empirico, ma diventa l’Io assoluto. 59 60 A questo primo principio dell’Io autoponentesi “soggetto”, Fichte ne contrappone un secondo di opposizione il non-io. Il non io è tutto il resto che non è Io, che non si pone con l’Io e non ponendosi è staticità, inazione, da esso non ne può scaturisce nulla, quindi è “oggetto”, materia, natura, dato che l’Io ponendosi è dinamismo, auto creazione. Risulta evidente che questo non io non è al di fuori dell’Io, non è un qualcosa di staccato, ma si trova all’interno di esso, giacché nulla è pensabile al di fuori dell’Io. Per questo l’Io illimitato oppone a infinito. La vera perfezione è un infinito tendere alla perfezione come progressivo superamento della limitazione. Dio non è una sostanza o realtà a sé stante, ma è l’ordine morale del mondo, è il dover essere, quindi è Idea. La vera religione consiste nell’azione morale. Il finito (l’uomo) è momento necessario e strutturale di Dio (come Idea che si realizza all’infinito). L’Io è il vero principio di tutto. Il non-io agisce su di esso solo come resistenza stimolando l’Io all’azione. XIII * Johann Gottlieb Fichte Sé un non io illimitato ma questa opposizione non è tale che l’Io elimini il non io e viceversa, ma l’uno per l’altro ne sono il limite. Risulta evidente che a determinare la produzione di non-io compete all’Io, il quale ne determina la propria limitazione. Questo concetto è espresso da Fichte con il termine “divisibile”. Volendo qui sintetizzare con una formula che può sembrare un giochetto di parole o uno scioglilingua si può dire: “l’Io oppone, nell’Io, all’Io divisibile un non-io divisibile”. Da questi concetti base Fichte ne trae tre categorie di qualità; 1) Affermazione (Io pone se stesso) 2) Negazione (l’Io oppone a se il non-io) 3) Limitazione (l’Io limite di produzione del non-io) La contrapposizione di Io e di non-io e la reciproca limitazione spiegano sia l’attività conoscitiva sia quella morale. Mentre nell’attività teoretico-conoscitiva l’oggetto determina il soggetto, nell’attività pratico-morale è il soggetto che determina e modifica l’oggetto. Il non- io diventa in tal modo lo strumento mediante cui l’Io si realizza moralmente, e momento necessario per la realizzazione della libertà dell’Io. La libertà è farsi libero e farsi libero significa allontanare incessantemente i limiti opposti dal non io all’io empirico. Rimuovere completamente il non- io diventa solo un concetto limite, per cui la libertà resta strutturalmente un compito XIII * Johann Gottlieb Fichte Fiche identifica l’azione con l’Io e l’inattività o l’inerzia come il peggiore dei mali dai quali derivano tutti gli altri vizi peggiori, infatti l’uomo moralmente inattivo è la negazione dell’essenza e del destino dell’uomo stesso, rimanendo a livello di cosa, di natura, quindi in un certo senso di non-io. Proprio per diventare pienamente uomini, ciascuno ha bisogno degli altri uomini, e questo si realizza solo se esistono più uomini. Questa molteplicità implica il sorgere di una molteplicità di idee e quindi un conflitto fra i sostenitori di idee differenti, dal quale ne esce sempre vincitore il migliore, il “dotto”, che secondo Fichte ha una duplice missione, impegnarsi a far progredire il sapere, ma essere anche un esempio morale, con la sua attività, nella promozione del progresso per l’umanità. L’ordine morale del mondo è Dio stesso per cui, non può non prevalere colui che è moralmente il migliore. La comunità così delineata, formata da esseri liberi accanto ad altri uomini liberi, ha la necessità di regolare e adeguare la libertà di ognuno con l’esigenza comune. Nasce così il “diritto”, che per ogni uomo diventa fondamentale quello alla libertà e come secondo il diritto alla proprietà. Per Fichte lo Stato, nato come contratto sociale da un consenso della volontà degli individui, è ispirato, almeno in un primo momento, agli ideali socialisteggianti della rivoluzione francese, ma gli eventi storici che seguirono con l’avvento di 61 62 Napoleone al potere in Europa lo persuasero che solo dal popolo tedesco, politicamente riunito ed economicamente rinfrancato, poteva venire la spinta per il compimento della missione di progresso civile dell’umanità. Questa superiorità del popolo tedesco posto a guida della civiltà moderna, ha dato origine a parecchie strumentalizzazioni, che ne hanno dato un significato distorto e del tutto diverso dal significato originario, inteso ad attribuire orgogliosamente a se stessa un primato morale e civile quale nazione risorgente. Sommario XIII * Johann Gottlieb Fichte IX Rimane tuttavia il fatto che “I Discorsi alla nazione tedesca”, ha offerto larghi spunti all’ideologia del pangermanesimo. Friedrich Joseph Schelling Schelling, fu educato agli studi classici e biblici dal padre pastore protestante nella città di Leonberg. All’età di quindici anni si iscrisse al seminario teologico di Tubinga, dove strinse amicizia con Hegel, verso il quale ebbe grande influenza. Proseguì gli studi di scienze naturali e matematica a Lipsia e a Dresda, ed appena ventitreenne divenne coadiutore di Fichte all’università di Jena e nel 1799 con le sue dimissioni per le note polemiche sull’ateismo ne prese il posto come successore. L’anno successivo usciva la sua opera che più di ogni altra le darà fama “Sistema dell’idealismo trascendentale”, destinata ad imporlo come punto di riferimento per il movimento romantico. Sono gli anni in cui ebbe contatti con tutti i circoli romantici. Nel 1803 insegnò all’università di Wurzburg, nel 806 venne chiamato all’Accademia delle scienze di Monaco, nel 1841 fu chiamato da Federico di Prussia all’università di Berlino, nel ’47 interruppe i suoi corsi e morì quasi dimenticato in Svizzera nel 1854. La parabola evolutiva del pensiero di Schelling e la produzione di scritti e opere è talmente vasta che rendono problematica una classificazione del suo svolgimento. Agli inizi fu certamente un estimatore di Fichte, poi si entusiasmò per la filosofia della natura, l’idealismo 63 trascendentale, la filosofia dell’identità, la filosofia della libertà, e la filosofia della religione che lo impegnarono per gli ultimi tempi della sua esistenza. A partire dal 1797, Schelling si appresta a rivalutare la natura, che il sistema fichtiano aveva praticamente ridotto al puro non-io facendole perdere qualunque identità fino ad annullarla. Ciò facendo veniva messa in crisi la Dottrina della scienza dando vita ad una nuova prospettazione e formulazione dell’idealismo. IX * Friedrich Joseph Schelling Che cos’è la natura, si domanda, se non è puro non-io? La risposta che si è dato è stata; la Natura è il prodotto di una intelligenza inconscia, che opera all’interno di essa, che si sviluppa teleologicamente (fini ultimi) per gradi, a livelli successivi mostrando una strutturale finalizzazione. La natura è lo Spirito visibile mentre lo Spirito è la Natura invisibile. “Il sistema della natura è insieme il sistema del nostro spirito”. Schelling quindi, per spiegare la Natura usa gli stessi principi che Fichte aveva usato con successo per illustrare lo spirito cioè la stessa Intelligenza che spiega l’essenza dell’Io. Dunque se, tra la Natura fuori di noi e lo Spirito dentro di noi vi è una assoluta unità, il problema che si pone è: come possibile che esista una Natura fuori di noi? La sua risposta è che la Natura, non è altro se non “una intelligenza irrigidita in un essere”, sono “sensazioni spente in un non essere” è “arte produttrice di idee che oggettiva in corpi”. Per meglio chiarire il concetto schellinghiano di natura trascrivo quanto dice in proposito Nicolai Hartmann: “Nella Natura v’è un’organizzazione generale, questa organizzazione non è pensabile senza una forza produttiva. Tale forza a sua volta abbisogna del principio organizzativo, il quale non può essere un cieco principio reale, ma deve avere prodotto agendo finalisticamente, la finalità ha un fine, contenuta nelle sue creazioni. Si tratta dunque soltanto di un principio spirituale, di uno spirito al di fuori del nostro spirito, il quale è 64 capace di ciò. Poiché però non ci è lecito ammettere una coscienza al di fuori dell’Io, lo spirito che opera nella natura deve essere uno spirito inconscio. Nella “Dottrina della scienza”, Fichte faceva sorgere la natura in modo puramente idealistico dalla immaginazione produttiva dell’Io, da una forza che opera in modo irriflesso e perciò privo di coscienza. Schelling mantiene fermo questo operare privo di coscienza, ma lo trasferisce nella realtà oggettiva, dal momento che il principio che vi opera spiritualmente non è per lui l’Io, ma IX * Friedrich Joseph Schelling viene a trovarsi al di fuori di esso. Si tratta di un principio del reale ch’è esterno alla coscienza, e in tal misura la filosofia della natura rapportata alla Dottrina della scienza, è assolutamente realistica; si tratta tuttavia di un principio spirituale e in tal modo anche di un principio ideale. E’ contemporaneamente “ideale e reale” e il punto di vista basato su di esso si può chiamare con un certo diritto real-idealismo”. Spirito e Natura, abbiamo visto derivano da un medesimo principio, per cui si riscontra quella stessa dinamica di una forza che si espande e di un limite che le si contrappone che troviamo già nell’Io fichtiano, ma qui l’opposizione all’espansione non arresta se non momentaneamente la sua forza, per poi riprendere presto il suo corso, per poi arrestarsi ad un ulteriore limite e cosi via di seguito. Ogni fase costituita da tali forze contrapposte corrispondono a un grado di livello della natura che procedendo si presenta sempre più ricco dando luogo a quello che appare come “meccanicismo universale” in un generale “processo dinamico”. Il primo incontro tra le contrapposte forze, da luogo alla materia che è quindi un prodotto dinamico di forze. Continuando l’ulteriore incontro con la forza infinita positiva con la forza limitatrice negativa, per gradi si giunge all’uomo che è posto al grado più alto nel quale si accende la coscienza e l’intelligenza raggiunge la consapevolezza. Sommario 65 Questa ipotesi ci riporta all’antico concetto di anima del mondo che Schelling usa per spiegare “l’organismo universale”. Questa antica figura teoretica non è altro che l’intelligenza inconscia che produce e regge la Natura e che solo con la nascita dell’uomo si apre alla coscienza. Dopo aver chiarito come la natura sia arrivata per gradi all’intelligenza, Schelling, tenendo presenti le nuove acquisizioni e quanto detto da Fichte e Kant sulla filosofia dello Spirito, sentì la necessità di ripensare a come l’intelligenza arrivi alla natura. Ebbe così l’idea di scrivere “il Sistema 66 al continuo sorpassarsi, lasciando alle spalle il prodotto della propria creazione, per ricercarne uno sempre nuovo. Il Sistema dell’idealismo trascendentale, rimane la sua opera più compiuta, le cui maggiori novità sono racchiuse in un trentina di pagine, mentre per il resto sono concetti già esposti dai predecessori anche se espresse in modo migliore. Tuttavia quest’opera è il simbolo e l’espressione del suo tempo e insieme ad alcuni scritti di filosofia della natura, ne rivela il meglio di sé. Fu Hegel il suo successore che dal 1818 in poi raccolse la sua eredità polarizzando su di sé l’attenzione di tutti. IX * Friedrich Joseph Schelling dell’idealismo trascendentale”, che si può riassumere così: l’Io è attività intellettuale autoponentesi all’infinito “Attività reale”, che per divenire anche prodotto, deve porre dei limiti al proprio produrre quindi deve opporre a se qualche cosa “attività ideale”, ma questa, per la medesima attività infinita dell’Io viene di nuovo superata sempre ad un livello superiore. Le due attività si presuppongono a vicenda, e il meccanismo dell’Io deriva proprio dal nesso dinamico-relazionale delle due attività. In questo modo l’orizzonte dell’idealismo soggettivo fichtiano si allarga diventando propriamente un ideal-realismo. Questa attività ad un tempo conscia e inconscia, che come tale si trova presente sia nella Natura come nello Spirito, è “l’attività estetica”, la quale genera tutte le cose, i prodotti dello Spirito come quelli della Natura. E’ nella creazione artistica che si fondono il conscio e l‘inconscio e dove il prodotto artistico finito mantiene altresì una significazione universale infinita. “l’Arte diviene l’unica ed eterna rivelazione”. E’ questo “l’idealismo estetico” che tanta impressione e tanti entusiasmi suscitò fra i contemporanei, ma che come tutti i sogni per quanto grandi, durò solo per breve tempo. Schelling è stato il pensatore che meglio di tutti ha dato voce alle inquietudini romantiche, a quel tendere senza posa, X Wolfgang von Goethe Johann Wolfgang Goethe nacque a Francoforte nel 1749, è considerato il maggior pensatore e poeta tedesco. Egli riunisce in sé tutto il travaglio e le aspirazioni di un’intera epoca. Il suo genio multiforme si è espresso nel campo della riflessione filosofica e della ricerca scientifica. Il Goethe giovanile aderì al movimento dello Sturm und Drang contribuendo con alcune sue opere a vivacizzarlo, anche se in seguito cercò di prenderne le distanze a causa delle intemperanze e dei comportamenti del movimento ai quali aveva indirettamente contribuito con i suoi scritti. Successivamente a questo periodo, si interessò al classico riproponendo i canoni della bellezza classica identificata in quella greca, quale modello di immediata e spontanea armonia con la natura, soggetta all’universale “legge dell’accrescimento”, dovuta a due tendenze contrapposte “contrazione” ed “espansione”. La natura è tutta viva fin nei minimi particolari. La totalità dei fenomeni è l’organica produzione della “forma interiore”. Una polarità di forze, dà luogo alle diverse formazioni naturali, che segnano un accrescimento e producono una elevazione progressiva. Come 67 68 tratto caratteristico della sua visione del mondo e di Dio, è un naturalismo panteista. A determinare questa tendenza, hanno contribuito sia gli studi giovanili dedicati a materie esoteriche come l’occultismo, l’alchimia, a Paracelso, sia all’approfondimento sui temi di Plotino, Bruno e principalmente Spinoza, per il quale prese le difese nella nota contesa con Jacobi. Di Kant apprezzò particolarmente la “Critica del giudizio”, in cui il giudizio estetico e teologico vengono trattati unitariamente. Il “genio” è per Goethe “natura che crea” e l’arte è attività creatrice e creazione come la natura, e addirittura al di sopra della natura. Sommario X * Wolfgang von Goethe Un altro tema molto dibattuto da Goethe è il meccanicismo newtoniano degli illuministi, al quale contrappose una visone globale della natura e dell’uomo, fondata sulla vivente esperienza dei cinque sensi dell’uomo, che egli definisce come “il più grande ed esatto apparecchio fisico” di cui lo studio della natura possa giovarsi. La celebrità Goethe, l’ha raggiunta con il romanzo “Faust”, divenuto anzi personaggio eterno, nel quale si rispecchia profeticamente, la coscienza dell’uomo moderno. Faust, nel suo tendere al sempre ulteriore mostra, anche troppo facilmente, quanto il demone dell’attivismo possa distruggere l’uomo contemporaneo, e solo grazie all’amore divino che sopravviene in suo aiuto, l’uomo trova la sua salvezza. E’ questa conclusione che restituisce al personaggio e al suo autore la loro statura romantica. XI Georg Friedrich Hegel Friedrich Hegel nacque a Stoccarda nel 1770 da famiglia benestante. Frequenta gli studi con profitto nella sua città appassionandosi agli studi umanistici e ai classici greci in particolare. Nell’1788 si iscrisse all’università di Tubinga nella facoltà di filosofia prima e teologia poi. Qui strinse amicizia con i compagni di studi che in seguito divennero protagonisti della cultura tedesca come Holderlin e Schelling. L’avvento della rivoluzione francese ebbe notevole influenza nell’ambiente universitario tubinghese sollevando in un primo momento, molto entusiasmo e partecipazione tra gli studenti. Ben presto però gli spiriti rivoluzionari si sopirono, e in Hegel si manifestarono atteggiamenti conservatori e per certi aspetti, nell’ultima fase del suo pensiero, persino reazionari. Al termine degli studi scelse il mestiere di precettore prima a Berna poi a Francoforte, dedicandosi nel contempo agli studi di storia politica ed economica, pur coltivando vivissimo l‘interesse per la teologia. Alla morte del padre nel 1799 ereditò una cospicua somma con la quale poté dedicarsi completamente agli studi recandosi a Jena a quel tempo l’università più famosa. 69 70 Da poco alla guida si trovava Schelling a seguito delle note vicende di Fichte e qui conseguì la docenza universitaria. Ebbe la possibilità di insegnare come libero docente e in seguito professore. Quando nel 1806 con la guerra arrivò Napoleone, Hegel, rimase visivamente colpito dalla forte personalità del condottiero, tratteggiandolo espressamente come “lo Spirito del mondo a cavallo”. Con la guerra arrivarono anche le difficoltà economiche, si trasferì in un primo tempo a Bamberga a dirigere il giornale locale, rimanendo solo pochi mesi, poi si trasferì a Norimberga fino al 1816, dirigendo il locale Ginnasio. Qui scrisse e pubblicò la sua opera più complessa “Scienza della logica”. perde quest’armonia, e si impone l’individualismo e la privazione della libertà. Successivamente prende un atteggiamento più realistico e conciliante verso la politica e la religione (cristianesimo, anche se personalmente interpretato), abbandonando l’utopia di un ritorno all’armonia antica. Mutato atteggiamento, interpreta positivamente anche il periodo dell’impero romano e la valorizzazione del’individuo singolo che ne è seguita. E’ questo il periodo delle conquiste di Napoleone dove anche in Germania, è visto come portatore di libertà e di una nuova economia politica in senso borghese, che spazza via i residui del feudalesimo. XI * Georg Friedrich Hegel Per due anni rimase a Heidelberg presso la locale Università e nel 1818 passò a Berlino dove rimase fino alla morte avvenuta nel 1831. Hegel rappresenta il vertice del movimento filosofico tedesco iniziatosi con Kant e Fichte e rimane il maggior interprete dell’idealismo tedesco. La sua influenza è stata grandissima non solo tra gli intellettuali tedeschi, ma tra i filosofi accademici americani e inglesi, come per molti teologi protestanti che hanno adottato le sue dottrine, sino ad influenzare profondamente la teoria politica con la sua filosofia della storia. Volendo descrivere l’opera di Hegel, bisogna tenere conto dell’epoca in cui si è trovato a operare e quindi l’influenza che gli avvenimenti hanno avuto sulla sua opera e sul suo pensiero. Egli mantenne sempre uno stretto rapporto con le grandi vicende storiche della sua epoca. Inizialmente è la rivoluzione francese e lo spirito illuminista e rivoluzionario ad attrarlo, dove (nelle intenzioni di questo) l’umanità viene liberata dal passato di oppressione politica e religiosa. Prendendo a modello le repubbliche cittadine della Grecia antica nelle quali prevalgono lo spirito patriottico e una religione veramente “popolare”; le mette a confronto con l’avvento dell’impero romano nel quale si XI * Georg Friedrich Hegel Hegel ritiene che anche la filosofia debba essere alla pari coi tempi e collaborare all’avvento di questa nuova fase storica assumendosi il compito di riconoscere il presente e abbandonare i proclami di preparazione per un’epoca postuma. Questo è il nuovo indirizzo filosofico, al momento della restaurazione monarchica prussiana della quale Hegel peraltro si presenta come un sostenitore, considerandola portatrice della razionalità e della libertà vera, contro le nostalgie reazionarie e le impazienze liberali. Questa filosofia si trova evidentemente in polemica col moralismo di coloro che contrappongono al reale, degli ideali astratti che sono fatalmente impotenti. Essa è pertanto la coscienza di un mondo storico già esistente, non promotrice di progresso, che si raggiunge e si riconosce solo dopo grande sacrificio e maturazione, simile “all’uccello di Minerva (la civetta) che si leva sul far della sera”, intendendo che la filosofia la si conosce solo in età matura (sul far della sera), è quindi un continuo agire, tendere verso un divenire senza mai arrivare. Concetto basilare della filosofia di Hegel, affermata con chiarezza nella “Fenomenologia”, è che la realtà, il vero, non è “sostanza” come tradizionalmente si crede, ma “Soggetto”, vale a dire “Pensiero - Spirito”. Affermare che la realtà non è 71 sostanza ma Soggetto e Spirito significa che la realtà è attività, processo, movimento, meglio auto-movimento, quindi auto generazione. Lo Spirito si auto-genera generando la propria determinazione e nel contempo superandola pienamente. Lo Spirito è infinito in maniera sempre attuantesi e realizzantesi, come continua posizione del finito e insieme come superamento del finito stesso. L’infinito è il superamento sempre realizzantesi del finito, è il positivo che si realizza mediante la negazione di quella negazione che è propria di ogni finito. Allora, lo Spirito infinito hegeliano è come un circolo in cui principio e fine coincidono perfettamente in maniera dinamica, dove l’essere è sempre risolto nel dover essere e il reale è XI * Georg Friedrich Hegel sempre risolto nel razionale. Lo Spirito hegeliano è “una uguaglianza che continuamente si ricompatta, una unità “che si fa” proprio attraverso il molteplice”. In questa concezione, la quiete è solo “il tutto del movimento”, la quiete senza movimento, sarebbe l’immobilità della morte, non la vita. Tutto questo per Hegel è l’Assoluto, che vale per ogni singola realtà, per ogni suo momento ed ha una tale compattezza da esigere necessariamente la totalità delle parti, nessuna esclusa. Ogni momento del reale è momento indispensabile dell’Assoluto hegeliano, perché esso si fa e si realizza in ciascuno e in tutti questi momenti, in modo che ciascun momento risulta assolutamente necessario. Per esemplificare questo concetto Hegel si serve della gemma, del fiore e del frutto. La gemma, nello sviluppo della pianta, scompare quando sboccia il fiore quindi viene negata, il fiore diventa la positività del bocciolo, ma allo stesso modo il fiore, essendo una determinazione, quando si trasforma in frutto subisce lo stesso destino di negatività tanto da risultare inutile per l’esistenza della pianta, e il frutto subentra al fiore come sua verità. In questo processo, di determinazione-negazione, ogni momento è essenziale all’altro, la pianta con la sua vita è lei stessa processo 72 che pone progressivamente i vari contenuti, i vari momenti, e così di seguito li supera. Risulta chiaro allora che il reale è un processo che si autocrea mentre percorre i suoi momenti successivi, in cui il movimento medesimo è il positivo che si auto accresce progressivamente. Questo movimento dello Spirito è il “movimento del riflettersi in se stesso”, che da il senso della circolarità di cui in precedenza abbiamo parlato, ed è il processo auto produttivo dell’Assoluto che si realizza, a livello più elevato, anche per il reale visto come tutto e che muove Hegel, a parlare dell’Assoluto anche come di un circolo di circoli. Anche l’Idea (che è il Logos, la Razionalità pura e la Soggettività in senso idealistico) ha in sé, come avviene per XI * Georg Friedrich Hegel l’Assoluto, il principio del proprio svolgimento; prima si “obiettiva”, quindi si fa natura “alienandosi”, poi superando questa alienazione, perviene a se stessa. Quindi l’Idea che si realizza e si contempla mediante il proprio sviluppo è lo Spirito hegeliano, che si caratterizza in tesi, antitesi e sintesi; cioè la prima è “l’Idea in sé”, la seconda è il suo “alienarsi”, la terza è il momento del “ritorno a sé”. Questa è la caratterizzazione hegeliana dell’Assoluto, alla quale voglio aggiungere alcuni importanti e famosi corollari: Tutto ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale Essere e dover essere coincidono. Il senso di queste affermazioni diventano chiare se si tiene presente che per Hegel, qualunque cosa avvenga o esista non è fuori dell’Assoluto, ma anzi è un momento insopprimibile dello stesso Assoluto. Tutto ciò che è, è momento dell’Idea e del suo svilupparsi, nel senso che tutto quanto accade è sempre ciò che meritava che accadesse. La filosofia di Hegel risponde all’affermazione che “tutto è pensiero” il cosiddetto “panlogismo”, anche se non tutte le cose hanno un pensiero come il nostro tutto però è razionale, in quanto determinazione 73 di pensiero. Ciò corrisponde all’asserto degli antichi quando dicevano che il Nous (l’Intelligenza) governa il mondo. Diversamente dalla pretesa romantica di cogliere immediatamente la conoscenza dell’Assoluto attraverso l’entusiasmo e il sentimento (la fede), Hegel, giudicando “falso un sapere immediato e privo di mediazione”, supera la rappresentazione romantica, ricercando un metodo che gli consenta di arrivare alla conoscenza dell’Assoluto in modo “scientifico”. Questo metodo che gli consente di superare i limiti dell’intelletto al punto da garantire la conoscenza scientifica dell’infinito, lo trova “nella dialettica”. La dialettica, è lo strumento nato presso gli antichi (Zenone di Elea) come forma di conoscenza, molto usata da Platone, XI * Georg Friedrich Hegel ripresa in età moderna da Kant nella sua critica alla Ragion pura e fatta sua da Hegel, attraverso la quale ritiene poter dotare il “vero” della forma rigorosa della scientificità che ad esso compete, quale suprema elevazione di conoscenza. Tra la dialettica classica e quella hegeliana sussistono naturalmente punti di contatto notevoli e differenze essenziali, che Hegel considera, sia nelle Idee di Platone che nei concetti universali di Aristotele, essere rimasti per così dire bloccati in una rigida quiete e quasi solidificati. Poiché la realtà è divenire, è movimento, è dinamicità, anche la dialettica per essere strumento adeguato, deve essere riformata in questo senso, per cui necessita imprimere movimento alle essenze e al pensiero universale. “Mediante questo movimento, i pensieri puri divengono concetti e solo allora si rivelano nella loro verità… Questo movimento di pure essenzialità costituisce la natura della scientificità in generale”. Il movimento diventa allora il cuore del reale, è la natura stessa dello Spirito, e questo non potrà essere se non una sorta di movimento circolare o a spirale con ritmo triadico, che come abbiamo già visto sono la tesi, l’antitesi e la sintesi. La 74 comprensione di questi tre momenti del moto dialettico ci porta a capire il vero fondamento del pensiero di Hegel. 1) La tesi è, il concetto determinato, il lato astratto dell’oggetto, dovuto alla capacità di astrazione dell’intelletto il quale distingue, separa, definisce, fermandosi alla determinatezza del medesimo, ritenendo tale concetto in qualche modo definitivo. L’intelletto è pertanto la potenza che scioglie e distacca dal particolare ed eleva all’universale, quindi è l’opposto dell’intuizione immediata e della sensazione. Tuttavia, l’intelletto come tale fornisce una conoscenza inadeguata, rinchiusa nel finito, nell’astratto irrigidito, rimanendo vittima delle resistenze da lui stesso create, distinguendo e separando. Per questo, il pensiero filosofico XI * Georg Friedrich Hegel deve oltrepassare i limiti dell’intelletto. 2) L’antitesi, è il momento della negazione razionale, che va oltre i limiti dell’intelletto, questa è peculiarità della Ragione, la quale ha un momento negativo e un momento positivo. Il momento negativo è il momento dialettico in senso stretto, e consiste nello smuovere la rigidità dei prodotti dell’intelletto. Rimuovere e analizzare i concetti dell’intelletto, può far affiorare una serie di contraddizioni e di opposizioni di vario genere che nell’irrigidimento dell’intelletto sono repressi. Ogni determinazione dell’intelletto viene così a rovesciarsi nella determinazione contraria (e viceversa). Il concetto di “uno”, appena si rimuove dalla sua rigidezza astratta, richiama i “molti”, mostrando uno stretto legame con esso e così vale per i concetti di simile e dissimile, uguale e disuguale, di particolare e universale, di finito e infinito, e così di seguito. Quindi la dialettica, come “oltrepassamento” delle determinazioni dell’intelletto. “Il momento dialettico costituisce pertanto l’anima motrice del procedimento scientifico…è nel momento dialettico in generale che risiede la vera elevazione, non esteriore, al disopra del finito”. 75 76 Hegel fa notare, che questo momento dialettico non è affatto una prerogativa del pensiero filosofico, ma è presente in ogni momento della realtà. L’Universalità del processo dialettico (come il seme deve morire per diventare germoglio, il fiore disseccarsi per dare vita al frutto), è insito già in ogni altra forma di coscienza e nell’esperienza in generale. Il negativo che si evidenzia nel momento dialettico consiste generalmente, nella manchevolezza che ciascuno degli opposti tradisce quando si misura con l’altro. 3) La sintesi è il lato speculativo o positivamente razionale, coglie l’unità delle determinazioni contrapposte, è il positivo quale risultante dal confronto ragionato degli opposti, davanti ai quali l’intelletto si era fermato. Possiamo precisare che il momento speculativo è la L’uomo, nel momento in cui filosofa, si innalza al di sopra della coscienza comune, ponendola in una prospettiva assoluta, che la elevi all’altezza della pura ragione, per costruire l’Assoluto nella coscienza; da qui l’importanza di negare e superare le finitezze della coscienza, ed elevare in tal modo l’io empirico a Io trascendentale, a Ragione e Spirito. Il passaggio dalla coscienza comune alla coscienza filosofica deve avvenire in modo mediato e non romanticamente immediato, attraverso una sorta di introduzione alla filosofia. Questo compito è stato assolto con la “Fenomenologia dello Spirito”, scritto da Hegel allo scopo di purificare la coscienza empirica e innalzarla mediatamente fino allo Spirito e al Sapere assoluto. La metodica usata per assolvere tale funzione non può XI * Georg Friedrich Hegel riaffermazione del positivo, che si realizza mediante la negazione del negativo che è il momento proprio della antitesi dialettica. E’ quindi l’esaltazione del positivo della tesi posta però ad un più alto livello, perché passata attraverso la critica scettica dell’antitesi, la quale acquista valore positivo nella misura in cui spinge a togliere rigidità alla tesi. Riassumendo, la conoscenza inizia con la percezione sensoriale, in cui c’è solo la consapevolezza dell’oggetto. Nella seconda fase attraverso l’analisi critica dei sensi, l’oggetto diviene puramente soggettivo. Infine, si giunge allo stadio positivamente razionale in cui l’oggetto e il soggetto non sono più distinti, ma si ritrovano uniti in un’unica conclusione che è la forma più alta della conoscenza. Questi tre momenti formano il movimento circolare della conoscenza, che non ha mai posa ma si sussegue in una sorta di delirio bacchico in cui ogni elemento ne è sollecitato; nessuno dei quali è completamente sorpassato ma dove ognuno ha il posto adatto come momento del Tutto e dove lo speculativo costituisce il vertice più alto cui perviene la ragione, la dimensione dell’Assoluto, che per Hegel è il Tutto. XI * Georg Friedrich Hegel essere se non la più rigorosa metodologia scientifica: la dialettica. La “Fenomenologia dello Spirito” risulta essere la guida che conduce la coscienza finita all’Assoluto infinito, la quale coincide con la via che l’Assoluto ha percorso e percorre per giungere al Sé (il rientrare in sé). Il termine, la parola fenomenologia, nell’ accezione hegeliana, può essere definita come la scienza dello Spirito, dell’Assoluto che appare nella forma dell’essere determinato e dell’essere molteplice, e che in una serie di “figure” successive, cioè momenti dialetticamente collegati tra loro, giunge al Sapere assoluto. La Fenomenologia dello Spirito, si presenta pertanto su due piani che si intersecano e si giustappongono. Un primo piano, costituito dalla via percorsa dallo Spirito per giungere a Sé attraverso le vicende della storia del mondo per mezzo del quale lo Spirito si è realizzato e si è conosciuto. L’altro piano, è proprio del singolo individuo empirico, il quale deve ripercorrere i gradi della storia del mondo già tracciata e spianata dallo Spirito universale. Queste figure o gradi, sono le tappe della storia della civiltà, che la coscienza individuale deve 77 78 riconoscere e riguadagnare a sé. L’introduzione fenomenologica alla filosofia è il ripercorre questa strada. Lo Spirito che si determina e appare, la consapevolezza di qualcosa d’altro, l’opposizione soggetto–oggetto, sono tutte caratteristiche distintive della coscienza. Lo scopo di Hegel è perseguire l’annullamento di queste opposizioni mediante una progressiva mediazione dialettica, fino al totale superamento della scissione tra coscienza e oggetto. Molla di questa dialettica fenomenologica sta nella disuguaglianza o dislivello, tra la Coscienza (Io) con il suo oggetto (negativo) e nel superamento progressivo di questa ineguaglianza, facendo coincidere il momento culminante di questo processo al momento in cui lo Spirito diventa oggetto a se stesso; Auto-coscienza. la capacità di costruirsi del suo fabbisogno, viceversa il servo avendo mantenuto le capacità tecniche e manuali di costruzione degli strumenti per il sostentamento, si rende indipendente. In questa condizione si fa strada la forza dialettica dirompente del lavoro che, Hegel descrive in pagine divenute famosissime, sulle quali soprattutto i marxisti hanno più volte richiamato l’attenzione. La coscienza servile ritrova se stessa e il proprio significato nel lavoro, là dove sembrava che essa fosse un significato estraneo. Ma l’autocoscienza per raggiungere la piena consapevolezza deve passare per tappe successive attraverso lo Stoicismo, lo Scetticismo e infine quella che, lui, chiama “coscienza infelice”, cioè la coscienza di sé che nell’implicita auto-contraddizione dello Scetticismo si sdoppia assumendo XI * Georg Friedrich Hegel L’Auto-coscienza per sua natura tende ad escludere da sé “l’altro”, considerato come inessenziale e negativo, ma presto deve rinunciare a questa posizione perché si scontra con altre autocoscienze. Si attiva così, necessariamente, uno “scontro per la vita e per la morte” che solo l’autocoscienza sa risolvere, non con l’annientamento di una delle parti, ma con la forza di sottomissione di una all’altra. Al termine della lotta gli uomini si ritrovano contrapposti in due classi sociali, il signore e il servo. Il vincitore, che ha rischiato nella lotta la vita, con la vittoria ha acquisito il diritto di dominio sul vinto, il quale per avere risparmiata l’integrità fisica accetta la condizione di schiavitù, cioè di divenire una cosa sottomessa al signore. Il signore si serve del lavoro e della fatica dello schiavo per il proprio bisogno e il servo presta il lavoro a favore del padrone. Questo tipo di rapporto, che in un primo momento sembra essere fortemente sfavorevole al servo, protraendosi nel tempo a poco per volta si modifica a tal punto da portare al rovesciamento delle parti. Infatti il signore finisce col diventare dipendente dalle cose e dal lavoro del suo servo, avendo perduto XI * Georg Friedrich Hegel una, l’aspetto mutevole fatto coincidere con l’uomo l’altro, immutabile, con un Dio trascendente. Questa coscienza cerca il suo oggetto in ciò che è solo in un al di là: essa è collocata in questo mondo ma è tutta rivolta all’altro (irraggiungibile) mondo. Ogni accostamento alla Divinità trascendente significa (per la coscienza infelice) una propria mortificazione e un sentire la propria nullità. Queste pagine sulla Coscienza infelice, va ricordato, sono state intimamente meditate e celebrate soprattutto dagli esistenzialisti (almeno quanto i marxisti le pagine sulla dialettica signore-servo), nelle quali qualcuno, ha persino fatto coincidere questa “figura” con la chiave di lettura dell’intera “Fenomenologia”, il cui movimento dialettico si impernia appunto sulla divisione della coscienza a tutti i livelli e la “Coscienza infelice”, è caratterizzata essenzialmente dalla scissione. Superato, non senza fatica (da parte mia), la seconda tappa dell’itinerario fenomenologico costituito dell’Autocoscienza, Hegel, si appresta ad indagare la “Ragione”; che è l’acquisizione da parte della coscienza, su un livello superiore, della certezza di essere ogni realtà. Le tappe dialettiche della 79 80 Ragione sono l’acquisizione di questa certezza: essere ogni cosa, ossia l’acquisizione dell’unità di pensare e di essere della Coscienza. Il livello più elevato è dato appunto dal fatto che la Coscienza come “Ragione”, ha la certezza di essere unità di “pensiero e di essere”, in ragione della verifica che le nuove tappe le accorderanno. Le tappe della Ragione sono tre: la Ragione che osserva la natura; la Ragione che agisce; la Ragione che acquisisce la coscienza di essere Spirito. La prima Ragione è costituita dalla scienza della natura, e si muove sul piano della consapevolezza che il mondo è penetrabile dalla ragione, è quindi razionale e in quanto tale conoscibile, ma proprio per questo deve superare tale fase “osservativa” con la seconda Ragione quella che “agisce”, il Lo Spirito è “l’Idea che ritorna a sé dalla sua alterità”. “l’Assoluto è lo Spirito: questa è la suprema definizione dell’Assoluto”. Sono queste, definizioni riguardanti lo Spirito espresse da Hegel. Lo Spirito (nel sistema hegeliano), è l’attualizzazione o la realizzazione della conoscenza dell’Idea, intesa questa, come mero concetto di sapere. Lo Spirito, in questa ottica, diventa la vivente sintesi non separata dai due poli dialettici Idea logica e Natura. Come ogni parte del metodo hegeliano, anche la filosofia dello Spirito si struttura in tre momenti: Soggettivo, Oggettivo, Assoluto. Lo Spirito soggettivo corrisponde alla considerazione dell’uomo in quanto individuo, quindi comprendente l’antropologia o dottrina dell’anima, intesa come psichicità naturale radicata nella corporeità dell’uomo in quanto essere XI * Georg Friedrich Hegel momento attivo o pratico. Quindi la Ragione deve iniziare a realizzarsi prima come individuo, per poi elevarsi all’universale, oltrepassando i limiti dell’individualità e raggiungendo la superiore unione degli individui. La terza tappa della Ragione è la sintesi delle due precedenti, è data dall’autocoscienza che supera la sua opposizione, rispetto agli altri e al corso del mondo, ricercando e trovando in questi il proprio contenuto. Come momento conclusivo in questa fase, l’Autocoscienza scopre che: la sostanza etica non è altro se non ciò in cui essa è già immersa: è l’ethos, (costume, comportamento) della società e del popolo in cui vive. La Ragione, veramente realizzata in un popolo libero. Concludo così questa fase della Ragione che ho voluto accennare solo per grandi linee non avendo ne la capacità né la conoscenza analitica sufficiente per poterla sviluppare con soddisfacente ampiezza. Credo comunque di avere dato sufficienti stimoli per, volendo, approfondire l’argomento. La nuova fase è dedicata alla filosofia dello Spirito. XI * Georg Friedrich Hegel vivente; la fenomenologia o dottrina della coscienza, intesa come rapporto tra l’io uomo e il mondo, dopo aver instaurato una reciproca divisione; la psicologia o dottrina dello spirito teoretico e pratico, (una sorta di gnoseologia che indaga i problemi circa la natura e i limiti nonché il valore, della conoscenza umana) inteso come istinti, passioni, ecc… Lo spirito oggettivo corrisponde alla considerazione dell’uomo in quanto individuo nei suoi rapporti con gli altri uomini. Come tutte le dottrine di Hegel anche questa si articola in tre momenti: il diritto (privato) la proprietà, nella quale rientra l’aspetto mediato in quanto contratto, e il libero diritto nella sua violazione, in quanto delitto e pena. La moralità, come giudizio di comportamento per ciò che è posto fuori di me secondo la mia forma di universalità cui è ispirata la regola dell’agire. L’eticità o morale concreta, è la sintesi delle precedenti, e si dispiega all’interno degli istituti nei quali si svolge la vita degli uomini, famiglia, società civile, lavoro e relazioni economiche, fino allo Stato politico nel quale, secondo Hegel, si realizza la libertà degli individui ed insieme assicura la 81 82 destinazione di essi ad un compito universale, allargandosi nella storia politica. Questa sintesi è la concezione dello Stato, è l’Idea stessa che si manifesta nel mondo, è la volontà razionale e in quanto tale è la Libertà come Libertà libera e quindi, realizzata. Questa Idea dello Stato non và considerata come uno Stato particolare ma come l’Idea per sé. Uno Stato può anche essere considerato cattivo, in base a dei principi che si hanno, riconoscendo questa o quella imperfezione. Esso non è una pura opera d’arte, stà nella sfera dell’arbitrio, del caso, dell’errore, ma nella misura in cui esso contiene tutti i momenti statuali essenziali (e cioè uno Stato europeo - cristiano), è comunque uno Stato in quanto Stato. “Ma l’uomo più odioso, il delinquente, è pur sempre uomo; un malato, uno storpio è pur sempre un uomo vivente: senso la morte come tramonto delle cose particolari non è che il continuo farsi dell’universale. Anche la guerra è il momento dell’antitesi che muove la Storia, la quale senza guerre, secondo Hegel, registrerebbe solo pagine bianche. La guerra è una necessità dalla quale i popoli ne risultano rafforzati, e le nazioni che risultano in discordia al loro interno, mediante la guerra all’esterno, ne ritrovano pace all’interno. Come si vede, ogni evento è necessario ed ha un senso assoluto; come per chi afferma l’identità Dio – Natura, così per Hegel, è l’identità Dio – Storia. Lo Spirito oggettivo si estende nella Storia attraverso lo “spirito del popolo” che si manifesta tra i vari popoli, andando a formare lo “Spirito del mondo”, il quale si esplica nella coscienza umana conformemente allo Spirito divino. Lo Spirito particolare di un popolo può anche perire quando il popolo ha XI * Georg Friedrich Hegel l’affermativo -la vita- è malgrado il difetto, ed è appunto questo affermativo che bisogna considerare”. (Questa frase mi ha colpito non per quanto riguarda lo Stato, ma l’uomo, la vita, la morte). Per Hegel, il cittadino esiste solo in quanto membro dello Stato e non viceversa. E’ il cammino di Dio nel mondo a far si che lo Stato sia; è la potenza della Ragione che si realizza come volontà comune. Se lo Stato è la Ragione che cammina nel mondo, la Storia, che nasce dalla dialettica degli Stati, non è altro che il dispiegarsi di questa stessa Ragione. “La Storia è il dispiegarsi dello Spirito nel tempo, nello stesso modo in cui la Natura è il dispiegarsi dell’Idea nello spazio.” La Storia del mondo si svolge secondo un “piano razionale” di cui la filosofia della Storia ne è la conoscenza scientifica di questo piano, in conseguenza di ciò la filosofia diventa una conoscenza della giustizia divina e una giustificazione di ciò che appare come male di fronte al potere della Ragione. In questo XI * Georg Friedrich Hegel esaurito la sua funzione, ma la Storia del mondo, conservando nella sua profondità la memoria di tutte le tappe dialettiche, non ne verrà privata. Essa, dopo aver attraversato, prima il mondo orientale, poi quello greco–romano, ha trovato infine in Europa la sua piena realizzazione, nel mondo cristiano–germanico, conservando il passato come memoria e attuando nel presente il concetto di sé. Al di sopra dello Spirito oggettivo e degli Stati politici c’è lo Spirito assoluto, costituito dall’Arte, la Religione, la Filosofia. Anche queste hanno una loro storia connessa alla complessiva Storia del mondo, ma di gran lunga di grado superiore. Queste tre forme dello Spirito, si differenziano soltanto per il modo in cui portano alla conoscenza il loro oggetto, l’Assoluto. L’Arte, intesa in ogni sua espressione, pittura, scultura, musica, poesia, ecc…, è parte importante della sfera dello Spirito Assoluto, per il fatto di occuparsi dell’oggetto assoluto della coscienza, ponendosi sullo stesso terreno delle altre due forme di Assoluto. 83 84 La prima forma di intuizione è il sapere immediato quindi sensibile, e questo appartiene all’Arte, la quale mostra alla coscienza la Verità in forma figurativa o sensibile. Essa è, nei confronti dei contenuti che in genere rappresenta, la manifestazione sensibile dell’Idea. L’Arte dovendo esprimere sentimenti e pensieri, è traboccante di significati profondamente umani anche se diversi, in rapporto ai vari generi d’arte e alle varie epoche della storia del mondo. C’è da dire che nella storia si sono verificati periodi in cui l’Arte è stata lasciata libera di fare e di esteriorizzarsi, e periodi in cui il bisogno di spiritualità intima ha rappresentato un ritorno all’interiorità del pensiero. Nel conferire all’Arte uno Spirito assoluto, bisogna ricordare che questa è servita e può servire a scopi molto eterogenei, anche ad interessi che le sono estranei. L’ambito successivo al regno dell’Arte è la Religione. La all’oggettività dell’Arte, quella sensibilità esterna immediata, compensandola nella forma suprema dell’oggettività, con la forma del vero pensiero l’Idea, legandola alla soggettività della Religione. Nelle Lezioni sulla storia della filosofia, Hegel ripercorre lo sviluppo del pensiero occidentale, mostrando quanto le filosofie delle varie epoche fossero la storia rispettiva del proprio tempo svolta col pensiero, accordando un lascito ereditario di verità al pensiero successivo. Ogni nucleo di verità del passato è acquisito dalla filosofia, anche se ogni volta nella convinzione unilaterale di aver esaurito la verità. Con questo teorema la storia della filosofia, da Talete a Hegel, si presenta come un grandioso sistema che si dispiega nel tempo, nel quale ogni momento costituisce un passaggio necessario. Hegel, fa coincidere queste tre sfere: 1) l’intuizione sensibile (estetica), XI * Georg Friedrich Hegel tesi sostenuta da Hegel è l’identità di contenuto della Religione con la Filosofia, dato che in entrambe viene pensata l’unità dell’infinito e del finito; la diversità sta solo nella forma. La Religione presenta l’unità nella forma della rappresentazione, ossia ha il suo obiettivo nella trascendenza e si presenta come immagini (miti). In questa condizione, risulta evidente il passaggio che intercorre dall’Arte alla Religione, legata questa, all’interiorità del soggetto attraverso la devozione all’oggetto assoluto. Questo, all’opera d’arte in quanto tale non contempla come forma, pur esponendo lo Spirito assoluto come oggetto nella forma adeguata. La devozione è il culto della comunità nella sua forma più pura, più interiore, più soggettiva., dove questa soggettività si lascia attraversare nell’animo da ciò che nell’Arte, rende oggettivo come sensibilità esterna. Riguardo alla Filosofia, come abbiamo detto in precedenza, vi è un’identità di contenuto con la Religione, ma la sua forma è il concetto, la razionalità, la quale elimina qualsiasi trascendenza e qualsiasi elemento mitico e nel contempo toglie XI * Georg Friedrich Hegel 2)la rappresentazione della fede 3) il concetto puro, parallelamente con tre momenti storico-dialettici ben precisi, che si dispiegano con le culture e la storia: a) orientale preclassica, b) il classicismo greco-romano, c) il cristianesimo fino alla modernità germanica, nella quale sembrerebbe compiersi e convergere tutto il teorema evolutivo, il quale trova la propria conclusione appunto nella filosofia hegeliana, presentandosi così, essa sola, come l’erede di tutto il pensiero occidentale. La considerazione che posso fare in conclusione, dopo aver esposto al meglio delle mie capacità il pensiero hegeliano, è che tutto il sistema va considerato e misurato nello spirito del suo tempo, quando il romanticismo era di gran moda. Fin tanto che rimase in vita, nessuno si fece avanti a criticarne il suo operato, probabilmente perché sostenuto dalle forze al potere. Ma alla sua morte avvenuta nel 1831, tra i suoi allievi si formarono profondissime spaccature, tanto da portare a una vera e propria scissione, sul modo di interpretare e applicare la filosofia del maestro, dividendosi tra destra e sinistra secondo l’uso che se ne faceva nel parlamento francese, dove la destra rappresentava la Sommario 85 parte più radicale e intransigente del sistema, mentre la sinistra operava una drastica censura, stravolgendo e distorcendo, in molti casi oltre i giusti limiti, la Ragione hegeliana e assieme ad essa tutta la razionalità umana. Attorno al 1840 il conflitto tra le fazioni si è ampliato ulteriormente, attestandosi su posizioni sempre più radicali, causa l’irrigidimento in senso autoritario della monarchia prussiana, appoggiata con forza dalla destra e contrastata vivacemente dalla sinistra. Dopo il 1848 però queste due posizioni andarono pian piano dissolvendosi, lasciando via libera ad una tendenza più di centro, che nel frattempo si era creata uno spazio, destinata a sopravvivere ben oltre questa data. L’altro punto da sottolineare è quanto il totalitarismo politico abbia abusato nella manipolazione del materiale di Hegel per la propria auto-legittimazione. Resta però vero che di questo materiale Hegel ne abbia fornito in quantità più che abbondante. 86 pensatore più affermato e ben visto dal potere accademico, per cui fin dapprincipio si trova la strada sbarrata. Nel 1831, abbandona Berlino per sfuggire all’epidemia di colera, rinunciando alla carriera accademica risultata del resto un’esperienza totalmente negativa, rifugiandosi a Francoforte dove rimane fino alla morte avvenuta nel settembre del 1860. Uomo coltissimo e gran viaggiatore, durante la vita non fu tanto amato dagli uomini di cultura e solo negli ultimi anni gli vennero riconosciute le sue grandi capacità. L’influsso di Schopenhauer sulla cultura a lui successiva fu enorme, segnando profondamente con il suo pensiero, la grande letteratura dell’800 da Tolstoj, Maupassant, Kafka, Zola, Thomas Mann, e altri. Principio della filosofia di Schopenhauer è che tutto ciò che la conoscenza può conoscere, cioè il mondo intero, esiste solo in quanto frutto della percezione sensibile da parte di un soggetto XII * Arthur Schopenhauer XII Arthur Schopenhauer Arthur Schopenhauer, nacque a Danzica nel 1788 da facoltosa famiglia di commercianti. Ebbe modo di studiare in diverse delle migliori scuole europee. Soggiornò in Francia, in Olanda, in Svizzera, Austria e in Inghilterra. Dopo la morte del padre, che egli ammirava, si trasferì a Weimar con la madre, scrittrice, la quale lo introdusse nei circoli letterari. Egli non condivideva la vita mondana che questa conduceva anzi la disapprovava, per cui si isolò dai circoli intellettuali della città continuando i suoi studi classici e interessandosi nel contempo alle filosofie orientali. Causa questi contrasti divenuti sempre più tesi, si trasferì a Dresda dove nel 1818 completa la sua prima opera. La pubblicazione avvenuta l’anno successivo, non ottiene una buona accoglienza. Nel 1820 lascia Dresda per Berlino per tentare la carriera accademica. Qui già dalla prima lezione di prova si scontra con Hegel, in quel momento il (che percepisce), in funzione all’oggetto percepito. La materia non ha una essenza indipendente dalla percezione mentale e l’esistenza e la percepibilità sono termini convertibili, analoghi. “Tutto quanto il mondo include o può includere è inevitabilmente dipendente dal soggetto, e non esiste che per il soggetto. Il mondo è una rappresentazione.” Il soggetto, “ciò che tutto conosce, senza essere conosciuto da alcuno”, è il sostegno del mondo, la condizione universale sempre sottintesa, di ogni fenomeno, di ogni oggetto: infatti tutto ciò che esiste non esiste che in funzione del soggetto. Tutto ciò che esiste è condizionato, a priori, dallo spazio e dal tempo ed esiste nello spazio e nel tempo, diversamente dal soggetto che è fuori dello spazio e del tempo, da qui l’inseparabile nesso tra soggetto e oggetto. Ciascuna delle due metà non ha senso ne esistenza se non per mezzo dell’altra e con essa si disperde. Il tempo, lo spazio, la causalità, sono le forme rappresentative, a priori, della coscienza del soggetto. Il mondo 87 88 in quanto oggetto, come ci appare nella sua immediatezza e che viene considerato come la realtà in sé, non è altro che un insieme di rappresentazioni condizionate delle forme, a priori, del soggetto. Per cui il mondo come rappresentazione è fenomeno, è l’illusione che annebbia la realtà delle cose. La totalità del mondo non si esaurisce nella rappresentazione, ma sotto di essa stà la volontà che ne è il suo fondamento, di cui il corpo è la parte visibile. Il “corpo” per il soggetto conoscente, non si presenta solo come oggetto e in tale forma sottostà alle sue leggi, ma anche come azione, movimento, sensazione, conseguenti alla volontà, quindi non c’è rapporto causale, ma corpo e volontà sono un'unica cosa: il volere coincide con l’azione. Il corpo dunque risulta essere la conoscenza a posteriori della volontà comprovandone l’esistenza al di sotto della rappresentazione, espressa questa nelle più diverse forme. Nessun uomo è da invidiare ma infiniti uomini sono da compiangere giacché condannati a vita. Per Schopenhauer, ciò che è positivo cioè reale, è il dolore, mentre ciò che è negativo cioè illusorio è la felicità. Dolore e tragedia non sono soltanto l’essenza dell’uomo, ma coinvolge tutta l’umanità, per cui anche la storia che ci racconta soltanto di guerre e rivolte, non è razionalità e progresso, come pretende Hegel, ma il tragico ripetersi della stessa vicenda in forme diverse. La storia è “destino”. Da questa tragica condizione l’uomo trova la sua redenzione solo sprofondandosi nel proprio intimo, riconoscendo che la realtà è volontà della quale egli stesso ne è parte. Questa è la condizione preliminare per la liberazione, la quale può aversi interamente solo annullando il “bisogno”, quindi riscattando i propri desideri e la noia, attraverso l’ascesi e l’arte, sottraendoli quindi alle catene della volontà. Nell’esperienza estetica l’individuo si libera dalle catene XII * Arthur Schopenhauer XII * Arthur Schopenhauer In altri termini, la coscienza e il sentimento del nostro corpo come volontà, ci portano a riconoscere che tutto l’universo dei fenomeni, pur nella sua molteplice diversità, ha una sola identica essenza: la volontà. L’essenza del mondo è volontà insaziabile ed immanente. La volontà è conflitto e divisione, questi causano dolore e sofferenza. E’ nell’uomo che il dolore raggiunge il grado più alto e tanto più l’uomo è intelligente e consapevole dei sé, tanto più grande ne è la sofferenza. La volontà è tensione continua che nasce dalla privazione, la quale provoca scontentezza del proprio stato. L’uomo è abbandonato a se stesso, incerto di ogni cosa, immerso nell’indigenza e nell’ansia, la vita diventa una lotta continua senza speranza per l’esistenza con la certezza solo di una disfatta finale. Nell’uomo il bisogno, sino a quando non viene soddisfatto, procura sofferenza e dolore, ma quando finalmente viene appagato, allora si piomba nella sazietà, nel vuoto, nella noia, nemici ancora più terribili del bisogno. della volontà, annullandone i bisogni. Nell’estetica l’uomo si trasforma, si immerge nell’oggetto, senza prevenzione di utilità o nocività, egli intravede le idee, l’essenza, il modello delle cose e non più l’oggetto, dimenticando se stesso e il dolore. Nell’arte si esprime l’essenza delle cose, per questo ci distoglie dalla consapevolezza di noi stessi lasciandoci quella degli oggetti intuiti. L’esperienza estetica è annullamento temporaneo della volontà e del dolore. Sfortunatamente questi momenti felici di contemplazione estetica, in cui ci sentiamo liberati dalla tirannia della volontà, sono istanti brevi e rari, di conseguenza la liberazione totale dell’uomo dal dolore della vita deve avvenire per altra via. Questa via è l’ascesi. Schopenhauer concepisce l’ascesi come la liberazione dell’uomo dal fatale alternarsi del dolore e noia, per questo si sopprime la radice del male, annullando la volontà di vivere. 89 90 Primo passo di questo cammino è la realizzazione della giustizia riconoscendo agli altri la nostra stessa dignità. Tuttavia questa non è sufficiente, perché da modo di considerare gli altri come diversi e distinti da noi, provocando il principio dell’egoismo. L’ulteriore passo è la bontà, l’amore disinteressato verso esseri che portano la stessa nostra croce e vivono il medesimo destino. La bontà, dunque, come partecipazione all’altrui dolore attraverso la comprensione del nostro, cioè la “compassione”. La considerazione dell’altrui infelicità, fa crescere la pietà, che è però pur sempre un patire, un dolore, che la vera ascesi deve sradicare con: la negazione della volontà, perseguendo la povertà volontaria e intenzionale, il sacrificio, la rassegnazione, fin’anche una libera e perfetta castità. E’ così che l’uomo diventa libero, si redime dal legame con gli oggetti e dalla volontà di vita, entrando in quello “stato di grazia” che gli permette di quietarsi. Il pessimismo di Schopenhauer è profondo e disperante. Infine c’è da dire che per quanto traspare da tutta la sua opera, la sua vita privata non ha nulla di coerente, ma mostra una costante contraddizione nelle virtù (quantomeno) dell’ascetismo e della rassegnazione. Sommario XII * Arthur Schopenhauer XIII La sua idea che l’universo esista solo per dare dolore e dispiacere, non mi sembra filosofia, ma ingegno ad uso della letteratura di maniera, la quale dal canto suo non si è lasciata sfuggire l’occasione per mietere a piene mani. L’altra considerazione che credo molto più importante, è la dottrina del primato della volontà, (non necessariamente accoppiata al pessimismo) anzi, molti di coloro che la sostennero frequentemente trovarono in essa una base per il loro ottimismo. La dottrina della volontà è stata ripresa ed elaborata da filosofi successivi e tanto più “la volontà” saliva la scala della considerazione, di tanto ne discendeva la conoscenza. Questo ha dato luogo ad un rinnovamento del carattere della filosofia che prima di lui non si conosceva e per questo si può dire che Schopenhauer ha posto un importante punto di riferimento per un nuovo ulteriore sviluppo storico. Soren Aabye Kierkegaard Kierkegaard filosofo danese, nacque nel 1813 a Copenaghen, dalla quale praticamente non si allontanò mai se non per brevissimi periodi. La sua vita privata, non fornisce motivi particolari di riflessione tranne il progetto di farsi pastore e il suo fidanzamento con certa Regina Olsen, ambedue però abbandonati dopo tormentati ripensamenti. Alcuni avvenimenti della sua vita pubblica furono tuttavia motivi di forti polemiche: contro l’hegelismo che rappresentava il sistema dominante, contro la “cristianità stabilita”, dovuta all’educazione paterna severamente religiosa e contro la stampa decisamente poco rispettosa nei suoi confronti. La vita dedita principalmente alla sua produzione letteraria lo ha portato a produrre una gran mole di opere e saggi di 91 notevole importanza filosofica e letteraria. Tuttavia la “Postilla conclusiva non scientifica”, è l’opera nella quale sono esplicati i temi di fondo dell’esistenza e della comunicazione che fanno da sfondo filosofico di tutta la produzione di Kierkegaard, che diverranno un punto di riferimento dell’esistenzialismo del novecento. Il richiamo alla concretezza dell’esistenza è la peculiarità della filosofia di Kierkegaard, tesa alla ricerca e all’analisi di un metodo di comunicazione, come modo d’essere proprio dell’uomo, basato sull’unicità dell’esistenza di ognuno. Questa in apparenza sembrerebbe rendere impossibile la comunicazione, non potendo estraniarsi e contemplare oggettivamente e disinteressatamente l’esistente, come si conviene ad un pensatore di stampo hegeliano. Ma a questo “pensatore oggettivo”, Kierkegaard contrappone il “pensatore soggettivo esistente”, cioè interessato ai temi della filosofia in modo soggettivo, proprio perché materia, questa, che partecipa e influenza l’esistenza. XIII * Soren Aabye Kierkegaard Questo interesse va inteso soprattutto in senso etico, come senso di responsabilità che comporta tutta una serie di conseguenze teoretiche, giacché “esistere” significa essenzialmente scegliere. La caratteristica principale dell’uomo in quanto spirito, secondo Kierkegaard, è quella per cui il Singolo, diversamente dall’animale, è superiore alla specie. L’esistenza è il regno del divenire, del contingente e quindi della storia. L’esistenza è il regno della libertà: l’uomo è ciò che sceglie di essere, è quello che diventa. Questo vuol dire che il modo d’essere dell’esistenza, è la possibilità, e non la realtà o la necessità. Nella possibilità tutto è egualmente concepibile, anche se è la categoria più impegnativa. L’esistenza è, libertà, poter essere, quindi possibilità. Possibilità di non scegliere, di rimanere nella paralisi, o di scegliere e perdersi, possibilità come minaccia del nulla. La realtà è esistenza e questa è possibilità quindi anche 92 angoscia; come sensazione di ciò che può accadere e può essere molto peggiore della realtà. Il possibile e il futuro corrispondono perfettamente, per cui il futuro rappresenta il possibile per la libertà e per il tempo. Angoscia e futuro sono congiunti e caratterizzano la condizione umana, la quale lasciandosi invadere l’animo dall’angoscia, permette di scacciare “tutti i pensieri finiti e gretti”, per questo può avvantaggiarsi e rafforzarne le proprie capacità. Se l’angoscia è tipica dell’uomo nel suo rapportarsi al mondo, la disperazione, è propria dell’uomo nel suo rapporto con se stesso. La disperazione, è la colpa dell’uomo che non sa accettare se stesso nella sua profondità. La disperazione è la malattia mortale, un’autodistruzione impotente; dal punto di vista cristiano, “un eterno morire senza morire”. Il disperato, è malato a morte. Vive la morte dell’io. La radice della disperazione sta nel non volersi accettare dalle mani di Dio, separarsi da “quell’unico pozzo da cui si può attingere acqua”, ciò significa staccarsi dalle proprie origini. XIII * Soren Aabye Kierkegaard Diventa quindi chiaro che l’esistenza autentica è quella disponibile all’amore di Dio. Per il cristiano, l’esistenza autentica si pone sul piano della fede, di conseguenza la scienza di questo mondo non ha importanza ma, per Kierkegaard, è Dio ad avere la precedenza. E’ l’ipocrisia che fa dire: le scienze portano a Dio. “Considerare la scoperta al microscopio … come una cosa seria è da sciocchi”. Tra l’uomo e Dio c’è un abisso infinito e trattare i problemi etici e religiosi con il metodo della scienza è pericoloso e tragico. La presunzione degli scienziati, si esprime in una lotta contro Dio che tende a creare “tutta una folla di uomini che farà delle scienze naturali la sua religione”. Questa è pura follia. Le scienze naturali non possono dare più di se stesse: esse non sono né etica, né religione. “Quando si parla di etica, allora è Sommario 93 94 perfettamente indifferente se gli uomini credono che la terra sta ferma o il sole cammina”. La polemica contro Hegel e la sua dottrina, è totale e definitiva, mettendo in ridicolo il sistema là dove incarna la pretesa di spiegare tutto e voler dimostrare la necessità di ogni evento. L’esistenza non si può ingabbiare nel sistema. Hegel non può pretendere di guardare le cose con gli occhi di Dio, di sapere tutto senza cadere nel ridicolo, dato che il suo sistema speculativo si dimentica del Singolo cioè dell’esistenza. Ed ecco quello che per Kierkegaard, costituisce l’alternativa valida all’hegelismo; il Singolo contrapposto all’Umanità di Hegel, il Singolo è la contestazione e la confutazione del sistema, perché conta più della specie. Ciò che contesta con tutte le forze è, per lui che si considera poeta del pensiero religioso, una specie di Socrate cristiano, il tentativo di giustificare e armonizzare il cristianesimo con la filosofia. “Nessuno può mettersi al posto di ciascuno di noi davanti a Dio”. filosofia hegeliana della religione. Queste polemiche e certe sue simpatie protocristiane, lo portarono, per un certo periodo, ad assumere quel ruolo di portabandiera della battaglia filosofica, e forse anche politica, a cui i giovani hegeliani più radicali (Marx in primis) aspiravano. Molti anni dopo nel 1848, un gruppo di questi studenti progressisti di Heidelberg lo invitarono a tenere un corso ed egli svolse le “Lezioni sull’essenza della religione” che venne pubblicato poi nel ’51. Fu questa una delle poche parentesi pubbliche di Feuerbach che per il resto visse appartato e nella più totale miseria. Morì dimenticato da tutti a Rechenberg nel 1872. La riflessione giovanile di Feuerbach è rivolta al tema hegeliano della ragione, intesa come vita universale e infinita, che la inserisce in modo critico nel filone del cristianesimo moderno volto all’esaltazione della persona in modo egoistico al punto da ridurre Dio a garante dell’egoistico e soggettivo desiderio di immortalità degli individui. In questa giovanile riflessione, ci sono già esposti i due temi principali di tutta la sua filosofia, il contrasto con il XIV * Ludwig Feuerbach XIV Ludwig Feuerbach Ludwig Feuerbach nacque in una cittadina bavarese nel 1804, studiò teologia a Heidelberg ma presto si recò a Berlino come allievo di Hegel, attratto dalla sua fama. I dubbi non tardarono a manifestarsi e nel 1830 prese decisamente posizione contro la destra hegeliana con il saggio “I pensieri sulla morte e l’immortalità”, che per la loro tesi anticristiana e antiaccademica venne accolto in modo molto critico, compromettendogli persino la carriera accademica. Ancora nel ’37 era un fervente hegeliano ma già nel ’39 le opinioni sul maestro mutarono, con lo scritto “Critica della filosofia hegeliana”. Nel ’41 ottenne un successo immediato con “l’essenza del cristianesimo” sollevando polemiche intorno alla vera portata del cristianesimo e al rapporto di questo con la maestro e la critica al cristianesimo e alla religione. Per quanto riguarda la filosofia di Hegel come Fichte e Schelling, contesta l’idea “di sapere sistematico”: altro è il pensiero come attività interna spontanea, altro è l’esposizione del pensiero, la quale obbedisce a esigenze di discussione e comunicazione storicamente condizionate. Hegel considera il concetto di essere, cioè l’essere astratto, Feuerbach vuole considerare l’essere reale, naturale. La filosofia che è la scienza della realtà ha il compito di rivelare la sua verità e totalità, e il compendio della realtà è la natura nella forma più universale della parola. Il problema religioso ha caratterizzato tutta l’esistenza di Feuerbach “Il mio primo pensiero fu Dio, il secondo la ragione, il terzo l’uomo”. Hegel aveva tolto via il Dio trascendente della tradizione, sostituendolo con lo Spirito universale, cioè la realtà 95 umana nella sua astrattezza, ma a Feuerbach non interessa un’idea di umanità ma piuttosto l’uomo reale, completo di corporeità, sensibilità, bisogno. Nega quindi l’idealismo che è smarrimento dell’uomo, ma anche la credenza nella trascendenza, giacché non è Dio che crea l’uomo ma è l’uomo a creare Dio. Pur ammettendo l’unità dell’infinito col finito, tuttavia questa si realizza solo nell’uomo e non in Dio o nell’Idea assoluta, un uomo che la filosofia non può ridurre a puro pensiero ma deve considerare nella sua naturalità e socialità. Nella storia dell’uomo concreto, la religione ha avuto da sempre un ruolo fondamentale, e compito della filosofia è quello di comprenderlo, non negarlo o peggio ridicolarizzarlo. Ci si rende conto allora che “La coscienza che l’uomo ha di Dio è la coscienza che l’uomo ha di sé”. In altri termini, l’uomo pone le sue qualità le sue aspirazioni i suoi desideri al di fuori di sé, si estranea e si costruisce la sua Divinità. La religione, per Feuerbach, è un fatto umano, totalmente umano, è la proiezione dell’essenza dell’uomo; “Dio è lo XIV * Ludwig Feuerbach specchio dell’uomo”; “Tu conosci l’uomo dal suo Dio e, reciprocamente, Dio dall’uomo, l’uno e l’altro si identificano”. Con questa identificazione, l’uomo sposta fuori da se il suo essere per poi ritrovarlo in sé, liberato dai limiti della corporeità e della realtà; contemplato e adorato come un altro essere distinto da lui. Perché l’uomo si estranea e costruisce la sua divinità senza riconoscersi? Feuerbach risponde che l’uomo crea il suo Dio per alleviare le sofferenze di una natura insensibile che non lo sa consolare, mentre nella religione trova un sollievo al proprio dolore. Questo, dunque, il mistero della religione; al Dio in cielo si sostituisce l’uomo reale, alla morale dell’amore di Dio si raccomanda l’amore dell’uomo in nome dell’uomo. L’intento dell’umanesimo di Feuerbach è quello di trasformare gli uomini 96 da amici di Dio in amici degli uomini, “Da uomini che credono in uomini che pensano, da uomini che pregano in uomini che lavorano, da candidati dell’aldilà in studiosi dell’aldiquà”. In sostanza, la sinistra hegeliana, di cui Feuerbach costituì un punto di riferimento, ha combattuto sia la fede cristiana in nome di una metafisica immanentistica, sia le astrazioni della filosofia hegeliana in nome della “concretezza”. Le idee e i fermenti dogmatici espressi dai filosofi in quegli anni sollevarono una serie di problemi profondi che influenzarono nel profondo gli sviluppi della filosofia successiva, il marxismo in primo luogo. 97