4° Vol. Ciò che è reale è razionale , Ciò che è razionale è reale

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IV
Ciò che è reale è razionale Ciò che è razionale è reale
Dal romanticismo all’esistenzialismo
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Sandro Montorfano
IV
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Sandro Montorfano
Sommario
Ciò che è reale è razionale
Ciò che è razionale è reale
I
L’Illuminismo “L’Età dei Lumi”………………p. 6
II
Montesquieu …………………………………...p. 13
III
Voltaire………………………………………….p. 15
IV
Il Romanticismo………………………………...p. 21
V
Gian Giacomo Rousseau………………………..p. 24
V I Immanuel Kant………………………………….p. 31
VII Il Diciannovesimo secolo………………………p. 51
Dal Romanticismo all’Esistenzialismo
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VIII Johann Fichte……………………………………p. 56
IX
Friedrich Joseph Schelling………………………p. 62
X
Wolfgang Von Goethe…………………………..p. 66
XI
Georg Friedrich Hegel…………………………..p. 68
XII Arthur Schopenhauer……………………………p. 85
XIII Soren Kierkegaard…………………………….. p. 90
XIV Ludwig Feuerbach…………………………….…p. 93
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Sommario
IV Volume
I
XVIII Secolo
L’ Illuminismo ”L’Età dei lumi”
Scritti Precedenti
So solo di non sapere
2006
Credo per capire Capisco per credere
2007
Cogito ergo sum Penso dunque sono
2008
Volume IV
anno 2009
Se il XVII secolo è stato il secolo della ragione scientifica, il
XVIII è senza dubbio il secolo della razionalità illuminata.
L’uomo esce dal suo stato di minorità culturale avvalendosi del
proprio intelletto, senza la guida o il sostegno di nessun
intermediario, ma con la forza della sua intelligenza, del suo
coraggio, della sua decisione, che fino ad allora gli facevano
difetto. “Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza!” E’
questo il motto dell’Illuminismo. Esso rappresenta il movimento
culturale che contraddistingue e caratterizza il XVIII secolo in
Europa. Questo movimento ha avuto il maggiore e più
importante sviluppo in Francia, ma le sue radici si formarono e
si svilupparono in Inghilterra, presso quella scuola culturale,
politica e filosofica, madre di intellettuali e scienziati come
Locke, Newton, Hume, Hobbes, la quale seppe esaltare nelle
coscienze di questi illuminati la ragione, fondata sull’esperienza
e la scienza secondo un indirizzo riconducibile a Bacone.
Con il termine “Illuminismo” si vuole indicare sia il periodo
della storia europea che coincide con il XVIII secolo, sia
l’orientamento culturale e l’evoluzione generale delle idee che si
manifestarono in tale periodo. Volendo ampliarne il concetto si
può qualificare “illuministica” ogni forma di pensiero e corrente
filosofica che si propone di rischiarare la mente degli uomini
per liberarli dalle tenebre dell’oscurantismo, della superstizione
e dell’ignoranza, attraverso la conoscenza e la scienza. Non vi è
alcun dubbio che lo scopo principale dei pensatori illuminati,
anche se non dichiarato e non di tutti, è soprattutto di
smascherare quella che viene considerata la più potente e
radicata superstizione, la religione.
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Questo atteggiamento in sede storica lo si può già ravvisare
I * “L’Età dei lumi”
nel mondo greco nei sofisti, con la negazione delle leggi e
dei valori assoluti e la critica razionalista all’antropomorfismo
religioso. Illuministi si possono considerare per certi aspetti
anche gli scettici, gli stoici, ma soprattutto gli epicurei i quali,
proponendosi di librare gli uomini dalla paura degli dei,
avanzano una dura critica alla religione in nome della ragione.
Tratti caratteristici dell’Illuminismo settecentesco sono:
la fiducia totale nella ragione umana, la sola capace di
promuovere il progresso dell’umanità
una ragione fondamentalmente critica e controllata
dall’esperienza, alla quale è affidato il compito di liberare
l’uomo dai vincoli assurdi della tradizione, dell’ignoranza, della
superstizione e dell’oppressione
su questi fondamenti prioritari della ragione, costruire una
società nuova, tollerante, la quale garantisca i diritti naturali di
ciascuno e la pacifica convivenza improntata alla sicurezza e alla
“pace perpetua” dopo averne rimosso i privilegi sociali
una società cementata da una nuova religione, più naturale
perché razionale, il deismo, sicuro baluardo contro il fanatismo
delle religioni tradizionali. In pratica sostituire alla religione
storica la scienza e al prete il filosofo.
La classe sociale nella quale l’Illuminismo è maggiormente
rappresentato è quella borghese. Già dal Cinquecento in continua
ascesa politica, economica e culturale, con il proprio dinamismo
connaturato trova negli strumenti dell’epoca nuovi e più forti
impulsi.
La figura del filosofo Illuminista, spesso si confonde con
quella del mercante essendo egli un uomo in mezzo ad altri
uomini che coltiva un sapere utile e in grado di migliorare la
società. Non si crede in esilio in questo mondo, non è in mezzo a
nemici, ma da saggio economo vuol partecipare dei beni che la
natura le offre, cerca di accordarsi con coloro, con i quali ha un
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rapporto sociale di qualsiasi tipo, trovando nello stesso tempo un
motivo di convenienza. In questa situazione l’uomo diventa
I * “L’Età dei lumi”
misura di tutte le cose e questo processo, iniziato con il
Rinascimento e fortemente accelerato, vede il suo compimento
nella concezione pienamente laica ed empirica della cultura.
Benché fosse generalmente moderato, l’illuminismo inglese
conobbe alcuni tratti di radicalismo, soprattutto riguardo al
problema religioso, mentre dal punto di vista politico la sua
monarchia liberal-borghese rappresentò, per gli estimatori
continentali, un modello da imitare e se necessario da imporre,
con la lotta all’assolutismo monarchico, all’aristocrazia e al
clero.
Molto cruenta si presentò la battaglia illuminista per potersi
affermare in Francia, dovendosi trasferire dai concetti ai fatti,
dalle idee all’azione. Costretto ad affrontare ostacoli e resistenze
di ogni genere, l’illuminismo francese maturò una forte
coscienza storico politica, che venne assunta, anche se con
qualche adattamento, dal resto dell’Europa come guida delle
rivendicazioni spirituali e materiali dei popoli, delle classi
sfruttate, della grande e piccola borghesia in ascesa.
La battaglia per la diffusione della cultura a tutti i livelli
della società, promossa da d’Alambert e Dideron per mezzo
dell’Enciclopedia, è stata la premessa fondamentale per la
propagazione di un nuovo ideale capace di incrinare e di
sconvolgere il dogmatismo conservatore della Francia e
dell’Europa, rimasta per molti tratti ancora feudale nei costumi e
nelle istituzioni, avviando (forse senza volerlo), la contestazione,
il malumore e la rivolta delle popolazioni delle periferie, delle
halles, (i mercati generali), verso lo sbocco tragico della grande
rivoluzione.
In Italia e in Germania l’Illuminismo prese delle vie più
moderate e generalmente differenti. In Italia si favorirono
maggiormente le riforme e gli studi di scienza della legislazione
e di economia politica, e i centri di maggior diffusione furono
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Milano, con i fratelli P. e A. Verri, e Cesare Beccaria; Napoli,
dove la scuola di Vico aveva una certa influenza, l’Illuminismo
diffusione delle nuove idee, attirandosi la condanna della Chiesa
in seguito a motivi anticlericali e antidogmatici. Anche i
I * “L’Età dei lumi”
si fece strada principalmente con A. Genovesi e M. Pagano.
Non è un caso che gli stati italiani che si mostrarono più aperti
all’influsso della Enciclopedia erano dominati dall’Austria di
Giuseppe II, grande estimatore della nuova filosofia.
In Germania venne privilegiata la linea moderata oscillante
tra radicalismo e tradizionalismo moderato che si riassumevano
nel concetto di Bildung (formazione, educazione), i cui massimi
assertori erano M. Mendelssohn, I. G. Herder e altri. Un altro
tratto specifico del filone illuminista tedesco è il permanere di
una forte vocazione metafisica-speculativa. Fuori dalla
specificità del pensiero tedesco si pone Kant, che riassume e
armonizza nella sua opera il filone inglese, quello francese (di
Rousseau) e la grande tradizione filosofica tedesca da Leibniz, a
Wolff, Lambert, ecc..
Gli aspetti fondamentali dell’illuminismo che ho accennato,
hanno rappresentato la rottura nei confronti della cultura
dominante, rimasta chiusa e circoscritta entro i perimetri
accademici e la liberazione dai vincoli che la legava al potere
politico ed economico. La diffusione tra un pubblico, prima
francese e poi europeo, sempre più vasto dell’Enciclopedia,
oramai salutata come la voce dei ceti emergenti e delle loro
aspirazioni, dava all’intellettuale una nuova indipendenza,
liberandolo dal bisogno del Signore, dal quale dipendere
economicamente e al quale dedicare la sua opera, avendo in sé
l’ambizione di influenzare le coscienze dei nuovi padroni, i
lettori, verso i quali rivolgere direttamente il suo credo.
Altri furono i mezzi di diffusione del sapere e della nuova
scienza oltre all’Enciclopedia: le Accademie in primo luogo
che già dal Cinquecento si aprirono agli studiosi garantendo la
libertà di critica e di indagine. La Massoneria sorta in Inghilterra
nel Settecento, portatrice di istanze di pace e di tolleranza,
animata da motivi filantropici, contribuì non poco alla
I * “L’Età dei lumi”
salotti, soprattutto quelli parigini, diventarono luoghi di
ritrovo per letterati e studiosi dove scambiarsi idee e opinioni ai
quali, per la prima volta, parteciparono anche le donne. Gli
epistolari e i saggi pubblicati nella forma di pamphlet col loro
taglio ironico e canzonatorio scalzarono la solennità del trattato,
assumendo una veste di più facile comunicazione, alla quale
concorsero anche i quotidiani e i periodici facilitando la
formazione di una opinione di massa.
Riguardo all’Enciclopedia quali erano gli argomenti
maggiormente trattati? Le voci che occupavano la maggiore
parte di questo grande dizionario, erano le materie relative
all’economia e alla tecnologia, dato che gli ambienti a cui si
rivolgeva e da cui prendeva ispirazione, si contavano tra la
nascente borghesia imprenditoriale. Questi volevano
conoscenze concrete che assecondassero i loro interessi,
chiedevano la scienza al posto della religione, perché scienza
significava progresso economico e questo comportava il
cambiamento alla guida delle posizioni di potere tra la vecchia
aristocrazia feudale , il clero e i nuovi ceti capitalisti.
L’altro tema fortemente trattato dall’Enciclopedia è la
critica del principio di autorità e dei privilegi (clero e
aristocrazia), contro i quali gli illuministi condussero una lotta
ideologica e pedagogica capillare in favore della libertà di
pensiero e del diritto di ogni uomo di usare la propria
intelligenza indipendentemente da ogni autorità.
Anche contro le religioni storiche e i caratteri antropomorfi
attribuiti alle divinità, le credenze di fenomeni soprannaturali e
divinatori, i miracoli e i misteri, si levarono voci di forte critica
in particolare rivolte alla religione ebraica e cristiana, mettendo
in luce le manipolazioni operate dalla chiesa su testi sacri,
l’inattendibilità filologica e storica di parti di essi, le
incongruenze delle situazioni descritte, il fanatismo,
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l’aggressività dell’inquisizione e tutta quella scia di soprusi e
coercizioni che l’hanno accompagnata e tutti quei pretesti e
vedendo nella storia nient’altro che la collezione dei delitti e
delle sventure del genere umano. Ma esso diventa il tema
I * “L’Età dei lumi”
pregiudizi settari e faziosi di ordine religioso che hanno
motivato lo spargimento di sangue in tutta l’Europa per parecchi
secoli.
Un posto non secondario occupa l’idea di ritorno ad una vita
più naturale e primitiva. La nostalgia per lo stato ancestrale
dell’uomo la riscoperta di civiltà esotiche e selvagge alimentano
il mito naturista, denunciando l’azione corruttrice della
modernità e della civilizzazione.
Nonostante questo
ripensamento per lo stato selvaggio e il ritorno alla natura, più di
maniera che reale, l’illuminismo, valutato globalmente nel suo
processo storico, va considerato aperto ad un cauto ottimismo.
La lotta dei lumi contro le tenebre dell’ignoranza, lo sviluppo
della tecnica e dell’industria, l’aumento della ricchezza, il
diffondersi della cultura, sono una garanzia di progresso e
strumenti di sicuro miglioramento per il genere umano.
Tutti i temi speculativi dell’illuminismo sono desunti da
quello inglese, tutti tranne uno, di specifica competenza
dell’illuminismo francese: quello della storia.
La contrapposizione di storia e tradizione è senza dubbio il
contributo più originale e notevole dell’illuminismo francese al
pensiero filosofico del XVIII secolo. Il primo a porsi il problema
del modo di accertare i fatti e di come affrontare una
metodologia storica fu Pierre Bayle il quale, riassumendo il suo
pensiero, chiedeva allo storico che vuol compiere fedelmente il
suo compito, di spogliarsi dello spirito di lusinga, dello spirito di
maldicenza e mettersi il più possibile nello stato di uno stoico,
insensibile ad ogni passione e a tutto il resto, attento solo agli
interessi della verità, sacrificando ad essa il risentimento e
l’ingiuria, il ricordo per un beneficio, l’amore stesso della patria.
Uno storico in quanto tale è, come Melchisedec, senza padre,
senza madre, senza genealogia. Bayle tuttavia non si è posto il
problema dell’ordine storico, anzi non aveva senso per lui,
I * “L’Età dei lumi”
speculativo dei filosofi francesi come Montesquieu,
Voltaire, Condorcet, Turgot, i quali portano avanti la ricerca sul
problema dell’ordine storico o sull’ordine problematico della
storia.
In generale, della storia, l’Illuminismo ha avuto una visione
critica e polemica serbando un atteggiamento di giudizio più che
di tolleranza, nella convinzione che non costituisce prova di
valore il fatto che un accadimento o una credenza sia stata
accettata nel passato. Tuttavia la ragione, pur limitata alla e
dall’esperienza, rimane la guida infallibile per smascherare gli
errori del passato nella fiducia di un futuro migliore. Se non
possiamo cogliere il senso totale della storia, comunque “noi
bisogna che coltiviamo con speranza il nostro orto” (Voltaire).
In conclusione dell’illuminismo si può dire che ha
contribuito a mettere in crisi in maniera definitiva tutta la
concezione obsoleta del potere feudale, mettendo in ridicolo la
sacralità dei suoi poteri, la critica sferzante ai privilegi del clero
e i fanatismi da esso fomentati. Grande impulso nel favorire
l’istruzione e la diffusione della cultura anche tra i ceti più bassi,
l’uso delle scienze in funzione del’utilizzo in campo economico
e strumentale, la filosofia non in chiave metafisica ma piegata al
criterio dell’utile, improntata alla libertà totale, perché solo così
può essere utile all’uomo e avere cittadinanza culturale.
Per queste caratteristiche,l’illuminismo privilegia la critica e
l’analisi, esalta lo scetticismo ravvisando nel dubbio il primo
passo verso la verità. Si ispira all’empirismo di Locke e al
meccanicismo di Newton. La libertà di ricerca e di analisi viene
sacrificata alla necessità dell’utilitarismo e del materialismo,
l’uomo e il suo corpo vengono pensati alla stregua di macchina,
dove l’anima non ha dimora, le sue azioni sono la conseguenza
necessaria di condizionamenti interni o esterni, modulati dal
temperamento e dall’educazione ricevuta. L’empirismo si
Sommario
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radicalizza, e le conoscenze umane, lungi dal considerarle
innate, si creano in dipendenza della semplice sensazione
caso per caso la dinamica interna facendo uso di criteri costanti.
Si potrà così costatare che ad ogni forma di governo
II * Montesquieu
II
Montesquieu
Charles de Sécondat barone di Montesquieu nato nei pressi
di Bordeaux il 18 gennaio 1689 muore a Parigi 20 febbraio del
1757 è autore dell’opera Lettere Persiane nella quale mette in
ridicolo la civiltà occidentale del tempo, mostrandone
l’incongruenza e la superficialità, combattendo soprattutto
l’assolutismo religioso. Nell’opera sulle “Considerazioni sulle
cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza”,
Montesquieu individua le cause della grandezza dei romani
nell’amore della libertà, del lavoro e della patria, nei quali erano
allevati sin dall’infanzia; mentre le cause della loro decadenza
vanno trovate nell’eccessivo ingrandimento dello stato, nelle
guerre troppo lontane, nell’estensione del diritto di cittadinanza,
nella corruzione introdotta con il lusso asiatico, nella perdita di
libertà nell’età imperiale. Montesquieu, partecipò anche al
movimento dei “philosophes” collaborando alla stesura
dell’Enciclopedia scrivendo un saggio sul gusto.
Nello Spirito delle Leggi, la sua opera fondamentale, egli è
un convinto assertore della possibilità di stabilire dei principi
che regolano le leggi e ne determinano i caratteri e la natura. La
sua ricerca è diretta a mostrare che ogni tipo di governo si
realizza e si articola in un insieme di leggi specifiche. La legge è
il rapporto necessario che deriva dalla natura delle cose per cui
ad ogni essere corrisponde la sua legge. Essa si forma seguendo
una direzione che viene imposta da un insieme di condizioni che
è compito del filosofo indagare. Lo spirito delle leggi indica il
carattere di quel complesso di norme che regolano le relazioni
umane nelle diverse società. Poiché tali norme variano nei
diversi popoli non è possibile valutarli in relazione a uno
schema di principi dotati di validità assoluta, ma va chiarito
corrispondono determinate forme di legislazione politica, di
leggi sulla giustizia, sull’educazione, leggi militari, leggi civili,
ecc… legati tra loro da quella forma di governo che fa di esse
un complesso organico.
Montesquieu ha fissato i tipi fondamentali di governo, la
repubblica, la monarchia, il dispotismo, riconoscendo ad
ognuno un principio. Alla repubblica riconosce la virtù intesa
come amore della politica della patria e dell’uguaglianza, alla
monarchia il principio dell’onore cioè il pregiudizio personale o
di classe, nel dispotismo il timore dei sudditi verso il despota.
Quest’ultimo risulta essere la peggiore forma naturale di
governo, assolutamente da evitare, avendo la radice della sua
corruzione nel principio stesso che lo regge. Tali principi non è
detto che si trovino nei diversi governi ma bisognerebbe che ci
fossero, senza dei quali sarebbero governi imperfetti. Questo
dover essere, come richiamo incessante ai loro principi, in tutte
le forme storiche dello stato, sono un appello per garantirne la
sua conservazione. Quando un governo viene meno ai suoi
principi si corrompe, ed una volta corrotto le migliori leggi
divengono cattive e si rivolgono contro se stesso.
Montesquieu, per meglio garantire l’indipendenza e la
libertà, che sono due caratteristiche dei governi moderati, ha
prospettato la separazione del governo dello Stato nei tre poteri,
del resto già realizzata dalla costituzione inglese, il legislativi,
l’esecutivo, il giudiziario, in cui ogni potere trovi in sé il limite
per non prevaricare sull’altro (la teoria dei pesi e contrappesi).
La libertà del cittadino deve essere garantita dalla natura
stessa delle leggi, le quali devono dargli la sicurezza
nell’esercizio dei suoi diritti. A tale scopo servono soprattutto
leggi che regolino la conduzione del potere giudiziario.
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Sommario
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denunciava senza mezzi termini l’azione disgregatrice operata
dal cristianesimo sulle strutture della società Romana. Quella fu
III * Voltaire
III
Voltaire
François Marie Arouet detto Voltaire nacque il 21
novembre 1694 a Parigi da famiglia borghese benpensante, il
padre era un avvocato molto stimato e la madre aristocratica ma
questa morì nel metterlo al mondo. Di costituzione fragile e
spesso malaticcio sembrava destinato alla fine di sua madre
invece campò fino a ottantaquattro anni con una intensità da
lasciare meravigliati.
Già da molto giovane venne introdotto nella vita
dell’aristocrazia cortigiana parigina, della quale divenne il punto
di riferimento intorno al quale girava tutta la società salottiera e
libertina del tempo. Persona di grande spirito, spregiudicatezza
ed eleganza, con le sue battute e la sua eloquenza non tardò a
scontrarsi con qualcuno della nobiltà, il quale riuscì a farlo
rinchiudere alla Bastiglia. Uscito di prigione con il foglio di via
per l’Inghilterra si recò in esilio a Londra dove la sua fama lo
aveva già preceduto. Assimilò la cultura e ne imparò la lingua in
breve tempo, rimanendo colpito per la spregiudicatezza con cui
gli intellettuali criticavano anche aspramente la monarchia, il
governo e la società. Lesse e studiò con grande interesse Bacone
e Shakespeare, la filosofia di Hobbes, Locke, e Newton. Da
questa esperienza ne derivò una raccolta di saggi sulla vita, la
cultura e i costumi degli inglesi, sottolineando con particolare
attenzione i temi che divennero propri della sua attività
filosofica, politica, letteraria e storica. Tra il 1734 e il ‘740
pubblicò numerosissime opere letterarie e filosofiche. Nel 1750
accettò l’ospitalità di Federico di Prussia rimanendo per circa tre
anni al suo servizio. Rotta la collaborazione con Federico per
un litigio da lavandaie, Voltaire peregrinò qualche anno per
l’Europa causa il bando da Parigi quale castigo per la
pubblicazione dell’opera: “Saggio sui costumi” nella quale
la prima volta che uno storico contestava la parte da
protagonista all’Europa, per dare spazio e centralità alla storia
dell’India, della Persia, della Cina. Dopo Copernico e Galileo
che degradarono la terra dal centro dell’universo, Voltaire aveva
osato degradare l’Europa dal centro della terra. Imperdonabile!
Intorno al 1760 si stabilì definitivamente al castello di
Ferney e da li continuò la sua opera instancabile per la quale
divenne il capo riconosciuto dell’illuminismo europeo, il
difensore della tolleranza religiosa e dei diritti dell’uomo.
Ritornò a Parigi all’età di 84 anni accolto con onori trionfali per
assistere alla rappresentazione della sua ultima tragedia, l’Irene.
Il trionfo fu totale anche se il lavoro, a detta di molti critici
contemporanei non valeva gran che. Morì lo stesso anno era il
30 maggio 1778
Voltaire, nel corso della vita ha sempre mantenuto una linea
coerentemente equidistante tra pessimismo e ottimismo. Il male
come il bene sono ugualmente una realtà intrinseca del mondo,
una realtà non spiegabile con i lumi della ragione per cui
l’uomo, deve riconoscere la sua condizione così come essa è,
senza doversene lamentare né negare il mondo stesso, ma
ipotizzare una serena accettazione della realtà. Diversamente da
Pascal che concludeva la sua meditazione sulla condizione
umana in modo negativo, avanzando l’esigenza di rifugiarsi nel
trascendente, Voltaire, identifica nella stessa la sola condizione
possibile, pertanto l’uomo deve accettarla e trarne tutto
l’insegnamento possibile. Inutile disperarsi della sua ignoranza
tanto varrebbe lamentarsi di non avere 4 piedi o due ali. L’uno
e l’altro riconoscono che l’uomo per la sua condizione è legato
al mondo e all’errore, ma mentre Pascal vuole che se ne liberi
rifugiandosi nella metafisica, Voltaire, suggerisce di
riconoscerne l’ineluttabilità e l’accetti come parte stessa della
natura.
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Nessuno più e meglio di lui rappresentò il Settecento e può
contendergli il titolo di direttore della coscienza europea. La sua
congetture sull’immortalità e materialità, portando a sostegno di
ciò la disparità di opinioni sull’argomento.
Sulla libertà dell’uomo, Voltaire, pensa sia molto limitata
III * Voltaire
opera continua ad essere, dopo oltre due secoli, di una
modernità intellettuale mai eguagliata da nessuno, per il modo
di pensare libero da ogni condizionamento e la capacità di
scrittura tanto penetrante ed efficace quanto di facile
comprensione.
Non solo “ha distrutto la Francia”, come ebbe a dire Luigi
XVI già rinchiuso nella prigione in attesa della ghigliottina, ma
demolito anche quel modo di pensare, di essere, di agire, quella
concezione della vita, della cultura, della civiltà, che ancora
oggi va sotto il nome di ancien regime. Tutto viene spazzato via
con l’umorismo, la satira, l’ironia, il sarcasmo, l’irrisione più o
meno velata. Le risorse inesauribili del suo spirito geniale,
vengono usate contro la metafisica scolastica o le credenze
religiose tradizionali.
Voltaire non è ateo, anzi, concepisce il mondo secondo gli
empiristi e deisti inglesi, per cui Dio esiste come “grande
orologio del mondo” e se, sostenere questa opinione si
incontrano molte difficoltà, le difficoltà per la tesi opposta sono
ancora maggiori, (“esiste qualcosa, dunque esiste un eterno che
l’ha creato, perché nulla si produce dal nulla. Ogni opera che ci
mostra dei mezzi e un fine rivela un artefice”). Per contro non
accetta l’idea che Dio possa intervenire nel mondo umano e
nell’uomo, “Dio ha messo gli uomini e gli animali sulla terra, ed
essi devono pensare a condursi del loro meglio”, per cui il bene
e il male non sono comandi divini, ma attributi di ciò che è utile
o dannoso alla
convivenza. È interesse degli uomini
comportarsi in modo da rendere possibile la loro vita associata.
Dell’anima ha un’idea lockiana (secondo cui la materia è
capace di pensiero), osservando che l’esistenza come sostanza
immateriale non permette di chiarirne le proprietà, per cui la sua
eternità diventa pura materia di fede non potendo formulare che
III * Voltaire
come del resto tutte le nostre facoltà. “Sarebbe molto strano
che tutta la natura, tutto il cosmo obbedisse a leggi eterne, e che
ci fosse solo un piccolo essere che a dispetto di queste leggi,
potesse agire sempre come gli piace seguendo il suo capriccio”.
Nel “Dizionario filosofico” analizza i fatti storici della vita
e i luoghi comuni ponendosi, come Cartesio e Bacone, di fronte
ad una lavagna vuota, cioè negando ogni precedente verità che
non sia preceduta dalla verifica della ragione. “Il dubbio non è
piacevole –diceva-, ma la certezza è ridicola. Soltanto gli
imbecilli sono sicuri di ciò che dicono “
Inizia così intorno ai sessant’anni di età con rinnovata
energia, un nuovo e più profondo cambiamento nella
metodologia storica, che invece di fermare l’attenzione sulle
vicende dinastiche e sugli episodi di guerre, pone al centro
dell’interesse storico le arti, i costumi, i cambiamenti dello
spirito umano, le rivoluzioni dei popoli, abbandonando quella
concezione provvidenzialistica che aveva privilegiato la
storiografia cristiana. In una visione metodologica più laica,
anche i documenti della storia sacra e in particolare la Bibbia,
perdono il loro valore di testi rivelati, per assumere la veste di
fonti di documentazione sugli usi e costumi dell’antichità. La
cronologia biblica ne viene fortemente rivisitata e dilatata nel
tempo, nuove popolazioni entrano nella scena della storia, e in
armonia con i principi della filosofia voltairiana, la divinità
regola il mondo con leggi uniformi, universali ed eterne.
La catastrofe tellurica che in quegli anni sconvolge Lisbona
e l’orrore provato per alcuni fatti tragici di cronaca, per altro
non direttamente coinvolto, segnano una ulteriore progressiva
presa di coscienza che lo portano ad impegnarsi nel campo
umanitario e propagandistico, contro quello che per lui era in
quel momento l’infame, cioè il potere rappresentato dal clero e
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tutto il sistema politico che lo sorreggeva e dal quale si faceva
sorreggere.
Seguì il “Trattato sulla tolleranza” e tutta una serie di
Del cambiamento di umore della società parigina, Voltaire,
dovette rendersene conto quando ricevette da G. Giacomo
Rousseau, che lui detestava, un saggio intitolato “Discorso
sull’origine dell’ineguaglianza”, in cui si diceva che l’uomo,
III * Voltaire
racconti filosofici e libelli di straordinaria efficacia da
lasciare il segno anche fuori dai confini francesi, dove oramai la
fama l’aveva preceduto. Tanto la Chiesa quanto il potere laico
ebbero paura, e tentarono di tappargli la bocca offrendogli la
porpora cardinalizia, ma questi rifiutò convinto come era che
oramai la rivoluzione batteva alle porte.
Che questa era vicina non vi erano dubbi, ma non nella
maniera da lui immaginata. Da vero illuminista, intendeva la
rivoluzione come una serie di profonde riforme volute da una
elite di illuminati di cui il popolo fosse il soggetto beneficiario.
Il dilemma monarchia, repubblica non lo interessava più di
tanto. Ai Re di Francia preferiva la Repubblica, ma alla
Repubblica preferiva un Re come Marco Aurelio. In quanto alla
democrazia la rifiutava decisamente (quando il popolo si mette a
ragionare, è perduto), e sull’uguaglianza, concepiva solo quella
di fronte alla legge.
La sua rivoluzione era soltanto una evoluzione senza
traumi, guidata dalla ragione e basata sul progresso morale di un
liberalismo laico, non immaginando lontanamente quello che
poi accadde, della quale avrebbe sicuramente inorridito.
Questa speranza fu alimentata, nella convinzione di
Voltaire, dall’ascesa e dall’affermazione di Turgot (suo amico)
al potere, che gli fece dire “siamo nell’età aurea fin sopra i
capelli”, facendo sognare l’intellighenzia francese e
consentendo al vecchio regime francese di modernizzarsi.
Purtroppo con la caduta di Turgot tutto si rimescolò e gli
intellettuali delusi si spinsero su posizioni di contestazione
radicale, non credendo più nella capacità riformatrice del
vecchio regime, del quale, Voltaire era pur sempre un prodotto,
anche se ribelle.
III * Voltaire
senza le cattive leggi, è per sua natura buono, come lo sono
i selvaggi e gli animali, alle cui condizioni esso dovrebbe
ritornare. Voltaire lo lesse e rispose all’autore con frasi
sprezzanti, “Leggendo il vostro libro vien voglia di camminare a
quattro zampe, ma da oltre sessant’anni ne ho perso l’abitudine”
come già in precedenza l’aveva stigmatizzato. Lo considerava
un pessimo filosofo e un cattivo scrittore.
Mai avrebbe immaginato che gli illuminati francesi, in
massa si stavano iscrivendo alla sua scuola e che il profeta
riconosciuto della rivoluzione, della quale anche lui presentiva il
fremito ritenendosi uno dei promotori, sarebbe stato proprio
Rousseau “il cane impazzito di Diogene”.
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Sommario
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giudizi erano netti e duri, solo erano basati su principi etici del
tutto nuovi e diversi da quelli delle precedenti generazioni.
Da oltre cent’anni per le contrade d’Europa, le guerre di
religione e le rivolte civili si susseguivano con regolarità, il caos
e l’anarchia causate dalle passioni erano sempre presenti per
IV * il Romanticismo
IV
Il Romanticismo
Dalla seconda metà del XVIII secolo fino ad oggi, la
letteratura, l’arte, la filosofia e la politica, sono state influenzate
nel bene o nel male, da un modo caratteristico di sentire e di
comportarsi, conosciuto come movimento romantico. Agli inizi
questo movimento non era legato alla filosofia, ma ne venne
coinvolto in seguito. Diversamente, la politica attraverso
Rousseau, fin da principio legò a sé e fece sue quelle tendenze
di
simpatia e sensibilità già esistenti. Il romanticismo
inaugurato da Rousseau, non è altro che l’esaltazione, la
drammatizzazione, in certi casi la caricatura, di quel culto della
sensibilità che fa scorrere fiumi di lacrime all’uomo sensibile
alla vista di una misera famiglia di contadini, alla quale il
malvagio signorotto di turno, approfittando della salute
cagionevole del capofamiglia, era pronto a piombare sul
poderetto e magari sulla virtù della giovane figlia con il raggiro
e le lusinghe. Il romantico riteneva i poveri fossero più virtuosi
dei ricchi, non erano mai cittadini o operai, ma possedevano il
poderetto paterno e vivevano dei prodotti del loro lavoro senza
bisogno di commerci. Oppure il saggio e malinconico
aristocratico che disgustato dagli obblighi e dalle maniere futili
della vita di corte, ritorna al suo castello lontano dalla civiltà per
godersi gli ultimi anni nella pace della sua campagna.
Il romantico ha appreso il disprezzo per le pastoie
burocratiche, per l’abbigliamento, per le buone maniere, il
minuetto delle corti, fino all’arte, all’amore e tutta la morale
perbenista. Esso non era senza una morale, al contrario, i suoi
cui la tranquillità e la prudenza erano le virtù più
apprezzate, le buone maniere e il contenersi dall’esprimere le
proprie passioni erano qualità molto gradite come baluardo
contro la violenza.
Ma al tempo di Rousseau, l’aria che si respirava
cominciava ad essere pesante, molti erano stanchi di quel clima
di immobilismo forzato, di apatia e qualcuno cominciava a
desiderare le emozioni. Rousseau intuì il momento e come un
amplificatore fu pronto a raccogliere queste eccitazioni
rimandandole enormemente amplificate.
La rivolta romantica fu in parte rivoluzionaria e in parte
reazionaria. Non vedeva di buon occhio l’industrialismo perché
la ricerca del guadagno sembrava indegno alla sua morale, ed
anche il nascere delle moderne organizzazioni economiche
interferivano con la libertà individuale, aspirando
principalmente ad una intensa e appassionata vita individuale.
Dopo la rivoluzione, si fece strada la concezione che lo Stato
dovesse corrispondere i propri confini con la Nazione avendo
questa un’anima collettiva; mancando tale condizione non ci
poteva essere libertà. Da qui si alimentò il nazionalismo, che per
oltre il primo mezzo secolo del ‘800 fu il più vigoroso principio
rivoluzionario, sostenuto dai più ardenti romantici. La libertà
per le nazioni cominciò ad essere considerata dagli uomini di
Stato, non solo da Mazzini, come qualcosa di assoluto,
rendendo in pratica difficile la cooperazione internazionale.
Anche la sostituzione degli schemi estetici con quelli
utilitaristici è una caratteristica del movimento, dovuto ai
mutati gusti personali del momento, che intesero il sentimento
per la bellezza in modo diverso dal precedente, in architettura,
23
24
nelle arti e pure nella letteratura. Il movimento romantico, nella
sua essenza, aspirava a liberare la persona umana dai vincoli
delle convenzioni sociali e della morale tradizionale, ma
purtroppo si liberarono anche le passioni egoistiche.
Nel campo morale, questa rivolta incoraggiò un nuovo Io
Sommario
IV * il Romanticismo
V
senza leggi abbandonando i suoi discepoli di fronte
all’alternativa: anarchia o dispotismo.
Nel campo religioso il romanticismo estense a tutte le
religioni storiche, comprese quelle politeistiche, il concetto di
rivelazione. In generale, pur considerando la rivelazione per
eccellenza quella su cui si fonda la religione cristiana, l’arco
storico delle religioni viene inteso come una sorta di rivelazione
progressiva di Dio. Molta parte degli esponenti di rilievo del
romanticismo ebbero forti crisi religiose e momenti di intensa
religiosità. Per i romantici la religione è intesa per lo più come
un rapporto dell’uomo con l’Infinito e l’Eterno, rivalutandola
ben al di sopra della considerazione che ne avevano avuto gli
illuministi.
Gian Giacomo Rousseau
Gian Giacomo Rousseau (1712-1778), pur non essendo un
filosofo, esercitò un potente influsso sulla filosofia, non meno
che sul gusto, sul costume, sulla politica. Questa immensa
importanza sociale le derivò dal suo appello al cuore e al
sentimento, quello che allora si chiamava “sensibilità”. Egli fu il
padre del romanticismo, l’inventore della filosofia politica delle
dittature democratiche in opposizione alle monarchie assolute
tradizionali. Da allora la schiera dei riformatori si è divisa tra, i
seguaci di Rousseau e coloro che hanno seguito Locke. Col
tempo le due correnti si sono separate nettamente e le
conseguenze si videro nel XX secolo, Hitler e Stalin, come
conseguenza di Rousseau, Churchill e Roosevelt di Locke.
Gian Giacomo, nacque a Ginevra da famiglia povera, la
madre morì nel metterlo al mondo. Visse in indigenza trascurato
anche dal padre, e affidato alle cure, di botte e patate, di uno zio.
A dodici anni smise di studiare per mettersi a lavorare, dopo
avere già combinato guai di tipo sessuale, tendenzialmente era
un frustrato e autolesionista. Del resto fu sempre un solitario
masochista e sciupò regolarmente tutte quante le amicizie per il
piacere di sentirsi tradito e perseguitato. A sedici anni se ne
andò da Ginevra, e per sbarcare il lunario si offrì di convertirsi
al cattolicesimo. Seguirono diverse vicissitudini finche trovò
protezione presso una signora, Madame de Warens, anche lei
convertita dal protestantesimo, la quale riceveva una discreta
pensione dal re di Savoia per servigi resi alla religione. Per una
decina di anni visse praticamente con lei, divenne suo amante
25
26
anche se lei se la faceva con il suo factotum, fino a quando
questo morì. In seguito si procurò un posto da precettore presso
una famiglia di Lione, e poi come segretario e copista di musica
presso l’ambasciatore di Francia a Venezia. Di nuovo a Parigi
riuscì a farsi conoscere e introdursi in importanti salotti
patriarcale, ma questa è stata distrutta con l’istituzione della
proprietà privata, causa di ogni disuguaglianza economica e
ingiustizia sociale, con la quale prospera il cosiddetto
“progresso”.
Questa volta però i filosofi si allarmarono, rendendosi ben
V * Gian Giacomo Rousseau
della capitale, dove conobbe Condillac e Dideron che lo
presentarono a Madame d’Epinay, titolare di uno dei più
accreditati salotti parigini. Fu in questo periodo (1745) che
prese con sé Teresa Le Vasseur che tenne con sé per il resto
della vita. Nessuno ha mai capito che cosa ha rappresentato per
lui, tanto era brutta e ignorante. Non sapeva leggere, ne scrivere,
ma gli dette cinque figli, che abbandonò tutti regolarmente
all’Ospizio dei Trovatelli. Pur non avendola sposata, lui la
trattava quasi come una moglie, e tutte la grandi dame sue
amiche dovettero avere a che fare con lei.
Il primo successo letterario lo ebbe a trentotto anni quando
presentò un saggio ad un concorso indetto dall’Accademia di
Digione intitolato “Discorso sulle Arti e le Scienze”. Vinse il
primo premio sostenendo che: le scienze, le lettere, le arti, la
cultura in genere, lungi dall’averlo migliorato, sono le peggiori
nemiche della morale e dell’uomo, perché creando dei bisogni,
si collocano all’origine della schiavitù. L’uomo ha dato il
meglio di sé solo allo stato di natura. Era esattamente il
contrario di quanto sosteneva Dideron e tutti i filosofi
dell’Enciclopedia. La cosa sorprendente è stata l’accoglienza
entusiasta che la classe colta parigina ebbe a riservare al
“Discorso”, nonostante questo fosse un’invettiva contro la
cultura dominante, della quale la stessa Parigi ne aveva fatto una
religione.
A questo primo saggio fece seguito, quattro anni dopo, un
secondo, ugualmente presentato alla stessa Accademia “Origini
dell’ineguaglianza fra gli uomini” nel quale sosteneva: l’uomo
è per natura buono e le cattive istituzioni e le leggi, lo hanno
reso cattivo e disonesto. La società ideale è la famiglia
V * Gian Giacomo Rousseau
conto di quanto rivoluzionario fosse il pensiero di
Rousseau, che credevano dalla loro parte, ma viceversa tuonava
contro il progresso.
Gl’Illuministi erano uomini che volevano riformare la
società, ma non sovvertirla, perché di essa facevano parte e ne
condividevano il costume e le abitudini. Rousseau, al contrario,
era un anarchico asociale che non stava alle regole, per cui finì
con l’inimicarsi e litigare con tutta Parigi.
Solo Madame d’Epinay, cercò di mettere pace mettendogli
a disposizione una casetta nel bosco l’Ermitage, nella quale
Rousseau andò a vivere con Teresa, continuando a scrivere con
buona lena. In questi cinque anni dal ‘757 al ‘762, scrisse le sue
tre opere più significative “La nuova Eloisa, Emilio o
dell’educazione e Il contratto sociale”, che alla loro uscita
esercitarono sui contemporanei una influenza travolgente. Gli
ultimi due libri, pur accrescendo grandemente la sua fama gli
attirarono contro una tempesta di condanne sia dall’ortodossia
cattolica che da parte protestante, tanto da obbligarlo a fuggire
dalla Francia; anche la sua città natale Ginevra, gli rifiutò
l’asilo, così pure Berna. Infine Federico di Prussia il Grande
ebbe pietà e gli diede asilo in una cittadina vicino a Neuchatel.
Trascorse qui circa tre anni ma, in seguito ad una denuncia degli
abitanti guidati dal pastore, dovette fuggire.
Trovò ospitalità in Inghilterra dove Giorgio III gli assicurò
una pensione. Qui venne accolto con grande simpatia, fece
amicizia con Burke e con Hume, ma oramai cominciava a
soffrire di manie di persecuzione, sospettando gli amici di
complotti contro la sua vita. Infine la sua immaginazione superò
la verità, e fuggì abbandonando anche i bagagli. Tornò a Parigi
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dove trascorse gli ultimi anni di vita in grande povertà
dedicandosi al completamento delle “Confessioni”, iniziato nel
’65 e pubblicato postumo. Morì nel 1778, lo stesso anno di
Voltaire suo grande rivale, senza aver vissuto la rivoluzione.
Il lascito di idee e di azioni che si ricavano dall’opera di
V * Gian Giacomo Rousseau
Rousseau si vedono già nel primo saggio del “Discorso”
dove manifesta una posizione di rottura netta con il fronte dello
schieramento Illuminista, principalmente, la dove nega al
progresso delle scienze e della cultura, il miglioramento della
vita morale e della libertà dell’uomo, ponendo a confronto il
mondo delle città Stato greche o della Roma repubblicana, con
il mondo civilizzato, esaltando la semplicità dei costumi e la
virtù degli antichi, in contrapposizione ai guasti della cultura
moderna, corruttrice ed egoista.
Nel secondo “sull’ineguaglianza”, prospetta la storia
dell’umanità a partire da un ipotetico “stato di natura” in cui
l’uomo non conosce ancora la socialità, ma questa si costituisce
in dipendenza delle calamità naturali, raccogliendosi nei primi
nuclei, sulla base dei quali si forma tutto ciò che è propriamente
umano: il linguaggio, le passioni, il lavoro, le tecniche, le arti.
E’ a questo punto che si instaura un rapporto di diseguaglianza,
non in relazione a delle differenze originarie, ma su basi casuali,
che permettono ad alcuni di accaparrare i beni esistenti,
costringendo altri a vendere il proprio lavoro per sopravvivere.
Su questa base parziale e casuale si costituisce lo Stato.
L’argomento sulla formazione dello stato deontologico, è
ciò che dibatte il “Contratto sociale”. Centro della dottrina
dello stato di Rousseau è la nozione di volontà. Lo Stato nasce
attraverso un contratto, in cui ciascuno rinuncia allo stato di
libertà illimitata della condizione di natura, non per consegnarsi
nelle mani di un sovrano, bensì per ricevere da ogni membro
della comunità la stessa rinuncia. Questo atto di cessione dà
origine ad una persona sociale, la cui volontà diventa la volontà
generale. Il potere sovrano viene esercitato dall’assemblea di
28
tutti i membri riuniti insieme, ogni legge è l’espressione della
volontà generale che promuove l’interesse comune.
Un rilievo particolare lo riserva alla religione civile, che
deve contenere il minimo di articoli di fede e di morale e come
principio fondamentale, quello della tolleranza religiosa. In
V * Gian Giacomo Rousseau
quanto alla religione della Chiesa cattolica, questa deve
essere privata di ogni potere non avendo questa l’inclinazione
ad uniformarsi allo Stato, ma pretendendo un potere paritario.
Per rispondere alla domanda posta in precedenza, si può
dire con certezza che pose fine al sogno dei Filosofi,
l’Illuminismo, cioè a quel tentativo posto in atto dalla classe
colta europea di riformare e modernizzare i regimi delle
monarchie assolute senza traumi rivoluzionari. La chiusura del
conto tra la dea Ragione e i diritti del Cuore, venne regolato a
favore di Rousseau, nel 1794 da Robespierre, proclamando il
culto dell’Essere Supremo tipicamente rousseauiano. I motivi
politici che scatenarono la rivoluzione si ritrovano tutti nei suoi
scritti, che vennero esplicati e propagandati da schiere di
contestatori globali, tra le masse proletarie e diseredate delle
periferie cittadine, gente questa che aveva fame vera di pane e
non di libertà o di istruzione o di scuole.
Questa, per salire sulle barricate aveva bisogno di
motivazioni immediate, facili da capire e sicure, e Rousseau
additava nelle istituzioni la causa di tutti i mali. Egli non si
soffermava sulla libertà, problema di chi aveva già soddisfatto
tutte le altre esigenze, quanto sulla giustizia cioè sulla
ripartizione dei beni materiali. La stragrande maggioranza dei
cittadini francesi con le pance vuote, a questo punto
cominciarono a rendersi conto e ad accorgersi. L’uguaglianza è
più importante della libertà! Secondo la teoria della volontà
generale (propagandata ad arte), la comunità ha il diritto di
impedire usando anche la forza, che una sfrenata economia
liberista abbandonata ai suoi sviluppi naturali più radicali, possa
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30
creare delle profonde disuguaglianze e disparità sociali; e questo
anche a costo di sopprimere e sacrificare la libertà.
Tutto era pronto per abbattere il traballante ancien regime,
bastava una piccola scossa per “risolvere” definitivamente il
problema. Questo principio ebbe applicazione, praticamente
immediata con il regime del terrore di Robespierre.
meccanico trasferimento di esperienze da perpetuare da una
generazione all’altra, ma debba elaborare modelli di vita nuovi e
alternativi. In letteratura fu ancora lui a scatenare tutta
quell’ondata di romanticismo, intesa come rivincita del
sentimento sulla ragione, del cuore sull’intelletto, della fantasia
sulla realtà, della fede sulla scienza, della natura sulla civiltà.
V * Gian Giacomo Rousseau
Purtroppo, ancora oggi molti dittatori guardano al mito
dell’uguaglianza, sacrificando ad esso qualsiasi libertà
individuale. Del resto, tutta la sociologia moderna che
detronizza l’uomo dalla parte di protagonista della Storia per
attribuirla alle “strutture”, alle “infrastrutture ” alle
“sovrastrutture”, cioè alle istituzioni, non fa altro che rincorrere
quanto andava scrivendo e dicendo Rousseau.
Per quelli del suo tempo, fu l’apostolo di una rivoluzione
proletaria che pretese di fare tabula rasa di tutta una civiltà e
delle sue istituzioni, padre di una democrazia non meno assoluta
della monarchia, della quale prendeva il posto in nome di un
egalitarismo, imposto con l’ideologia e i plotoni di esecuzione.
Ma Rousseau (per fortuna) non fu solo politico, fu anche
pedagogo e rinnovatore dei costumi, probabilmente con
migliore fortuna, di sicuro con meno danni. L’indirizzo
pedagogico lo troviamo nel suo capolavoro “l’Emilio” e prima
ancora nella “nuova Eloisa”, con i quali espone come l’uomo
debba essere educato al controllo degli istinti per mezzo della
ragione, la quale lo accompagni verso la “libertà ben guidata”
principio fondamentale della pedagogia.
Grazie a lui le donne europee ebbero il coraggio di liberarsi
dalle stringhe e dai corsetti che le impagliavano nei loro abiti,
per mostrarsi libere sulle barricate di Parigi. Fu lui che per
primo indicò un nuovo rapporto pedagogico, basato sullo
spontaneismo, sul colloquio, sull’esercizio, che fece scuola tra i
Pestalozzi, i John Dewey, le Montessori, rendendo il rapporto
tra educatore e allievo molto più umano, gradevole, e libero.
Molto importante fu l’idea che l’educazione non può essere un
V * Gian Giacomo Rousseau
Nei rapporti sociali la passione e l’impeto sono d’obbligo,
come prima lo era la misura e il distacco, anche il linguaggio si
modifica, entrano nuove vibrazioni sentimentali, i toni si fanno
più sfumati, gli aggettivi si coniugano al superlativo. Gran parte
della passerella letteraria dell’Ottocento è occupata da figli suoi,
come Byron, Lamartine, Chateaubriand, Hugo, Musset,
Sand,Shelley, Keats, e altri.
Quanto Rousseau, amato ed ugualmente odiato, oppresso e
tormentato dalle sue stesse pazzie, abbia lasciato di letteratura è
poco in rapporto a quanto di enorme egli suggerì agli altri. Fu
sicuramente un genio “alla Moda” nel suo tempo, anche se una
moda che si rinnova oramai da oltre due secoli. Vale però un
monito: alla “scuola di Rousseau si può diventare anche degli
oppressori, sia pure in nome del popolo”. La storia, di qualche
decennio fa, quella appena trascorsa e l’attuale, ci ha dato e
continua a darci esempi tragici di suoi allievi.
31
Sommario
32
popolarità e successo. Gli ultimi anni, pur se gravemente
debilitato, li spese a riformulare il suo sistema, ma non ebbe la
possibilità di terminarlo: i frammenti sono stati editi post morte
sotto il titolo Opus Postumum.
L’attività letteraria di Kant è possibile dividerla, a grandi
linee, in tre periodi ognuno dei quali corrisponde un impegno e
V I * Immanuel Kant
VI
Immanuel Kant
Massimo rappresentante dell’illuminismo tedesco, autore di
una vera e propria rivoluzione filosofica. Punto di separazione
tra la metafisica dogmatica prima, e ciò che la filosofia ne è
risultata dopo la sua analisi critica, con la quale ha determinato i
limiti e le condizioni delle capacità conoscitive dell’uomo.
Immanuel Kant (1724-1804), nacque a Konigsberg da
modesta famiglia, educato dalla madre ad una morale pietista, e
forgiato alla severa disciplina di internista. Dopo il collegio si
iscrisse all’università Albertina della sua città. I suoi primi
scritti risalgono 1746 mentre esercitava il mestiere di precettore,
fino a quando non ottenne il dottorato e la libera docenza. Col
1755 iniziò un lungo periodo di studi e lezioni dedicate a
diverse discipline principalmente scientifiche, dalla logica, alla
geografia fisica. Nel 1770 ottenne finalmente la nomina a
professore ordinario di logica e metafisica nell’università della
sua città, dove rimase fino al 1796. Il progetto, di porre in
discussione la metafisica nel quadro di una critica della ragione,
lungamente meditato, vide la realizzazione almeno nella prima
edizione nel 1781, alla quale seguì nel 1787 una seconda
edizione, notevolmente modificata, affiancata da numerosi
scritti di notevole interesse. Seguirono altre pubblicazioni e
scritti fino a un terza edizione uscita nel 1790 che trattava il
giudizio estetico e teologico. La produzione
che ha
accompagnato le opere principali è stata vasta e di grande
interesse scientifico e culturale, che gli ha procurato vasta
uno studio specifico e monotematico. Nel primo, che va
fino al 1760, prevale l’interesse per le scienze naturali. Nel
secondo, fino al 1781, è prevalente l’interesse filosofico dove
domina l’orientamento verso l’empirismo inglese e il criticismo
(analisi). L’ultimo periodo è dedicato completamente alla
stesura e alla definizione della sua filosofia del trascendente.
La “Storia naturale universale e teoria dei cieli” è l’opera
più importante del primo periodi, nel quale descrive la
formazione dell’intero sistema cosmico, a partire da una
nebulosa primitiva, che si forma e si espande in conformità alle
leggi della fisica di Newton. Altri scritti sui terremoti, e sulla
teoria dei venti e una Monadologia physica, dove al posto delle
monadi di Leibniz, pone corpi fisici semplici che occupano una
minima quantità di spazio, circoscritto dalla sua sfera di attività,
dove la impenetrabilità dei corpi viene definita dalla forza di
attrazione e repulsione, la quale impedisce alle monadi
circostanti di avvicinarsi ulteriormente. Questo è anche il
periodo in cui viene a trovarsi in polemica con Voltaire, per la
questione del terremoto di Lisbona giudicato da questi in modo
pessimistico. Kant si schiera a difesa della visione cosmologica
dell’avvenimento e da questo punto di vista afferma, che
certamente Dio non avrebbe potuto fare diversamente,
risolvendo la disputa con un atteggiamento del tutto ottimistico.
Il secondo periodo segna il deciso prevalere degli interessi
filosofici, cominciano a delinearsi temi e motivi che sfoceranno
nei suoi scritti critici. Con l’analisi critica al valore della Logica
aristotelica-scolastica, definita “un colosso coi piedi di argilla e
la testa tra le nuvole dell’antichità”, ha inteso sottolineare come
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34
il compito della logica è di chiarire le cose e non complicarle,
non scoprire, ma esporre chiaramente.
Già è presente nella sua mente, l’idea che per la metafisica
come per la matematica, sia possibile raggiungere la certezza
della verità. Pur riconoscendo le differenze che intercorrono tra
le due discipline, ovviamente più facile e semplice per la
vengono considerate (come Home e Berkeley, anche se in
maniera diversa) qualità soggettive. Il fenomeno, per quanto
riguarda la conoscenza sensibile, si compone di due parti: quella
dovuta all’oggetto la materia, che causando la sensazione,
provoca la modificazione dell’organo di senso testimoniando la
presenza dell’oggetto stesso. Questo dipende dal nostro
V I * Immanuel Kant
matematica, più difficile e complesso per la filosofia; “la
metafisica è senza dubbio la più difficile di tutte le conoscenze
umane; per questo essa non è stata ancora scritta”, Kant,
sostiene con decisione l’applicabilità del metodo scientifico alla
filosofia, rendendo necessario corrispondere un criterio della
stessa natura matematica, seguendo il medesimo procedimento,
dell’analisi sperimentale e la riduzione dei fenomeni a regole e
leggi.
Con questa impostazione, Kant, procede alla distinzione tra
conoscenza sensibile e intellettuale. La prima, conoscenza
sensibile, dovuta alla ricettività del soggetto, ha per oggetto il
fenomeno, nel suo modo di apparire o manifestarsi al soggetto.
Per Kant il fenomeno, è l’oggetto della conoscenza umana, ciò
che della cosa può apparire all’uomo e viene riconosciuto, ma
non è la cosa “in sé”.
La seconda, conoscenza intellettuale, è una facoltà del
soggetto di rappresentare il fenomeno per quegli aspetti che per
loro natura non sono percepiti dai sensi ma come noumeni (ciò
che non è possibile dimostrare, che si pensa), concetti sui quali
si fonda la metafisica, che non derivano dai sensi, come la
possibilità, l’esistenza, la necessità, ecc… Naturalmente la
conoscenza umana in quanto sempre conoscenza di fenomeni, è
sempre esperienza non apparenza illusoria, essa è un oggetto
reale e in quanto tale sensibile, ma solo nel rapporto con il
soggetto conoscente cioè l’uomo.
I fenomeni, secondo Kant, sono dovuti in parte a cause
esterne e in parte al nostro personale apparato percettivo. Sia le
qualità secondarie (colori, odori, suoni, ecc) che quelle primarie
I * Immanuel Kant
apparato percettivo quindi è soggettivo.
L’altro è la forma del fenomeno. Questa è la legge che
ordina la materia sensibile, non è in s’è una sensazione, rimane
indipendente dalle accidentalità dell’ambiente per cui è sempre
la stessa, la portiamo con noi ed è a priori nel senso che non
dipende dall’esperienza.
Oltre a queste vi è anche l’apparenza, che è la conoscenza
sensibile anteriore all’uso dell’intelletto logico. La conoscenza
riflessa, fatta dall’intelletto, nata dal confronto di molteplici
apparenze, da luogo all’esperienza. E’ avvalendosi
dell’intelletto che, attraverso la riflessione, si passa
dall’apparenza all’esperienza, i cui oggetti sono i fenomeni.
La forma del fenomeno o intuizione pura, come abbiamo
visto, è la legge che contiene il fondamento della conoscenza
immediata dell’insieme universale sensibile ed è formata da due
elementi, lo spazio e il tempo, una per il senso esteriore, l’altra
per l’interiore rispettivamente. Questi sono i due elementi
indispensabili senza i quali non è possibile alcuna
rappresentazione sensibile. Sono le forme a priori della
sensibilità, ma tuttavia reali di una realtà empirica, nel senso di
appartenere effettivamente alle cose come sono da noi percepite,
con i caratteri temporali e spaziali già pronti nella forma
soggettiva che consente la loro percezione.
Riguardo la conoscenza intellettuale, Kant, chiarisce che
l’uso logico dell’intelletto non elimina il carattere sensibile delle
conoscenze, dovuto già dalla loro origine. Nella metafisica non
si trovano principi empirici, essendo i suoi principi inerenti alla
natura stessa dell’intelletto puro e per quanto non innati ma
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acquisiti, sono estranei alle leggi connaturate nella mente. Dato
che l’intuizione della nostra mente è un fatto passivo, essa è
possibile solo quando qualcosa colpisce i nostri sensi.
L’intuizione del divino essendo essa il principio degli
oggetti, è indipendente e non causata da questi, trattandosi
dell’archetipo degli oggetti. Essa è perciò perfettamente
ragione e la convinzione di pervenire alla vera conoscenza per
mezzo della scienza, la quale sola può dare la risposta con
assoluta certezza.
La filosofia kantiana, in questa fase della conoscenza, lascia
intravedere certe posizioni molto vicine all’agnosticismo. Kant,
affronta il periodo, più importante e “copernicano” (è lui che lo
V I * Immanuel Kant
intellettuale. Per cui la filosofia non avendo i mezzi
adeguati per dimostrare l’esistenza di Dio, a causa della
limitazione intellettuale dell’uomo, altro non può fare in questo
campo di ricerca che sospendere il giudizio, anche se all’uomo
non è preclusa la possibilità di pensarlo o immaginarlo pur
senza poterlo dimostrare.
Il metodo kantiano, comprende come regola fondamentale
quella per cui: i principi della conoscenza sensibile non devono
varcare i loro limiti e invadere il campo dei concetti intellettuali.
Un concetto sensibile non può essere esteso a qualificare o
a determinare una realtà non sensibile. “Tutto ciò che non può
essere conosciuto per intuizione, non può assolutamente essere
pensato, quindi è impossibile. (Tralasciando quella intuizione
pura e intellettuale non soggetta alla legge del tempo, quale è
l’intuizione divina, che Platone chiama Idea). Poiché con nessun
sforzo della mente né tantomeno con l’immaginazione è
possibile raggiungere altra intuizione che non risponde alla
forma dello spazio e del tempo, si ritiene impossibile ogni
intuizione non legata a queste leggi.” Se il principio della
metafisica non è concepibile per mezzo di rappresentazioni
ricavate dai sensi e la materia della nostra conoscenza è data
solo da questi, il concetto intelligibile in quanto tale non è
conoscibile mancando dei dati dell’intuizione umana.
L’impossibilità della conoscenza, di trascendere il limite
dell’esperienza, diventa la garanzia dell’effettiva validità della
conoscenza. Alla domanda: che cosa posso conoscere? Che
cosa c’è di cui posso essere sicuro? La risposta che si dà è: del
cielo stellato che sta sopra di me. Quindi la piena fiducia nella
V I * Immanuel Kant
dice), quello della filosofia critica, mostrando come il suo
orientamento sia stato influenzato e perfezionato dall’empirismo
inglese. A questo va aggiunto anche l’importante apporto
ricevuto dall’illuminismo di Wolff e dei suoi seguaci tedeschi,
con il metodo della ragione fondante, cioè il metodo secondo il
quale, si ritiene fondato (giustificato) un concetto, solo se di
questo se ne dimostra la possibilità, oppure quando non
vengono riscontrate contraddizioni interiori.
Questo principio recepito da Kant, è stato da lui in seguito
modificato, osservando come non è sufficiente la mancanza di
contraddizione per dare valore alla possibilità, ma è necessario
anche altro. Primo tra tutto, deve esistere ed essere reale, senza
il quale non vi è possibilità, perché dal nulla non è dato nulla
che sia pensabile. Ciò che è possibilità deve contenere, per
essere tale, un’esistenza, una realtà, un dato, oltre naturalmente,
alla pura logica formalità della non contraddittorietà. Nel vuoto
e nell’astratto non è possibile adoperare la ragione come
metodo, ma soltanto sul terreno solido dell’esperienza può
rendersi utile.
La metafisica è la scienza che determina il limite intrinseco
del possibile, i limiti della ragione umana, cioè dell’esperienza.
“Io non ho determinato questi limiti, ma li ho indicati, perché
riflettendo, il lettore, trovi che può dispensarsi dalle inutili
ricerche, intorno a questioni i cui dati si dovrebbero trovare in
un mondo diverso da quello che egli sente”.
Con questa affermazione Kant, si allinea con il punto di
vista di Locke riassumibile in queste due definizioni
fondamentali:
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1° La ragione non può spingersi oltre i limiti dell’esperienza.
2° L’esperienza è il mondo dell’uomo, il mondo di quei
problemi che “stanno a cuore all’uomo”. Con l’inserimento e la
fusione di queste due esigenze, nasce la filosofia critica di Kant.
Questa affronta il problema connesso la natura e
l’estensione dei limiti della ragione umana. Da dove viene
già esistenti dentro le singole cose, ma sono intuizioni che
precedono ogni conoscenza sensibile e sono indipendenti da
essa, quindi pure. Sono perciò condizioni soggettive ed
essenziali alla mente umana, per coordinare a sé tutti i dati
sensibili, avvalendosi di una legge.
Il tempo, rende possibile intuire la contemporaneità o la
V I * Immanuel Kant
l’indicazione di questi limiti? Qual è la loro estensione?
Questi limiti danno la garanzia della vera conoscenza?
Fondamentale, per la sua filosofia, è stato l’accertamento
della “Scienza dei limiti della ragione umana”, ma anche e
soprattutto la giustificazione dei poteri della ragione. Punto
fermo dal quale parte e si sviluppa tutta la critica nella sua
opera, è la certezza che: il limite della ragione umana, è
determinato soltanto dalla ragione stessa, che in ultima analisi è
il limite posto dalla capacità dell’uomo.
L’analisi fatta da Hume sul sapere umano, anche se limitata
all’esperienza, si conclude con l’impossibilità di raggiungere la
sicurezza e la stabilità di un sapere autentico. Diventa tutt’al più
un sapere probabile, ma anche questa probabilità viene a
mancare quando l’uomo si avventura sulle vie della metafisica.
A queste enunciazioni di scetticismo, Kant contrappone
una fiducia autentica nella conoscenza attraverso la nuova
scienza matematica della natura. Anche per la metafisica, pur
registrando la grande confusione nella quale si trova che la
mantiene lontana dalla strada della scienza, si interroga come
mai la natura ha posto nella ragione umana una così forte
tendenza verso i problemi metafisici.
La risposta a questi quesiti, Kant, la da impostando il
problema della conoscenza in modo del tutto nuovo e
rivoluzionario. Invertendo i ruoli di approccio alla conoscenza
da come sino ad allora si era svolta.
La dottrina dello spazio e del tempo è la parte più
importante della Critica della ragion pura (almeno secondo B.
Russell). Tempo e spazio non sono concetti generali e comuni,
V I * Immanuel Kant
successione, secondo questi due modi, a tutti gli oggetti
sensibili.
Lo spazio, consente di intuire i fenomeni in un rapporto
universale, le cui leggi e principi sono quelli della geometria.
Dello spazio si può dire essere il presupposto al quale si
riferiscono le sensazioni che si rivolgono a qualcosa di esterno,
infatti l’esperienza esterna è possibile solo presupponendo lo
spazio; è necessariamente una rappresentazione a priori, poiché
noi non possiamo immaginare che non esista; è anche un
concetto reale esistente nelle relazioni tra le cose, è uno solo, si
presenta come un infinita dimensione data, la quale contiene in
sé tutte le parti, anche se noi chiamiamo spazi ciò che sono solo
sue parti, per cui è intuitivo e non concettuale.
In generale, se noi accettiamo come ipotesi che le nostre
percezioni abbiano delle cause esterne quindi materiali,
possiamo stabilire che tutte le caratteristiche reali della
percezione, siano differenti dalle loro cause non percepite.
Prendiamo per esempio i colori, per considerare
l’argomento spazio visto in generale, come sono riconosciuti dai
sensi e la corrispondente lunghezza d’onda, come è misurata dai
fisici (dalla scienza). Ora tra l’uno e l’altro modo di essere
colore, ci deve essere una relazione spaziale partecipante tra la
percezione sensoriale, e lo spazio partecipante per il sistema
delle cause non percepite dalla percezione. Per cui, secondo il
principio, stessa causa stesso effetto e il suo inverso, diverso
effetto diversa causa, ci dovrebbero essere due tipi di spazi, uno
soggettivo noto attraverso l’esperienza, e uno oggettivo
unicamente dedotto. A questo riguardo però tra spazio, e gli altri
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aspetti della percezione colore o suono non c’è differenza. Tutti
nelle loro forme rispettivamente soggettiva e oggettiva, sono
riconosciuti, empiricamente o supposti, per mezzo di una
massima inerente alla causalità. Non vi è quindi ragione per
considerare la nostra conoscenza dello spazio differente in
qualche modo dalla nostra conoscenza dei colori, dei suoni,
nelle cose nell’atto stesso di conoscere gli oggetti.
Trascendentale è la condizione della conoscibilità degli oggetti.
La sensibilità è intuitiva, l’intelletto è discorsivo; perciò i
concetti intellettivi sono funzioni e non intuizioni. Funzione
propria dei concetti è di unificare, ordinare un molteplice sotto
una rappresentazione comune e in quanto tale ha la facoltà di
giudicare. Questa capacità di unificare è detta sintesi e i vari
V I * Immanuel Kant
degli odori.
Per quanto riguarda il tempo, il ragionamento è
assolutamente diverso perché se prendiamo come esempio il
lampo e il tuono, pur verificandosi in contemporanea vi è un
tempo reale e un tempo percepito che segue comunque il tempo
reale. Perciò mentre esiste una buona ragione per cui lo spazio
percettivo sia soggettivo, non vi è alcuna possibilità per il tempo
percettivo che sia oggettivo.
Queste condizioni mostrano come ogni nostra intuizione
non è altro che la rappresentazione di un fenomeno. Non è la
cosa in se stessa che noi conosciamo, ma ciò che la nostra
sensibilità percepisce in rapporto alla cosa stessa. La
conseguenza è che l’oggetto della nostra attenzione, perde le sue
facoltà proprie, per prendere quelle del soggetto che lo pensa,
secondo il suo intuito e la sua percezione.
E’ questa la rivoluzione copernicana di Kant, l’aver intuito
che è l’oggetto a modellarsi attorno all’esperienza del soggetto.
Kant ritiene non essere il soggetto a scoprire le leggi
dell’oggetto, ma viceversa è l’oggetto che si modella alla
capacità di conoscenza e di intuito del soggetto, o meglio
ancora, alle leggi della sua sensibilità e del suo intelletto.
E’ la nostra conoscenza a priori, ciò che noi stessi mettiamo
nelle cose. I “modi di conoscere a priori del soggetto”, sono i
modi di conoscere propri della sensibilità e dell’intelletto; ossia
le strutture della sensibilità e dell’intelletto. Kant chiama
trascendentale, quella conoscenza che ha a che fare con il
nostro modo di conoscere gli oggetti. Ciò che il soggetto mette
V I * Immanuel Kant
modi con cui l’intelletto unifica sono i concetti puri o
categorie.
Queste categorie, sono forme pure del pensiero, e
dovranno essere tante quante sono le forme del giudizio e
queste, quantificate in dodici, danno luogo ad altrettante
categorie o concetti puri. I concetti puri sono le condizioni con
le quali è possibile che qualcosa venga pensato come oggetto
d’esperienza, così come spazio e tempo sono le sole condizioni
possibili per poter cogliere sensibilmente l’oggetto
dell’intuizione.
La sintesi ultima del pensiero kantiano è che il fondamento
dell’oggetto sta nel soggetto. L’ordine e la regolarità degli
oggetti della natura è l’ordine che il soggetto, con il suo
intelletto, mette dentro la natura. Si comprende allora perché
Kant introduce la figura dell’Appercezione trascendentale, e la
connessa figura “dell’io penso” come sintesi unificante delle
dodici forme di pensiero, che si concretizzano nell’unità
suprema della coscienza o dell’autocoscienza, appunto “l’Io
penso “ di Kant.
Oltre la conoscenza sensibile, della quale abbiamo detto a
proposito del fenomeno e all’intuizione pura spazio tempo,
l’uomo ha una seconda fonte di conoscenza: l’intelletto.
Mediante la prima gli oggetti sono dati, con la seconda sono
pensati. Queste due facoltà vanno di pari passo, senza che l’una
sia al di sopra dell’altra.
L’altra importante opera di Kant, “La critica della ragione
pratica” ha lo scopo di determinare (muovere) la volontà, la
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quale possiede in se una realtà oggettiva. Basta allora provare
che vi è una ragione “pura pratica”, la quale può muovere da
sola a determinare la volontà, per eliminare ogni problema circa
la sua legittimità. Quindi è la ragione pratica in generale che
andrà criticata, e in speciale modo quella empiricamente
condizionata la quale ha la pretesa di determinare essa sola la
volontà.
possono essere consigli di prudenza quando gli scopi sono più
generali, come per esempio la ricerca della felicità (dato che il
conseguimento di questo obbiettivo può essere variamente
inteso, non possono che essere formulati in “consigli alla
prudenza”, la cortesia, farsi ben volere, ecc.).
L’altro tipo di imperativo, pure determinato dalla volontà
ma che non consegue un effetto desiderato e prescinde dagli
V I * Immanuel Kant
E’ la preoccupazione che la ragione pratica limiti la volontà
conoscitiva della ragione stessa. Si tratta insomma di mostrare
che esiste una ragion pura pratica sufficiente a muovere da sola
(proprio come pura ragione) la volontà, perché solo in questo
modo i principi morali per l’uomo possano valere come leggi
aventi un valore universale.
I principi pratici sono le regole generali, le quali sono le
regole generali della volontà, entro ad esse stanno altre regole
pratiche secondarie. Questi principi pratici vengono suddivisi in
due gruppi, le massime e gli imperativi.
Le massime si intendono regole o principi pratici che
valgono singolarmente ma non sono vincolanti per tutti gli
uomini per cui sono soggettive.
Gli imperativi invece sono principi pratici oggettivi,
valevoli per tutti, sono quindi comandi o doveri che esprimono
la necessità oggettiva dell’azione quando la ragione ne
determinasse completamente la volontà seguendo la regola data.
Questi imperativi sono di due tipi.
Sono ipotetici se determinano la volontà a raggiungere
determinati obbiettivi. Tali imperativi valgono solo a condizione
che si voglia raggiungere lo scopo per i quali sono preposti, per
questo si intendono ipotetici (nell’ipotesi che), ma valgono
oggettivamente anche per tutti coloro che si propongono quel
fine. Importante per questi imperativi è avere o no il desiderio di
raggiungere il fine, pertanto la loro necessità il loro imporsi è a
“condizione che”, per cui si configurano come regole
dell’abilità se indirizzati a obbiettivi ben precisi; oppure
V I * Immanuel Kant
scopi che si ottiene, è detto imperativo categorico. Questi
sono quindi leggi pratiche che valgono incondizionatamente per
l’essere razionale, e rispondono al principio “devi perché devi”
e non “se vuoi… devi”, (devi e basta).
Degli imperativi categorici fanno parte le leggi morali, le
quali sono necessarie e universali ma possono anche non
attuarsi perché soggette alla volontà umana la quale ubbidisce,
oltre che alla ragione alle inclinazioni sensibili, per cui possono
confliggere. Solo le leggi naturali non possono non attuarsi.
La legge morale cioè l’imperativo categorico, non è tale in
forza del suo contenuto per quanto nobile ed elevato possa
essere. Proprio perché soggetto alle inclinazioni sensibili, può
cadere nell’empirismo o nell’utilitarismo, per cui l’imperativo
morale è tale in virtù della sua forma di legge, per la sua
razionalità, che chiede di essere rispettata in quanto valore
universale senza eccezioni. In altre parole non è morale ciò che
si fa ma l’intenzione con cui la si fa; (secondo la moralità
evangelica della buona volontà, della buona azione). La legge
morale non consiste nel comandare questa o quella cosa, ma
l’intenzione secondo cui è fatta. In questo senso il principio
della moralità è la forma e non il contenuto. Pertanto, la
moralità consiste nel modo in cui si fa ciò che si fa.
Stando così le cose, la formula più adeguata secondo Kant
è:
“Agisci in modo che la massima della tua volontà possa
valere sempre, al tempo stesso come principio di una
legislatura universale”.
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L’esistenza della legge morale, voluta dalla nostra
razionalità è dunque una proposizione determinata (mossa) a
priori oggettivamente, quindi non bisognosa di giustificazione o
prova, ma che si impone come un fatto della ragione, che si
realizza però solo nella situazione di essere liberi. La libertà
non è una acquisizione del dovere, ma al contrario, la coscienza
del dovere
Kant pensa che ogni azione che ci apprestiamo a compiere
debba essere sottoposta ad analisi e questa deve corrispondere
alla legge universale, cioè abbia la capacità di diventare legge
necessaria per tutto l’universo. Ebbene se il nostro giudizio,
posto di fronte a questo schema, è positivo vuol dire che essa è
conforme alla legge morale; altrimenti no. Elevando dunque
l’azione (soggettiva) al livello dell’universalità, sono in grado di
V I * Immanuel Kant
è una conquista dovuta alla coscienza della libertà. La
conseguenza è un fatto assolutamente unico e nuovo; il sentirsi
in dovere di…, da la misura di quanto sono libero.
La libertà è l’indipendenza della volontà dalla legge
naturale dei fenomeni, indipendentemente dai loro contenuti.
Essa è il carattere fondamentale del dovere come “fatto della
ragione”. E’ la condizione per rendere il dovere possibile (devi,
dunque puoi).
La volontà libera (indipendente) è in grado di determinare
da sé la propria legge e questo auto-determinarsi in senso
positivo è detto da Kant autonomia, il suo contrario è
l’eteronomia, cioè il far dipendere e determinare la volontà da
qualcos’altro che non sia lei. Come esempio di morale
eteronoma, si può pensare all’etica greca, perché basata sulla
ricerca della felicità la quale inquina la purezza dell’intenzione
in quanto ricerca fini materiali (ciò che si deve fare e non
sull’intenzione del fare). Per contro la morale evangelica non è
eudemonistica perché proclama la purezza del principio morale,
la purezza della volontà (dell’intenzione).
Per Kant il concetto di buono e cattivo non è determinato a
priori, prima della legge morale, ma è un effetto della legge
morale la quale pone e fa essere bene o male ciò che essa vuole,
secondo l’intenzione pura o la volontà pura.
Come ha risolto il problema del passaggio dal formalismo
teorico, all’agire concreto alla pratica? Come posso conoscere
se è bene o se è male l’azione che sto per compiere? Se è morale
e quindi oggettiva oppure no?
V I * Immanuel Kant
riconoscere se essa è un’azione morale oppure no. In altre
parole il concetto evangelico “non fare agli altri quello che non
vorresti fosse fatto a te”, è il termine di confronto per la tua
azione.
Un’azione, anche se fatta in conformità alla legge non basta
per essere morale, è semplicemente legale. Per essere morale la
volontà che sta alla base dell’azione, non deve subire o essere
mediata da una qualunque forma di sentimento. Qualsiasi
movente intervenga sulla volontà, che sia estraneo alla legge
morale provoca ipocrisia. L’uomo, come essere sensibile, non
può prescindere dal sentimento e dall’emozione ma questi, se
partecipano all’azione morale non possono che inquinarla, o
nella migliore delle ipotesi farla scadere al piano puramente
legale.
L’unico sentimento che Kant ammette è il rispetto, perché è
un sentimento suscitato dalla stessa legge morale, la quale
contrastando le inclinazioni e le passioni, si impone su di esse,
suscitando nella sensibilità dell’uomo appunto rispetto verso se
stessa. Contemporaneamente la legge morale, escludendo tutte
le inclinazioni e gli influssi sulla volontà, si palesa come
obbligatorietà ponendo il dovere al di sopra di tutto.
La dottrina del noumeno è una parte importante della
filosofia di Kant. Essa intende chiarire la differenza tra il
fenomeno, che è la parte del mondo sensibile, con il noumeno,
cioè il mondo intelligibile.
Dice Kant “ciò che è pensato sensibilmente, è la
rappresentazione delle cose come appaiono, ciò che è pensato
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intellettualmente è la rappresentazione delle cose come sono”.
Con questa definizione chiarisce in modo definitivo che la
conoscenza umana è chiusa entro i limiti dell’esperienza e che
questa non è riferibile ad altra realtà che il fenomeno. Fuori da
questa realtà è ciò che Kant ha definito come noumeno, cioè
essere intelligibile. Esso è un oggetto di pensiero che non ha la
corrispettiva intuizione, è un concetto problematico pensato
Questo mondo intelligibile che Kant non era riuscito a
conoscere e ad afferrare per mezzo della ragion pura, ma che
non di meno le era presente, risulta accessibile ora per via
pratica. Concetti come libertà, immortalità, Dio, da semplici
esigenze strutturali della ragione diventano postulati nella
Critica della Ragion Pratica. I postulati sono i “presupposti di
un punto di vista necessariamente pratico;.. e.. danno alle idee
V I * Immanuel Kant
Solo dall’intelletto, il quale non racchiude contraddizione e
che quindi
come tale lo possiamo pensare ma non
effettivamente conoscere. Il concetto di pensare, in quest’ottica,
è semplicemente la funzione logica del giudicare e va quindi
distinto in senso stretto dal conoscere, poiché l’oggetto viene
appunto pensato mediante la categoria, ma non è ancora dato
mediante l’intuito.
Il concetto di noumeno si può intendere in senso positivo o
negativo, ma il solo modo di comprenderlo per noi è in senso
negativo essendo la cosa pensata, quale essa è, senza la
relazione con la nostra maniera di intuire. Il noumeno è una
realtà ignota, una X, alla quale si attribuisce la funzione di
influire sulla sensibilità e di essere il substrato dei corpi
materiali empiricamente percepiti. Il noumeno sarebbe, da
questo punto di vista, la vera sostanza intima a noi sconosciuta
dei corpi materiali, in quanto questi sarebbero solo il fenomeno
che si manifesta a noi attraverso le sue rappresentazioni, per
mezzo della nostra sensibilità che è soggettiva. Risulta evidente
da queste considerazioni, che il noumeno non è soltanto una
possibilità logica, ma una realtà, una possibilità trascendentale,
anche se ignota e non somigliante al fenomeno. Il noumeno
diventa anche il concetto limite della sensibilità, senza perciò
porre nulla di positivo al di fuori del dominio di essa.
Il noumeno in senso positivo sarebbe invece l’oggetto di
una intuizione intellettiva la quale è assolutamente al di fuori
della nostra facoltà conoscitiva. L’intuizione intellettuale è
propria e solamente di un intelletto superiore a quello umano.
V I * Immanuel Kant
della ragione speculativa in generale, una realtà oggettiva”.
Questi sono necessari per poter dar ragione della legge morale e
poiché questa è un fatto innegabile, anche la realtà di quelli è
altrettanto innegabile.
Il primo dei postulati riguarda la condizione della libertà e
dell’imperativo che da essa ne discende, per il quale coinvolge
qualcosa che va oltre il mondo dei fenomeni. Ora se è vero che
il concetto di causalità è teoricamente impossibile da applicare
al mondo noumenico, è però possibile la sua applicazione in
campo morale cioè alla volontà pura e concepire quest’ultima
come causa libera. L’uomo si scopre così appartenere a due
mondi; come fenomeno si riconosce determinato e soggetto alla
causalità meccanica; in virtù della legge morale si scopre come
essere intelligibile e libero. In una tale situazione non è
preclusa ad una azione prodotta da una causa libera, quindi
noumenica, comportarsi secondo le leggi della necessità in
dimensione fenomenica.
L’altro postulato riguarda l’esistenza di Dio. La virtù come
esercizio e attuazione del dovere è bene supremo, tuttavia non è
ancora il bene nella sua interezza e compiutezza dato che questa
è mancante della felicità. È’ la felicità che conferisce alla virtù il
bene sommo. Se la virtù rende degni di felicità questa di per sé
non sempre viene generata, ed essere degni di felicità e non
essere felici è un assurdo. Da questo assurdo si esce solo
ammettendo (postulando) un mondo intellegibile prodotto
soltanto da una volontà santa ed onnipotente, cioè di Dio che
adegui ai meriti e al grado della virtù la felicità. La legge morale
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48
comanda la virtù, ciò mi rende degno di felicità, per questo
rappresento (postulo) l’esistenza di un Dio che faccia
corrispondere la felicità al merito, anche se in altro modo. Il
postulato come bisogno della ragion pratica, è una fede e
precisamente una fede razionale.
Per l’immortalità dell’anima, Kant formula questo
postulato. L’imperativo categorico comanda la “perfetta
La critica della Ragion pratica si è occupata di legislazione
della libertà ma sviluppata nel campo pratico. Pertanto questo
dominio ha rappresentato i propri oggetti come questi sono in sé
(sopra-sensibili), senza poterli teoricamente conoscere. Alle
cose in sé e ai noumeni si può dare solo una realtà pratica.
In questa condizione la spaccatura tra fenomeno e noumeno
è evidente ed appare inconciliabile. Kant con la Critica del
V I * Immanuel Kant
adeguatezza della volontà alla legge morale” ma questa è la
santità, cioè la conformità completa della volontà alla legge.
Ora siccome nessuno in questo mondo la può attuare “ essa
potrà trovarsi solo in un processo all’infinito che si avvicini
pienamente a quella adeguatezza completa”. Tale “progresso
infinito è possibile solo presupponendo un’esistenza e una
personalità dell’essere ragionevole stesso perduranti all’infinito:
e ciò prende il nome di immortalità dell’anima”. L’immortalità
è un postulato della ragion pratica, una proposizione teoretica,
quindi non dimostrabile, ma legata inseparabilmente ad una
legge pratica, che vale incondizionatamente a priori.
Per Kant l’immortalità e l’altra vita sono un approssimarsi
sempre più alla santità un continuo accrescimento di questa
dimensione. Con La Ragion Pratica ha dunque riempito quelle
esigenze della ragion pura che erano le idee e ha dato loro una
realtà morale. In nessun caso la ragion pura risulta sovrapposta
o anteposta all’interesse della ragion pratica, anzi, è questa che
da alla prima il giusto significato “solo condizionatamente e
nell’uso pratico”.
Per riassumere in poche righe i concetti di queste pagine si
può dire che la Ragion pura si è occupata della facoltà teoretica
e dell’aspetto conoscitivo della ragione umana, dominata dalla
sfera dei fenomeni e da48ll’esperienza reale e possibile. E’
l’intelletto umano che impone la legge ai fenomeni, e questi
regolati dall’intelletto, costituiscono la natura caratterizzata
dalla causalità meccanica e dalla necessità impressa
dall’intelletto.
V I * Immanuel Kant
Giudizio si propone di ricercare una mediazione tra i due
mondi e recuperare per quanto possibile l’unità, anche se questa
non potrà avere un carattere “conoscitivo” e “teoretico”.
Questo fondamento che si trova in una posizione intermedia
tra l’intelletto e la ragione, Kant lo individua nella facoltà di
Giudizio. Secondo Kant il Giudizio è la facoltà di pensare il
particolare come contenuto nell’universale. Il giudizio è la
capacità di osservazione, di riflessione degli oggetti, dei quali
oggettivamente ci manca del tutto una legge. Questo principio
universale della riflessione consiste in ultima analisi, nell’Idea
di finalità.
L’uomo deve realizzare la propria libertà nella natura, per
cui ha bisogno che la natura stessa sia in accordo con la sua
libertà e in qualche modo la renda possibile con le sue stesse
leggi, proprio per non contravvenire al suo meccanismo. Questo
accordo può solo risultare da una riflessione sugli oggetti
naturali che sono già come tali determinati dai principi
dell’intelletto. Tale accordo può essere appreso immediatamente
senza il tramite di un concetto e allora è un giudizio estetico,
oppure alla luce di uno scopo e di un fine ed allora sarà un
giudizio teologico. Queste sono le due forme di giudizio in cui
si realizza il giudizio riflettente, cioè l’espressione dell’accordo
con la natura e la libertà.
Nel primo caso quello estetico, è un giudizio soggettivo, ha
per oggetto il piacere del bello e la facoltà con cui si giudica tale
piacere è il gusto. Il gusto è pertanto la facoltà di giudicare un
oggetto o una rappresentazione commisurato al nostro
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sentimento di piacere o dispiacere e che noi attribuiamo agli
oggetti
stessi.
L’oggetto
che
procura
piacere
disinteressatamente si dice bello, anche se l’immagine del
medesimo riferita al sentimento del piacere non dà alcuna
conoscenza, né chiara né confusa, all’oggetto stesso. Il
sentimento del bello, pur nella sua natura soggettiva non esclude
l’universalità, la quale però non ha validità oggettiva propria
considerarla organizzata in modo finalistico, “dato che in noi
c’è una tendenza irrefrenabile a considerarla in questo modo”; e
questo fine ultimo della natura (della creazione) non può non
essere l’uomo quale soggetto morale, mancando il quale, cioè in
assenza di un essere ragionevole, l’intera creazione sarebbe un
inutile deserto. Questa considerazione teologica, pur
nell’impossibilità di venire utilizzata teoricamente come sapere
V I * Immanuel Kant
della conoscenza intellettuale ma nella comunicabilità, cioè
nella possibilità di essere condiviso da tutti gli uomini. Kant
definisce il bello come “ciò che piace universalmente senza
concetto”. Il piacere del bello è universale nel senso che vale
per ogni soggetto commisurato al sentimenti di ognuno.
Affine al bello, perché anch’esso piace per sé stesso e
presuppone analogamente un giudizio di riflessione, è il
sublime.
Il sentimento del sublime è nell’uomo stesso e non nelle
cose, non ha limitazione quindi non è compreso dalla forma, è
caratterizzato dall’immensamente grande e dall’immensamente
potente, predispone l’animo alla commozione e può produrre un
sentimento di dispiacere. Il sublime provoca nell’uomo due tipi
di sentimenti: il primo di estrema piccolezza e vulnerabilità,
schiacciato dalla potenza della natura e dall’immensità che lo
circonda, dall’altro, pur conscio della sua fragilità, si scopre
essere superiore a quell’immensamente grande e potente di
carattere fisico della natura, in quanto reca in sé le Idee della
ragione che sono le Idee della totalità assoluta, le quali
sovrastano ciò che può sembrare di gran lunga più forte.
Proseguendo con l’altra forma di giudizio riflettente, quello
teologico, esso è la forma oggettiva del giudizio e ha per
oggetto la finalità della natura che esprime l’accordo stesso
della natura con le esigenze della libertà, cioè della vita morale
dell’uomo.
Noi non sappiamo come sia in sé la natura avendone
conoscenza solo fenomenica, tuttavia, non possiamo non
V I * Immanuel Kant
oggettivo, consente di dimostrare come gli scopi che si
propone l’uomo come soggetto morale, sono gli stessi della
natura in cui vive. E’ in questo senso che la teologia rende
possibile una prova morale dell’esistenza di Dio. La moralità,
essendo fondata unicamente sulla ragione è possibile anche
senza la fede in Dio, ma questa, garantisce altresì la possibilità
della sua realizzazione nel mondo.
Termino ricordando una frase che ritengo riassuntiva di
tutta l’opera di Kant e dello spirito della sua filosofia “ Amici
dell’umanità…. accettate pure ciò che vi sembra più degno di
fede dopo un esame attento e sincero, sia che si tratti di fatti, sia
che si tratti di principi razionali; ma non contestate alla ragione
ciò che fa di essa il bene più alto sulla terra: il privilegio di
essere l’ultima pietra di paragone della verità”.
Non so quanto e come e se sono riuscito a comprendere
Kant, di certo, lo confesso, parecchie volte ho pensato di non
farcela e abbandonare.
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Sommario
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proseguita dai suoi successori i quali seppero influenzare un
idealismo assolutista di stampo nazionale che ebbe grande peso
presso quei popoli. Già in precedenza tra il 1770 e l’80 un
movimento culturale denominato Sturm und Drang che significa
“tempesta e impeto” o “impeto tempestoso” o anche “tempesta
di sentimenti” si era imposto in Germania con la prerogativa di
superare definitivamente l’Illuminismo. Questo movimento
VII * Il Diciannovesimo Secolo
VII
Il Diciannovesimo secolo
Siamo alla fine del periodo del terrore e la vita intellettuale
del nuovo secolo si preannuncia con nuovi cambiamenti.
L’Illuminismo volterriano della ragione è stato offuscato dal
neoromanticismo passionale di Rousseau trionfante sulle
barricate parigine con le tragiche conseguenze che sono seguite.
Tutta la cultura europea, al seguito delle conquiste di
Napoleone sembra abbracciare la nuova filosofia del
romanticismo. La Germania e la Russia entrano a far parte delle
nazioni che producono cultura come lo erano già Francia e
Inghilterra e in modo inferiore l’Italia. Anche le scienze con le
nuove conquiste in campo biologico, geologico, chimico e la
produzione di macchine, con l’inizio dell’era industriale,
diedero un grande contributo al cambiamento della nuova classe
dirigente. Il profondo rivolgimento filosofico e politico, che la
rivoluzione aveva promosso contro i sistemi tradizionali del
pensiero dell’economia e della politica, diede luogo ad attacchi
alle molte convinzioni e istituzioni fino ad allora ritenute
inattaccabili. Questo rivolgimento prese in campo intellettuale e
filosofico due direzioni ben distinte: una romantica con Byron,
Schopenhauer, Nietzsche e altri, la seconda più razionalista,
con i filosofi della rivoluzione francese, in parte con i radicali
inglesi per poi affermarsi con Marx.
Un altro aspetto importante e nuovo di quel periodo è il
predominio intellettuale della Germania iniziata con Kant, e
aveva come precetti, tra gli altri: “l’esaltazione del natura
come forza creatrice di vita. Alla concezione deistica propria
dell’Illuminismo si contrapponeva il panteismo sostenuto da
personaggi della cultura come Goethe o Reinhold Lenz. Il
sentimento patrio si manifestava nell’odio verso il tiranno e
nell’esaltazione della libertà. Vengono esaltati e molto
apprezzati i sentimenti forti e le passioni impetuose”.
Lo Sturm und Drang avrebbe avuto scarsa fortuna, se non
fosse stato influenzato da figure della cultura di grande
risonanza come Schiller, i filosofi Jacobi ed Herder, alcuni poeti
inglesi come James Macpherson, e lo stesso Goethe che assunse
un ruolo da protagonista soprattutto all’inizio.
Alcuni studiosi hanno paragonato questo movimento ad una
specie di rivoluzione anticipata per la Germania, o ad una
reazione anticipata alle conseguenze che l’Illuminismo avrebbe
causato in Francia. Si è trattato comunque di una riscossa dello
spirito tedesco che dopo secoli di torpore riemergeva con
atteggiamenti peculiari dell’animo germanico, preludio in ogni
caso al romanticismo.
Fino ad allora la Germania era praticamente emarginata dal
contesto europeo imperante, a causa della frammentazione
interna che la esponeva alla mercé dell’esercito francese.
L’unico Stato che seppe resistere alla colonizzazione fu la
Prussia, ma anch’essa dovette capitolare contro Napoleone,
subendo una severa sconfitta nella battaglia di Jena.
Con la rinascita di questo Stato ad opera di Bismarck parve
affacciarsi il ritorno del grande passato di Alarico e del
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54
Barbarossa. Questa parte orientale della Germania benché fosse
predominante politicamente, era rimasta culturalmente relegata
ad una situazione di poco superiore al medio evo, mentre la
parte occidentale, essendo stata fino al XVII secolo sottoposta
alla Francia, ebbe la possibilità di usufruire delle istituzioni
liberali ed assimilare i nuovi fermenti culturali, quindi si
presentava culturalmente più avanzata.
grandi filosofi Greci, da Platone a Eraclito, ad Aristotele, ecc..
E’ proprio dall’impatto di tale rinnovato ordine e misura che,
intelligentemente accostato e fuso allo Sturm, nascerà il
momento propriamente romantico.
All’inizio il termine “romanticismo” voleva indicare il
rinascere dell’istinto e dell’emozione che il prevalente
razionalismo Illuminista del XVIII secolo non era riuscito a
VII * Il Diciannovesimo Secolo
Questo spiega come molti illustri tedeschi Goethe
compreso, e molti principi (che sentivano vacillare il loro
potere), fossero oppositori dell’unità tedesca che si andava
prefigurando e non si dispiacquero della vittoria di Napoleone a
Jena che si mostrava ai loro occhi come missionario di una
cultura superiore alla prussiana con la quale si identificava la
parte protestante della Germania.
L’importanza dello Sturm è stata l’aver attirato e riunito
attorno a sé, anche se in modo caotico e disordinato,
l’espressione spirituale collettiva di un intero popolo. Bismarck
era finalmente riuscito a far accettare l’unificazione della
nazione tedesca sotto la guida della Prussia. La letteratura,
l’arte, ma principalmente la filosofia, quest’ultima soprattutto
con Fichte e Hegel, furono impegnati a fondo per aprire la
strada all’identificazione patriottica germanica.
Col tempo anche lo Sturm und Drang subì una correzione
nelle sue manifestazioni più scomposte e disordinate, in seguito
ad un ripensamento intorno all’idea del classico, inteso come
rivisitazione in chiave nuova e attuale dei motivi, delle opere e
delle idee, che resero grande e inarrivabile la “Classicità” greca.
Questo neoclassicismo romantico, formatosi organicamente
nello spirito e dallo spirito della cultura tedesca, era ispirato e
sorretto da una miracolosa e misteriosa rinascita dei valori più
alti dell’antichità, non ripetendo ma rinnovando tali valori.
Con il recuperato spirito di rinnovamento del classico,
nell’arte come nella letteratura, è stato restituito slancio alla
filosofia e ridato ai suoi operatori un nuovo interesse verso i
VII * Il Diciannovesimo Secolo
sopprimere interamente. Oggi si identifica in un
atteggiamento o stato d’animo che si riassume nella parola
“Struggimento” e consiste nella condizione di dissidio e di
lacerazione del sentimento che non si sente mai appagato pur
continuando a ricercare una meta che per’altro non conosce e
non potrà conoscere. Per il romantico la Natura assume
un’importanza fondamentale, che escludendo completamente la
concezione illuministica- meccanicistica, è intesa come eterna
creatrice di vita, dove la morte è soltanto un trucco per poter
avere più vita. Strettamente connesso con la natura è la sete di
infinito del romantico che esprime questa tendenza come un
perenne “tendere”, una tensione che non ha mai posa, essendo le
esperienze umane tutte limitate in quanto il loro oggetto è
sempre finito e per questo motivo vanno trascese. I romantici
nutrono un forte anelito verso la libertà, come lievito della
coscienza e parola di Dio. Fichte farà della libertà il fulcro del
suo sistema, mentre per Hegel la libertà è l’essenza dello
Spirito. Come si può constatare la religione in genere viene
rivalutata dalla condizione che l’Illuminismo l’aveva ridotta.
Naturalmente è quella cristiana, anche se intesa nei diversi
modi, la religione considerata per eccellenza intesa per lo più
come rapporto dell’uomo con l’Infinito e l’Eterno.
Per ciò che riguarda il romanticismo filosofico, Benedetto
Croce, in disaccordo con parecchi studiosi, scrive in termini
elogiativi di questa filosofia, che dando risalto all’intuizione,
alla poesia, all’arte, alla fantasia e in ultima analisi alla
genialità umana, si contrappone a quei sistemi che sembrano
55
riconoscere la verità solo attraverso la fredda ragione.
Ponendosi in contrasto con l’intellettualismo kantiano e
cartesiano del secolo XVIII, fa indirettamente un’apologia a
tutta la filosofia romantica maturata con l’idealismo.
Abbiamo potuto vedere, anche se solo di sfuggita, come il
movimento romantico oltre ad essere una corrente filosofica e
letteraria, ha coinvolto altresì le arti figurative e la musica,
56
libro “Sulla Germania” e in Giovanni Berchet “Lettera
semiseria di Grisostomo” del 1816 che segna la nascita del
romanticismo italiano.
Sommario
VII * Il Diciannovesimo Secolo
influenzando non poco la politica nel momento storico post
rivoluzionario dalla fine Settecento fino alla prima metà
dell’Ottocento.
Le prime anticipazioni del movimento si manifestarono in
Inghilterra e poi man mano si propagarono per tutta Europa,
assumendo caratteristiche peculiari diverse nelle varie nazioni.
Ma è in Germania, che il movimento acquista enorme
importanza, e consegue quella specifica e forte impronta propria
dell’animo e del sentire tedesco.
Jena (la città che vide la sconfitta dell’esercito prussiano) è
la città in cui si costituì il primo e più famoso Circolo dei
romantici. Da qui poi, causa contrasti, alcuni tra i soci si
trasferirono a Berlino fondando un nuovo circolo iniziando
anche la pubblicazione della prima rivista del movimento
“Athenaeum” la quale ebbe notevole successo anche se di breve
durata. Il circolo degli Schlegel aveva pronunciato la parola
magica che esprimeva il sentire spirituale della nuova epoca.
Tutta l’Europa di quell’inizio di secolo venne conquistata dalle
istanze spirituali del romanticismo, quali la rivalutazione del
sentimento e della fede, l’amore per la storia e in particolare per
il medioevo, l’esaltazione per gli aspetti magici e mistici della
vita, la libera espressione della creatività soggettiva con
l’adozione di forme aperte e frammentarie, liriche ecc.. Merito
principale di ciò è stata l’opera di divulgazione svolta da
intellettuali e filosofi tedeschi nelle maggiori città germaniche
ed europee. Anche in Francia e in Italia più tardi il verbo del
romanticismo ebbe i suoi seguaci in Madame de Stael con il
VIII
Johann Gottlieb Fichte
Johann Fichte nacque a Rammenau nel 1762 da genitori
molto poveri, di origine contadina. Ebbe una giovinezza
poverissima si direbbe di miseria, ma di questa condizione non
ebbe mai vergogna anzi in più occasioni dichiarò di esserne
fiero e orgoglioso. Un ricco cittadino né intuì le grandi capacità
già da giovanissimo e lo indirizzò agli studi. Frequentò il
ginnasio a Pforta, poi si iscrisse alla facoltà di teologia a Jena e
poi a Lipsia. Quando i contributi del suo protettore finirono
dovette arrangiarsi a procurarsi il denaro dando lezioni private
come precettore. Si interessò a Spinoza e Montesquieu ma
quando incontrò (non di persona) Kant, ebbe un’autentica
folgorazione.
La sua prima opera, fu un “Saggio sulla critica di ogni
rivelazione” e la presentò a Kant stesso, il quale la fece
pubblicare nel 1792 suscitando un discreto interesse, perché
venne scambiato per un lavoro dello stesso Kant, ma quando
l’equivoco fu chiarito il nome di Fichte divenne
improvvisamente celebre e fu invitato all’università di Jena
come successore di Reinhold, dove rimase fino al 1799. In
quell’anno scoppiò una vivace polemica sull’ateismo, e Fichte si
trovò nel bel mezzo, fino a degenerare andando a scontrarsi con
le autorità politiche, tanto che alla fine fu costretto a rassegnare
le dimissioni.
57
Si trasferì a Berlino dando lezioni private, incontrando
alcuni intellettuali del movimento “romantico”. Insegnò
all’università di Erlangen che dovette lasciare perché la città fu
perduta dalla Prussia. Si impegnò culturalmente e politicamente
con i “Discorsi alla nazione tedesca” in cui sostiene la tesi che
la nazione germanica si deve risollevare e superare la sconfitta
politico–militare attraverso un nuovo rilancio morale e
culturale, nel quale si riaffermi il primato spirituale del popolo
XIII * Johann Gottlieb Fichte
tedesco. Quando nel 1810 venne fondata l’università a
Berlino venne chiamato a insegnare e fu anche eletto rettore.
Tra le opere più importanti ricordiamo “Fondamenti della
dottrina della scienza”, “Fondamenti del diritto naturale”,
“Sistema della morale”, “La missione dell’uomo”, “Tratti
fondamentali dell’epoca presente”, “Lo Stato commerciale
chiuso” ed altri. Della “Dottrina della scienza” sulla quale
lavorò praticamente per tutta la vita con numerosi rifacimenti, i
romantici trovarono una risposta fondamentale alle loro istanze,
tanto che Schlegel disse che rappresentava una delle tre direttive
principali del secolo assieme a Goethe e alla rivoluzione
francese.
Johann Fichte morì nel 1814 di colera, contagiato dalla
moglie, che prestava la sua opera di infermiera curando i soldati
negli ospedali militari dove si era propagata l’infezione.
Dopo l’incontro folgorante con il pensiero kantiano; “pur
essendo immerso in una situazione economica precaria, sto
vivendo i giorni più felici che mi ricordi di aver vissuto”, questa
è l’espressione usata da Fichte per illustrare la sua condizione
emotiva, si immerge con entusiasmo nello studio delle opere del
maestro, allo scopo di trovare quel principio unificatore che sta
alla base di tutta la filosofia e che, a suo giudizio, Kant non
aveva rivelato nei principi ma solo indicato nel risultato.
“Kant possiede la vera filosofia, ma solo nei risultati, non
nei suoi principi”, dunque Kant ha fornito e predisposto la
58
condizione per costruire il sistema, ma non lo ha costruito.
Questo è quanto Fichte si propone , cioè costruire il sistema che
sappia trasformare la filosofia in una rigorosa scienza la quale
scaturisca da un unico principio supremo.
Il principio della filosofia fichtiana è: L’io pone se stesso.
Con questo modo di impostare la filosofia, ponendo cioè l’Io
come principio primo dal quale dedurne la realtà, che lui
ritiene in pratica essere la stessa di Kant presentata in modo
XIII * Johann Gottlieb Fichte
diverso, Fichte crea l’idealismo.
La filosofia di Kant pone come principio incondizionato
quello dell’identità A=A. Questo principio però è solo formale
perché si pone solo presupponendo l’esistenza di A, solo allora
A=A. In questo legame logico, di indispensabile c’è:
“se….allora”, quindi oltre al legame A=A si riconosce anche la
A, e questa viene creata contemporaneamente dall’Io (e non da
altri) nello stesso momento in cui si pone il legame A=A, il
quale, risultando posto quindi non originario, non può essere il
principio primo. Questo non può che essere l’Io stesso il quale,
non essendo posto da nessun altro, si auto-pone. Se l’Io è
condizione prima di se stesso, allora costruisce se stesso, è
posizione di se stesso, in definitiva è auto-creazione.
La metafisica classica sosteneva che l’azione consegue
all’essere delle cose, cioè una cosa per agire prima deve essere,
l’essere è la condizione dell’agire. La nuova posizione
idealistica rovescia esattamente questo principio affermando che
l’azione precede l’essere, l’essere è una conseguenza
dell’azione. Fichte diceva chiaramente che l’essere non è un
concetto originario ma derivato, dedotto, prodotto, dall’agire.
L’Io di Fichte è l’Io puro, esattamente auto-intuizione, nel senso
di auto-posizione, che si pone da sé, l’Io come condizione
incondizionata, che è un atto, un’attività originaria. Questo Io,
questa Intelligenza di Fichte, non è quella del singolo uomo
empirico, ma diventa l’Io assoluto.
59
60
A questo primo principio dell’Io autoponentesi “soggetto”,
Fichte ne contrappone un secondo di opposizione il non-io. Il
non io è tutto il resto che non è Io, che non si pone con l’Io e
non ponendosi è staticità, inazione, da esso non ne può
scaturisce nulla, quindi è “oggetto”, materia, natura, dato che
l’Io ponendosi è dinamismo, auto creazione. Risulta evidente
che questo non io non è al di fuori dell’Io, non è un qualcosa di
staccato, ma si trova all’interno di esso, giacché nulla è
pensabile al di fuori dell’Io. Per questo l’Io illimitato oppone a
infinito. La vera perfezione è un infinito tendere alla perfezione
come progressivo superamento della limitazione.
Dio non è una sostanza o realtà a sé stante, ma è l’ordine
morale del mondo, è il dover essere, quindi è Idea. La vera
religione consiste nell’azione morale. Il finito (l’uomo) è
momento necessario e strutturale di Dio (come Idea che si
realizza all’infinito).
L’Io è il vero principio di tutto. Il non-io agisce su di esso
solo come resistenza stimolando l’Io all’azione.
XIII * Johann Gottlieb Fichte
Sé un non io illimitato ma questa opposizione non è tale
che l’Io elimini il non io e viceversa, ma l’uno per l’altro ne
sono il limite. Risulta evidente che a determinare la produzione
di non-io compete all’Io, il quale ne determina la propria
limitazione. Questo concetto è espresso da Fichte con il termine
“divisibile”.
Volendo qui sintetizzare con una formula che può
sembrare un giochetto di parole o uno scioglilingua si può dire:
“l’Io oppone, nell’Io, all’Io divisibile un non-io divisibile”.
Da questi concetti base Fichte ne trae tre categorie di
qualità;
1) Affermazione (Io pone se stesso)
2) Negazione (l’Io oppone a se il non-io)
3) Limitazione (l’Io limite di produzione del non-io)
La contrapposizione di Io e di non-io e la reciproca
limitazione spiegano sia l’attività conoscitiva sia quella morale.
Mentre
nell’attività
teoretico-conoscitiva
l’oggetto
determina il soggetto, nell’attività pratico-morale è il soggetto
che determina e modifica l’oggetto. Il non- io diventa in tal
modo lo strumento mediante cui l’Io si realizza moralmente, e
momento necessario per la realizzazione della libertà dell’Io. La
libertà è farsi libero e farsi libero significa allontanare
incessantemente i limiti opposti dal non io all’io empirico.
Rimuovere completamente il non- io diventa solo un concetto
limite, per cui la libertà resta strutturalmente un compito
XIII * Johann Gottlieb Fichte
Fiche identifica l’azione con l’Io e l’inattività o l’inerzia
come il peggiore dei mali dai quali derivano tutti gli altri vizi
peggiori, infatti l’uomo moralmente inattivo è la negazione
dell’essenza e del destino dell’uomo stesso, rimanendo a livello
di cosa, di natura, quindi in un certo senso di non-io.
Proprio per diventare pienamente uomini, ciascuno ha
bisogno degli altri uomini, e questo si realizza solo se esistono
più uomini. Questa molteplicità implica il sorgere di una
molteplicità di idee e quindi un conflitto fra i sostenitori di idee
differenti, dal quale ne esce sempre vincitore il migliore, il
“dotto”, che secondo Fichte ha una duplice missione,
impegnarsi a far progredire il sapere, ma essere anche un
esempio morale, con la sua attività, nella promozione del
progresso per l’umanità. L’ordine morale del mondo è Dio
stesso per cui, non può non prevalere colui che è moralmente il
migliore.
La comunità così delineata, formata da esseri liberi accanto
ad altri uomini liberi, ha la necessità di regolare e adeguare la
libertà di ognuno con l’esigenza comune. Nasce così il “diritto”,
che per ogni uomo diventa fondamentale quello alla libertà e
come secondo il diritto alla proprietà.
Per Fichte lo Stato, nato come contratto sociale da un
consenso della volontà degli individui, è ispirato, almeno in un
primo momento, agli ideali socialisteggianti della rivoluzione
francese, ma gli eventi storici che seguirono con l’avvento di
61
62
Napoleone al potere in Europa lo persuasero che solo dal popolo
tedesco, politicamente riunito ed economicamente rinfrancato,
poteva venire la spinta per il compimento della missione di
progresso civile dell’umanità.
Questa superiorità del popolo tedesco posto a guida della
civiltà moderna, ha dato origine a parecchie strumentalizzazioni,
che ne hanno dato un significato distorto e del tutto diverso dal
significato originario, inteso ad attribuire orgogliosamente a se
stessa un primato morale e civile quale nazione risorgente.
Sommario
XIII * Johann Gottlieb Fichte
IX
Rimane tuttavia il fatto che “I Discorsi alla nazione
tedesca”, ha offerto larghi spunti all’ideologia del
pangermanesimo.
Friedrich Joseph Schelling
Schelling, fu educato agli studi classici e biblici dal padre
pastore protestante nella città di Leonberg. All’età di quindici
anni si iscrisse al seminario teologico di Tubinga, dove strinse
amicizia con Hegel, verso il quale ebbe grande influenza.
Proseguì gli studi di scienze naturali e matematica a Lipsia
e a Dresda, ed appena ventitreenne divenne coadiutore di Fichte
all’università di Jena e nel 1799 con le sue dimissioni per le
note polemiche sull’ateismo ne prese il posto come successore.
L’anno successivo usciva la sua opera che più di ogni altra le
darà fama “Sistema dell’idealismo trascendentale”, destinata ad
imporlo come punto di riferimento per il movimento romantico.
Sono gli anni in cui ebbe contatti con tutti i circoli romantici.
Nel 1803 insegnò all’università di Wurzburg, nel 806 venne
chiamato all’Accademia delle scienze di Monaco, nel 1841 fu
chiamato da Federico di Prussia all’università di Berlino, nel
’47 interruppe i suoi corsi e morì quasi dimenticato in Svizzera
nel 1854.
La parabola evolutiva del pensiero di Schelling e la
produzione di scritti e opere è talmente vasta che rendono
problematica una classificazione del suo svolgimento.
Agli inizi fu certamente un estimatore di Fichte, poi si
entusiasmò per la filosofia della natura, l’idealismo
63
trascendentale, la filosofia dell’identità, la filosofia della libertà,
e la filosofia della religione che lo impegnarono per gli ultimi
tempi della sua esistenza.
A partire dal 1797, Schelling si appresta a rivalutare la
natura, che il sistema fichtiano aveva praticamente ridotto al
puro non-io facendole perdere qualunque identità fino ad
annullarla. Ciò facendo veniva messa in crisi la Dottrina della
scienza dando vita ad una nuova prospettazione e formulazione
dell’idealismo.
IX * Friedrich Joseph Schelling
Che cos’è la natura, si domanda, se non è puro non-io?
La risposta che si è dato è stata; la Natura è il prodotto di una
intelligenza inconscia, che opera all’interno di essa, che si
sviluppa teleologicamente (fini ultimi) per gradi, a livelli
successivi mostrando una strutturale finalizzazione. La natura è
lo Spirito visibile mentre lo Spirito è la Natura invisibile. “Il
sistema della natura è insieme il sistema del nostro spirito”.
Schelling quindi, per spiegare la Natura usa gli stessi principi
che Fichte aveva usato con successo per illustrare lo spirito cioè
la stessa Intelligenza che spiega l’essenza dell’Io. Dunque se, tra
la Natura fuori di noi e lo Spirito dentro di noi vi è una assoluta
unità, il problema che si pone è: come possibile che esista una
Natura fuori di noi? La sua risposta è che la Natura, non è altro
se non “una intelligenza irrigidita in un essere”, sono
“sensazioni spente in un non essere” è “arte produttrice di idee
che oggettiva in corpi”. Per meglio chiarire il concetto
schellinghiano di natura trascrivo quanto dice in proposito
Nicolai Hartmann:
“Nella Natura v’è un’organizzazione generale, questa
organizzazione non è pensabile senza una forza produttiva. Tale
forza a sua volta abbisogna del principio organizzativo, il quale
non può essere un cieco principio reale, ma deve avere prodotto
agendo finalisticamente, la finalità ha un fine, contenuta nelle
sue creazioni. Si tratta dunque soltanto di un principio
spirituale, di uno spirito al di fuori del nostro spirito, il quale è
64
capace di ciò. Poiché però non ci è lecito ammettere una
coscienza al di fuori dell’Io, lo spirito che opera nella natura
deve essere uno spirito inconscio. Nella “Dottrina della
scienza”, Fichte faceva sorgere la natura in modo puramente
idealistico dalla immaginazione produttiva dell’Io, da una forza
che opera in modo irriflesso e perciò privo di coscienza.
Schelling mantiene fermo questo operare privo di
coscienza, ma lo trasferisce nella realtà oggettiva, dal momento
che il principio che vi opera spiritualmente non è per lui l’Io, ma
IX * Friedrich Joseph Schelling
viene a trovarsi al di fuori di esso. Si tratta di un principio
del reale ch’è esterno alla coscienza, e in tal misura la filosofia
della natura rapportata alla Dottrina della scienza, è
assolutamente realistica; si tratta tuttavia di un principio
spirituale e in tal modo anche di un principio ideale. E’
contemporaneamente “ideale e reale” e il punto di vista basato
su di esso si può chiamare con un certo diritto real-idealismo”.
Spirito e Natura, abbiamo visto derivano da un medesimo
principio, per cui si riscontra quella stessa dinamica di una forza
che si espande e di un limite che le si contrappone che troviamo
già nell’Io fichtiano, ma qui l’opposizione all’espansione non
arresta se non momentaneamente la sua forza, per poi riprendere
presto il suo corso, per poi arrestarsi ad un ulteriore limite e cosi
via di seguito.
Ogni fase costituita da tali forze contrapposte
corrispondono a un grado di livello della natura che procedendo
si presenta sempre più ricco dando luogo a quello che appare
come “meccanicismo universale” in un generale “processo
dinamico”. Il primo incontro tra le contrapposte forze, da luogo
alla materia che è quindi un prodotto dinamico di forze.
Continuando l’ulteriore incontro con la forza infinita positiva
con la forza limitatrice negativa, per gradi si giunge all’uomo
che è posto al grado più alto nel quale si accende la coscienza e
l’intelligenza raggiunge la consapevolezza.
Sommario
65
Questa ipotesi ci riporta all’antico concetto di anima del
mondo che Schelling usa per spiegare “l’organismo universale”.
Questa antica figura teoretica non è altro che l’intelligenza
inconscia che produce e regge la Natura e che solo con la
nascita dell’uomo si apre alla coscienza.
Dopo aver chiarito come la natura sia arrivata per gradi
all’intelligenza, Schelling, tenendo presenti le nuove
acquisizioni e quanto detto da Fichte e Kant sulla filosofia dello
Spirito, sentì la necessità di ripensare a come l’intelligenza
arrivi alla natura. Ebbe così l’idea di scrivere “il Sistema
66
al continuo sorpassarsi, lasciando alle spalle il prodotto della
propria creazione, per ricercarne uno sempre nuovo.
Il Sistema dell’idealismo trascendentale, rimane la sua
opera più compiuta, le cui maggiori novità sono racchiuse in un
trentina di pagine, mentre per il resto sono concetti già esposti
dai predecessori anche se espresse in modo migliore. Tuttavia
quest’opera è il simbolo e l’espressione del suo tempo e insieme
ad alcuni scritti di filosofia della natura, ne rivela il meglio di
sé.
Fu Hegel il suo successore che dal 1818 in poi raccolse la
sua eredità polarizzando su di sé l’attenzione di tutti.
IX * Friedrich Joseph Schelling
dell’idealismo trascendentale”, che si può riassumere così:
l’Io è attività intellettuale autoponentesi all’infinito
“Attività reale”, che per divenire anche prodotto, deve porre dei
limiti al proprio produrre quindi deve opporre a se qualche cosa
“attività ideale”, ma questa, per la medesima attività infinita
dell’Io viene di nuovo superata sempre ad un livello superiore.
Le due attività si presuppongono a vicenda, e il meccanismo
dell’Io deriva proprio dal nesso dinamico-relazionale delle due
attività. In questo modo l’orizzonte dell’idealismo soggettivo
fichtiano si allarga diventando propriamente un ideal-realismo.
Questa attività ad un tempo conscia e inconscia, che come
tale si trova presente sia nella Natura come nello Spirito, è
“l’attività estetica”, la quale genera tutte le cose, i prodotti
dello Spirito come quelli della Natura. E’ nella creazione
artistica che si fondono il conscio e l‘inconscio e dove il
prodotto artistico finito mantiene altresì una significazione
universale infinita. “l’Arte diviene l’unica ed eterna
rivelazione”. E’ questo “l’idealismo estetico” che tanta
impressione e tanti entusiasmi suscitò fra i contemporanei, ma
che come tutti i sogni per quanto grandi, durò solo per breve
tempo.
Schelling è stato il pensatore che meglio di tutti ha dato
voce alle inquietudini romantiche, a quel tendere senza posa,
X
Wolfgang von Goethe
Johann Wolfgang Goethe nacque a Francoforte nel 1749, è
considerato il maggior pensatore e poeta tedesco. Egli riunisce
in sé tutto il travaglio e le aspirazioni di un’intera epoca. Il suo
genio multiforme si è espresso nel campo della riflessione
filosofica e della ricerca scientifica. Il Goethe giovanile aderì al
movimento dello Sturm und Drang contribuendo con alcune sue
opere a vivacizzarlo, anche se in seguito cercò di prenderne le
distanze a causa delle intemperanze e dei comportamenti del
movimento ai quali aveva indirettamente contribuito con i suoi
scritti.
Successivamente a questo periodo, si interessò al classico
riproponendo i canoni della bellezza classica identificata in
quella greca, quale modello di immediata e spontanea armonia
con
la
natura,
soggetta
all’universale
“legge
dell’accrescimento”, dovuta a due tendenze contrapposte
“contrazione” ed “espansione”. La natura è tutta viva fin nei
minimi particolari. La totalità dei fenomeni è l’organica
produzione della “forma interiore”. Una polarità di forze, dà
luogo alle diverse formazioni naturali, che segnano un
accrescimento e producono una elevazione progressiva. Come
67
68
tratto caratteristico della sua visione del mondo e di Dio, è un
naturalismo panteista. A determinare questa tendenza, hanno
contribuito sia gli studi giovanili dedicati a materie esoteriche
come
l’occultismo,
l’alchimia,
a
Paracelso,
sia
all’approfondimento sui temi di Plotino, Bruno e principalmente
Spinoza, per il quale prese le difese nella nota contesa con
Jacobi. Di Kant apprezzò particolarmente la “Critica del
giudizio”, in cui il giudizio estetico e teologico vengono trattati
unitariamente. Il “genio” è per Goethe “natura che crea” e l’arte
è attività creatrice e creazione come la natura, e addirittura al di
sopra della natura.
Sommario
X * Wolfgang von Goethe
Un altro tema molto dibattuto da Goethe è il meccanicismo
newtoniano degli illuministi, al quale contrappose una visone
globale della natura e dell’uomo, fondata sulla vivente
esperienza dei cinque sensi dell’uomo, che egli definisce come
“il più grande ed esatto apparecchio fisico” di cui lo studio della
natura possa giovarsi.
La celebrità Goethe, l’ha raggiunta con il romanzo “Faust”,
divenuto anzi personaggio eterno, nel quale si rispecchia
profeticamente, la coscienza dell’uomo moderno. Faust, nel suo
tendere al sempre ulteriore mostra, anche troppo facilmente,
quanto il demone dell’attivismo possa distruggere l’uomo
contemporaneo, e solo grazie all’amore divino che sopravviene
in suo aiuto, l’uomo trova la sua salvezza.
E’ questa conclusione che restituisce al personaggio e al
suo autore la loro statura romantica.
XI
Georg Friedrich Hegel
Friedrich Hegel nacque a Stoccarda nel 1770 da famiglia
benestante. Frequenta gli studi con profitto nella sua città
appassionandosi agli studi umanistici e ai classici greci in
particolare. Nell’1788 si iscrisse all’università di Tubinga nella
facoltà di filosofia prima e teologia poi. Qui strinse amicizia con
i compagni di studi che in seguito divennero protagonisti della
cultura tedesca come Holderlin e Schelling. L’avvento della
rivoluzione francese ebbe notevole influenza nell’ambiente
universitario tubinghese sollevando in un primo momento,
molto entusiasmo e partecipazione tra gli studenti. Ben presto
però gli spiriti rivoluzionari si sopirono, e in Hegel si
manifestarono atteggiamenti conservatori e per certi aspetti,
nell’ultima fase del suo pensiero, persino reazionari.
Al termine degli studi scelse il mestiere di precettore prima
a Berna poi a Francoforte, dedicandosi nel contempo agli studi
di storia politica ed economica, pur coltivando vivissimo
l‘interesse per la teologia. Alla morte del padre nel 1799 ereditò
una cospicua somma con la quale poté dedicarsi completamente
agli studi recandosi a Jena a quel tempo l’università più famosa.
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70
Da poco alla guida si trovava Schelling a seguito delle note
vicende di Fichte e qui conseguì la docenza universitaria. Ebbe
la possibilità di insegnare come libero docente e in seguito
professore. Quando nel 1806 con la guerra arrivò Napoleone,
Hegel, rimase visivamente colpito dalla forte personalità del
condottiero, tratteggiandolo espressamente come “lo Spirito del
mondo a cavallo”.
Con la guerra arrivarono anche le difficoltà economiche, si
trasferì in un primo tempo a Bamberga a dirigere il giornale
locale, rimanendo solo pochi mesi, poi si trasferì a Norimberga
fino al 1816, dirigendo il locale Ginnasio. Qui scrisse e pubblicò
la sua opera più complessa “Scienza della logica”.
perde quest’armonia, e si impone l’individualismo e la
privazione della libertà.
Successivamente prende un atteggiamento più realistico e
conciliante verso la politica e la religione (cristianesimo, anche
se personalmente interpretato), abbandonando l’utopia di un
ritorno all’armonia antica. Mutato atteggiamento, interpreta
positivamente anche il periodo dell’impero romano e la
valorizzazione del’individuo singolo che ne è seguita. E’ questo
il periodo delle conquiste di Napoleone dove anche in
Germania, è visto come portatore di libertà e di una nuova
economia politica in senso borghese, che spazza via i residui del
feudalesimo.
XI * Georg Friedrich Hegel
Per due anni rimase a Heidelberg presso la locale
Università e nel 1818 passò a Berlino dove rimase fino alla
morte avvenuta nel 1831.
Hegel rappresenta il vertice del movimento filosofico
tedesco iniziatosi con Kant e Fichte e rimane il maggior
interprete dell’idealismo tedesco. La sua influenza è stata
grandissima non solo tra gli intellettuali tedeschi, ma tra i
filosofi accademici americani e inglesi, come per molti teologi
protestanti che hanno adottato le sue dottrine, sino ad
influenzare profondamente la teoria politica con la sua filosofia
della storia.
Volendo descrivere l’opera di Hegel, bisogna tenere conto
dell’epoca in cui si è trovato a operare e quindi l’influenza che
gli avvenimenti hanno avuto sulla sua opera e sul suo pensiero.
Egli mantenne sempre uno stretto rapporto con le grandi
vicende storiche della sua epoca. Inizialmente è la rivoluzione
francese e lo spirito illuminista e rivoluzionario ad attrarlo, dove
(nelle intenzioni di questo) l’umanità viene liberata dal passato
di oppressione politica e religiosa. Prendendo a modello le
repubbliche cittadine della Grecia antica nelle quali prevalgono
lo spirito patriottico e una religione veramente “popolare”; le
mette a confronto con l’avvento dell’impero romano nel quale si
XI * Georg Friedrich Hegel
Hegel ritiene che anche la filosofia debba essere alla pari
coi tempi e collaborare all’avvento di questa nuova fase storica
assumendosi il compito di riconoscere il presente e abbandonare
i proclami di preparazione per un’epoca postuma. Questo è il
nuovo indirizzo filosofico, al momento della restaurazione
monarchica prussiana della quale Hegel peraltro si presenta
come un sostenitore, considerandola portatrice della razionalità
e della libertà vera, contro le nostalgie reazionarie e le
impazienze liberali. Questa filosofia si trova evidentemente in
polemica col moralismo di coloro che contrappongono al reale,
degli ideali astratti che sono fatalmente impotenti. Essa è
pertanto la coscienza di un mondo storico già esistente, non
promotrice di progresso, che si raggiunge e si riconosce solo
dopo grande sacrificio e maturazione, simile “all’uccello di
Minerva (la civetta) che si leva sul far della sera”, intendendo
che la filosofia la si conosce solo in età matura (sul far della
sera), è quindi un continuo agire, tendere verso un divenire
senza mai arrivare.
Concetto basilare della filosofia di Hegel, affermata con
chiarezza nella “Fenomenologia”, è che la realtà, il vero, non è
“sostanza” come tradizionalmente si crede, ma “Soggetto”, vale
a dire “Pensiero - Spirito”. Affermare che la realtà non è
71
sostanza ma Soggetto e Spirito significa che la realtà è attività,
processo, movimento, meglio auto-movimento, quindi auto
generazione. Lo Spirito si auto-genera generando la propria
determinazione e nel contempo superandola pienamente. Lo
Spirito è infinito in maniera sempre attuantesi e realizzantesi,
come continua posizione del finito e insieme come superamento
del finito stesso. L’infinito è il superamento sempre
realizzantesi del finito, è il positivo che si realizza mediante la
negazione di quella negazione che è propria di ogni finito.
Allora, lo Spirito infinito hegeliano è come un circolo in cui
principio e fine coincidono perfettamente in maniera dinamica,
dove l’essere è sempre risolto nel dover essere e il reale è
XI * Georg Friedrich Hegel
sempre risolto nel razionale. Lo Spirito hegeliano è “una
uguaglianza che continuamente si ricompatta, una unità “che si
fa” proprio attraverso il molteplice”. In questa concezione, la
quiete è solo “il tutto del movimento”, la quiete senza
movimento, sarebbe l’immobilità della morte, non la vita.
Tutto questo per Hegel è l’Assoluto, che vale per ogni
singola realtà, per ogni suo momento ed ha una tale compattezza
da esigere necessariamente la totalità delle parti, nessuna
esclusa.
Ogni momento del reale è momento indispensabile
dell’Assoluto hegeliano, perché esso si fa e si realizza in
ciascuno e in tutti questi momenti, in modo che ciascun
momento risulta assolutamente necessario. Per esemplificare
questo concetto Hegel si serve della gemma, del fiore e del
frutto. La gemma, nello sviluppo della pianta, scompare quando
sboccia il fiore quindi viene negata, il fiore diventa la positività
del bocciolo, ma allo stesso modo il fiore, essendo una
determinazione, quando si trasforma in frutto subisce lo stesso
destino di negatività tanto da risultare inutile per l’esistenza
della pianta, e il frutto subentra al fiore come sua verità. In
questo processo, di determinazione-negazione, ogni momento è
essenziale all’altro, la pianta con la sua vita è lei stessa processo
72
che pone progressivamente i vari contenuti, i vari momenti, e
così di seguito li supera. Risulta chiaro allora che il reale è un
processo che si autocrea mentre percorre i suoi momenti
successivi, in cui il movimento medesimo è il positivo che si
auto accresce progressivamente. Questo movimento dello Spirito
è il “movimento del riflettersi in se stesso”, che da il senso della
circolarità di cui in precedenza abbiamo parlato, ed è il processo
auto produttivo dell’Assoluto che si realizza, a livello più
elevato, anche per il reale visto come tutto e che muove Hegel, a
parlare dell’Assoluto anche come di un circolo di circoli.
Anche l’Idea (che è il Logos, la Razionalità pura e la
Soggettività in senso idealistico) ha in sé, come avviene per
XI * Georg Friedrich Hegel
l’Assoluto, il principio del proprio svolgimento; prima si
“obiettiva”, quindi si fa natura “alienandosi”, poi superando
questa alienazione, perviene a se stessa. Quindi l’Idea che si
realizza e si contempla mediante il proprio sviluppo è lo Spirito
hegeliano, che si caratterizza in tesi, antitesi e sintesi; cioè la
prima è “l’Idea in sé”, la seconda è il suo “alienarsi”, la terza è
il momento del “ritorno a sé”. Questa è la caratterizzazione
hegeliana dell’Assoluto, alla quale voglio aggiungere alcuni
importanti e famosi corollari:
Tutto ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è
reale
Essere e dover essere coincidono.
Il senso di queste affermazioni diventano chiare se si tiene
presente che per Hegel, qualunque cosa avvenga o esista non è
fuori dell’Assoluto, ma anzi è un momento insopprimibile dello
stesso Assoluto. Tutto ciò che è, è momento dell’Idea e del suo
svilupparsi, nel senso che tutto quanto accade è sempre ciò che
meritava che accadesse. La filosofia di Hegel risponde
all’affermazione che “tutto è pensiero” il cosiddetto
“panlogismo”, anche se non tutte le cose hanno un pensiero
come il nostro tutto però è razionale, in quanto determinazione
73
di pensiero. Ciò corrisponde all’asserto degli antichi quando
dicevano che il Nous (l’Intelligenza) governa il mondo.
Diversamente dalla pretesa romantica di cogliere
immediatamente la conoscenza dell’Assoluto attraverso
l’entusiasmo e il sentimento (la fede), Hegel, giudicando “falso
un sapere immediato e privo di mediazione”, supera la
rappresentazione romantica, ricercando un metodo che gli
consenta di arrivare alla conoscenza dell’Assoluto in modo
“scientifico”. Questo metodo che gli consente di superare i
limiti dell’intelletto al punto da garantire la conoscenza
scientifica dell’infinito, lo trova “nella dialettica”.
La dialettica, è lo strumento nato presso gli antichi (Zenone
di Elea) come forma di conoscenza, molto usata da Platone,
XI * Georg Friedrich Hegel
ripresa in età moderna da Kant nella sua critica alla Ragion
pura e fatta sua da Hegel, attraverso la quale ritiene poter dotare
il “vero” della forma rigorosa della scientificità che ad esso
compete, quale suprema elevazione di conoscenza.
Tra la dialettica classica e quella hegeliana sussistono
naturalmente punti di contatto notevoli e differenze essenziali,
che Hegel considera, sia nelle Idee di Platone che nei concetti
universali di Aristotele, essere rimasti per così dire bloccati in
una rigida quiete e quasi solidificati.
Poiché la realtà è divenire, è movimento, è dinamicità,
anche la dialettica per essere strumento adeguato, deve essere
riformata in questo senso, per cui necessita imprimere
movimento alle essenze e al pensiero universale.
“Mediante questo movimento, i pensieri puri divengono
concetti e solo allora si rivelano nella loro verità… Questo
movimento di pure essenzialità costituisce la natura della
scientificità in generale”.
Il movimento diventa allora il cuore del reale, è la natura
stessa dello Spirito, e questo non potrà essere se non una sorta di
movimento circolare o a spirale con ritmo triadico, che come
abbiamo già visto sono la tesi, l’antitesi e la sintesi. La
74
comprensione di questi tre momenti del moto dialettico ci porta
a capire il vero fondamento del pensiero di Hegel.
1) La tesi è, il concetto determinato, il lato astratto
dell’oggetto, dovuto alla capacità di astrazione dell’intelletto il
quale distingue, separa, definisce, fermandosi alla
determinatezza del medesimo, ritenendo tale concetto in
qualche modo definitivo. L’intelletto è pertanto la potenza che
scioglie e distacca dal particolare ed eleva all’universale, quindi
è l’opposto dell’intuizione immediata e della sensazione.
Tuttavia, l’intelletto come tale fornisce una conoscenza
inadeguata, rinchiusa nel finito, nell’astratto irrigidito,
rimanendo vittima delle resistenze da lui stesso create,
distinguendo e separando. Per questo, il pensiero filosofico
XI * Georg Friedrich Hegel
deve oltrepassare i limiti dell’intelletto.
2) L’antitesi, è il momento della negazione razionale, che
va oltre i limiti dell’intelletto, questa è peculiarità della Ragione,
la quale ha un momento negativo e un momento positivo. Il
momento negativo è il momento dialettico in senso stretto, e
consiste nello smuovere la rigidità dei prodotti dell’intelletto.
Rimuovere e analizzare i concetti dell’intelletto, può far
affiorare una serie di contraddizioni e di opposizioni di vario
genere che nell’irrigidimento dell’intelletto sono repressi. Ogni
determinazione dell’intelletto viene così a rovesciarsi nella
determinazione contraria (e viceversa).
Il concetto di “uno”, appena si rimuove dalla sua rigidezza
astratta, richiama i “molti”, mostrando uno stretto legame con
esso e così vale per i concetti di simile e dissimile, uguale e
disuguale, di particolare e universale, di finito e infinito, e così
di seguito. Quindi la dialettica, come “oltrepassamento” delle
determinazioni dell’intelletto. “Il momento dialettico costituisce
pertanto l’anima motrice del procedimento scientifico…è nel
momento dialettico in generale che risiede la vera elevazione,
non esteriore, al disopra del finito”.
75
76
Hegel fa notare, che questo momento dialettico non è
affatto una prerogativa del pensiero filosofico, ma è presente in
ogni momento della realtà. L’Universalità del processo
dialettico (come il seme deve morire per diventare germoglio, il
fiore disseccarsi per dare vita al frutto), è insito già in ogni altra
forma di coscienza e nell’esperienza in generale.
Il negativo che si evidenzia nel momento dialettico
consiste generalmente, nella manchevolezza che ciascuno degli
opposti tradisce quando si misura con l’altro.
3) La sintesi è il lato speculativo o positivamente
razionale, coglie l’unità delle determinazioni contrapposte, è il
positivo quale risultante dal confronto ragionato degli opposti,
davanti ai quali l’intelletto si era fermato.
Possiamo precisare che il momento speculativo è la
L’uomo, nel momento in cui filosofa, si innalza al di sopra
della coscienza comune, ponendola in una prospettiva assoluta,
che la elevi all’altezza della pura ragione, per costruire
l’Assoluto nella coscienza; da qui l’importanza di negare e
superare le finitezze della coscienza, ed elevare in tal modo l’io
empirico a Io trascendentale, a Ragione e Spirito.
Il passaggio dalla coscienza comune alla coscienza
filosofica deve avvenire in modo mediato e non romanticamente
immediato, attraverso una sorta di introduzione alla filosofia.
Questo compito è stato assolto con la “Fenomenologia dello
Spirito”, scritto da Hegel allo scopo di purificare la coscienza
empirica e innalzarla mediatamente fino allo Spirito e al Sapere
assoluto.
La metodica usata per assolvere tale funzione non può
XI * Georg Friedrich Hegel
riaffermazione del positivo, che si realizza mediante la
negazione del negativo che è il momento proprio della antitesi
dialettica. E’ quindi l’esaltazione del positivo della tesi posta
però ad un più alto livello, perché passata attraverso la critica
scettica dell’antitesi, la quale acquista valore positivo nella
misura in cui spinge a togliere rigidità alla tesi.
Riassumendo, la conoscenza inizia con la percezione
sensoriale, in cui c’è solo la consapevolezza dell’oggetto. Nella
seconda fase attraverso l’analisi critica dei sensi, l’oggetto
diviene puramente soggettivo. Infine, si giunge allo stadio
positivamente razionale in cui l’oggetto e il soggetto non sono
più distinti, ma si ritrovano uniti in un’unica conclusione che è
la forma più alta della conoscenza.
Questi tre momenti formano il movimento circolare della
conoscenza, che non ha mai posa ma si sussegue in una sorta di
delirio bacchico in cui ogni elemento ne è sollecitato; nessuno
dei quali è completamente sorpassato ma dove ognuno ha il
posto adatto come momento del Tutto e dove lo speculativo
costituisce il vertice più alto cui perviene la ragione, la
dimensione dell’Assoluto, che per Hegel è il Tutto.
XI * Georg Friedrich Hegel
essere se non la più rigorosa metodologia scientifica: la
dialettica.
La “Fenomenologia dello Spirito” risulta essere la guida
che conduce la coscienza finita all’Assoluto infinito, la quale
coincide con la via che l’Assoluto ha percorso e percorre per
giungere al Sé (il rientrare in sé). Il termine, la parola
fenomenologia, nell’ accezione hegeliana, può essere definita
come la scienza dello Spirito, dell’Assoluto che appare nella
forma dell’essere determinato e dell’essere molteplice, e che in
una serie di “figure” successive, cioè momenti dialetticamente
collegati tra loro, giunge al Sapere assoluto.
La Fenomenologia dello Spirito, si presenta pertanto su due
piani che si intersecano e si giustappongono.
Un primo piano, costituito dalla via percorsa dallo Spirito
per giungere a Sé attraverso le vicende della storia del mondo
per mezzo del quale lo Spirito si è realizzato e si è conosciuto.
L’altro piano, è proprio del singolo individuo empirico, il quale
deve ripercorrere i gradi della storia del mondo già tracciata e
spianata dallo Spirito universale. Queste figure o gradi, sono le
tappe della storia della civiltà, che la coscienza individuale deve
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78
riconoscere e riguadagnare a sé. L’introduzione fenomenologica
alla filosofia è il ripercorre questa strada.
Lo Spirito che si determina e appare, la consapevolezza di
qualcosa d’altro, l’opposizione soggetto–oggetto, sono tutte
caratteristiche distintive della coscienza. Lo scopo di Hegel è
perseguire l’annullamento di queste opposizioni mediante una
progressiva mediazione dialettica, fino al totale superamento
della scissione tra coscienza e oggetto.
Molla di questa dialettica fenomenologica sta nella
disuguaglianza o dislivello, tra la Coscienza (Io) con il suo
oggetto (negativo) e nel superamento progressivo di questa
ineguaglianza, facendo coincidere il momento culminante di
questo processo al momento in cui lo Spirito diventa oggetto a
se stesso; Auto-coscienza.
la capacità di costruirsi del suo fabbisogno, viceversa il servo
avendo mantenuto le capacità tecniche e manuali di costruzione
degli strumenti per il sostentamento, si rende indipendente. In
questa condizione si fa strada la forza dialettica dirompente del
lavoro che, Hegel descrive in pagine divenute famosissime,
sulle quali soprattutto i marxisti hanno più volte richiamato
l’attenzione. La coscienza servile ritrova se stessa e il proprio
significato nel lavoro, là dove sembrava che essa fosse un
significato estraneo.
Ma
l’autocoscienza
per
raggiungere
la
piena
consapevolezza deve passare per tappe successive attraverso lo
Stoicismo, lo Scetticismo e infine quella che, lui, chiama
“coscienza infelice”, cioè la coscienza di sé che nell’implicita
auto-contraddizione dello Scetticismo si sdoppia assumendo
XI * Georg Friedrich Hegel
L’Auto-coscienza per sua natura tende ad escludere da sé
“l’altro”, considerato come inessenziale e negativo, ma presto
deve rinunciare a questa posizione perché si scontra con altre
autocoscienze. Si attiva così, necessariamente, uno “scontro per
la vita e per la morte” che solo l’autocoscienza sa risolvere, non
con l’annientamento di una delle parti, ma con la forza di
sottomissione di una all’altra.
Al termine della lotta gli uomini si ritrovano contrapposti in
due classi sociali, il signore e il servo. Il vincitore, che ha
rischiato nella lotta la vita, con la vittoria ha acquisito il diritto
di dominio sul vinto, il quale per avere risparmiata l’integrità
fisica accetta la condizione di schiavitù, cioè di divenire una
cosa sottomessa al signore. Il signore si serve del lavoro e della
fatica dello schiavo per il proprio bisogno e il servo presta il
lavoro a favore del padrone.
Questo tipo di rapporto, che in un primo momento sembra
essere fortemente sfavorevole al servo, protraendosi nel tempo a
poco per volta si modifica a tal punto da portare al
rovesciamento delle parti. Infatti il signore finisce col diventare
dipendente dalle cose e dal lavoro del suo servo, avendo perduto
XI * Georg Friedrich Hegel
una, l’aspetto mutevole fatto coincidere con l’uomo l’altro,
immutabile, con un Dio trascendente. Questa coscienza cerca il
suo oggetto in ciò che è solo in un al di là: essa è collocata in
questo mondo ma è tutta rivolta all’altro (irraggiungibile)
mondo. Ogni accostamento alla Divinità trascendente significa
(per la coscienza infelice) una propria mortificazione e un
sentire la propria nullità. Queste pagine sulla Coscienza infelice,
va ricordato, sono state intimamente meditate e celebrate
soprattutto dagli esistenzialisti (almeno quanto i marxisti le
pagine sulla dialettica signore-servo), nelle quali qualcuno, ha
persino fatto coincidere questa “figura” con la chiave di lettura
dell’intera “Fenomenologia”, il cui movimento dialettico si
impernia appunto sulla divisione della coscienza a tutti i livelli e
la “Coscienza infelice”, è caratterizzata essenzialmente dalla
scissione.
Superato, non senza fatica (da parte mia), la seconda tappa
dell’itinerario fenomenologico costituito dell’Autocoscienza,
Hegel, si appresta ad indagare la “Ragione”; che è
l’acquisizione da parte della coscienza, su un livello superiore,
della certezza di essere ogni realtà. Le tappe dialettiche della
79
80
Ragione sono l’acquisizione di questa certezza: essere ogni
cosa, ossia l’acquisizione dell’unità di pensare e di essere della
Coscienza. Il livello più elevato è dato appunto dal fatto che la
Coscienza come “Ragione”, ha la certezza di essere unità di
“pensiero e di essere”, in ragione della verifica che le nuove
tappe le accorderanno.
Le tappe della Ragione sono tre: la Ragione che osserva la
natura; la Ragione che agisce; la Ragione che acquisisce la
coscienza di essere Spirito.
La prima Ragione è costituita dalla scienza della natura, e si
muove sul piano della consapevolezza che il mondo è
penetrabile dalla ragione, è quindi razionale e in quanto tale
conoscibile, ma proprio per questo deve superare tale fase
“osservativa” con la seconda Ragione quella che “agisce”, il
Lo Spirito è “l’Idea che ritorna a sé dalla sua alterità”.
“l’Assoluto è lo Spirito: questa è la suprema definizione
dell’Assoluto”. Sono queste, definizioni riguardanti lo Spirito
espresse da Hegel. Lo Spirito (nel sistema hegeliano), è
l’attualizzazione o la realizzazione della conoscenza dell’Idea,
intesa questa, come mero concetto di sapere. Lo Spirito, in
questa ottica, diventa la vivente sintesi non separata dai due poli
dialettici Idea logica e Natura.
Come ogni parte del metodo hegeliano, anche la filosofia
dello Spirito si struttura in tre momenti: Soggettivo, Oggettivo,
Assoluto.
Lo Spirito soggettivo corrisponde alla considerazione
dell’uomo in quanto individuo, quindi comprendente
l’antropologia o dottrina dell’anima, intesa come psichicità
naturale radicata nella corporeità dell’uomo in quanto essere
XI * Georg Friedrich Hegel
momento attivo o pratico. Quindi la Ragione deve iniziare a
realizzarsi prima come individuo, per poi elevarsi all’universale,
oltrepassando i limiti dell’individualità e raggiungendo la
superiore unione degli individui.
La terza tappa della Ragione è la sintesi delle due
precedenti, è data dall’autocoscienza che supera la sua
opposizione, rispetto agli altri e al corso del mondo, ricercando
e trovando in questi il proprio contenuto. Come momento
conclusivo in questa fase, l’Autocoscienza scopre che: la
sostanza etica non è altro se non ciò in cui essa è già immersa:
è l’ethos, (costume, comportamento) della società e del popolo
in cui vive. La Ragione, veramente realizzata in un popolo
libero.
Concludo così questa fase della Ragione che ho voluto
accennare solo per grandi linee non avendo ne la capacità né la
conoscenza analitica sufficiente per poterla sviluppare con
soddisfacente ampiezza. Credo comunque di avere dato
sufficienti stimoli per, volendo, approfondire l’argomento.
La nuova fase è dedicata alla filosofia dello Spirito.
XI * Georg Friedrich Hegel
vivente; la fenomenologia o dottrina della coscienza, intesa
come rapporto tra l’io uomo e il mondo, dopo aver instaurato
una reciproca divisione; la psicologia o dottrina dello spirito
teoretico e pratico, (una sorta di gnoseologia che indaga i
problemi circa la natura e i limiti nonché il valore, della
conoscenza umana) inteso come istinti, passioni, ecc…
Lo spirito oggettivo corrisponde alla considerazione
dell’uomo in quanto individuo nei suoi rapporti con gli altri
uomini. Come tutte le dottrine di Hegel anche questa si articola
in tre momenti: il diritto (privato) la proprietà, nella quale
rientra l’aspetto mediato in quanto contratto, e il libero diritto
nella sua violazione, in quanto delitto e pena. La moralità, come
giudizio di comportamento per ciò che è posto fuori di me
secondo la mia forma di universalità cui è ispirata la regola
dell’agire. L’eticità o morale concreta, è la sintesi delle
precedenti, e si dispiega all’interno degli istituti nei quali si
svolge la vita degli uomini, famiglia, società civile, lavoro e
relazioni economiche, fino allo Stato politico nel quale, secondo
Hegel, si realizza la libertà degli individui ed insieme assicura la
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82
destinazione di essi ad un compito universale, allargandosi nella
storia politica.
Questa sintesi è la concezione dello Stato, è l’Idea stessa
che si manifesta nel mondo, è la volontà razionale e in quanto
tale è la Libertà come Libertà libera e quindi, realizzata. Questa
Idea dello Stato non và considerata come uno Stato particolare
ma come l’Idea per sé. Uno Stato può anche essere considerato
cattivo, in base a dei principi che si hanno, riconoscendo questa
o quella imperfezione. Esso non è una pura opera d’arte, stà
nella sfera dell’arbitrio, del caso, dell’errore, ma nella misura in
cui esso contiene tutti i momenti statuali essenziali (e cioè uno
Stato europeo - cristiano), è comunque uno Stato in quanto
Stato.
“Ma l’uomo più odioso, il delinquente, è pur sempre uomo;
un malato, uno storpio è pur sempre un uomo vivente:
senso la morte come tramonto delle cose particolari non è che il
continuo farsi dell’universale. Anche la guerra è il momento
dell’antitesi che muove la Storia, la quale senza guerre, secondo
Hegel, registrerebbe solo pagine bianche.
La guerra è una necessità dalla quale i popoli ne risultano
rafforzati, e le nazioni che risultano in discordia al loro interno,
mediante la guerra all’esterno, ne ritrovano pace all’interno.
Come si vede, ogni evento è necessario ed ha un senso
assoluto; come per chi afferma l’identità Dio – Natura, così per
Hegel, è l’identità Dio – Storia.
Lo Spirito oggettivo si estende nella Storia attraverso lo
“spirito del popolo” che si manifesta tra i vari popoli, andando a
formare lo “Spirito del mondo”, il quale si esplica nella
coscienza umana conformemente allo Spirito divino. Lo Spirito
particolare di un popolo può anche perire quando il popolo ha
XI * Georg Friedrich Hegel
l’affermativo -la vita- è malgrado il difetto, ed è appunto
questo affermativo che bisogna considerare”.
(Questa frase mi ha colpito non per quanto riguarda lo
Stato, ma l’uomo, la vita, la morte).
Per Hegel, il cittadino esiste solo in quanto membro dello
Stato e non viceversa. E’ il cammino di Dio nel mondo a far si
che lo Stato sia; è la potenza della Ragione che si realizza come
volontà comune.
Se lo Stato è la Ragione che cammina nel mondo, la Storia,
che nasce dalla dialettica degli Stati, non è altro che il
dispiegarsi di questa stessa Ragione.
“La Storia è il dispiegarsi dello Spirito nel tempo, nello
stesso modo in cui la Natura è il dispiegarsi dell’Idea nello
spazio.”
La Storia del mondo si svolge secondo un “piano razionale”
di cui la filosofia della Storia ne è la conoscenza scientifica di
questo piano, in conseguenza di ciò la filosofia diventa una
conoscenza della giustizia divina e una giustificazione di ciò che
appare come male di fronte al potere della Ragione. In questo
XI * Georg Friedrich Hegel
esaurito la sua funzione, ma la Storia del mondo,
conservando nella sua profondità la memoria di tutte le tappe
dialettiche, non ne verrà privata. Essa, dopo aver attraversato,
prima il mondo orientale, poi quello greco–romano, ha trovato
infine in Europa la sua piena realizzazione, nel mondo
cristiano–germanico, conservando il passato come memoria e
attuando nel presente il concetto di sé.
Al di sopra dello Spirito oggettivo e degli Stati politici c’è
lo Spirito assoluto, costituito dall’Arte, la Religione, la
Filosofia. Anche queste hanno una loro storia connessa alla
complessiva Storia del mondo, ma di gran lunga di grado
superiore. Queste tre forme dello Spirito, si differenziano
soltanto per il modo in cui portano alla conoscenza il loro
oggetto, l’Assoluto.
L’Arte, intesa in ogni sua espressione, pittura, scultura,
musica, poesia, ecc…, è parte importante della sfera dello
Spirito Assoluto, per il fatto di occuparsi dell’oggetto assoluto
della coscienza, ponendosi sullo stesso terreno delle altre due
forme di Assoluto.
83
84
La prima forma di intuizione è il sapere immediato quindi
sensibile, e questo appartiene all’Arte, la quale mostra alla
coscienza la Verità in forma figurativa o sensibile. Essa è, nei
confronti dei contenuti che in genere rappresenta, la
manifestazione sensibile dell’Idea. L’Arte dovendo esprimere
sentimenti e pensieri, è traboccante di significati profondamente
umani anche se diversi, in rapporto ai vari generi d’arte e alle
varie epoche della storia del mondo. C’è da dire che nella storia
si sono verificati periodi in cui l’Arte è stata lasciata libera di
fare e di esteriorizzarsi, e periodi in cui il bisogno di spiritualità
intima ha rappresentato un ritorno all’interiorità del pensiero.
Nel conferire all’Arte uno Spirito assoluto, bisogna
ricordare che questa è servita e può servire a scopi molto
eterogenei, anche ad interessi che le sono estranei.
L’ambito successivo al regno dell’Arte è la Religione. La
all’oggettività dell’Arte, quella sensibilità esterna immediata,
compensandola nella forma suprema dell’oggettività, con la
forma del vero pensiero l’Idea, legandola alla soggettività della
Religione.
Nelle Lezioni sulla storia della filosofia, Hegel ripercorre lo
sviluppo del pensiero occidentale, mostrando quanto le filosofie
delle varie epoche fossero la storia rispettiva del proprio tempo
svolta col pensiero, accordando un lascito ereditario di verità al
pensiero successivo. Ogni nucleo di verità del passato è
acquisito dalla filosofia, anche se ogni volta nella convinzione
unilaterale di aver esaurito la verità. Con questo teorema la
storia della filosofia, da Talete a Hegel, si presenta come un
grandioso sistema che si dispiega nel tempo, nel quale ogni
momento costituisce un passaggio necessario. Hegel, fa
coincidere queste tre sfere: 1) l’intuizione sensibile (estetica),
XI * Georg Friedrich Hegel
tesi sostenuta da Hegel è l’identità di contenuto della
Religione con la Filosofia, dato che in entrambe viene pensata
l’unità dell’infinito e del finito; la diversità sta solo nella forma.
La Religione presenta l’unità nella forma della
rappresentazione, ossia ha il suo obiettivo nella trascendenza e
si presenta come immagini (miti). In questa condizione, risulta
evidente il passaggio che intercorre dall’Arte alla Religione,
legata questa, all’interiorità del soggetto attraverso la devozione
all’oggetto assoluto. Questo, all’opera d’arte in quanto tale non
contempla come forma, pur esponendo lo Spirito assoluto come
oggetto nella forma adeguata.
La devozione è il culto della comunità nella sua forma più
pura, più interiore, più soggettiva., dove questa soggettività si
lascia attraversare nell’animo da ciò che nell’Arte, rende
oggettivo come sensibilità esterna.
Riguardo alla Filosofia, come abbiamo detto in precedenza,
vi è un’identità di contenuto con la Religione, ma la sua forma è
il concetto, la razionalità, la quale elimina qualsiasi
trascendenza e qualsiasi elemento mitico e nel contempo toglie
XI * Georg Friedrich Hegel
2)la rappresentazione della fede 3) il concetto puro,
parallelamente con tre momenti storico-dialettici ben precisi,
che si dispiegano con le culture e la storia: a) orientale preclassica, b) il classicismo greco-romano, c) il cristianesimo fino
alla modernità germanica, nella quale sembrerebbe compiersi e
convergere tutto il teorema evolutivo, il quale trova la propria
conclusione appunto nella filosofia hegeliana, presentandosi
così, essa sola, come l’erede di tutto il pensiero occidentale.
La considerazione che posso fare in conclusione, dopo aver
esposto al meglio delle mie capacità il pensiero hegeliano, è che
tutto il sistema va considerato e misurato nello spirito del suo
tempo, quando il romanticismo era di gran moda. Fin tanto che
rimase in vita, nessuno si fece avanti a criticarne il suo operato,
probabilmente perché sostenuto dalle forze al potere. Ma alla
sua morte avvenuta nel 1831, tra i suoi allievi si formarono
profondissime spaccature, tanto da portare a una vera e propria
scissione, sul modo di interpretare e applicare la filosofia del
maestro, dividendosi tra destra e sinistra secondo l’uso che se ne
faceva nel parlamento francese, dove la destra rappresentava la
Sommario
85
parte più radicale e intransigente del sistema, mentre la sinistra
operava una drastica censura, stravolgendo e distorcendo, in
molti casi oltre i giusti limiti, la Ragione hegeliana e assieme ad
essa tutta la razionalità umana. Attorno al 1840 il conflitto tra le
fazioni si è ampliato ulteriormente, attestandosi su posizioni
sempre più radicali, causa l’irrigidimento in senso autoritario
della monarchia prussiana, appoggiata con forza dalla destra e
contrastata vivacemente dalla sinistra. Dopo il 1848 però queste
due posizioni andarono pian piano dissolvendosi, lasciando via
libera ad una tendenza più di centro, che nel frattempo si era
creata uno spazio, destinata a sopravvivere ben oltre questa data.
L’altro punto da sottolineare è quanto il totalitarismo
politico abbia abusato nella manipolazione del materiale di
Hegel per la propria auto-legittimazione. Resta però vero che di
questo materiale Hegel ne abbia fornito in quantità più che
abbondante.
86
pensatore più affermato e ben visto dal potere accademico, per
cui fin dapprincipio si trova la strada sbarrata.
Nel 1831, abbandona Berlino per sfuggire all’epidemia di
colera, rinunciando alla carriera accademica risultata del resto
un’esperienza totalmente negativa, rifugiandosi a Francoforte
dove rimane fino alla morte avvenuta nel settembre del 1860.
Uomo coltissimo e gran viaggiatore, durante la vita non fu
tanto amato dagli uomini di cultura e solo negli ultimi anni gli
vennero riconosciute le sue grandi capacità. L’influsso di
Schopenhauer sulla cultura a lui successiva fu enorme,
segnando profondamente con il suo pensiero, la grande
letteratura dell’800 da Tolstoj, Maupassant, Kafka, Zola,
Thomas Mann, e altri.
Principio della filosofia di Schopenhauer è che tutto ciò che
la conoscenza può conoscere, cioè il mondo intero, esiste solo in
quanto frutto della percezione sensibile da parte di un soggetto
XII * Arthur Schopenhauer
XII
Arthur Schopenhauer
Arthur Schopenhauer, nacque a Danzica nel 1788 da
facoltosa famiglia di commercianti. Ebbe modo di studiare in
diverse delle migliori scuole europee. Soggiornò in Francia, in
Olanda, in Svizzera, Austria e in Inghilterra. Dopo la morte del
padre, che egli ammirava, si trasferì a Weimar con la madre,
scrittrice, la quale lo introdusse nei circoli letterari. Egli non
condivideva la vita mondana che questa conduceva anzi la
disapprovava, per cui si isolò dai circoli intellettuali della città
continuando i suoi studi classici e interessandosi nel contempo
alle filosofie orientali. Causa questi contrasti divenuti sempre
più tesi, si trasferì a Dresda dove nel 1818 completa la sua
prima opera. La pubblicazione avvenuta l’anno successivo, non
ottiene una buona accoglienza. Nel 1820 lascia Dresda per
Berlino per tentare la carriera accademica. Qui già dalla prima
lezione di prova si scontra con Hegel, in quel momento il
(che percepisce), in funzione all’oggetto percepito. La
materia non ha una essenza indipendente dalla percezione
mentale e l’esistenza e la percepibilità sono termini convertibili,
analoghi.
“Tutto quanto il mondo include o può includere è
inevitabilmente dipendente dal soggetto, e non esiste che per il
soggetto. Il mondo è una rappresentazione.”
Il soggetto, “ciò che tutto conosce, senza essere conosciuto
da alcuno”, è il sostegno del mondo, la condizione universale
sempre sottintesa, di ogni fenomeno, di ogni oggetto: infatti
tutto ciò che esiste non esiste che in funzione del soggetto. Tutto
ciò che esiste è condizionato, a priori, dallo spazio e dal tempo
ed esiste nello spazio e nel tempo, diversamente dal soggetto
che è fuori dello spazio e del tempo, da qui l’inseparabile nesso
tra soggetto e oggetto. Ciascuna delle due metà non ha senso ne
esistenza se non per mezzo dell’altra e con essa si disperde.
Il tempo, lo spazio, la causalità, sono le forme
rappresentative, a priori, della coscienza del soggetto. Il mondo
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in quanto oggetto, come ci appare nella sua immediatezza e che
viene considerato come la realtà in sé, non è altro che un
insieme di rappresentazioni condizionate delle forme, a priori,
del soggetto. Per cui il mondo come rappresentazione è
fenomeno, è l’illusione che annebbia la realtà delle cose. La
totalità del mondo non si esaurisce nella rappresentazione, ma
sotto di essa stà la volontà che ne è il suo fondamento, di cui il
corpo è la parte visibile. Il “corpo” per il soggetto conoscente,
non si presenta solo come oggetto e in tale forma sottostà alle
sue leggi, ma anche come azione, movimento, sensazione,
conseguenti alla volontà, quindi non c’è rapporto causale, ma
corpo e volontà sono un'unica cosa: il volere coincide con
l’azione.
Il corpo dunque risulta essere la conoscenza a posteriori
della volontà comprovandone l’esistenza al di sotto della
rappresentazione, espressa questa nelle più diverse forme.
Nessun uomo è da invidiare ma infiniti uomini sono da
compiangere giacché condannati a vita. Per Schopenhauer, ciò
che è positivo cioè reale, è il dolore, mentre ciò che è negativo
cioè illusorio è la felicità.
Dolore e tragedia non sono soltanto l’essenza dell’uomo,
ma coinvolge tutta l’umanità, per cui anche la storia che ci
racconta soltanto di guerre e rivolte, non è razionalità e
progresso, come pretende Hegel, ma il tragico ripetersi della
stessa vicenda in forme diverse. La storia è “destino”.
Da questa tragica condizione l’uomo trova la sua
redenzione solo sprofondandosi nel proprio intimo,
riconoscendo che la realtà è volontà della quale egli stesso ne è
parte. Questa è la condizione preliminare per la liberazione, la
quale può aversi interamente solo annullando il “bisogno”,
quindi riscattando i propri desideri e la noia, attraverso l’ascesi
e l’arte, sottraendoli quindi alle catene della volontà.
Nell’esperienza estetica l’individuo si libera dalle catene
XII * Arthur Schopenhauer
XII * Arthur Schopenhauer
In altri termini, la coscienza e il sentimento del nostro corpo
come volontà, ci portano a riconoscere che tutto l’universo dei
fenomeni, pur nella sua molteplice diversità, ha una sola
identica essenza: la volontà.
L’essenza del mondo è volontà insaziabile ed immanente.
La volontà è conflitto e divisione, questi causano dolore e
sofferenza. E’ nell’uomo che il dolore raggiunge il grado più
alto e tanto più l’uomo è intelligente e consapevole dei sé, tanto
più grande ne è la sofferenza. La volontà è tensione continua
che nasce dalla privazione, la quale provoca scontentezza del
proprio stato. L’uomo è abbandonato a se stesso, incerto di ogni
cosa, immerso nell’indigenza e nell’ansia, la vita diventa una
lotta continua senza speranza per l’esistenza con la certezza solo
di una disfatta finale. Nell’uomo il bisogno, sino a quando non
viene soddisfatto, procura sofferenza e dolore, ma quando
finalmente viene appagato, allora si piomba nella sazietà, nel
vuoto, nella noia, nemici ancora più terribili del bisogno.
della volontà, annullandone i bisogni. Nell’estetica l’uomo
si trasforma, si immerge nell’oggetto, senza prevenzione di
utilità o nocività, egli intravede le idee, l’essenza, il modello
delle cose e non più l’oggetto, dimenticando se stesso e il
dolore. Nell’arte si esprime l’essenza delle cose, per questo ci
distoglie dalla consapevolezza di noi stessi lasciandoci quella
degli oggetti intuiti. L’esperienza estetica è annullamento
temporaneo della volontà e del dolore.
Sfortunatamente questi momenti felici di contemplazione
estetica, in cui ci sentiamo liberati dalla tirannia della volontà,
sono istanti brevi e rari, di conseguenza la liberazione totale
dell’uomo dal dolore della vita deve avvenire per altra via.
Questa via è l’ascesi.
Schopenhauer concepisce l’ascesi come la liberazione
dell’uomo dal fatale alternarsi del dolore e noia, per questo si
sopprime la radice del male, annullando la volontà di vivere.
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Primo passo di questo cammino è la realizzazione della
giustizia riconoscendo agli altri la nostra stessa dignità. Tuttavia
questa non è sufficiente, perché da modo di considerare gli altri
come diversi e distinti da noi, provocando il principio
dell’egoismo.
L’ulteriore passo è la bontà, l’amore
disinteressato verso esseri che portano la stessa nostra croce e
vivono il medesimo destino. La bontà, dunque, come
partecipazione all’altrui dolore attraverso la comprensione del
nostro, cioè la “compassione”. La considerazione dell’altrui
infelicità, fa crescere la pietà, che è però pur sempre un patire,
un dolore, che la vera ascesi deve sradicare con: la negazione
della volontà, perseguendo la povertà volontaria e intenzionale,
il sacrificio, la rassegnazione, fin’anche una libera e perfetta
castità.
E’ così che l’uomo diventa libero, si redime dal legame
con gli oggetti e dalla volontà di vita, entrando in quello “stato
di grazia” che gli permette di quietarsi.
Il pessimismo di Schopenhauer è profondo e disperante.
Infine c’è da dire che per quanto traspare da tutta la sua
opera, la sua vita privata non ha nulla di coerente, ma mostra
una costante contraddizione nelle virtù (quantomeno)
dell’ascetismo e della rassegnazione.
Sommario
XII * Arthur Schopenhauer
XIII
La sua idea che l’universo esista solo per dare dolore e
dispiacere, non mi sembra filosofia, ma ingegno ad uso della
letteratura di maniera, la quale dal canto suo non si è lasciata
sfuggire l’occasione per mietere a piene mani.
L’altra considerazione che credo molto più importante, è la
dottrina del primato della volontà, (non necessariamente
accoppiata al pessimismo) anzi, molti di coloro che la
sostennero frequentemente trovarono in essa una base per il
loro ottimismo. La dottrina della volontà è stata ripresa ed
elaborata da filosofi successivi e tanto più “la volontà” saliva la
scala della considerazione, di tanto ne discendeva la
conoscenza.
Questo ha dato luogo ad un rinnovamento del carattere
della filosofia che prima di lui non si conosceva e per questo si
può dire che Schopenhauer ha posto un importante punto di
riferimento per un nuovo ulteriore sviluppo storico.
Soren Aabye Kierkegaard
Kierkegaard filosofo danese, nacque nel 1813 a
Copenaghen, dalla quale praticamente non si allontanò mai se
non per brevissimi periodi. La sua vita privata, non fornisce
motivi particolari di riflessione tranne il progetto di farsi pastore
e il suo fidanzamento con certa Regina Olsen, ambedue però
abbandonati dopo tormentati ripensamenti.
Alcuni avvenimenti della sua vita pubblica furono tuttavia
motivi di forti polemiche: contro l’hegelismo che rappresentava
il sistema dominante, contro la “cristianità stabilita”, dovuta
all’educazione paterna severamente religiosa e contro la stampa
decisamente poco rispettosa nei suoi confronti.
La vita dedita principalmente alla sua produzione letteraria
lo ha portato a produrre una gran mole di opere e saggi di
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notevole importanza filosofica e letteraria. Tuttavia la “Postilla
conclusiva non scientifica”, è l’opera nella quale sono esplicati i
temi di fondo dell’esistenza e della comunicazione che fanno da
sfondo filosofico di tutta la produzione di Kierkegaard, che
diverranno un punto di riferimento dell’esistenzialismo del
novecento.
Il richiamo alla concretezza dell’esistenza è la peculiarità
della filosofia di Kierkegaard, tesa alla ricerca e all’analisi di un
metodo di comunicazione, come modo d’essere proprio
dell’uomo, basato sull’unicità dell’esistenza di ognuno. Questa
in
apparenza
sembrerebbe
rendere
impossibile
la
comunicazione, non potendo estraniarsi e contemplare
oggettivamente e disinteressatamente l’esistente, come si
conviene ad un pensatore di stampo hegeliano. Ma a questo
“pensatore oggettivo”, Kierkegaard contrappone il “pensatore
soggettivo esistente”, cioè interessato ai temi della filosofia in
modo soggettivo, proprio perché materia, questa, che partecipa e
influenza l’esistenza.
XIII * Soren Aabye Kierkegaard
Questo interesse va inteso soprattutto in senso etico, come
senso di responsabilità che comporta tutta una serie di
conseguenze teoretiche, giacché “esistere” significa
essenzialmente scegliere.
La caratteristica principale dell’uomo in quanto spirito,
secondo Kierkegaard, è quella per cui il Singolo, diversamente
dall’animale, è superiore alla specie. L’esistenza è il regno del
divenire, del contingente e quindi della storia. L’esistenza è il
regno della libertà: l’uomo è ciò che sceglie di essere, è quello
che diventa. Questo vuol dire che il modo d’essere
dell’esistenza, è la possibilità, e non la realtà o la necessità.
Nella possibilità tutto è egualmente concepibile, anche se è
la categoria più impegnativa. L’esistenza è, libertà, poter essere,
quindi possibilità. Possibilità di non scegliere, di rimanere nella
paralisi, o di scegliere e perdersi, possibilità come minaccia del
nulla. La realtà è esistenza e questa è possibilità quindi anche
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angoscia; come sensazione di ciò che può accadere e può essere
molto peggiore della realtà.
Il possibile e il futuro corrispondono perfettamente, per cui
il futuro rappresenta il possibile per la libertà e per il tempo.
Angoscia e futuro sono congiunti e caratterizzano la condizione
umana, la quale lasciandosi invadere l’animo dall’angoscia,
permette di scacciare “tutti i pensieri finiti e gretti”, per questo
può avvantaggiarsi e rafforzarne le proprie capacità.
Se l’angoscia è tipica dell’uomo nel suo rapportarsi al
mondo, la disperazione, è propria dell’uomo nel suo rapporto
con se stesso. La disperazione, è la colpa dell’uomo che non sa
accettare se stesso nella sua profondità.
La disperazione è la malattia mortale, un’autodistruzione
impotente; dal punto di vista cristiano, “un eterno morire senza
morire”. Il disperato, è malato a morte. Vive la morte dell’io.
La radice della disperazione sta nel non volersi accettare
dalle mani di Dio, separarsi da “quell’unico pozzo da cui si può
attingere acqua”, ciò significa staccarsi dalle proprie origini.
XIII * Soren Aabye Kierkegaard
Diventa quindi chiaro che l’esistenza autentica è quella
disponibile all’amore di Dio. Per il cristiano, l’esistenza
autentica si pone sul piano della fede, di conseguenza la scienza
di questo mondo non ha importanza ma, per Kierkegaard, è Dio
ad avere la precedenza.
E’ l’ipocrisia che fa dire: le scienze portano a Dio.
“Considerare la scoperta al microscopio … come una cosa
seria è da sciocchi”.
Tra l’uomo e Dio c’è un abisso infinito e trattare i problemi
etici e religiosi con il metodo della scienza è pericoloso e
tragico. La presunzione degli scienziati, si esprime in una lotta
contro Dio che tende a creare “tutta una folla di uomini che farà
delle scienze naturali la sua religione”. Questa è pura follia. Le
scienze naturali non possono dare più di se stesse: esse non sono
né etica, né religione. “Quando si parla di etica, allora è
Sommario
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perfettamente indifferente se gli uomini credono che la terra sta
ferma o il sole cammina”.
La polemica contro Hegel e la sua dottrina, è totale e
definitiva, mettendo in ridicolo il sistema là dove incarna la
pretesa di spiegare tutto e voler dimostrare la necessità di ogni
evento. L’esistenza non si può ingabbiare nel sistema.
Hegel non può pretendere di guardare le cose con gli occhi
di Dio, di sapere tutto senza cadere nel ridicolo, dato che il suo
sistema speculativo si dimentica del Singolo cioè dell’esistenza.
Ed ecco quello che per Kierkegaard, costituisce l’alternativa
valida all’hegelismo; il Singolo contrapposto all’Umanità di
Hegel, il Singolo è la contestazione e la confutazione del
sistema, perché conta più della specie.
Ciò che contesta con tutte le forze è, per lui che si
considera poeta del pensiero religioso, una specie di Socrate
cristiano, il tentativo di giustificare e armonizzare il
cristianesimo con la filosofia. “Nessuno può mettersi al posto di
ciascuno di noi davanti a Dio”.
filosofia hegeliana della religione. Queste polemiche e certe sue
simpatie protocristiane, lo portarono, per un certo periodo, ad
assumere quel ruolo di portabandiera della battaglia filosofica, e
forse anche politica, a cui i giovani hegeliani più radicali (Marx
in primis) aspiravano. Molti anni dopo nel 1848, un gruppo di
questi studenti progressisti di Heidelberg lo invitarono a tenere
un corso ed egli svolse le “Lezioni sull’essenza della religione”
che venne pubblicato poi nel ’51. Fu questa una delle poche
parentesi pubbliche di Feuerbach che per il resto visse appartato
e nella più totale miseria. Morì dimenticato da tutti a
Rechenberg nel 1872.
La riflessione giovanile di Feuerbach è rivolta al tema
hegeliano della ragione, intesa come vita universale e infinita,
che la inserisce in modo critico nel filone del cristianesimo
moderno volto all’esaltazione della persona in modo egoistico al
punto da ridurre Dio a garante dell’egoistico e soggettivo
desiderio di immortalità degli individui.
In questa giovanile riflessione, ci sono già esposti i due
temi principali di tutta la sua filosofia, il contrasto con il
XIV * Ludwig Feuerbach
XIV
Ludwig Feuerbach
Ludwig Feuerbach nacque in una cittadina bavarese nel
1804, studiò teologia a Heidelberg ma presto si recò a Berlino
come allievo di Hegel, attratto dalla sua fama.
I dubbi non tardarono a manifestarsi e nel 1830 prese
decisamente posizione contro la destra hegeliana con il saggio
“I pensieri sulla morte e l’immortalità”, che per la loro tesi
anticristiana e antiaccademica venne accolto in modo molto
critico, compromettendogli persino la carriera accademica.
Ancora nel ’37 era un fervente hegeliano ma già nel ’39 le
opinioni sul maestro mutarono, con lo scritto “Critica della
filosofia hegeliana”. Nel ’41 ottenne un successo immediato con
“l’essenza del cristianesimo” sollevando polemiche intorno alla
vera portata del cristianesimo e al rapporto di questo con la
maestro e la critica al cristianesimo e alla religione.
Per quanto riguarda la filosofia di Hegel come Fichte e
Schelling, contesta l’idea “di sapere sistematico”: altro è il
pensiero come attività interna spontanea, altro è l’esposizione
del pensiero, la quale obbedisce a esigenze di discussione e
comunicazione storicamente condizionate. Hegel considera il
concetto di essere, cioè l’essere astratto, Feuerbach vuole
considerare l’essere reale, naturale. La filosofia che è la scienza
della realtà ha il compito di rivelare la sua verità e totalità, e il
compendio della realtà è la natura nella forma più universale
della parola.
Il problema religioso ha caratterizzato tutta l’esistenza di
Feuerbach “Il mio primo pensiero fu Dio, il secondo la ragione,
il terzo l’uomo”. Hegel aveva tolto via il Dio trascendente della
tradizione, sostituendolo con lo Spirito universale, cioè la realtà
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umana nella sua astrattezza, ma a Feuerbach non interessa
un’idea di umanità ma piuttosto l’uomo reale, completo di
corporeità, sensibilità, bisogno. Nega quindi l’idealismo che è
smarrimento dell’uomo, ma anche la credenza nella
trascendenza, giacché non è Dio che crea l’uomo ma è l’uomo a
creare Dio.
Pur ammettendo l’unità dell’infinito col finito, tuttavia
questa si realizza solo nell’uomo e non in Dio o nell’Idea
assoluta, un uomo che la filosofia non può ridurre a puro
pensiero ma deve considerare nella sua naturalità e socialità.
Nella storia dell’uomo concreto, la religione ha avuto da
sempre un ruolo fondamentale, e compito della filosofia è
quello di comprenderlo, non negarlo o peggio ridicolarizzarlo.
Ci si rende conto allora che “La coscienza che l’uomo ha di Dio
è la coscienza che l’uomo ha di sé”. In altri termini, l’uomo
pone le sue qualità le sue aspirazioni i suoi desideri al di fuori di
sé, si estranea e si costruisce la sua Divinità.
La religione, per Feuerbach, è un fatto umano, totalmente
umano, è la proiezione dell’essenza dell’uomo; “Dio è lo
XIV * Ludwig Feuerbach
specchio dell’uomo”; “Tu conosci l’uomo dal suo Dio e,
reciprocamente, Dio dall’uomo, l’uno e l’altro si identificano”.
Con questa identificazione, l’uomo sposta fuori da se il suo
essere per poi ritrovarlo in sé, liberato dai limiti della corporeità
e della realtà; contemplato e adorato come un altro essere
distinto da lui.
Perché l’uomo si estranea e costruisce la sua divinità senza
riconoscersi? Feuerbach risponde che l’uomo crea il suo Dio per
alleviare le sofferenze di una natura insensibile che non lo sa
consolare, mentre nella religione trova un sollievo al proprio
dolore.
Questo, dunque, il mistero della religione; al Dio in cielo si
sostituisce l’uomo reale, alla morale dell’amore di Dio si
raccomanda l’amore dell’uomo in nome dell’uomo. L’intento
dell’umanesimo di Feuerbach è quello di trasformare gli uomini
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da amici di Dio in amici degli uomini, “Da uomini che credono
in uomini che pensano, da uomini che pregano in uomini che
lavorano, da candidati dell’aldilà in studiosi dell’aldiquà”.
In sostanza, la sinistra hegeliana, di cui Feuerbach costituì
un punto di riferimento, ha combattuto sia la fede cristiana in
nome di una metafisica immanentistica, sia le astrazioni della
filosofia hegeliana in nome della “concretezza”.
Le idee e i fermenti dogmatici espressi dai filosofi in quegli
anni sollevarono una serie di problemi profondi che
influenzarono nel profondo gli sviluppi della filosofia
successiva, il marxismo in primo luogo.
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