Dasein e traduzione
Note sull’esperienza traduttiva in lingua italiana
*
Maurizio Borghi
<497> Il titolo di questa sezione suona: Il linguaggio di Heidegger e la sua traduzione. Forse
non è inutile iniziare queste brevi riflessioni domandando: in che senso, e in che misura,
possiamo parlare di un “linguaggio di Heidegger”?
Per molti tra i filosofi e i critici dei nostri giorni, la questione non pone particolari
problemi Il linguaggio heideggeriano è infatti immediatamente riconoscibile da alcuni segni
distintivi: pesantezza lessicale, abuso di tecnicismi e neologismi, predilezione per immagini
misticheggianti e metafore silvestri, impiego eccessivo dei trattini, ermetismo.1 A prescindere
dalla fondatezza di tale “identikit”, rimane tuttavia da chiedersi perché il linguaggio di
Heidegger sia così e non altrimenti. Lasciamo che sia egli stesso a spiegarlo: verso la fine del
paragrafo 7 di Sein und Zeit, dedicato al «metodo fenomenologico della ricerca», leggiamo:
Mit Rücksicht auf das Ungefüge und »Unschöne« des Ausdrucks innerhalb der
folgenden Analysen darf die Bemerkung angefügt werden: ein anderes ist es, über
Seiendes erzählend zu berichten, ein anderes, Seiendes in seinem Sein zu fassen. Für
die letzgenannte Aufgabe fehlen nicht nur meist die Worte, sondern vor allem die
»Grammatik«. (S. 38-39)
«Per quanto concerne la pesantezza e l’“ineleganza” d’espressione nelle analisi che
seguono, si può aggiungere questa considerazione: una cosa è fare un resoconto
narrativo dell’ente, un’altra è cogliere l’ente nel suo essere. Per questo secondo
compito, non mancano soltanto, il più delle volte, le parole, ma manca prima di tutto la
“grammatica”.»
Ogni riflessione sul “linguaggio di Heidegger” dovrebbe prendere le mosse da qui: il
lessico che egli impiega è ricavato unicamente a partire da una mancanza – mancanza di
*
In Heidegger, Linguagem e Tradução. Colóquio internacional, a cura di Irene Borges Duarte,
Fernanda Henriques, Isabel Matos Dias, Centro de Filosofia da Universidade de Lisboa, Lisboa, 2003,
pp. 497-503.
1
Il prototipo di tali luoghi comuni sul “linguaggio di Heidegger” – invero assai diffusi anche tra i c.d.
“heideggeriani” – resta lo Jargon der Eigentlichkeit di Th. W. Adorno, per il quale «il gergo
dell’autenticità è ideologia sotto forma di linguaggio ancor prima di ogni contenuto particolare» (p.
110, corsivi miei).
“grammatica” prima ancora che di parole. L’origine di tale mancanza sta nel fatto che noi
conosciamo per lo più solo una modalità della <498> parola: quella in cui essa denota,
descrive e racconta. Ora, se questa modalità è più che sufficiente per districarci in mezzo
all’ente, e persino per controllarlo e padroneggiarlo in tutta la sua multiforme ampiezza, essa
però non è sufficiente
– avvisa Heidegger – per «cogliere l’ente nel suo essere». Per
assolvere a questo compito, che non è altro che il compito vero e proprio della
fenomenologia, è necessario un radicale mutamento di postura, che si traduce innanzitutto in
un nuovo contegno nei confronti della lingua. Ebbene, questo mutamento di postura, questo
nuovo contegno, ha la singolare caratteristica di tradurci non in un luogo a noi lontano ed
estraneo (ad esempio, in una qualche “esperienza mistica del linguaggio”), bensì unicamente
lì dove già siamo, ossia lì dove propriamente l’essere umano ha luogo, e cioè: in prossimità
dell’essere.
Heidegger si accorge che la lingua tedesca ha già – per così dire “senza saperlo” – la
parola per nominare questo «dove» in cui l’essere umano ha luogo prima di ogni
coinvolgimento con l’ente, e tale parola è: Dasein. La dizione è attestata, nel tedesco della
filosofia, a partire dal XVIII secolo. Tuttavia, nell’ascolto che Heidegger le porge, essa non
significa più semplicemente «da sein», come nell’espressione Kampf ums Dasein (la «lotta
per la sopravvivenza»), bensì «sein das da», o, più precisamente ancora: «das ‘Da’ zu sein» –
aver da essere il Da.2
Nelle lingue dell’area latina si è spesso tentati di tradurre questa decisiva dizione con
l’uso di termini che ne fissano univocamente un significato locativo. In italiano, ad esempio,
si è consolidata l’abitudine di considerare, come traduzione di Dasein, l’espressione
«esserci». E’ una parola che nessun dizionario riporta, di cui la lingua italiana non conosce
altro uso al di fuori delle traduzioni dal tedesco, e che, presumibilmente, fu impiegata per la
prima volta dai traduttori delle opere di Hegel a partire dalla seconda metà dell’Ottocento3.
Pietro Chiodi, a cui, con ogni probabilità, si deve l’introduzione del termine «esserci» nel
2
Cfr. Sein und Zeit, p. 133. Jean Beaufret illustra efficacemente questa mutazione dicendo: «Dans son
acception courante, le mot se prononce DAsein et lorsque Heidegger le prononce, l’accent est passé
de Da sur “sein”, DaSEIN» (Entretiens, PUF, Paris 1984, p. 16).
3
Nella Wissenschaft der Logik, il termine Dasein è sinonimo di «essere determinato» (bestimmtes
Sein), dove però la determinatezza non risiede nell’“essere qui” piuttosto che “là”: «Dal punto di vista
etimologico – scrive infatti Hegel – Dasein significa essere in un certo luogo; ma la rappresentazione
spaziale non ha qui nulla da fare. Il Dasein o l’essere determinato è in generale, conformemente al suo
divenire, un essere con un non essere, cosicché questo non essere è accolto in semplice unità con
l’essere.» (I, 1, sez. 1, cap. II, A, a).
2
“lessico heideggeriano”, ne spiega efficacemente il significato dicendo: «un essere che “ci” è,
che è qui»4.
Prima di considerare alcuni dei fraintendimenti che questo modo d’intendere
comporta, avanziamo una prima, semplicissima osservazione: quell’«essere», che si <499>
presume “ci” sia (che sia qui), non può in realtà essere nient’altro che… un ente! Dicendo
«esserci», infatti, noi nominiamo sempre e comunque – che lo vogliamo o no – l’essere-qui di
un ente, il suo mero sussistere fattivamente. Il fenomeno che deve servire da guida per
arrivare a comprendere la differenza tra essere ed ente, diventa immediatamente esso stesso
fonte di confusione. Serve a poco “sapere” che quell’ente che “ci” è, che è qui, non è, in
realtà, un ente qualsiasi, ma l’uomo: infatti, da dove otteniamo questo “sapere”, se non da un
concetto vago e indeterminato di «uomo» o di «vita umana», a cui poi applichiamo, come
fosse una sua aggiunta esplicativa, il tratto dell’essere-qui – cioè, appunto, dell’«esserci»?5
Per intendere adeguatamente il senso di Dasein, non possiamo dunque prendere le
mosse dal concetto di «uomo», sia esso un concetto comune o addirittura il concetto elaborato
dalla tradizione metafisica. In altre parole: l’uomo, la vita umana, la “realtà umana”, non
costituiscono una guida sufficiente a comprendere il senso del fenomeno indicato dalla parola
Dasein. Scrive infatti Heidegger nel Nietzsche:
Vollends benennt für uns das Wort »Dasein« etwas, was sich keineswegs mit dem
Menschsein deckt […]. Was wir mit »Dasein« bezeichnen, kommt in der bisherigen
Geschichte der Philosophie nicht vor. (I, S. 278)
«La parola D a s e i n nomina per noi qualcosa che non coincide affatto con l’essereuomo […]. Quello che noi indichiamo con D a s e i n non emerge in ciò che finora è
stata la storia della filosofia.»
Innanzitutto, il fenomeno del Dasein non è semplicemente l’essere-uomo, né,
tantomeno, qualcosa come il «modo d’essere della vita umana»6. Il Dasein non è affatto una
4
Cfr. Pietro Chiodi Introduzione all’ed. italiana di Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976 (1a ed.
1953), p. X.
5
E’ eloquente, in questo senso, la traduzione proposta nel 1938 da Henry Corbin di Dasein con
réalité-humaine (cfr. M. H. Questions I, Gallimard, Paris 1968, p. 14). Nel solco di questo equivoco di
fondo si colloca anche il traduttore italiano di Sein und Zeit Pietro Chiodi quando afferma che
«L’analitica esistenziale […] studia la realtà umana nella sua struttura e non nel suo apparire.» (Op.
cit., p. IX). Tutto questo, naturalmente, non toglie nulla al valore di traduzioni che hanno comunque
aperto una strada su una terra incognita.
6
Cfr. F. Volpi, Glossario in: M. H. Nietzsche, trad. it., Adelphi, Milano 1994.
3
qualità dell’uomo o un suo attributo; piuttosto è l’uomo che – in un senso che ora dovremo
chiarire – è Dasein.
In secondo luogo, Dasein è un fenomeno inedito, che il pensiero deve ancora imparare
a riconoscere e fronteggiare. In tutta la storia della filosofia, scrive Heidegger, non è mai
emerso nulla di simile. Certo, la filosofia ha dovuto ogni volta venire in chiaro della posizione
dell’uomo rispetto all’intero dell’ente: sul fondo mai pensato della determinazione greca
zw'/on lovgon e[con, l’essenza dell’uomo è stata di volta in volta portata alla luce come animal
rationale, come «soggetto», come «coscienza», e perfino come Übermensch, «ultrauomo».
Fin dall’inizio, la <500> filosofia ha sempre visto con chiarezza che l’uomo è quell’ente
chiamato a prendere una posizione nell’intero dell’ente. Ma quello che nella filosofia non
appare, è la provenienza di quella chiamata; quello che la filosofia ha nascosto, è che ciò che
chiama, il chiamante, non è a sua volta un ente, ma è l’essere stesso. L’essere chiama ogni
volta l’uomo a prendere posizione nel bel mezzo dell’ente nella sua interezza: la nozione di
Dasein riconduce l’uomo in questo elemento primigenio, che Heidegger chiama anche der
Bezug, il contratto dell’uomo con l’essere e dell’essere con l’uomo.7
Non è, dunque, l’uomo in quanto tale a costituire il filo conduttore dell’esplicazione
del Dasein, bensì l’uomo nel suo contratto con l’essere, con l’essere stesso, ossia proprio con
l’elemento che sta alla base dell’intera genitura filosofica e che, proprio per questo, non viene
però mai portato alla luce come tale. Infatti, se, da un lato, la filosofia consiste nell’interrogare
ciò che comunemente non viene considerato degno di interrogazione in quanto ovvio e
indiscutibile (e cioè: il senso dell’ente), dall’altro, però, la filosofia ottiene la forza del proprio
interrogare da una sorgente di cui non può avvedersi. L’impresa di Heidegger è consistita
precisamente nel mettere la filosofia dinanzi a una domanda che, a quanto risulta, non era mai
stata fino ad allora posta esplicitamente, e cioè questa: da dove proviene la domanda che
interroga il senso dell’ente? Questo «ovvio e indiscutibile» della filosofia – che dev’essere
tenuto ben distinto da quell’altro «ovvio» cui abbiamo accennato poco fa, ossia quello in cui
insistono, a loro modo, sia il senso comune sia i saperi scientifici, e che la filosofia ha ogni
volta il compito di rimettere in discussione –, ebbene, questo ovvio e indiscutibile è appunto il
«senso di ‘essere’» (Sinn von Sein). Il pensiero che si accorge di tale impensato, non è più, a
7
«L’uomo insiste nel contratto [Bezug] che l’essere stesso istituisce con lui, con l’uomo, nella misura
in cui egli, in quanto uomo, si tiene in rapporto con l’ente come tale. L’essere stesso, nel mentre si
reca nella disascosità di se stesso – e solo in questo modo Esso è “essere” – si procura il luogo
d’insorgenza del proprio ad-vento in quanto luogo che custodisce il proprio restare-via. Tale “dove”,
4
sua volta, filosofia. Ha dinanzi a sé un compito diverso – e tuttavia in intima consonanza con
il compito della filosofia stessa.
La portata di questo scorgimento di Heidegger e le conseguenze del contributo alla
filosofia in cui tale scorgimento consiste, sono ancora ben lungi dall’essere anche solo
intraviste. La tendenza spontanea di ciascuno di noi – non importa se “esperti di filosofia” o
apparentemente estranei al pensiero – è immancabilmente quella di ricondurre tutto ciò che
non è (ancora) mai stato sperimentato a qualcosa di noto. Per questa ragione, nel trattato
postumo Besinnung, Heidegger si premura di ricordare:
Das Da-sein bleibt unvergleichlich, verstattet keine Hinsicht, in die es noch als ein
Bekanntes untergebracht werden könnte. […] Daher ist das Da-sein <501> nicht an
einem Seienden, weder an irgend einem Vorhandenen noch am Menschen vorfindlich
und aufweisbar. (GA 66, S. 325)
«Il D a - s e i n resta qualcosa di incomparabile, che non concede alcuna angolazione
rispetto alla quale possa essere rubricato come un che di noto. […] Pertanto il D a s e i n non può essere riscontrato e mostrato in un ente, sia esso un ente sussistente
qualsiasi o l’uomo.»
Mentre, con l’introduzione della parola Dasein, Heidegger invita a distogliere lo
sguardo da ciò che è meramente constatabile nell’uomo, noi instiamo invece nel ricondurre il
Dasein a un tratto constatabile, e dunque osservabile e descrivibile, di quell’ente rispetto al
quale ne sappiamo già abbastanza, e cioè, appunto, l’uomo.
Ora, da nessun punto di vista il Dasein può considerarsi qualcosa di noto. Il pensiero
può solo prepararsi a riconoscerlo. Un modo sicuro per non riconoscerlo, è credere di poterne
ricavare una rappresentazione a partire dall’osservazione di un ente – ad esempio l’uomo. Il
Dasein è infatti radicalmente non-riscontrabile e indimostrabile: nessuna descrizione
dell’ente-uomo, per quanto acuta e penetrante, e nessuna dimostrazione, per quanto rigorosa e
stringente, potrà mai farci incontrare il contratto dell’uomo con l’essere.
Nel seminario del 1966 su Eraclito, condotto con Eugen Fink, Heidegger ricorda la
neue Position guadagnata in Essere e tempo con la nozione di Dasein:8
in quanto è l’“ad-” [Da] del soggiorno, appartiene all’essere stesso, “è” essere stesso e si chiama
pertanto l’ad-essere [Da-sein]» (Nietzsche II, p. 358)
8
«Neue Position» che, dice Heidegger, va irrimediabilmente perduta quando si intenda Dasein nel
senso della traduzione francese être-là, impiegata ad esempio da Sartre (cfr. pp. 203-4).
5
Dasein heißt nicht Dort- und Hiersein. […] In »Sein und Zeit« wird Dasein wie folgt
geschrieben: Da-sein. Das Da ist die Lichtung und Offenheit des Seienden, die der
Mensch aussteht. (S. 204)
«D a s e i n non significa essere-qui e essere-là <non significa «esserci»> […] In Sein
und Zeit, D a s e i n è scritto in questo modo: D a - s e i n . Il D a è la stagliatura e
l’insorta estensione dell’essente che l’uomo è chiamato a sostenere.»
Questo passo meriterebbe una discussione approfondita: in esso si trovano tutte le
indicazioni necessarie per poter giungere a una comprensione adeguata (e dunque,
eventualmente, a una traduzione). Dasein non può essere inteso come «esserci», e ciò per
almeno due motivi: innanzitutto perché il Da non è un «qui» o un «là», non è cioè un mero
avverbio di luogo;9 Da indica piuttosto quell’estensione <502> di senso – di cui l’uomo è, che
lo voglia o no, responsabile – entro cui l’ente (questa matita, quella montagna, quello
sguardo…) giunge nella singolare prossimità che gli è ogni volta propria (la matita alla mano
che scrive, la montagna all’occhio che guarda e contempla, lo sguardo al cuore che
palpita…). Ma, in secondo luogo, «esserci» non è una traduzione di Dasein perché il Sein,
l’«essere», non è mai, per l’uomo, un mero “stato”, bensì un compito da adempiere. Per dirlo
con una formula concisa: egli è incaricato di essere, e non, semplicemente, situato nell’essere.
Prima ancora di essere un concetto o una parola, Dasein è un pensiero. Come tale,
esso è radicalmente intraducibile. Ma tale intraducibilità, lungi dall’essere un motivo per
ritenere vana ogni ricerca, è anzi uno sprone a cercare nelle nostre lingue le risorse per
provare a nostra volta a pensare. Infatti, in ogni lingua deve essere possibile l’esperienza di
quella mancanza della parola che, come abbiamo visto all’inizio, sta all’origine di ogni
nominazione fenomenologica. E, trattandosi del Dasein, è semplicemente impensabile che
una lingua non conosca, in un modo o nell’altro, quel contratto originario all’essere che
definisce il tratto più originariamente umano nell’uomo.
E’ dunque da considerare con estrema attenzione la soluzione, avanzata recentemente
da Gino Zaccaria, di rendere in italiano Da-sein con «ad-essere».10 Essa è, ad oggi, l’unica
proposta alternativa a «esserci» formulata da un traduttore italiano. Il suo merito principale è
9
Sulla ricchezza di senso del «da» nella lingua tedesca si possono leggere con profitto le osservazioni
di Walter Biemel nel saggio Remarques sur les Sonnets à Orphée de Rilke, in La fête de la pensée.
Hommage à François Fédier, Paris 2001, in particolare pp. 333-35.
10
In: M. H. L’origine dell’opera d’arte [Der Ursprung des Kunstwerkes], a cura di Gino Zaccaria e
Ivo De Gennaro, Marinotti Edizioni, Milano 2000. Per una discussione dettagliata di questa proposta
si veda Gino Zaccaria L’inizio greco del pensiero. Heidegger e l’essenza futura della filosofia,
Marinotti Edizioni, Milano 1999, in particolare pp. 175-192.
6
senz’altro quello di attingere a una risorsa peculiare della lingua italiana in quanto lingua
latina. In latino, il prefisso «ad-» raccoglie e compagina una molteplicità di tratti spaziali e
temporali, che vanno precisamente nel senso dell’estendersi di una prossimità, del prendere
contatto, dell’andare incontro e, simultaneamente, essere toccati e riguardati da ciò verso cui
ci si dirige.11
Il
verbo
latino
adsum
/
adesse,
opportunamente
udito,
si
mostra
così
sorprendentemente capace di indicare, a suo modo, il fenomeno che ha occupato sin qui le
nostre riflessioni. Che l’uomo sia un adessere significa: egli è, per costituzione (e a differenza
di qualunque altro ente), “l’essere dell’ad-”, l’essere che non <503> può ritrarsi dal compito
d’incontrare ciò che continuamente gli va incontro e gli si rivolge.12
A differenza di «esserci», che si accontenta di mimare il tedesco, «adessere» cerca di
ri-pensare il fenomeno in italiano. Non c’è infatti altro “metodo” che vi conduca all’infuori di
quello che Heidegger, pensando evidentemente al suo proprio lavoro, ha una volta enunciato
dicendo:
In der Philosophie ist kein Wort und kein Begriff abgegriffen. Wir müssen die
Begriffe jeden Tag neu denken. (Heraklit, S. 128)
«In filosofia, non esistono dizioni e concetti triti. Ogni giorno, dobbiamo pensare i
concetti in modo nuovo.»
Lisbona, 8 marzo 2002
11
Alla voce «ad» del Dictionnaire étymologique de la langue latine di Ernout e Meillet, leggiamo:
«Comme préverbe, ad- marque l’approche, la direction vers, et par suite le commencement d’une
action […] Comme ab, ad se joint à des adverbes de lieu marquant un mouvement vers un but».
Questo tratto di motilità, e più precisamente di innesco di un movimento in sé compiuto e
compaginato (tevlo"), sembra particolarmente consonante con l’ascolto che Heidegger presta al «Da-»
tedesco, ovvero con il senso di decontrattezza (Erschlossenheit), insorta estensione (Offenheit) e
stagliatura (Lichtung).
12
Cfr. Gino Zaccaria L’inizio greco del pensiero, cit., p. 192
7