sociologia dei consumi alimentari - Dipartimento di Scienze sociali e

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SOCIOLOGIA DEI CONSUMI
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Dalla fine dell'ottocento ad oggi la teoria economica, quanto meno nella sua versione dominante
marginalista o neoclassica ha costruito i propri modelli di analisi considerando i consumatori, tutti
i consumatori, come i sovrani del mercato. Da ciascun consumatore partirebbero quelle scelte che,
sommandosi a quelle di altri consumatori, creano una domanda alla quale la produzione non potrà
fare a meno di rispondere. Postulata la sovranità dei consumatori, la scienza economica dominante
non si interroga molto sulle ragioni delle loro scelte, su come effettivamente vengano prese, e su
quali significati soggettivi e sociali abbiano. L’agire di consumo è cioè modellato come un’azione
razionale e il consumatore è indicato come un attore che sa e può agire strumentalmente,
acquistando solo ciò che gli è utile indipendentemente dal giudizio o dalle esortazioni degli altri e
valutando compiutamente le diverse opzioni sul mercato (Hargreaves 1989). L'impostazione
marginalista o neoclassica si fonda insomma su una particolare teoria del valore: si tratta di una
teoria soggettivista per cui il valore “vero” delle cose è dato non dalle proprietà fisiche delle cose
stesse, ma dalle valutazioni soggettive che le persone ne danno. In altri termini, non desideriamo ciò
che è utile, ma ci è utile ciò che desideriamo. La teoria dell’utilità neoclassica, associata ad autori
come William Jevons, Carl Menger, Vilfredo Pareto e Léon Walras, sostiene quindi che il valore di
una cosa è da misurarsi in relazione all’utilità che ha per il consumatore, ovvero al piacere che gli
procura. Il soggettivismo di questa impostazione viene mitigato dal fatto che il piacere è connesso
alla quantità del bene che viene consumato: consumando quantità crescenti di una qualsivoglia
merce il consumatore proverà marginalmente sempre meno piacere fino a che, al limite, essa non
procurerà più piacere e diventerà inutile (Schumpeter 1955).
L’economia politica marxiana porta alle estreme conseguenze l’idea che il consumo si configuri
come una esigenza strutturale dell’economia capitalista con l’idea di bisogni indotti e finisce per
concepire il consumo come un atto totalmente eteronomo ispirando alcune delle più importanti
riflessioni critiche del secondo novecento […] Nei capitoli dedicati al consumo del suo celeberrimo
Il capitale Marx (1867) considerava che, per far funzionare il capitalismo, i bisogni degli esseri
umani devono conformarsi alle esigenze del sistema produttivo. La capacità di consumo dei singoli
non può infatti essere una barriera per lo sviluppo economico. Il sistema capitalistico deve piuttosto
indurre sempre nuovi bisogni nell’animo umano, manipolando i desideri per le merci e facendoli
crescere incessantemente. Secondo Marx, nelle società capitalistiche i consumatori non sanno più
capire cosa è davvero utile e cosa non lo è e finiscono per consumare merci la cui unica utilità è
quella di arricchire coloro che hanno organizzato la loro produzione e circolazione sfruttando
manodopera a basso costo. Poiché in un sistema capitalistico gli esseri umani sono alienati dai frutti
del loro lavoro, non possono rendersi conto che le merci incorporano una certa quantità di lavoro e
che i loro prezzi sono il frutto di un calcolo astratto del tempo di lavoro. Il valore di mercato non è
altro che una relazione tra persone, e tuttavia "è una relazione che viene nascosta dietro le cose". Le
merci allora diventano feticci, sembrano avere una vita propria, sono lontane, separate dai soggetti,
quasi magiche: sono solo l'ombra delle relazioni sociali di cui sono espressione.
Thorstain Veblen nel suo La teoria della classe agiata (1899), uno dei primi grandi lavori sul
consumo, ha messo a punto il concetto di "consumo vistoso" per indicare quei fenomeni di
consumo che sfuggono alla logica della massimizzazione dell’utilità al minor costo. Egli ha
osservato che accanto ad azioni di consumo meramente strumentali, spiegabili mediante il
tradizionale ricorso al valore d'uso delle merci, operano processi cerimoniali ed onorifici. Il valore
di alcuni beni sarebbe determinato esclusivamente dalla loro capacità di rendere visibile una data
posizione sociale. Il consumo o spreco vistoso funge quindi da dispositivo di
dimostrazione/riconoscimento di una posizione elevata, fondato sulla consapevolezza che
"ricchezza e potenza devono essere messe in evidenza, poiché la stima è concessa solo di fronte
all'evidenza" (Ibidem: trad. it. 32). Un oggetto costoso può essere ricercato proprio per il suo prezzo
elevato, perché mostrandolo l’attore sociale potrà visibilmente dimostrare la propria “potenza
pecuniaria”.
E’ nella fase post-fordista che, come hanno sostenuto i sociologi Pierre Bourdieu (1979) e Mike
Featherstone (1991), le nuove classi medie, e gli intermediari culturali in particolari, acquistano
maggior potere e si fanno agenti del cambiamento, promuovendo nuovi stili di consumo che
ambiscono ad essere trasversali alle divisioni sociali tradizionali. Secondo Bourdieu (1979: trad. it.
319-20) in particolare “la nuova borghesia è quella che ha dato inizio alla riconversione etica
richiesta dalla nuova economia, da cui essa ricava il suo potere ed i suoi profitti, ed il cui
funzionamento dipende tanto dalla produzione di bisogni e di consumatori, quanto da quella di
prodotti in quanto tali”. Ricalcando un ragionamento che, nella sua radicalità, risulta storicamente
dubbio, Bourdieu prosegue sostenendo che “la nuova logica dell’economia sostituisce alla morale
ascetica della produzione e dell’accumulazione, basata sull’astinenza, la sobrietà sul risparmio, sul
calcolo, una morale edonista del consumo, basata sul credito, sulla spesa, sul godimento”.
Featherstone (1991: 27) si differenzia da Bourdieu poiché ritiene che, sospinta proprio dalla
funzione egemonica dello "stile di vita" della nuova petite bourgeoisie del terziario avanzato, la
cultura di consumo contemporanea richieda di considerare i beni sia come "evidenziatori"
convenzionali, "controllati per sostanziare la visibile classificazione del mondo sociale in categorie
di persone", sia come "catalizzatori" per l'emulsione di "sogni, desideri e fantasie, che suggeriscono
autenticità romantica e pienezza emozionale nel compiacere se stessi invece che gli altri".
Edonismo e ascetismo si sono invece mescolati nella storia dell’economia moderna, ed etiche
edonistiche sono emerse assai prima del secondo periodo post-bellico. Lo storico statunitense
Thomas Jackson Lears (1983) ha, per esempio, documentato che negli Stati Uniti già nelle ultime
due decadi dell’ottocento la secolarizzazione dell’etica protestante è stata promossa anche dai
messaggi commerciali e si è sviluppato un clima sociale particolarmente favorevole al consumo con
l’emergere di un nuovo tipo di etica: l’“etica terapeutica dell’auto-realizzazione” che spinge gli
attori a cercare di realizzare se stessi mediante beni e servizi mirati alla salute e all’aspetto fisico.
Nell’ ottica della scuola di Francoforte gli imperativi produttivi orientano e determinano le
pratiche di consumo dei soggetti: la diffusione della razionalità strumentale dalla sfera produttiva
alla sfera di consumo e la sostituzione del valore d'uso con il valore di scambio creerebbero le
condizioni per il diffondersi di un gran numero di associazioni simboliche facilmente sfruttabili
dall'industria culturale. Per poter attirare il maggior numero di acquirenti, tali forme simboliche
sono sempre più orientate ad un minimo comune denominatore semplice e conformista. Così, chi
inizia a vedere un film può immaginarsi abbastanza presto come andrà a finire e chi ascolta musica
“leggera” abitualmente sa bene cosa aspettarsi dopo le prime note e può persino sentirsi gratificato
quando scopre di aver avuto ragione. Nel suo celebre saggio sulla musica popular o “leggera”
Adorno (1941) sostiene che la musica prodotta dell’industria culturale è standardizzata, promuove
un ascolto passivo e opera come un “cemento sociale” capace di riprodurre le forme di potere
dominanti. La musica, prodotta come merce per essere venduta ad un pubblico più vasto possibile e
quindi indifferenziato, perde le sue qualità artistiche, diviene un prodotto commerciale non
autentico e pre-digerito che promuove passività ed escapismo mascherando il proprio carattere
pseudo-individualizzato.
L’idea che il consumo di diversi i consumatori trasformano i loro significati culturali, è stata
sottolineata dallo storico e teorico culturale Michel de Certeau nel suo L’invenzione del quotidiano
(1984: trad. it. xii e ss). Secondo De Certeau, il consumo è una forma di produzione del valore che
si contrappone, per natura e metodi, a quella propria dei sistemi di produzione delle merci.
Quest’ultima è totalitaria, razionalizzata e spettacolare; il consumo invece è un “lavoro di straforo”
con il quale i soggetti si riappropriano, a volte in modo sovversivo, di beni ufficialmente destinati
ad altri usi. Proprio come il lettore che legge un romanzo si trova innanzi un testo compiuto e
commercializzato secondo logiche ben definite e tuttavia, nel suo “andare alla deriva attraverso la
pagina”, introduce il suo mondo di significati e le sue esperienze nello spazio dell’autore estraendo
qualcosa di diverso dall’intenzione originale, così il consumatore necessariamente interpreta le
merci in modo personale e, seguendo la logica “dell’arrangiarsi con quel che c’è”, le assembla in un
bricolage sempre nuovo […] i consumatori trovano il modo di utilizzare le merci e i loro significati
in modi personali, a volte sovversivi, muovendosi come dei bricoleurs negli interstizi lasciati a loro
disposizione dalla cultura di consumo. Il consumatore “assimila” i beni, non necessariamente nel
senso che egli diviene simile a quello che consuma, ma anche nel senso che egli rende simile a se
stesso, appropria e riappropria i beni, e per fare questo usa spesso delle “tattiche” dei “modi
ingegnosi con cui i deboli usano i forti, e quindi forniscono una dimensione politica alle pratiche
quotidiane” (Ibidem: trad. it. 166 e 14).
Daniel Miller (1995: 41) vede il consumo come un “processo relativamente autonomo e plurale di
auto-costruzione culturale”: “non vi è un solo modo o un modo appropriato di consumare” e “gli
imperativi del consumo possono essere tanto vari quanto i contesti culturali in cui i consumatori
agiscono”, tanto che il consumo “rappresenta la diversità delle reti sociali locali che mantengono le
proprie differenze opponendosi all’omogeneizzazione delle istituzioni e dei meccanismi di
produzione e distribuzione”. Per la sua natura poliforme, insiste quindi Miller (Ibidem: 31), il
consumo può essere visto come “l’avanguardia della storia” e cioè il tentativo degli attori sociali di
“distillare la propria umanità” negando la logica della mercificazione, facendo diventare anche
l’oggetto più banale e massificato “qualcosa che non può essere né comprato né ceduto” […] La
cultura materiale è piuttosto un processo che implica, in termini che Miller trae dalla teoria
hegeliana dell’oggettificazione, un movimento “duale” di esternalizzazione prima e di
internalizzazione poi. Gli oggetti non sono propriamente cultura se non sono sia prodotti sia
consumati, sia “posti fuori” dal soggetto sia “ripresi” a suo uso e consumo. Miller (1987: 17)
sostiene così che il consumo può essere considerato come una forma di riassorbimento - e cioè “il
movimento mediante il quale una società riappropria la propria forma esterna” e il modo in cui un
soggetto “assimila la propria cultura e la usa per sviluppare se stesso come attore sociale”.
Nella visione di Bourdieu il consumatore opera in base ad una logica distintiva ed ha “incorporato”
tale logica nel proprio gusto. A questo scopo Bourdieu mette a punto la nozione di habitus, che
permette di concepire la corporeità come precedente alla coscienza senza però ricorrere
all'essenzialismo biologistico. L'habitus è un "sistema di disposizioni durevoli e trasferibili, di
strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, in altre parole come principi
generatori e organizzatori di pratiche e rappresentazioni che possono essere oggettivamente adattate
al loro scopo senza supporre la visione cosciente dei fini e il dominio esplicito delle operazioni
necessarie per ottenerli" (Bourdieu 1980: 88). L'insistenza di Bourdieu sull'incorporamento è
importante per pensare in modo diverso all'azione, incluso l’agire di consumo: il nostro modo
pratico di accostarci al mondo "non è uno stato dell'anima, o, meno ancora, una sorta di adesione
decisionale ad un insieme di dogmi e dottrine costituite", ma "uno stato del corpo" (Ibidem: 115).
L'habitus è iscritto nel corpo attraverso le esperienze passate, si standardizza nei primi anni di vita
ed è un meccanismo inconscio ma estremamente adattabile che determina l'atteggiamento degli
attori nei confronti degli oggetti, di se stessi e degli altri. Nell’ottica bourdieuiana il gusto viene
concettualizzato come la realizzazione soggettiva del meccanismo dell’habitus. Sebbene venga
espresso nel linguaggio apparentemente neutro e innocuo delle preferenze individuali, il gusto
“accoppia e assortisce i colori ma anche le persone, le quali sono coppie ‘ben assortite’ innanzi tutto
dal punto di vista dei gusti” (Bourdieu 1979: trad. it. 249). Si tratta cioè di un meccanismo
generativo di stili di vita e classificatorio che, al contempo, classifica il classificante e contribuisce a
stabilizzarne la collocazione sociale […] L'habitus individuale è sempre in una relazione di
omologia - ovvero di "diversità all'interno dell'omogeneità" (Bourdieu 1980: 101) - rispetto
all'habitus di classe definito da due forme principali di capitale (economico e culturale) che esso
stesso, in quanto creativo strumento classificatorio applicabile all'infinito, concorre a riprodurre. Le
pratiche di consumo in particolare riflettono la genesi culturale dei gusti dal punto specifico entro lo
spazio sociale nel quale hanno origine. I gusti sono implicati in un insieme di "sistemi classificatori"
che fissano "una situazione di lotte sociali", ovvero "uno stato della distribuzione dei vantaggi e
degli obblighi" e sono "assai meno strumenti di conoscenza di quanto siano invece strumenti di
potere".
Per Mary Douglas i beni svolgono una funzione differenziante e discriminatoria: essi "possono
essere usati come barriere o come ponti" per sottolineare alleanze e estraneità sociali (Douglas e
Isherwood 1979: trad. it. 14). La sua visione del legame tra consumo e struttura sociale è, d’altro
canto, meno pregiudicata da una rappresentazione gerarchica delle differenze sociali di quanto non
sia quella di Bourdieu, e questo anche e soprattutto perché il principale bersaglio critico di Douglas
(1996: trad. it. 36) è quella certa visione che vede il consumatore come un “essere incoerente e
frammentato, confuso nei propri scopi e appena responsabile delle proprie decisioni, del tutto in
balia delle variazioni dei prezzi, da un lato, e delle oscillazioni della moda dall’altro”.
Nell’impostazione di Douglas l’enfasi è posta sul soggetto e sulla sua identità: i beni "servono per
pensare", possono essere trattati come mezzi simbolici di classificazione del mondo e di
comunicazione non verbale. Il soggetto non potrebbe agire razionalmente se il mondo circostante
non fosse caratterizzato da una certa coerenza e regolarità. L'attore necessita dunque di una realtà
intelligibile fatta di segni visibili ed i beni assolvono questa funzione fornendo la base materiale per
la stabilizzazione delle categorie culturali […] Scegliamo questi o quei beni proprio perché essi non
sono neutri, perché sono culturalmente incompatibili ed anzi in opposizione a quelle prospettive
sull'organizzazione della società e dell’identità che vogliamo rifiutare. Il consumo in questo senso è
il vero e proprio "campo in cui viene combattuta la battaglia per definire la cultura e darle forma"
(Ibidem: trad. it. 64), riflette cioè scelte fondamentali sul tipo di società in cui si vuole vivere e sul
tipo di persona che si vuole essere, e ovviamente su ciò che non si accetta e non si vuole essere. E
sono soprattutto i rifiuti a sottolineare, sempre e più chiaramente delle preferenze, il ruolo culturale
del consumo: per Douglas (1996: trad. it. 37) infatti “il consumo è continuamente ispirato da ostilità
culturale”, “l’acquirente si rivela come essere coerente e razionale rispetto ai propri consumi
allorché protesta”.
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