Editor in chief Giorgio Lambertenghi Deliliers Anno 6 Numero 3 2009 Seminari di Ematologia Oncologica NEL PROSSIMO NUMERO L’ANZIANO IN ONCOEMATOLOGIA Principi di trattamento • Leucemia mieloide acuta • Leucemia linfoblastica acuta • Linfomi maligni • Leucemia mieloide acuta EDIZIONI INTERNAZIONALI srl Edizioni Medico Scientifiche - Pavia Leucemia mieloide acuta Vol. 6 - n. 3 - 2009 Profilo genetico 5 MARINO CLAVIO, MAURIZIO MIGLINO, MARCO GOBBI Editor in Chief Giorgio Lambertenghi Deliliers Università degli Studi, Milano Editorial Board Sergio Amadori Università degli Studi Tor Vergata, Roma Mario Boccadoro Università degli Studi, Torino Leucemie secondarie therapy-related Alberto Bosi Università degli Studi, Firenze 31 Federico Caligaris Cappio Università Vita e Salute, Istituto San Raffaele, Milano Antonio Cuneo GIUSEPPE LEONE, MARIA TERESA VOSO, LUANA FIANCHI, LIVIO PAGANO Università degli Studi, Ferrara Marco Gobbi Università degli Studi, Genova Mario Petrini Università degli Studi, Pisa Terapie innovative 51 Giorgina Specchia ADRIANO VENDITTI, LICIA OTTAVIANI, CHIARA SARLO, LUIGI DI CAPRIO, MICOL QUARESIMA, SVITLANA GUMENIUK, MARIA GIOVANNA CEFALO, ELEONORA CERESOLI, MARIA ILARIA DEL PRINCIPE, LUCA MAURILLO, FRANCESCO BUCCISANO, SERGIO AMADORI La malattia in età pediatrica CARMELO RIZZARI, TIZIANA COLIVA, MARCO SPINELLI, ANDREA BIONDI Giovanni Pizzolo Università degli Studi, Verona Università degli Studi, Bari Direttore Responsabile Paolo E. Zoncada Registrazione Trib. di Milano n. 532 del 6 settembre 2007 73 Edizioni Internazionali srl Divisione EDIMES Edizioni Medico-Scientifiche - Pavia Via Riviera, 39 - 27100 Pavia Tel. +39 0382 526253 r.a. - Fax +39 0382 423120 E-mail: [email protected] Seminari 2 Periodicità Quadrimestrale Scopi Seminari di Ematologia Oncologica è un periodico di aggiornamento che nasce come servizio per i medici con l’intenzione di rendere più facilmente e rapidamente disponibili informazioni su argomenti pertinenti l’ematologia oncologica. Lo scopo della rivista è quello di assistere il lettore fornendogli in maniera esaustiva: a) opinioni di esperti qualificati sui più recenti progressi in forma chiara, aggiornata e concisa; b) revisioni critiche di argomenti di grande rilevanza pertinenti gli interessi culturali degli specialisti interessati; NORME REDAZIONALI 1) Il testo dell’articolo deve essere editato utilizzando il programma Microsoft Word per Windows o Macintosh. Agli AA. è riservata la correzione ed il rinvio (entro e non oltre 5 gg. dal ricevimento) delle sole prime bozze del lavoro. 2) L’Autore è tenuto ad ottenere l’autorizzazione di «Copyright» qualora riproduca nel testo tabelle, figure, microfotografie od altro materiale iconografico già pubblicato altrove. Tale materiale illustrativo dovrà essere riprodotto con la dicitura «per concessione di …» seguito dalla citazione della fonte di provenienza. 3) Il manoscritto dovrebbe seguire nelle linee generali la seguente traccia: Titolo Conciso, ma informativo ed esauriente. Nome, Cognome degli AA., Istituzione di appartenenza senza abbreviazioni. Nome, Cognome, Foto a colori, Indirizzo, Telefono, Fax, E-mail del 1° Autore cui andrà indirizzata la corrispondenza. Introduzione Concisa ed essenziale, comunque tale da rendere in maniera chiara ed esaustiva lo scopo dell’articolo. Parole chiave Si richiedono 3/5 parole. Corpo dell’articolo Il contenuto non deve essere inferiore alle 30 cartelle dattiloscritte (2.000 battute cad.) compresa la bibliografia e dovrà rendere lo stato dell’arte aggiornato dell’argomento trattato. L’articolo deve essere corredato di illustrazioni/fotografie, possibilmente a colori, in file ad alta risoluzione (salvati in formato .tif, .eps, .jpg). Le citazioni bibliografiche nel testo devono essere essenziali, ma aggiornate (non con i nomi degli AA. ma con la numerazione corrispondente alle voci della bibliografia), dovranno essere numerate con il numero arabo (1) secondo l’ordine di comparsa nel testo e comunque in numero non superiore a 100÷120. di Ematologia Oncologica Periodico di aggiornamento sulla clinica e terapia delle emopatie neoplastiche Bibliografia Per lo stile nella stesura seguire le seguenti indicazioni o consultare il sito “International Committee of Medical Journal Editors Uniform Requirements for Manuscripts Submitted to Biomedical Journals: Sample References”. Es. 1 - Articolo standard 1. Bianchi AG, Rossi EV. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation. N Engl J Med. 2004; 232: 2847. Es. 2 - Articolo con più di 6 autori (dopo il 6° autore et al.) 1. Bianchi AG, Rossi EV, Rose ME, Huerbin MB, Melick J, Marion DW, et al. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7. Es. 3 - Letter 1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes [Letter]. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7. Es. 4 - Capitoli di libri 1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes. In: Caplan RS, Vigna AB, editors. Immunology. Milano: MacGrawHill; 2002; p. 93-113. Es. 5 - Abstract congressi (non più di 6 autori) 1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation [Abstract]. Haematologica. 2002; 19: (Suppl. 1): S178. Ringraziamenti Riguarda persone e/o gruppi che, pur non avendo dignità di AA., meritano comunque di essere citati per il loro apporto alla realizzazione dell’articolo. Edizioni Internazionali Srl Divisione EDIMES EDIZIONI MEDICO SCIENTIFICHE - PAVIA Via Riviera, 39 • 27100 Pavia Tel. 0382526253 r.a. • Fax 0382423120 E-mail: [email protected] 3 Editoriale GIORGIO LAMBERTENGHI DELILIERS Università degli Studi di Milano U.O. Ematologia 1 - Centro Trapianti di Midollo Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena Seminari di Ematologia Oncologica propone in questo numero le nuove acquisizioni sulla leucemia mieloide acuta, malattia che comprende un insieme di entità diverse sul piano clinico e biologico. La scoperta di questa eterogeneità è dovuta all’identificazione di markers citogenetici e molecolari, che hanno portato al riconoscimento di vari sottotipi a prognosi differente e soprattutto alla prospettiva di potenziare la terapia convenzionale con nuovi farmaci più mirati in senso patogenetico. Infatti accanto alla morfologia, alla citochimica e alla citofluorimetria oggi è consigliabile completare l’iter diagnostico con indagini di citogenetica e genetica molecolare, che permettono il rilievo di alterazioni cromosomiche o mutazioni geniche correlate, sia in età pediatrica che adulta, al blocco dei processi di differenziazione o alla disregolazione del ciclo cellulare e dei processi di apoptosi o allo stimolazione dei precursori leucemici. Nelle leucemie secondarie le rotture e le traslocazioni cromosomiche da parte di agenti citotossici favoriscono l’acquisizione delle mutazioni geniche, la cui attività neoplastica viene favorita anche da una suscettibilità individuale dipendente da fattori ereditari, quali i polimorfismi del metabolismo dei farmaci o i difetti di riparazione del DNA. La conferma viene anche dalla pediatria dove specifiche condizioni genetiche sono associate ad una maggiore incidenza di malattia leucemica. Nell’adulto una predisposizione specifica appare associata anche dal tipo di tumore solido primitivo, come dimostrato dal rischio di leucemia acuta promielocitica nelle donne trattate per un carcinoma della mammella. La terapia della leucemia mieloide acuta è tuttora ancorata a farmaci tradizionali come le antracicline e la citosina arabinoside, che negli ultimi anni non hanno portato a sostanziali miglioramenti della sopravvivenza. Tuttavia interessanti prospettive vengono dalla sperimentazione clinica con nuove molecole che mirano a trattare la malattia nelle sue diverse espressioni genetico molecolari con un’azione mirata sugli eventi epigenetici e sulle diverse mutazioni. 5 Profilo genetico MARINO CLAVIO, MAURIZIO MIGLINO, MARCO GOBBI Clinica Ematologica, Università degli Studi di Genova Marco Gobbi n INTRODUZIONE La leucemia mieloide acuta (LMA) comprende un insieme di entità clinico-ematologiche molto diverse, caratterizzate da un’espansione clonale della mielopoiesi in cui sono spesso associati un incremento della proliferazione ed un blocco maturativo (1). Sulla base dei reperti osservabili con la microscopia ottica (colorazioni May Grumwald Giemsa e reazioni citochimiche) il gruppo FAB ha riconosciuto sei varietà (2) distinguibili in base al grado e al tipo di differenziazione del clone leucemico. L’utilizzo sempre più ampio e raffinato delle metodiche citofluorimetriche ha consentito negli anni successivi una caratterizzazione sempre più precisa dei vari sottotipi, ha individuato numerosissimi fenotipi aberranti utili per il monitoraggio quantitativo del clone leucemico ed evidenziato nuove varietà (leucemie indifferenziate, leucemie bifenotipiche, leucemie bilineari…). Ben presto è risultato evidente che l’eterogeneità morfologica, immunofenotipica e clinica era in relazione con la presenza di una vasta gamma di aberrazioni citogenetiche e/o di mutazioni geniche o da alterazioParole chiave: Leucemia mieloide acuta, Prognosi, Profilo genico, WT1 NPM Indirizzo per la corrispondenza Dott. Marino Clavio Clinica Ematologica Università degli Studi di Genova Viale Benedetto XV, 6 - 16132 Genova E-mail: [email protected] ni della funzione o dell’espressione di numerosi geni. Il ruolo centrale delle alterazioni genetiche è stato riconosciuto dalla WHO che ha pubblicato nel 1999 una nuova classificazione, in cui sono elencate diverse entità clinico-ematologiche associate a precise alterazioni citogenetiche (3, 4). Le alterazioni genomiche influenzano la funzione delle molecole di segnale, dei fattori di trascrizione e dei recettori dei fattori di crescita e la risposta al trattamento. Inoltre spesso coesistono in una singola cellula leucemica e riflettono gli eventi trasformanti che si accumulano nel clone durante lo sviluppo della leucemia (5). L’identificazione di sottotipi genetici ha migliorato considerevolmente la stratificazione prognostica, precedentemente basata unicamente su elementi morfologici e clinico-ematologici e, in alcuni casi, ha consentito l’individuazione di terapie adattate sul difetto molecolare, come nel caso della leucemia acuta promielocitica (LAP). Negli ultimi anni le indagini molecolari si sono concentrate sulle LMA a cariotipo normale (CN), che costituiscono circa il 50-55% delle forme, producendo una mole considerevole di dati non sempre concordi. Nella fase attuale la disponibilità di tecniche di biologia molecolare capaci di studiare (per mutazione o espressione) svariati geni ha ingenerato nell’ematologo clinico una certa incertezza. Il significato prognostico dei vari profili genetici è in qualche caso ancora incerto, come il rapporto con particolari alterazioni citogenetiche e opzioni terapeutiche (ad esempio il trapianto di cellule staminali allogeniche). La presente revisione è finalizzata a fare il punto aggiornato sul significato prognostico delle prin- 6 Seminari di Ematologia Oncologica cipali alterazioni citogenetico-molecolari ma soprattutto a fornire al clinico delle indicazioni pratiche sulle modalità di utilizzo di tutte queste informazioni nella fase della programmazione terapeutica e nel follow-up. n ALTERAZIONI CITOGENETICHE Una trattazione esaustiva degli innumerevoli apporti della citogenetica nella definizione diagnostica, nella delucidazione dei meccanismi leucemogenetici e nella messa a punto delle strategie terapeutiche richiederebbe un intero volume ed esulerebbe dagli scopi di questa revisione. Nella già menzionata nuova classificazione WHO (3, 4) il primo gruppo comprende le forme di LMA con ricorrenti anomalie genetiche e cioè: - la LMA con t(8;21)(q22;q22) in cui si verifica la formazione del gene ibrido AML1/ETO; - la LMA con eosinofilia midollare e inv(16) o t(16;16)(p13;q22) e formazione del gene ibrido CBFB/MYH11; Anomalia citogenetica Traslocazioni/inversioni t(8;21)(q22;q22) inv(16)(p13q22) o t(16;16)(p13;q22) t(15;17)(q22;q11-21) t(9;11)(p22;q23) t(6;11)(q27;q23) inv(3)(q21q26) o t(3;3)(q21;q26) t(6;9)(p23;q34) Aneuploidie/delezioni +8 -7/7q-5/5q-17/17p-20/20q9q+22 +21 +13 +11 Cariotipo complesso Cariotipo normale - la LAP con t(15;17)(q22;q11-21) e varianti; - la LMA con anomalie 11q23 (MLL), ad esempio t(9;11)(p22;q23) e t(6;11)(q27;q23). Esistono, come è ben noto, numerosissime altre alterazioni citogenetiche, classificabili come bilanciate (traslocazioni, inversioni) e non bilanciate (delezioni parziali, monosomie, trisomie…). Le principali sono riportate nella tabella 1. Ci limiteremo in questa sede a evidenziare l’utilità prognostica dello studio del cariotipo, con particolare attenzione ai lavori più recenti. Numerosi studi retrospettivi e prospettici hanno dimostrato che il cariotipo rappresenta uno dei più importanti fattori prognostici per risposta all’induzione, rischio di ricaduta e sopravvivenza (611). I cariotipi pre-trattamento sono raggruppati attualmente in tre gruppi prognostici di rischio (favorevole, intermedio e sfavorevole) e sono riportati nella tabella 2. I sistemi proposti dai vari gruppi collaboratori presentano molti aspetti comuni ma anche alcune differenze importanti. Il gruppo a prognosi favorevole include i pazienti che alla diagnosi presentano Alterazione genetica FAB Incidenza RUNX1/CBFA2T1 CBFB/MYH11 M2 M4 eo 6% 7% PML/RARalfa MLL/AF9 MLL/AF6 EVI1/RPN1 M3 M5 M4 ed M5 M1, M4, M6, M7 7% 2% 1% 1% DEK/CAN M2, M4 1% ? ? ? TP53 ? ? ? ? ? MLL - M2, M4, M5 M4, M4 eo M0-M1 M1,M2 - 9% 7% 7% 5% 3% 3% 3% 2% 2% 2% 10% 44% TABELLA 1 - Le più frequenti alterazioni citogenetiche. Profilo genetico Gruppo di rischio Alterazioni citogenetiche Favorevole Intermedio Sfavorevole t(8;21)(q22;q22) inv(16)(p13q22) t(16;16)(p13;q22) t(15;17)(q22;q11-21) cariotipo normale; -Y; +8; +11; +13; +21; del(20q) cariotipo complesso; inv(3)(q21q26), t(3;3)(q21;q26) -7, t(6;9)(p23;q34), t(6;11)(q27;q23), t(11;19)(q23;213.1) -5; del(5q); del(9q); t(9;11)(p22;q23); del(11q) In grassetto le alterazioni citogenetiche con significato prognostico largamente condiviso dai vari gruppi cooperatori TABELLA 2 - Gruppi di rischio in rapporto alle alterazioni citogenetiche (ECOG-SWOG). t(8;21)(q22;q22), inv(16)(p13;q22), t(15;17); essi sono circa il 20% e hanno più spesso un’età inferiore a 60 anni, l’85% di possibilità di ottenere una remissione completa ed il 30-40% di andare incontro ad una ricaduta. Il gruppo definito a prognosi intermedia comprende circa il 45% dei soggetti affetti da LMA, con outcome molto diversificato. Solo il 25% dei pazienti si può definire come lungo-sopravvivente. Infine il terzo gruppo è costituito da coloro che hanno un cariotipo complesso (con tre o più anomalie), delezione del cromosoma 5 o 7, tipiche delle LMA secondarie all’esposizione a farmaci o sostanze, oppure anomalie dell’11q, t(9;11), t(6;9). Questi pazienti rispondono in modo deludente a qualsiasi tipo di terapia e hanno una probabilità di sopravvivenza a 5 anni inferiore al 5%. Numerose anomalie citogenetiche incluse nel gruppo a cattiva prognosi [ad esempio -5, -7, del(5q), abn3q, del(7q), abn11q23 ecc.] sono spesso osservate assieme ad altre anomalie. Si configura così quello che è definito un cariotipo complesso, nella cui definizione conta solo il numero (spesso ≥3) e non il tipo di alterazioni cariotipiche. Un recente lavoro in pazienti fino a 60 anni ha dimostrato che le monosomie autosomiche (dei cromosomi 5, 7 o di altri cromosomi) conferiscono la prognosi peggiore (12). Al contrario trisomie, tetrasomie, anelli o altre aberrazioni strutturali hanno minor significato prognostico. L’impatto negativo di due o più monosomie autosomiche o di una monosomia associata ad un’altra anomalia (il cosiddetto indice di monosomia cariotipica) è molto forte (OS a 4 anni del 4%) e superiore a quello precedentemente indicato dal cosiddetto cariotipo complesso. I pazienti con cariotipo complesso (anomalie maggiori o uguali a 3 o a 5) che non soddisfano i criteri del cario- tipo monosomico presentano infatti una prognosi migliore. n DAL “GENE PROFILE” ALLE ALTERAZIONI GENICHE Principi metodologici Nuovi orizzonti si sono sicuramente aperti dopo la mappatura completa del genoma umano. Mentre è ancora in corso l’identificazione della funzione e della esatta localizzazione dei vari geni, si sono sviluppate nuove tecnologie che mirano ad entrare sempre più nei fini meccanismi di espressione e regolazione genica. - Gene expression profile: questa tecnologia è basata sullo studio contemporaneo dell’espressione anche di migliaia di geni. Si basa sull’uso di microcard contenenti da un lato il cDNA in esame e dall’altro svariate sonde specifiche. Attraverso complicate analisi computerizzate si giunge all’identificazione di un vero e proprio profilo genico in cui si possono identificare contemporaneamente geni silenziati e geni overespressi. L’obiettivo, che peraltro in certi casi è stato raggiunto, è distinguere nella malattia in esame diversi sottogruppi con uguali caratteristiche molecolari. LMA accomunate da caratteristiche citogenetiche precise e non random possono presentare peculiari profili di espressione genica. La stessa presenza di marcatori molecolari specifici si può associare a profili ben distinti. In questo modo si compie il primo vero passo verso la differenziazione puramente molecolare e patogenetica delle patologie in esame, identificando gruppi di entità che dovrebbero essere considerate in tutto e per tutto autonome. D’altro canto questa tecnologia permette anche di identificare nuovi genotipi 7 8 Seminari di Ematologia Oncologica e rappresenta il punto di partenza per lo studio di nuovi marcatori prognostici (13-20 ). - MicroRNA profiling: non troppo tempo è trascorso da quando si è arrivati a capire che minuscole sequenze di RNA variabilmente presenti nel nostro organismo rivestono un importante e insostituibile ruolo nelle regolazione e modulazione dell’espressione genica. In seguito si è giunti alla dimostrazione che esistono svariati profili di assetto e che questi possono essere specifici per ciascuna entità patologica. Si è sviluppato così un nuovo filone di ricerca che mira a sottoclassificare le LMA sulla base dell’assetto di microRNA. È stato evidenziato ancora che entità citogeneticamente o molecolarmente definite posseggono un profilo distinto. Esistono segnalazioni che dimostrano l’importanza prognostica di profili differenti di microRNA. Ulteriori indagini sono in corso per costruire il quadro patogenetico ed il ruolo di queste minuscole sequenze non codificanti di RNA nella definizione fenotipica della malattia (21-25). - Analisi di polimorfismi genici: è ben noto come l’espressione genica ed in parte la sua funzione possa essere alterata da mutazioni, delezioni, inserzioni, duplicazioni anche di una singola base. Svariati sono i metodi per analizzare tali polimorfismi. La comparative genomic hybridization (CGH) permette di evidenziare polimorfismi anche a carico di un singolo nucleotide (26). Accanto a questa esistono altre metodiche basate sull’amplificazione mediante PCR del segmento di DNA o RNA specifico e su particolari elettroforesi in grado di evidenziare l’alterata corsa del segmento mutato. Tutto si basa sul fatto che la corsa sul gel di elettroforesi, in determinate condizioni, dipende non solo dal peso molecolare, ma anche e soprattutto dalla sequenza nucleotidica del segmento in questione. Qui si fa riferimento all’SSCP (27-30), un’elettroforesi ad amperaggio o voltaggio e temperatura costante su un gradiente di acrilamide, al DGGE, tecnica elettroforetica per la separazione di frammenti di DNA in base alle loro differenti proprietà di dissociazione o melting (31, 32), al TGGE, tecnica in cui viene formato un gradiente di temperatura per la separazione in una seconda dimensione e in cui la separazione avviene in base a differenze di conformazione (33). Ulteriori metodiche meno diffuse sono l’analisi degli eteroduplex, il non isotopic Rnase Clevage Assay (NIRCA), il Protein Truncation Test (PTT), e in particolari situazioni i test basati sulla digestione enzimatica del segmento amplificato Ultimamente molto usato è la DHPLC (Denaturing High Performance Liquid Chromatography) una tecnica che, in condizioni parzialmente denaturanti e sotto un diretto controllo della temperatura, permette di discriminare all’interno di prodotti eterogenei di PCR, molecole di DNA eteroduplex rispetto alle molecole omoduplex. La tecnica sviluppata nel laboratorio del Prof. Cavalli Sforza alla Stanford University (USA) per la rilevazione di mutazioni del DNA si basa quindi, sulla differente velocità di eluizione in una colonna cromatografia per gli eteroduplex e gli omoduplex. Questi duplex si formano quando frammenti amplificati di DNA vengono denaturati termicamente e lasciati ricombinare. Una qualsiasi variazione (mutazione o polimorfismo) tra le due forme alleliche di un frammento porta alla formazione di un eteroduplex (combinazione di due catene di DNA a singola catena, non perfettamente corrispondenti, caratterizzata dalla presenza di una bolla a livello della quale si trova il mismatch). L’eteroduplex si comporta cromatograficamente in modo differente sia dall’omoduplex non mutato che dall’omoduplex mutato: l’eteroduplex è solitamente più veloce (meno trattenuto) degli omoduplex e da ciò si può caratterizzare la presenza di una variazione nucleotidica in un campione. La presenza di una mutazione o di un polimorfismo si evidenzia quindi, mediante picchi ulteriori o con un profilo diverso rispetto al wild-type (34). Tutti questi metodi sono in grado di identificare la presenza di sequenze mutate. Il passo successivo d’obbligo è il sequenziamento diretto della sequenza mutata, al fine di identificarne la natura. Molto scarsi sono i dati in letteratura sul significato e sulla valenza prognostica delle differenti mutazioni dei vari geni marker. Allo stesso tempo molto importante è identificare alterazioni di sequenza non random e correlarle clinicamente e biologicamente. - Analisi di espressione genica: a tal fine viene comunemente utilizzata la Real-Time PCR su cDNA 8 cioè ottenuto per trascrizione inversa dall’RNA totale del paziente. La Real-Time PCR è una PCR in cinetica in cui l’amplificazione ed il rilevamento dell’amplificato avvengono nello Profilo genetico stesso momento. Questo è possibile grazie all’introduzione all’interno della reazione di una molecola fluorescente, che ci dà la possibilità di seguire la reazione da un punto di vista visivo, grazie all’ausilio di appositi software. Sono generalmente utilizzate sonde taqman (o taqman probes). Si tratta di oligonucleotidi lineari di 25-28 pb marcate al 5’ con il reporter ed al 3’ con il quencer. Il quencer estingue la fluorescenza del reporter solo quando la sonda è integra; quando la sonda viene tagliata, il quencer ed il reporter si liberano in soluzione e si manifesta la fluorescenza (35-38). n SIGNIFICATO PROGNOSTICO DELLE ALTERAZIONI DELL’ESPRESSIONE GENICA WT1 Il gene del tumore di Wilms, localizzato sul cromosoma 11p13, è stato clonato per la prima volta nel 1990. WT1 codifica per una proteina con le caratteristiche di un fattore di trascrizione. Al momento i geni ritenuti regolati da WT1 sono molto pochi: il gene per il recettore dell’EGF, sydecan 1, bcl 2, E-caderina. Dopo l’isolamento del gene, vari esperimenti ne hanno messo in luce il profilo di espressione in diversi tessuti. A differenza di altri geni oncosoppressori quali P53, Rb, la cui espressione è sostanzialmente ubiquitaria, l’espressione di WT1 è ristretta a pochi tessuti. Il ruolo di WT1 nelle neoplasie renali appare ormai abbastanza chiaro, mentre il suo ruolo nella ematopoiesi appare ancora poco conosciuto. WT1 risulta particolarmente espresso nei precursori del sistema ematopoietico e va incontro ad un rapido processo di down-regulation nel corso del processo di differenziamento cellulare. Il ruolo di WT1 nella leucemogenesi è ancora molto dibattuto. La maggior parte delle leucemie acute mieloidi e linfoidi esprime elevati livelli di WT1 suggerendo che questo gene oncosoppressore possa avere paradossalmente un’attività oncogenica nelle cellule ematopoietiche. Alcuni lavori hanno dimostrato che linee cellulari transfettate in modo permanente con WT1 mostrano difetti nella risposta ad agenti differenzianti e questo fenomeno potrebbe contribuire alla genesi della leucemia. Alcuni modelli sperimentali riportano una tendenza all’aumentata proliferazione cellulare, altri un arresto di crescita. Al momento esistono sostanzialmente due ipotesi contrastanti sul ruolo di WT1 nelle leucemie: secondo una teoria WT1 agisce come un oncogene e rappresenta la tappa finale di diverse vie di trasformazione attivate all’interno della cellula; una seconda teoria parte dall’assunto che WT1 agisca come oncosoppressore. La sua overespressione, pertanto, costituirebbe semplicemente un epifenomeno in risposta ai segnali trasformanti attivati all’intero della cellula. Questa dualità funzionale al momento non è ben interpretata, ma è opinione diffusa che il ruolo di WT1 possa variare da cellula a cellula anche solo per il grado di differenziazione di queste (39-45). Aldilà del suo significato biologico nella leucemogenesi, dopo l’introduzione delle tecniche di RTPCR, WT1 è diventato un utile marker molecolare. I livelli di WT1 e la loro variazione in corso di terapia possono infatti essere utilizzati come indici di malattia residua minima e sembrano assumere un significato prognostico in alcune neoplasie ematologiche (46). Il ruolo prognostico dei livelli di espressione di WT1 alla diagnosi nelle LMA non è in realtà ancora ben definito. Le prime segnalazioni in letteratura sembravano dimostrarne una correlazione fra elevata espressione e prognosi negativa, come già dimostrato nelle sindromi mielodisplastiche (46-48). Più recentemente tale ruolo negativo non è stato confermato ed in un recente studio del gruppo spagnolo l’espressione di WT1 alla diagnosi non riveste alcun ruolo prognostico (49). Esistono infine segnalazioni in cui si dimostra un associazione fra elevata espressione di WT1 e cariotipo favorevole (50). Nelle core binding factor LMA inoltre elevati valori di WT1 sono stati associati ad una maggiore probabilità di raggiungere la remissione completa (51). Come si vede non vi è ancora chiarezza, e questo in parte è legato a motivi statistici. Parliamo di valori elevati, ma non è chiaro se si debba porre un valore cut-off che identifichi due distinti gruppi prognostici o se si debba considerare WT1 come variabile continua o ancora se i vari laboratori debbano condurre un’analisi suddividendo in percentili i vari valori. 9 10 Seminari di Ematologia Oncologica Un parziale chiarimento potrà essere raggiunto nel momento in cui l’analisi verrà standardizzata, e saranno definiti i valori normali di espressione e le fasce di rischio. Al momento ciascun laboratorio deve costruirsi la propria curva di normalità analizzando l’espressione in soggetti normali, utilizzando reagenti e macchinari non codificati. Per questi motivi i risultati presentati dai vari gruppi, al momento, possono essere confrontati con qualche difficoltà. ERG Il gene ETS (correlato ad ERG) codifica per un effettore delle vie di transduzione del segnale di regolazione della proliferazione. ERG è localizzato sul cromosoma 21q22. La prima descrizione del coinvolgimento di ERG nei processi di tumorigenesi deriva dall’analisi di un caso di sarcoma di Ewing che presentava la traslocazione cromosomica t(21;22)(q22;q12), che a livello molecolare corrisponde al riarrangiamento fra ERG e EWS. Altri riarrangiamenti citogenetici o molecolari coinvolgenti tale zona sono stati descritti in LMA e nel carcinoma della prostata. ERG risulta overespresso in LMA a cariotipo complesso, con alterazioni a carico del cromosoma 21 anche criptiche, ma anche in LMA a cariotipo normale (52, 53). Overespressione di ERG è stata descritta anche in leucemie linfoblastiche acute soprattutto a fenotipo T. Alcuni studi dimostrano come la overespressione di ERG alla diagnosi di LMA sia associata a prognosi sfavorevole. Anche in questo caso in assenza di standardizzazione del metodo a fini statistici i pazienti vengono suddivisi in quartili sulla base dell’espressione di ERG alla diagnosi. In questo modo si arriva a parlare genericamente di valori alti o bassi. Il significato prognostico della overespressione di ERG viene perduto nei pazienti FLT3-ITD positivi, mentre viene mantenuto in quelli negativi. Parimenti il significato prognostico negativo di ERG è mantenuto nei pazienti NPM1 mutati, mentre viene perduto in quelli NPM1 wild-type. Inoltre elevati livelli di espressione di ERG si associano spesso ad elevata espressione di BAALC, configurando un sottotipo di LMA a prognosi particolarmente sfavorevole (54-57). Tali correlazioni necessitano di conferma su ampia scala. BAALC Il gene brain and acute leucemia, cytoplasmic (BAALC) è localizzato sul cromosoma 8q22.3. Codifica nell’uomo per almeno 8 trascritti che presentano splicing alternativi. La funzione è sconosciuta, e non sono note altre proteine che presentino analogie strutturali. È tuttavia dimostrata la overespressione di BAALC in cellule CD34 positive. Tale espressione viene down-regolata negli stadi maturativi successivi. Di qui l’ipotesi che BAALC rappresenti un marcatore molecolare specifico dei progenitori emopoietici più immaturi. Una elevata espressione di BAALC alla diagnosi nelle LMA ha valenza prognostica negativa. Nel 2006 Baldus (58) analizzando 307 pazienti di età inferiore ai 60 anni e con cariotipo normale dimostrò che l’elevata espressione di BAALC correlava con un’inferiore percentuale di RC e con una ridotta sopravvivenza. Rispetto ai pazienti con bassa espressione di BAALC alla diagnosi, quelli con elevata espressione erano più frequentemente resistenti alla chemioterapia di induzione (16% vs 6%) e presentavano una maggiore mortalità nei tre anni di follow-up (64% vs 56%). Le osservazioni di Baldus sono state confermate da Langer in 172 pazienti affetti da LMA con cariotipo normale ed età <60 anni (59). Nell’analisi multivariata l’elevata espressione di BAALC correlava con ridotta percentuale di RC e una sopravvivenza più breve indipendentemente da FLT3-ITD, NPM1, CEBPA e conta dei leucociti alla diagnosi. In particolare elevate espressioni di tale gene si rinvengono in pazienti che già presentano fattori prognostici negativi, come il cariotipo sfavorevole, FLT3ITD, NPM1 wild-type o elevata espressione di ERG. BAALC potrebbe rappresentare, pertanto, un indicatore generale della presenza di alterazioni sfavorevoli. Rappresenterebbe quindi non un fattore prognostico autonomo, ma un mero indicatore di particolare instabilità genica della cellula staminale leucemica. Contraddittori sono, infatti, i risultati che si ottengono quando si analizza il valore prognostico di BAALC in coorti di pazienti che, per altri marcatori, vengono considerati a basso rischio. Esperienze condotte su pazienti a cariotipo favorevole o NPM1 mutati, FLT3-ITD negativi non dimostrano alcun valore prognostico per i livelli di Profilo genetico espressione di BAALC. D’altro canto quando si analizzano i profili genici di LMA ad alto rischio, il gene BAALC risulta sempre overespresso. In particolare, poi, essendo BAALC marcatore molecolare specifico di cellule emopoietiche alquanto indifferenziate, la sua overespressione si associa a LMA a fenotipo immaturo (60-62). MN1 Il gene meningioma 1 (MN1) è localizzato sul cromosoma 22q12. Codifica per una proteina membro di un complesso regolatorio trascrizionale associato con il recettore nucleare RAR-RXR o con il recettore della vitamina D. Il coinvolgimento di MN1 nelle neoplasie umane è stato descritto per la prima volta in un meningioma che presentava la traslocazione cromosomica t(12;22). Recentemente è stata descritta overespressione di MN1 in LMA che presentavano inv-16. In un’altra segnalazione MN1 rappresentava il partner di fusione di ETV6 nel gene chimerico derivante dalla t(12;22 ). Parimenti in modelli murini è stata dimostrata la cooperazione fra MN1 e CBFB-MYH11 nei processi di leucemogenesi. In generale, sebbene non sia ancora nota la precisa funzione di MN1 nei processi di oncogenesi, pare dimostrato il fatto che alti livelli di MN1 alla diagnosi connotino un gruppo di LMA a cattiva prognosi. Anche in questi casi, in mancanza di standardizzazione del metodo, l’analisi statistica è stata condotta per percentili. In particolare è stato rilevato come i percentili di maggiore espressione siano associati a bassa incidenza di NPM1 mutato e alta incidenza di elevati valori di espressione di BAALC. A tal riguardo, considerata la stretta corrispondenza fra elevata espressione di MN1 e di BAALC, si è valutato, recentemente, il profilo di espressione di microRNA nei due distinti gruppi di pazienti e si è mostrato come fossero presenti profili di espressione del tutto similari. Si può pertanto ipotizzare una cooperazione fra BAALC e MN1 nei processi di leucemogenesi. I prossimi sviluppi tenderanno ad identificare i possibili partner di questi due geni e le vie geniche ad essi correlati (63-67). EVI1 Il gene ecotropic virus integration-1 mappa sul cromosoma 3q26. Alterazioni cromosomiche coinvol- genti tale locus come la t(3;3)(q21;q26) o la inv3(q21;q26) che inevitabilmente alterano l’espressione di EVI1 sono implicate nello sviluppo di LMA ad alto rischio. La overespressione di EVI1, presente in circa il 6% dei casi, rappresenta un fattore prognostico negativo anche in assenza di alterazioni coinvolgenti il cromosoma 3. In realtà esistono varie isoforme di EVI1, tutte sono legate a diversità strutturali della zona 5’ non codificante e per tutte probabilmente l’overespressione costituisce un fattore di rischio. La overespressione di una isoforma in particolare, denominata EVI1-1D, presente in circa il 2% dei casi, riveste significato prognostico particolarmente negativo. Un discorso a parte va fatto sulla frequente presenza nelle cellule di LMA del gene di fusione fra EVI1 e il gene MDS1 (ME). Tale gene mappa 140 kb a valle di EVI1, ha funzione sconosciuta, e per un probabile meccanismo di splicing intergenico si trova giustapposto a EVI1. Esistono a questo riguardo due forme distinte di LMA, quelle EVI1+ME+ e quelle EVI1+ME-. Queste ultime spesso presentano alterazioni del cromosoma 3q26, anche solo in forma criptica. Tale alterazione cromosomica, come noto, si associa ad una forma particolarmente aggressiva di LMA. La forma EVI1+ME+ d’altro canto si associa spesso ad alterazioni del cromosoma 11q23, locus dove mappa MLL, suggerendo un possibile ruolo regolatorio di quest’ultimo sulla espressione di EVI1 e di ME. Va ancora ricordato che le fisiologiche cellule CD34+ presentano alti livelli sia di EVI1 che di ME. Pertanto da un lato la overespressione del primo identifica un fenotipo LMA immaturo, dall’altro la mancata espressione del secondo conferisce caratteristiche di aggressività particolarmente elevate (68-74). n SIGNIFICATO PROGNOSTICO DELLE MUTAZIONI GENICHE: Per quanto concerne il loro contributo alla leucemogenesi le mutazioni geniche possono essere ordinate in alcuni gruppi. Mutazioni che interferiscono con la trascrizione. Si tratta di mutazioni che modificano la funzione 11 12 Seminari di Ematologia Oncologica di fattori di trascrizione o interferiscono indirettamente con la trascrizione (75) e determinano alterazioni nel processo di differenziazione e/o l’acquisizione di aberranti proprietà di self-renewal dei progenitori emopoietici. Appartengono a questa classe i geni di fusione derivanti dalle mutazioni t(8;21), inv(16)/t(16;16), t(15;17) e le mutazioni nei geni CEBPA, MLL e RUNX1. Mutazioni di attivazione. Sono mutazioni che attivano vie di trasduzione del segnale, determinando un aumento della proliferazione o della sopravvivenza dei precursori leucemici. Appartengono a questa classe le mutazioni di FLT3, di RAS e di JAK2. Mutazioni che interferiscono con il ciclo cellulare e l’apoptosi. Sono rappresentate principalmente dalle mutazioni di NPM1 e da delezioni di TP53. Le mutazioni somatiche più frequentemente rilevate in pazienti affetti da LMA con cariotipo normale interessano i seguenti geni: NPM1, FLT3, CEBPA, MLL, RAS, WT1, RUNX1. Da segnalare però che queste mutazioni possono essere presenti anche in pazienti con cariotipo anomalo. Mutazioni in NPM1 Nel 2005 il gruppo di Falini ha dimostrato che in una porzione significativa di pazienti con LMA si osserva una delocalizzazione citoplasmatica della proteina NPM1 a causa di una mutazione somatica del gene NPM1. Il gene è localizzato nel cromosoma 5q35 ed è frequentemente traslocato o mutato in malattie oncoematologiche (76). Il gene codifica per una proteina chaperon presente in elevate concentrazioni nel nucleolo che svolge importanti funzioni quali il trasporto di sostanze tra nucleo e citoplasma, la promozione della genesi ribosomiale, il controllo della duplicazione del centrosoma durante il ciclo cellulare, la regolazione di geni oncosoppressori come p53 e p14ARF e l’attivazione dell’apoptosi a seguito di danni subiti dal patrimonio genetico cellulare. Le diverse funzioni di NPM1 sono determinate da vari domain proteici. Si può comprendere che le alterazioni del gene suddetto siano coinvolte nella patogenesi di diversi disordini ematopoietici, anche se non sono sufficienti per determinare la malattia, ma devono cooperare con altri fattori. Nelle cellule leucemiche di pazienti affetti da LMA sono stati osservati più di 40 tipi diversi di muta- zioni, che consistono principalmente di inserzioni di paia di basi (77). La comune conseguenza di tali mutazioni è la perdita di un triptofano necessario per il legame con il nucleolo e la generazione di nuclear export signal motif per cui la proteina perde la sua specificità per il nucleolo e si accumula nel citoplasma (78). L’aberrante rilocalizzazione citoplasmatica inibisce la sua normale funzione di shuttle fra il nucleo ed il citoplasma, che è essenziale per la sua partecipazione a certe tumor suppressor pathway (ARF, p53). I meccanismi leucemogenetici delle mutazioni NPM1 non sono pienamente compresi in quanto la proteina NPM1 è coinvolta in altri processi cellulari, come la regolazione della funzione del centrosoma o il processing di molecole di pre-RNA (78). Le mutazioni del gene della NPM1 sono state trovate in circa il 35% dei pazienti adulti affetti da LMA e nel 60% di coloro che presentano alla diagnosi un cariotipo normale (76, 78). Queste sono presenti più frequentemente in pazienti di sesso femminile, con un’elevata conta leucocitaria e importante blastosi midollare. L’analisi immunofenotipica di questi pazienti dimostra l’assenza dei tipici marcatori delle cellule staminali emopoietiche (CD34 e CD133) e la presenza di altri marcatori mieloidi (CD13 e CD33). Le AML con NPM1 mutata appartengono a tutti i sottotipi FAB eccetto che alla M3, con frequenza bassa nelle M2(20%) e più alta nelle M4(45%) e M5b (90%). L’espressione di NPM1 mutata alla diagnosi è stata associata in molti studi ad una prognosi favorevole (79-82). In un recente studio (83) i pazienti NPM1 mutati presentavano rispetto a quelli non mutati una maggiore percentuale di RC dopo terapia di induzione (80% vs 57%), più lunga sopravvivenza libera da eventi avversi (EFS) e sopravvivenza totale (OS). Altri studi non hanno potuto dimostrare questi effetti favorevoli. Circa il 40% dei pazienti con mutazioni di NPM1 è portatore anche di mutazioni a carico di FLT3 (più spesso FLT3 ITD). Numerosi studi hanno dimostrato che il genotipo NPM1 mutato senza FLT3 ITD rappresenta un marker prognostico favorevole (84, 85). Il lavoro più importante è quello di Schlenk et al. (85) che riporta i risultati del gruppo tedesco ed austriaco per la LMA (AMLSG). Il lavoro suggerisce che i pazienti con questo feno- Profilo genetico tipo possono essere esentati dal trapianto allogenico in prima RC, dato che l’outcome dopo trapianto allogenico non è stato superiore a quello dopo chemioterapia convenzionale di consolidamento. Il ruolo del trapianto allogenico nei pazienti LMA con NPM1 mutato e concomitante FLT3-ITD rimane controverso (86). Circa il 15% dei pazienti LMA con NPM1-mutato presenta alterazioni cromosomiche, che rappresentano probabilmente eventi secondari. In uno studio recente volto a stabilire il significato prognostico di queste anomalie genetiche addizionali è stato riscontrato che nelle LMA con NPM mutato la prognosi non è influenzata dal cariotipo (87). Il riscontro di questo marcatore molecolare è importante, inoltre, per valutare la risposta alla terapia (ottenimento di RC) e la malattia residua essendo espresso da tutte le cellule leucemiche (88-90). Mutazioni di FLT3 Il gene FLT3 codifica per un recettore emopoietico ad attività tirosino chinasica che viene espresso precocemente dai progenitori emopoietici e gioca un ruolo importante nella proliferazione delle cellule staminali emopoietiche, nella loro differenziazione e sopravvivenza. Analizzando il DNA delle cellule leucemiche è stato evidenziato che le mutazioni somatiche che inducono un’attivazione costitutiva di FLT3 interessano principalmente due domini funzionali del recettore, quello iuxtamembrana (JM) e l’activation loop del domain tirosin chinasico (TKD). Il dominio JM, cruciale per l’auto inibizione del recettore, è interessato da mutazioni nel 28-34% dei pazienti LMA con CN (9194), più spesso per Internal Tandem Duplication (ITD), più raramente per mutazioni somatiche. Le FLT3-ITD sono localizzate negli esoni 14 e 15 e determinano una dimerizzazione ed autofosforilazione ligando-indipendente del recettore con attivazione downstream delle vie metaboliche RAS/MAPK, STAT5, PI3K/AKT (95). L’activation loop del domain tirosin chinasico è interessato da mutazioni puntiformi, piccole inserzioni o delezioni nell’11-14% delle LMA con cariotipo normale, più spesso a carico dell’esone 20 (93, 94, 96). Da un punto di vista clinico le mutazioni di FLT3 sono importanti sia per i risvolti prognostici sia per il ruolo che potrebbero svolgere come target di future terapie citotossiche. Numerosi studi hanno dimostrato che i pazienti affetti da LMA con CN e FLT3-ITD hanno una prognosi peggiore (<EFS e OS) rispetto ai soggetti che non presentano questa mutazione (91). Queste mutazioni hanno un ruolo prognostico dominante rispetto ad altri marcatori molecolari. Ad esempio la già citata mutazione di NPM1 è un fattore prognostico positivo, ma solo nei pazienti senza FLT3-ITD (97, 98). Nello studio di Donher del 2005 (99) si dimostra che il gruppo di pazienti con NPM1mut/FLT3-ITDneg a 110 mesi di follow-up ha il 25% di sopravviventi senza ricaduta e pazienti vivi in più rispetto a quello composto da pazienti NPM1mut/FLT3-TDpos. Questi risultati sono stati confermati da Boonthimat nel 2008 in uno studio condotto su 105 pazienti (100). FLT3-ITDs sono state osservate nel 76% di 55 pazienti con LMA e t(6;9)(p23;q34), traslocazione considerata a cattiva prognosi. Paragonati ai pazienti con FLT3 wild-type i pazienti con FLT3ITD presentavano una ridotta percentuale di RC (36% vs 75%, p 0.042) e inferiore DFS e OS. La prognosi negativa dei pazienti con questa alterazione citogenetica deriva quindi non soltanto dalla presenza del gene di fusione DEK-NUP214 ma anche dalla presenza di mutazioni FLT3. Alcune ricerche sembrano indicare che non tanto la semplice presenza ma piuttosto il livello quantitativo dell’allele mutato abbia rilevanza prognostica. In uno studio del 2001 Whitman et al. (92) dimostrano che FLT3-ITD non ha impatto prognostico negativo nei pazienti eterozigoti, ma solo in quelli con perdita di funzione dell’allele wild-type ed in uno studio successivo Thiede et al. (94) riesce a determinare dei valori di cut off dell’allele mutante con significato prognostico. Il gruppo di pazienti con genotipo NPM1mut/FLT3- ITDneg e cariotipo normale è quello collegato alla migliore prognosi assoluta, e sembra non beneficiare del trapianto (85). Il valore prognostico delle mutazioni FLT3-TKD rimane controverso. Un’ampia meta-analisi condotta su 1.150 casi di LMA (FLT3 wt 833; FLT3ITD 243; FLT3-TKD 84) ha assegnato un valore prognostico negativo alla mutazione FLT3-TKD (101). Anche Whitman (102) in uno studio del CALGB ha confermato in 139 pazienti con età <60 anni e cariotipo normale in analisi multivariata il loro valore prognostico negativo (per EFS), indi- 13 14 Seminari di Ematologia Oncologica pendentemente dall’espressione di NPM1 e dalla conta dei blasti alla diagnosi. Viceversa uno studio condotto dall’MRC su 1.107 giovani adulti arruolati nei trials AML10 e 12 ha evidenziato un possibile ruolo prognostico positivo delle mutazioni FLT3-TKD (presenti nel 12% di tutte le AML e nell’11% di quelli a cariotipo normale) (103). In questo studio è stata effettuata una valutazione quantitativa percentuale dei livelli di allele mutato ed i pazienti con mutazioni FLT3-TKD presenti in più del 25% degli alleli totali presentavano un’OS superiore rispetto ai pazienti con livelli inferiori. In questo studio l’impatto delle mutazioni FLT3-TKD nei pazienti con cariotipo normale era al limite della significatività statistica e non è stata effettuata un’analisi multivariata considerando altre mutazioni genetiche (come NPM1). Nel recente ampio studio di Bacher et al. (104), condotto su una coorte totale di 1.720 casi con informazioni di follow-up disponibili, la prognosi non era influenzata dalla presenza di mutazioni FLT3- TKD. Mutazioni di CEBPA Il fattore trascrizionale CCAAT/enhancer binding protein alpha (CEBPA) è una molecola chiave nella differenziazione della cellula staminale multipotente nei neutrofili maturi (105). Le mutazioni del gene CEBPA sono state scoperte per la prima volta nel 2001 e sono osservate più frequentemente nei pazienti con CN e in quelli con delezione 9q al di fuori di un cariotipo complesso. Sono riscontrabili nel 5-14% delle LMA, in una percentuale quindi inferiore di pazienti rispetto ai marcatori precedentemente descritti. Nel gene codificante per questa proteina, che si trova sul cromosoma 19q13.1, sono stati riscontrati più frequentemente due tipi di mutazione: una mutazione nonsense nella regione N-terminale che impedisce l’espressione dell’intera proteina e un’altra nella zona C-terminale che riduce la funzione di trascrizione del DNA. Le mutazioni di CEBPA sono state associate concordemente con un buon outcome, sia in pazienti con cariotipo intermedio (106, 107) sia in pazienti con CN (108) ed associate con maggior durata di EFS o OS. Queste mutazioni hanno un ruolo protettivo in quanto upregolano un fattore proapoptotico su cui agiscono i farmaci chemiotera- pici. Wouters et al. (109) hanno studiato 598 casi di LMA denovo, individuando 41 casi non ambigui di mutazione (6,9%). La maggior parte dei pazienti aveva due mutazioni di CEBPA e questi pazienti presentavano una migliore EFS e OS rispetto ai pazienti con una sola mutazione e persistenza di CEBPA wild-type. I casi con doppia mutazione presentavano anche un pattern caratteristico negli studi GEP. La spiegazione biologica di questa duplicità di comportamento non è chiara: è possibile che due mutazioni siano sufficienti per la leucemogenesi, mentre con una sola debbano intervenire altri fattori determinanti una prognosi peggiore. L’impatto favorevole sulla prognosi delle mutazioni di CEBPA è osservato solamente in assenza di cariotipo complesso e di FLT3-ITD. Nella revisione condotta da Renneville (110) i 638 pazienti affetti da LMA con mutazioni CEBPA vennero divisi in due gruppi, uno (8%) costituito da soggetti che presentavano la mutazione di CEBPA e l’altro da quelli che non la presentavano (CEBPAwt). Il 20% dei pazienti del primo gruppo presentava FLT3-ITD e il 30% un cariotipo complesso. Egli dimostrò con un’analisi multivariata che questi ultimi fattori determinavano una cattiva prognosi indipendentemente dalla presenza di CEBPAmut. Viceversa i pazienti con CEBPAmut senza FLT3-ITD e con CN presentavano EFS e OS maggiori rispetto ai pazienti con CEBPAwt. Mutazioni di MLL Il gene MLL è situato alla banda 11q23 e codifica per una proteina di circa 450 KDa con attività istone metil transferasica, che regola l’espressione dei geni HOX durante lo sviluppo delle cellule staminali ematopoietiche (111). A seguito di traslocazioni o, meno frequentemente, inserzioni e inversioni coinvolgenti la banda 11q23 la porzione N-terminale del gene MLL è fusa con la porzione C-terminale di un gene partner di fusione. Questi riarrangamenti intercromosomici interferiscono con la regolazione operata da MLL nella trascrizione e con l’espressione del gene HOX (112). In aggiunta a questi riarrangiamenti cromosomici esistono dei riarrangiamenti intragenici per cui il gene MLL può andare in contro a partial tandem duplications (PTD) a carico degli esoni 5-12. Sono in genere intepretate come mutazioni con incre- Profilo genetico mento di funzione. PTD del gene MLL si osservano nel 5-11% dei pazienti affetti da LMA de novo (113-115). Nel primo grande studio in pazienti LMA con CN (113) i pazienti con MLL-PTD (11%) presentavano una minore durata della RC rispetto ai pazienti senza MLL-PTD (7 mesi vs 23 mesi, rispettivamente; p .01) mentre l’OS non era diversa. La gran parte degli studi successivi, tra cui lo studio di Dohner su 221 pazienti LMA con CN, ha confermato questi risultati (114-116). Mutazioni di NRAS Si osservano nel 9-14% dei giovani adulti con LMA e CN (84, 117, 118) ed interessano quasi esclusivamente i codoni 12,13 e 61, determinando una perdita dell’attività GTP-asica ed un’attivazione costitutiva della proteina RAS. Nessun studio ha dimostrato rilevanza prognostica per queste mutazioni (84, 118), che tuttavia potrebbero essere importanti come bersaglio di terapia orientata da un punto di vista molecolare. Mutazioni di WT1 Le mutazioni di WT1 consistono in sostituzioni o delezioni dell’esone 7 o 9 che annullano le sue funzioni promuovendo la proliferazione e il blocco della differenziazione delle cellula staminali. Mutazioni di WT1 si ritrovano in circa il 12% dei pazienti affetti da LMA, più spesso di giovane età, con elevata blastosi periferica ed elevati livelli serici di LDH. Sono state riportate per la prima volta da KingUnderwood e Pritchard-Jones nel 1996 (119). Il ruolo di WT1mut nel determinare la prognosi è ancora controverso. Summers nel 2007 dimostrò in 70 pazienti con LMA e CN che queste mutazioni (presenti nell’11% dei pazienti) erano associate al fallimento della terapia di induzione (120). In modo simile Virappane et al., analizzando 470 pazienti affetti da LMA (121) afferma che le mutazioni di WT1 sono un indicatore prognostico negativo indipendente da FLT3-ITD. I pazienti che esprimono WT1mut hanno una ridotta percentuale di RC rispetto a quelli che hanno WT1 normale (79% vs 90%), di sopravvivenza libera da eventi avversi (22% vs 44%) e di sopravvivenza a 5 anni (26% vs 47%). Nel recente lavoro di Paschka (122) dei 196 pazienti affetti da LMA con CN i 21 che presentavano WT1mut avevano una percentuale di RC simile a quella del gruppo con WT1nor (83% vs 84%), ma andavano in contro a ricaduta più frequentemente (88% vs 51%). Il rischio di morire si è rivelato tre volte superiore nei soggetti con WT1mut rispetto a quelli senza la mutazione. Lo stesso autore, con un’analisi multivariata, ha dimostrato che l’impatto della mutazione di WT1 sulla prognosi è indipendente dall’espressione di altri marcatori molecolari prognostici a dalle caratteristiche cliniche alla diagnosi e che WT1mut annulla l’effetto positivo della presenza di mutazioni a carico di NPM1, in assenza di FLT3-ITD. Nel lavoro di Gaidzik et al. (123) condotto su 617 pazienti LMA con CN i soggetti WT1mut /FLT3ITDpos presentavano una percentuale di RC inferiore rispetto a quelli WT1mut/FLT3neg (CR rates 63% vs 92%) ma non erano dimostrate differenze significative di RFS e OS fra i pazienti con o senza mutazioni WT1. Mutazioni in RUNX1 (AML1) RUNX1 codifica per un fattore trascrizionale che è coinvolto nella differenziazione emopoietica normale, attraverso la dimerizzazione con il fattore di trascrizione CBFB. Sia RUNX1 sia CBFB sono coinvolte nelle traslocazioni cromosomiche associate ad AML. Mutazioni di RUNX1 sono state recentemente osservate nel 10% dei pazienti con CN (124). Il loro significato prognostico è ancora sconosciuto. Mutazioni di KIT nelle CBF LMA Le leucemie CBF sono definite dalla presenza delle traslocazioni t(8;21)(q22;q22) o inv(16)(p13.1 q22)/t(16;16)(p13.1;q22) e rappresentano circa il 10-15% delle LMA. Sono associate con outcome favorevole anche se esiste una marcata eterogeneità clinica in quanto il 30-40% dei pazienti giovani ricade. In questi pazienti è stato studiato il significato prognostico di mutazioni del gene KIT, presenti nel 30% dei casi (125, 126). Per quanto concerne le LMA con t(8;21) la presenza di mutazioni nel gene KIT (in particolare le mutazioni al codone 817) hanno significato prognostico negativo (125). Uno studio del CALGB in paziente con inv(16) / t(16;16) ha mostrato che i pazienti con mutazioni di KIT a carico dell’esone 17 presentavano un maggior rischio cumulativo di ricaduta e una minore OS (126). 15 16 Seminari di Ematologia Oncologica n UTILIZZO PRATICO DEI MARCATORI CITOGENETICO-MOLECOLARI Nella fase diagnostica iniziale, come già ricordato in precedenza, lo studio del cariotipo è stato affiancato da una gran numero di indagini molecolari. Le ricadute sulla definizione prognostica e sulla programmazione terapeutica vengono didatticamente esposte di seguito attraverso la risposta ad alcune domande fondamentali. Si può fare a meno dello studio citogenetico alla diagnosi? La risposta non può che essere negativa. Al momento attuale lo studio del cariotipo ci fornisce delle informazioni prognostiche di grande rilevanza che hanno ricevuto conferma in numerosi studi prospettici. Inoltre permette di evidenziare la forma M3 che richiede una condotta terapeutica del tutto differente e ormai ampiamente sperimentata (127) e le cosiddette leucemie CBF, cioè le forme con t(8;21), l’inv(16); t(16;16), caratterizzate da una prognosi favorevole, per cui è opportuno effettuare un consolidamento fondato su alte dosi di Ara-C (HDAC) ed in cui non è indicato effettuare trapianto allogenico in prima RC. Il significato prognostico di alcuni marcatori molecolari dipende poi dal tipo di cariotipo presente. Ad esempio la presenza di alterazioni FLT3-ITD sembra avere rilevanza prognostica per quanto concerne DFS e forse OS nei pazienti con CN ma non nelle forme con t(15;17) (128). È molto importante essere certi che un paziente con LMA abbia un cariotipo normale. Per questo motivo è opportuno che le indagini di citogenetica siano effettuate da esperti e che le metodiche classiche siano integrate dalla FISH e dalle tecniche di RT-PCR per documentare la presenza dei principali geni di fusioni associati con alcune anomalie citogenetiche (84, 129). Esiste infatti la possibilità, rara, di inserzioni criptiche di piccoli frammenti cromosomici non evidenziabili dalla citogenetica. Qual è la combinazione minima di marcatori citogenetico-molecolari con il maggior significato prognostico? Numerosi studi, retrospettivi e prospettici hanno cercato di rispondere a questa domanda. Nello studio italiano (83) sono stati caratterizzati 443 pazienti con meno di 60 anni di età che hanno ricevuto un trattamento uniforme, secondo il protocollo GIMEMA LMA99P (pretrattamento con idrossiurea, induzione con Ara-C, daunorubicina, etoposide; consolidamento con Ara-C e daunorubicina; trapianto allogenico e autologo in rapporto alla disponibilità di un donatore). Correlavano significativamente con il raggiungimento di una RC il cariotipo (percentuale di RC del 92%, 67% e 39% nei tre gruppi prognostici citogenetici, p=0.0001) e le mutazioni di NPM1 (percentuale di RC del 76% e del 60% nella popolazione globale per i pazienti NPM1+ e NPM1-; RC 81% e 61% nei pazienti con CN). L’analisi multivariata ha indicato che il cariotipo a basso rischio e la presenza di mutazioni NPM1 erano fattori che indipendentemente correlavano con la probabilità di ottenere una RC. Le percentuali di DFS erano influenzate dal gruppo cariotipico e dalla presenza o meno di mutazioni FLT3-ITD (26% e 61% nei pazienti con o senza mutazioni FLT3-ITD) ma non dallo stato mutazionale di NPM1. L’analisi multivariata per quanto concerne DFS ha evidenziato il notevole impatto prognostico delle mutazioni FLT3-ITD (p<0.001), del gruppo prognostico cariotipico e del numero di globuli bianchi alla diagnosi IL gruppo tedesco ha valutato l’incidenza e l’impatto prognostico di 5 geni (NPM1, FLT3, CEBPA, MLL e RAS) in 872 adulti con <60 anni e CN arruolati in 4 trials prospettici (85). Tutti i trials prevedevano doppia terapia di induzione con idarubicina, Ara-C ed etoposide, un ciclo di consolidamento basato su HDAC ed un secondo consolidamento che prevedeva trapianto allogenico in presenza di donatore HLA matched o, a random, chemioterapia o trapianto autologo in assenza di donatore HLA identico. Mutazioni di NPM1 sono state osservate nel 31% dei pazienti, di FLT-ITD nel 31%, di FLT3-TKD nell’11%, di CEBPA nel 13%, MLL partial tandem duplications nel 7% e mutazioni di NRAS nel 13%. Per quanto concerne l’ottenimento della RC, l’analisi multivariata ha evidenziato che la presenza di mutazione di CEBPA, il fenotipo NPM1 mutato in assenza di FLT3 ITD e l’età più giovane rappresentavano fattori favorevoli. I pazienti NPM1 mutati senza FLT3-ITD e quelli con mutazioni a Profilo genetico carico di CEBPA presentavano un RFS a 4 anni statisticamente superiore rispetto ai pazienti con altri genotipi (55% e 50% rispettivamente vs 16%; p<0.001). Simili significative differenze sono state riscontrate per quanto riguarda l’OS. Santamaria et al. (49) in 120 LMA denovo con CN hanno studiato il significato prognostico delle espressione di WT1 e delle mutazioni di FLT3 e di NPM1 e di 9 altri markers molecolari (ERG, EVI1, MLL-PTD, MN1, PRAME, RHAMM). Il livello di espressione di WT1 non è risultato significativo né per RFS né per OS, mentre è stato confermato per RFS (ma non per OS) il significato protettivo del fenotipo NPT mutato /FLT3 neg, anche in multivariata. In analisi multivariata è risultato molto elevato il significato prognostico di ERG, EVI1 e PRAME. Assegnando un punteggio di 0 ai parametri molecolari favorevoli (bassa espressione di ERG ed EVI1 ed elevata espressione di PRAME) e di 1 ai parametri molecolari sfavorevoli (inverso dei precedenti) gli autori hanno pertanto elaborato uno score prognostico in grado di stratificare i pazienti in 4 gruppi prognostici per OS e RFS. Il sistema prognostico è stato in grado di stratificare per OS e RFS anche gli 83 pazienti appartenenti al gruppo molecolare a rischio intermedioTipo di alterazione Alter. espressione genica >WT1 >ERG >EVI1* >EVI1/ME-** >BAALC* >MN1 Mutazioni geniche NPM1§ FLT3ITD FLT3-TKD NPM1mut/FLT3ITDneg MLL-PTD CEBPA CEBPAmut/FLT3ITDneg RAS WT1 RUNX1 alto sulla base di NPM1 ed FLT3 (FLT3wt/NPMwt; FLT3-ITD/NPM1 mut; FLT3-ITD/NPMwt). In questa sottoanalisi le OS a 2 anni erano 100%, 64%, 39% e 27% per i pazienti con score di 0,1,2 e 3, rispettivamente. La tabella 3 riassume l’impatto prognostico dei vari marcatori molecolari precedentemente analizzati. In che modo i marcatori citogenetico-molecolari influenzano la terapia di induzione? Nell’ambito delle LMA l’unica terapia di induzione diversa, basata sull’associazione di antraciclina (in genere idarubicina) e acido transretinoico (o sull’associazione di ATRA e triossido di arsenico) viene riservata ai pazienti affetti da LMA-M3 e riarrangiamento PML-RARalfa. È noto che le rare forme di LMA M3 con t(11;17) e riarrangiamento PLZF-RARalfa non sono responsive ad ATRA (130). A parte il caso della LMA-M3 un recente contributo di Schlenk et al, derivante da una analisi retrospettiva dei pazienti con più di 60 anni arruolati nel trial AMLHD98D del gruppo austro-tedesco AMLSG, sembra indicare che sono i pazienti con fenotipo NPMmut/FLT3 wt quelli che beneficiano dell’aggiunta di acido transreti- Frequenza CRrate Impatto su DFS/EFS OS 75-100% 5-10% 6-7% 3% 50% 40-50% neg neg neg neg neg neg neg neg neg neg neg neg neg neg neg neg neg neg 60% CN 30% 15-18% 12-15%CN 10-12% 10% 5-6% 9-14% 12% 3-4% CN pos ? ? pos neg pos pos ? ? neg/? pos neg ? pos neg pos pos ? ? neg pos neg ? pos ? pos pos ? ? ? *Associate a cariotipo sfavorevole e fenotipo immaturo; **associate ad alterazioni di 3q26; §associate a cariotipo normale CN = cariotipo normale. TABELLA 3 - Significato prognostico delle principali alterazioni geniche. 17 18 Seminari di Ematologia Oncologica noico alla terapia intensiva di induzione e al consolidamento (131). La probabile efficacia di ATRA in questo sottogruppo di pazienti potrebbe dipendere dal fatto che NPM1mut si comporta come un repressore della differenziazione cellulare indotta dall’acido retinoico, per cui aumentando le dosi disponibili nell’organismo si riesce a vincere questo blocco. Uno studio prospettico del gruppo austro-tedesco, attualmente in corso, è stato disegnato per confermare le osservazioni riportate nei pazienti con età <60 anni. In che modo i marcatori citogenetica-molecolari influenzano la terapia post-remissionale e come si combinano con i fattori prognostici clinico-ematologici? Dopo l’ottenimento di una RC l’obbiettivo successivo è l’eradicazione della malattia residua minima, che può essere classicamente perseguito con chemioterapia, trapianto autologo e trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche. I vantaggi dell’opzione trapiantologica allogenica, legati all’effetto immunologico graft-versus-leukemia con conseguente riduzione del rischio di ricaduta, sono controbilanciati dal significativo rischio di mortalità e di mortalità legato alle complicanze del trapianto (graft-versus-host disease ed infezioni) (132). Per queste ragioni, già da molti anni il trapianto allogenico non viene effettuato in prima remissione nei pazienti con un pattern citogenetico favorevole e cioè nei pazienti con t(8;21) o inv(16)/t (16;16) (132, 133). Nell’ambito dei pazienti con CN sono stati individuati due fenotipi relativamente favorevoli per elevata propensione a ottenere una RC e basso rischio di ricaduta. Il primo fenotipo, che rappresenta circa il 16% di tutte le LMA nei pazienti <60 anni, è stato individuato grazie al lavoro del gruppo austro-tedesco. Nella già citata esperienza prospettica del gruppo tedesco (85) durante la terapia postremissionale un trapianto allogenico è stato effettuato in 150 pazienti (82% di quelli con donatore HLA identico). Dei 481 pazienti senza donatore 147 hanno effettuato chemioterapia e 334 sono stati trattati a random con trapianto autologo o chemioterapia. Non sono state osservate differenze in Sopravvivenza Libera da Ricaduta (RFS) e OS fra i pazienti trattati con chemioterapia o con trapianto autologo, sia in intention to treat sia sulla base del trattamento effettivamente ricevuto. Per le analisi successive sono stati quindi individuati due gruppi uniformi: il gruppo dei pazienti con donatore e quello senza donatore. Il relapse free survival dei pazienti con donatore HLA identico (donor group) risultò superiore a quello del gruppo di pazienti senza donatore (no donor group) (p 0.009), senza però significative ricadute sulla sopravvivenza. La mortalità correlata a trapianto (TRM) dei pazienti sottoposti a trapianto allogenico è risultata essere del 20%. Al fine di comprendere per quale sottogruppo molecolare di pazienti fosse utile effettuare un trapianto allogenico sono stati analizzati separatamente i pazienti NPM1 mutati e FLT3ITD neg (n. 130) e quelli caratterizzati da altri genotipi, con esclusione di CEBPA (170 pazienti). Nei pazienti con fenotipo NPM1 mutato e FLT3 ITD neg il gruppo con donatore presentava una curva esattamente sovrapponibile a quella dei pazienti senza donatore (RFS 53% circa per donor e no donor). Viceversa nel gruppo con fenotipo molecolare meno favorevole la presenza di un donatore conferiva un vantaggio significativo (RFS 32% e 10% nei gruppi donor e no donor, rispettivamente; p=0.003). Il secondo fenotipo favorevole, per cui non sembra indicato effettuare un trapianto allogenico in prima RC, è definito dalla presenza di mutazioni del gene CEBPA, in assenza di altre mutazioni sfavorevoli. Si osserva in circa l’8% delle LMA e nello studio del gruppo austro-tedesco il limitato numero di casi non ha permesso un’analisi simile a quella che è stata effettuata per il fenotipo precedente. Per tutti questi sottogruppi di pazienti la terapia post-remissionale deve basarsi su HDAC ed il trapianto allogenico dovrebbe essere riservato a pazienti in seconda RC. Al contrario altri marcatori citogenetico-molecolari o altre combinazioni sembrano indicare l’assoluta necessità di effettuare un trapianto allogenico appena raggiunta la prima RC. Esempi di questi marcatori sono: le alterazioni citogenetiche sfavorevoli, elevata espressione di BAALC, FLT3-ITD, NPMwt/FLT3-ITD. Profilo genetico Vi è assoluta necessità di programmare studi prospettici con la finalità di valutare nei singoli sottogruppi citogenetico-molecolari l’effettiva utilità del trapianto allogenico. Inoltre la grande varietà di tipologie trapiantologiche, differenti fra loro per l’intensità del condizionamento e la fonte di cellule staminali (donatori familiari HLA identici, MUD, donatori aploidentici, cordone ombelicale), richiederà verosimilmente una grande mole di ricerca per individuare il tipo di trapianto più adatto per ogni sottotipo citogenetico-molecolare (5). Negli algoritmi decisionali per definire l’indicazione al trapianto allogenico trovano sempre più spazio alcuni marcatori molecolari (84; 129), soprattutto nei pazienti con CN. La figura 1 rappresenta un tentativo provvisorio di algoritmo decisionale terapeutico sulla base della valenza prognostica dei citati marcatori citogenetici e molecolari. Negli ultimi anni l’attenzione della ricerca si è focalizzata sull’individuazione di marcatori citogenetici e molecolari ma non bisogna però dimentica- Cariotipo favorevole Cariotipo sfavorevole Iter terapeutico specifico per la LAP t(15;17) Induzione standard t(8;21), inv(16), t(16)(16) consolidamento con HDAC Consolidamento trapianto allogenico in II RC Trapianto allogenico Cariotipo intermedio FLT3-ITD pos CEBPA mutato FLT3-ITD neg NPM1 non mut BAALC > o EVI 1 > o MN1 > NPM1 mut BAALC < e EVI 1 < e MN1 < MLL PTD pos ERG > ERG < MLL PTD neg Trapianto allogenico in Prima RC FIGURA 1 - Algoritmo decisionale terapeutico sulla base del profilo citogenetico-molecolare. HDAC ASCT 19 20 Seminari di Ematologia Oncologica re che da tempo sono stati individuati importanti fattori prognostici di tipo clinico-ematologico, tra cui ricordiamo soltanto l’età, il numero di globuli bianchi alla diagnosi, il valore dell’LDH, la presenza di una precedente sindrome mielodisplastica o di un’altra malattia ematologica, la presenza di una precedente radio-chemioterapia, il tempo di raggiungimento della RC (dopo uno o due cicli di induzione). Il valore di questi indicatori prognostici è oggi completamente tramontato oppure mantengono ancora valore? Come è possibile eventualmente integrarli con la citogenetica ed i markers molecolari in uno score prognostico composito? I gruppi HOVON (Dutch Belgian Cooperative Group) e SAKK (Swiss Leukemia Cooperative Group) hanno cercato di rispondere a queste domande analizzando i dati di 1975 pazienti fino a 60 anni di età, registrati nei loro studi prospettici fino al 2004 (con citogenetica) ed i dati di 424 pazienti in cui erano disponibili marcatori molecolari. Ne è derivato uno score di stratificazione prognostica in graRischio (% dei casi) do di distinguere alcuni gruppi con differente outcome, riportato nella tabella 4. n UTILIZZO DEI MARCATORI MOLECOLARI NEL FOLLOW-UP DEI PAZIENTI Grandi speranze vanno riposte nella stratificazione prognostica dei pazienti e nella ricerca di una terapia sempre più orientata in senso patogenetico. Un applicazione clinica in questo ambito non è al momento pensabile. Altro discorso va, invece, fatto per l’utilizzo di alcuni marcatori nella analisi della malattia minima residua (MMR) durante la remissione clinica comunque indotta. Detti marcatori in generale sono da considerarsi specifici della patologia in atto, evitando in tal modo il verificarsi di risultati falsi positivi. Va poi detto che, trattandosi di anomalie geniche o citogenetiche coinvolte nella patogenesi di malattia, ci si può attendere a tal riguardo un ruolo predittivo: cioè RC% EFS 5 aa OS 5aa 94 94 93 84 100 51 59 44 48 51 65 68 68 61 57 Intermedio (20%) IR1 t(8;21), GB >20 IR2 CN, -X, -Y GB ≤100 RC precoce 99 87 100 42 32 43 51 46 51 Sfavorevole (30%) PR1 CN, -X, -Y GB ≤100 non RC precoce PR2 CN, -X, -Y GB >100 RC precoce PR3 CA, non CBF, non abn3q26 EVI1- 75 69 19 17 25 23 74 23 27 79 20 25 60 48 65 79 3 2 8 10 7 4 19 17 Buono (30%) GR1 GR2 GR3 GR4 t(8;21), GB <20 inv(16)/t(16;16) non MK, CEBPAmut nonMK, FLT3ITDneg/NPM1mut RC precoce Molto sfavorevole (20%) VPR1 Monosomal karyotype VPR2 abn3q26 VPR3 EVI1+ Modificato da ASH 2008, educational book, pag 7. Legenda: MK = cariotipo monosomico: RC precoce = RC dopo un solo ciclo di induzione; CN = cariotipo normale; CA = cariotipo alterato TABELLA 4 - Score prognostico HOVON/SAKK (<60 aa) basato su citogenetica, markers molecolari, fattori ematologici e clinici. Profilo genetico ciascun marcatore per essere realmente applicabile nello studio della MMR quando presente deve predire il cambiamento dello stato clinico. In tal caso possiamo parlare di predittività prognostica e di conseguenza di assenza della possibilità di risultati falsi negativi. Va, poi, affrontata, una volta risolto il problema della specificità (predittività e coerenza con la patologia in esame) precedentemente accennato, la ricerca della sensibilità metodologica appropriata. Certo che tutti i marcatori analizzabili in nestedPCR possono essere a tal fine adeguati. Ma è altrettanto certo che la sensibilità raggiunta nello studio in nested-PCR della presenza di una mutazione puntiforme non è certamente così elevata da consentirne l’utilizzo routinario in clinica. A ciò va aggiunto un discorso di applicabilità universale, e cioè la moderna biologia molecolare nella razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse richiede la ricerca di marcatori quanto più possibile universali. La frequenza della presenza delle mutazioni in generale ne esclude l’applicabilità come marcatori di MMR. Ed ancora la necessità di utilizzare metodiche di elettroforesi complicate non è in accordo con la necessità di potersi avvalere di metodiche semplici e ripetibili. Infine in questo ambito la quantificazione ne risulterebbe estremamente indaginosa. Nel caso, tuttavia, dell’esistenza di metodiche standardizzate di real-time-PCR il discorso cambierebbe radicalmente. Si tratta di metodica ripetibile, quanto meno nello stesso laboratorio, semplice ed applicabile contemporaneamente ad un buon numero di campioni in esame. È il caso dello studio in real-time-PCR della presenza di mutazioni di NPM1. La presenza quantificabile dell’espressione dell’allele mutato predice ricaduta di malattia; la riduzione della sua quantità può essere utilizzato per valutare l’efficacia terapeutica. Mutazioni di NPM1 sono presenti in una determinata percentuale di casi: vi è necessità di ulteriori marcatori ancor più universalmente applicabili. Questo è il caso dell’espressione di Wt1. Come noto Wt1 è overespresso alla diagnosi quasi nella totalità dei casi di LMA. Al di là del suo significato prognostico, come noto, ancora oggetto di discussioni, ben chiaro è il suo significato nel follow-up del paziente. La sua precoce diminuzione dopo la terapia di induzione è indice di buona risposta alla terapia, mentre l’aumento progressivo della sua espressione durante la fase di remissione predice ricaduta di malattia con un anticipo di tempo dal relapse clinico che, per esperienza personale, va dai 90 ai 60 giorni dalla prima evidenza di overespressione. Assolutamente necessario all’uopo, come peraltro già segnalato, è la costruzione di una curva di valori normali. Parleremo di overespressione ogniqualvolta il valore della espressione di Wt1 dovesse risultare superiore a detto range di normalità. Non noto, poi, è il significato del gap di espressione che talvolta si verifica all’interno dei valori di normalità. L’aumento della espressione di Wt1 si associa alla ricomparsa più o meno precoce degli altri marcatori molecolari eventualmente presenti in una data LMA in analisi. I tempi dipendono in parte dalla sensibilità della metodica utilizzata nell’analisi ed in parte verosimilmente a una non ben precisabile cinetica molecolare cellulare di ricaduta. Wt1, pertanto, al momento rappresenta il marcatore molecolare universale per le LMA; non vi è rischio di risultati falsi positivi o negativi, la sensibilità della metodica in oggetto è accettabile e la quantificazione è relativamente agevole. Attualmente si raccomanda di seguire il follow-up di ciascun paziente con seriate analisi dell’espressione di Wt1 (generalmente su midollo; non esistono analisi su vasta scala dello studio seriato su sangue periferico). Il significato terapeutico del riscontro di impending relapse rappresenta probabilmente uno dei prossimi passi che si faranno nella costruzione di una terapia mirata e precoce, sulla scorta di quanto già avvenuto nella gestione della ricaduta molecolare delle leucemie promielocitiche acute o della leucemia mieloide cronica. n PROSPETTIVE TERAPEUTICHE MIRATE SUL DIFETTO MOLECOLARE Come già ampiamente ricordato la risposta alla terapia dipende principalmente dall’età dei pazienti e dal loro genotipo. Fino ad oggi è stata sviluppata una sola terapia specifica basata sull’appli- 21 22 Seminari di Ematologia Oncologica cazione dell’acido transretinoico nei pazienti con LMA-M3 e t(15;17) e ciò ha modificato in modo radicale le prospettive terapeutiche, sia nei pazienti giovani sia in quelli più anziani. È possibile però che lo sviluppo di terapie mirate in modo specifico al difetto genetico possano contribuire a migliorare la tollerabilità e l’efficacia del trattamento in moltri altri sottotipi genetici di LMA. Tentiamo qui di seguito di fare un rapido punto della situazione attuale. Mutazioni di FLT3 L’elevata incidenza di mutazioni di FLT3 nei pazienti con LMA ha stimolato la sperimentazione di numerosi inibitori di FLT3 (RTK). Sono stati sperimentati inibitori specifici per FLT3 (ad esempio tandutinib) ed inibitori meno specifici (SU5416; sunutinib; SU11248). Sebbene siano molto eterogenei per struttura chimica, farmacocinetica, profilo tossico tutti questi farmaci sono in grado di ridurre la proliferazione leucemica e di aumentare l’apoptosi, in seguito ad upregolazione delle proteine proapoptotiche. In monoterapia i risultati clinici sono stati piuttosto modesti e transitori, per rapido sviluppo di resistenza (134-137). Mutazioni di KIT Il gene KIT codifica per un recettore ad attività tirosin chinasica che in caso di mutazione è attivato in modo costitutivo. Si è gia precedentemente ricordato il significato prognostico negativo delle mutazioni di KIT nelle leucemie CBF (mutazioni presenti nel 40% dei pazienti). Lo sviluppo di farmaci mirati al cKIT è interessante in quanto lo stem cell factor c-KIT 117 è espresso in più del 70% delle LMA. Imatinib è in grado di inibire la funzione di KIT prevenendo la sua autofosforilazione e inibendo il signaling a valle (mediato da MAPK e AKT). I risultati degli studi in vitro e dei primi studi clinici in pazienti con LMA con mutazioni di KIT sono contradditori. Alcuni studi hanno mostrato un certo beneficio in pazienti con LMA 117 pos, pur in assenza di documentate mutazioni di KIT (138, 139). In uno studio su 40 pazienti anziani con LMA o MDS ad alto rischio con blasti esprimenti c-KIT (cioè positivi per CD117) l’associazione di basse dosi di Ara-C e imatinib ha determinato una sopravvivenza del 20% a due anni che è assolutamente paragonabile a quella ottenuta nei pazienti sottoposti a chemioterapia intensiva (140). Sono iniziate le sperimentazioni in vitro e cliniche con il dasatinib (141). Mutazioni di NPM-1 La leptomicina B è un prodotto naturale che si lega in modo covalente ed inibisce in modo irreversibile CRM1, il recettore di esportazione delle proteine contenenti NES (nuclear export signals) (142, 143). In vitro gli inibitori di CRM1 non sono però in grado di redirigere la proteina NPM1 al nucleolo. Un altro problema della leptomicina e la sua elevatissima tossicità, che non è affatto sorprendente, in quanto CRM1 media il trasferimento dal nucleo al citoplasma di molte preteine e di molti RNA, in cellule normali e neoplastiche. Sono in corso di sviluppo nuovi inibitori meno tossici di leptomicina (144). Un approccio più razionale potrebbe essere lo sviluppo di piccole molecole finalizzate a ridirigere le proteine delocalizzate al corretto compartimento cellulare (il nucleolo, nel caso della proteina NPM1). Un’alternativa terapeutica nelle LMA con mutazioni NPM1 è interferire con la funzione del gene NPM1 wild-type codificato dal normale allele (145). Il razionale per questo approccio è che le mutazioni di NPM1 sono quasi sempre eterozigoti (146). Ciò suggerisce che una certa quantità di proteina NPM1 wild-type è necessaria per la sopravvivenza delle cellule leucemiche. Ci sono evidenze sperimentali su topi knock-out che la completa delezione del gene NPM1 induca a morte durante l’embriogenesi (147). È possibile ipotizzare che piccole molecole in grado di bloccare l’attività NPM1 residua (ad esempio alterando la struttura nucleolare e dislocando la nucleofosmina nel nucleoplasma) possano aumentare la propensione di queste cellule a morire o ad essere uccisa da farmaci chemioterapici. Dato che le LMA con mutazione di NPM1 contengono molto meno NPM1wt nucleolare delle normali cellule emopoietiche, è possibile che bassi dosaggi di queste molecole interferenti possano eliminare selettivamente le cellule leucemiche, risparmiando quelle normali (terapia selettiva). Profilo genetico Un’altra strategia potenziale è l’interferenza con le alterazioni del traffico nucleo-citoplasmatico indotte dalla mutazione NPM1. Ad esempio le mutazioni di NPM1 dislocano HEXIM1 nel citoplasma e di conseguenza inducono un aumento della trascrizione P-TEFb-dipendente. I farmaci capaci di inibire P-TEFb (come flavopiridolo e CYC202) potrebbero pertanto essere efficaci (148). Mutazioni MLL e farmaci epigenetici Whitman et al. (149) hanno dimostrato che il trascritto MLL wild-type non è espresso nei blasti MLL-PTD e che una riattivazione dell’allele WT può essere ottenuta con gli inibitori della DNA metiltransferasi (decitabina) e/o con gli inibitori dell’istone deacetilasi (depsipeptide). Questo lavoro sembra aprire possibilità specifiche di terapia con agenti demetilanti in questo sottogruppo di LMA a prognosi particolarmente sfavorevole. Un recente lavoro di Blum et al in 158 pazienti LMA ha dimostrato che la decitabina può indurre risposte in circa il 40% di pazienti trattati in ricaduta o alla diagnosi (150). Potrebbe essere inoltre promettente la combinazione di agenti ipometilanti e inibitori dell’istone deacetilasi (151). Mutazioni di RAS Una attivazione costitutiva della cascata di segnale mediata dalla mitogen-activated protein kinase (MAPK) è presente in un’elevata proporzione di casi di LMA. Spesso l’attivazione è mediata da mutazioni di RAS, presenti nel 15% delle LMA (117). Il legame delle proteine RAS alla membrana richiede alcune modifiche strutturali che sono catalizzate da enzimi specifici. L’inibizione di tali enzimi indotta dagli inibitori della farnesiltransferasi (FTI) è in grado di indurre apoptosi e riduzione della proliferazione (152). Il tipifarnib è stato ampiamente sperimentato come monoterapia nei pazienti con LMA, sia in pazienti ricaduti-refrattari (153-155) sia in pazienti anziani non pretrattati (156). Sono state osservate risposte (per lo più parziali) nel 20-30% dei pazienti. Sembrano particolarmente interessanti le prospettive di associazione con altri farmaci, tra cui il bortezomib (15). n BIBLIOGRAFIA 1. Lowenberg B, Downing JR, Burnett A. Acute myeloid leukaemia. N Eng J Med. 1999; 341: 1051-62. 2. Bennet JM, Catowsky D, Daniel MT, Flandrin G, Galton DA, Gralnick HR, et al. 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Cuore, Roma n INTRODUZIONE Il termine leucemia secondaria è stato attribuito a leucemie di diversa natura e origine, che comunque sono riconducibili a tre gruppi (1, 2): 1° Leucemie precedute da un disordine ematologico primitivo, tra queste in primis sindromi mielodisplastiche o altre patologie ematologiche di tipo mieloproliferativo di cui la leucemia secondaria, per lo più mieloide acuta, può rappresentare una naturale evoluzione della patologia primitiva; 2° Leucemie che si manifestano come secondo tumore in pazienti non trattati o trattati con la sola chirurgia; 3° Leucemie che si manifestano dopo trattamento chemio e/o radioterapico per una neoplasia o altra patologia, più comunemente di tipo immune. Queste leucemie vengono chiamate therapy-related e saranno oggetto della nostra esposizione. Sono ritenute analoghe a queste le leucemie che conseguono ad esposizione a carcinogeni ambientali quale il benzene e le radiazioni ionizzanti (3). Le leucemie therapy-related sono per la maggior Parole chiave: Leucemie secondarie, leucemie therapy-related alchilanti, inibitori delle topoisomerasi Indirizzo per la corrispondenza Prof. Giuseppe Leone Istituto di Ematologia Università Cattolica Largo Gemelli, 8 - 00168 Roma e-mail: [email protected] Giuseppe Leone parte di tipo mieloide, spesso sono precedute da una breve fase mielodiplastica (SMD) tant’è che spesso si parla di mielodisplasia/leucemia mieloide acuta therapy-related (t-SMD/LMA) (3). Nel gruppo delle leucemie therapy-related a volte è difficile stabilire quanto abbia influito sull’insorgere della leucemia la terapia e quanto la patologia stessa, anche se la terapia il più delle volte ha un ruolo prevalente (4, 5). Le leucemie secondarie a chemio/radioterapia sono generalmente di tipo mieloide, anche se si riconoscono leucemie secondarie di tipo linfoide (6), e come tali sono raggruppate nella odierna classificazione della World Health Organization (WHO) nel sottogruppo specifico delle leucemie acute mieloidi come therapy-related myeloid neoplasms (7). In effetti una fra le complicanze più temibili legate ai trattamenti chemioterapici per una neoplasia maligna primitiva, è la possibilità dell’insorgenza di un nuovo tumore (5) (Figura 1). n FARMACI CITOTOSSICI A molti dei più di 50 farmaci utilizzati nelle associazioni terapeutiche antineoplastiche, alchilanti, analoghi delle purine, radiazioni ionizzanti, usati nelle terapie antiblastiche ed immunosoppressive, è riconosciuta un’attività carcinogenetica per l’uomo secondo la International Agency for Research on Cancer (8). Anche le leucemie che conseguono ad una esposizione accidentale alle radiazioni ionizzanti e al benzolo sono considerate leucemie secondarie (3, 32 Seminari di Ematologia Oncologica FIGURA 1 - La leucemia secondaria therapyrelated come modello di carcinogenesi. 9, 10). Sebbene un’aumentata incidenza di tSMD/LMA sia stata osservata anche dopo la sola radioterapia, è la chemioterapia a determinare un maggior rischio leucemogeno, che tuttavia si incrementa con l’associazione alla radioterapia, riconosciuta scarsamente leucemogena, se limitata a piccoli campi (1, 9). Gli agenti chemioterapici ad accertata attività leucemogena includono gli agenti alchilanti (melfalan ciclofosfamide, mostarde azotate, ecc.), gli inibitori della topoisomerasi II (etoposide, doxorubicina, daunorubicina, mitoxantrone, ecc.), gli analoghi delle purine, e i deri- vati del platino (3) (Tabella 1). Le leucemie therapy related sono più frequenti dopo agenti alchilanti (11, 12) e inibitori della topoisomerasi 2 (11-13), ma vengono descritte sempre più frequentemente anche dopo alcuni anti-metaboliti analoghi delle purine quali la azotioprina e la fludarabina (3, 14). I farmaci citotossici sono spesso dati in combinazione e a volte associati alla radioterapia, rendendo difficile l’attribuzione della capacità leucemogena di ciascun farmaco (15). La combinazione della chemoterapia con la radioterapia sicuramen- Agenti alchilanti Inibitori della Topo-isomerasi 2 Anti-metaboliti Derivati del platino RTX Busulfano Carmustine Chlorambucil Ciclofosfamide Dacarbazina Diidrossibuslfano Lomustine Mechlorethamine Melfalan Procarbazina Semustina Thiotepa Bimolano Dactinomycina Daunorubicina Daxorubicina Epidoxorubicina Etoposide Mitoxantrone Razoxano Teniposide Azatioprina Fludarabina Mercaptopurina Methotrexate Carboplatino Cisplatino Oxiplatino Esposizione alle radiazioni ionizzanti e al Benzolo TABELLA 1 - Farmaci e agenti citossici, suddivisi per classe, implicati nello sviluppo delle neoplasie mieloidi correlate alla terapia (t-SMD/LMA). Leucemie secondarie therapy-related Agenti alchilanti Inibitori topoisomerasi-II Latenza 3-8 aa 1-3 aa Cariotipo -7, 7q-5, 5q- 11q23; t(15;17) t(8;21) Metilazione Mutazioni Fase mielodisplastica p15 p53 AML1 (IR) Presente Assente Incidenza 2-20% 2-12% Sottotipo FAB M1-M2 M3, M4, M5 TABELLA 2 - Caratteristiche delle leucemie secondarie ad alchilanti ed a inibitori delle topoisomerasi. te aumenta il rischio di leucemia secondaria che è anche influenzata dalla dose e dal tipo e temporalità di somministrazione (3, 15). La maggior parte delle leucemie secondarie che sono conseguenza dell’uso di farmaci citotossici possono essere divise in due gruppi (Tabella 2) in ragione del fatto che il paziente abbia ricevuto farmaci alchilanti o farmaci che bloccano la topoisomerasi II (3, 11, 15). Le leucemie che fanno seguito ad analoghi delle purine ricordano quelle da alchilanti mentre quelle secondarie a radiazioni ionizzanti non hanno un unico pattern (16). n RADIAZIONI IONIZZANTI Forme comuni di radiazioni ionizzanti sono le radiazioni elettromagnetiche quali i raggi x, che non contengono masse o cariche, e le radiazioni da particelle che includono elettroni, protoni, neutroni, e particelle varie (9). Una radiazione ionizzante è comunque una radiazione di energia sufficiente a rimuovere gli elettroni dagli atomi quando passa attraverso un tessuto biologico e la energia deposta produce tratti di ionizzazione e di eccitazione altamente strutturati. I raggi x furono scoperti da Roentgen nel 1895, e la prima radiografia fu fatta nel 1896, mentre i primi reports di un aumento casi di leucemia nei radiologi appaiono negli anni 40 (9). È stata anche descritta un’aumentata incidenza di leucemia in pazienti trattati con radioterapia per malattie benigne quali la spondilite anchilosante (16). Lo studio di pazienti che hanno ricevuto radioterapia in assenza di chemioterapia dimostra una maggiore incidenza di LMA o di SMD rispetto ad una pure aumentata incidenza di leucemia linfatica acuta (LLA) o di leucemia mieloide cronica (LMC), mentre non sembra aumentata l’incidenza di leucemia linfatica cronica (LLC) (1, 9). La leucemia radiogenica meglio documentata è quella successiva alla esplosione delle bombe di Hiroshima e Nagasaki con lo studio sui 120.000 sopravvissuti (17). Dopo l’esplosione dell’atomica la LMA era la leucemia più comune, risultava inoltre aumentata la LMC con una maggiore frequenza nei giovani rispetto alle forme de novo. Sulla base degli studi giapponesi il rischio nella vita di sviluppare una leucemia dopo esposizione corporea completa di 1 Gy è di 85 casi per 10000 abitanti (17). Ugualmente un certo aumento di leucemie acute mieloidi si è avuto in Ucraina, dopo l’incidente di Chernobyl, ma senza raggiungere i livelli di Hiroshima (18). Dal punto di vista citogenetico nei pazienti sottoposti a radioterapia sono state riscontrate delezioni dei cromosomi 5 e 7, ma sono state trovate anche traslocazioni bilanciate tipo la t(15;17) (9, 11, 12). Nelle t-SMD-LMA secondarie a radioterapia e a esposizione casuale sono state anche descritte frequentemente mutazioni somatiche del gene AML1/RUNX1 (19). n AGENTI ALCHILANTI Gli agenti alchilanti utilizzati comunemente nelle chemioterapie comprendono ciclofosfamide, ifosfamide, clorambucile, busulfano, e nitrosuree e sono in gran parte derivate dal primo chemioterapico usato, la mostarda azotata (Tabella 1) La maggior parte degli agenti alchilanti danneggia il DNA sia metilandolo sia formando dei legami reciproci tra le 2 eliche del DNA (crosslinking). Gli agenti metilanti, quali procarbazina, dacarbazina, e temozolomide, contengono un gruppo metilico strutturale che può formare monoaddotti di DNA a livello degli atomi N7 e O6 della guanina, degli atomi N1 ed N3 della adenina, e degli atomi N3 della citosina (20). Invece altri alchilanti quali melfalan, ciclofosfamide, chlorambucil e mitomycina C, contengono 2 gruppi alchilici che possono legarsi a 2 basi 33 34 Seminari di Ematologia Oncologica FIGURA 2 - Azione dei farmaci e dei carcinogeni sul DNA. opposte dei 2 filamenti complementari del DNA creando un legame incrociato (crosslinking). Sebbene gli agenti che causano un crosslinking fra i filamenti di DNA possano generare anch’essi monoaddotti, la loro citotossicità è direttamente legata ai legami incrociati interfilamenti (20, 21). I legami covalenti fra basi opposte del DNA bloccano efficacemente la replicazione durante la divisione cellulare e possono dare inizio alla formazione di rotture del DNA potenzialmente letali (morte cellulare) o mutageni (leucemia secondaria) (Figura 2) (20, 21). Le caratteristiche della leucemia secondaria indotta da agenti alchilanti sono descritte nella tabella 2. Tra gli alchilanti esiste una certa gradazione nella capacità di indurre leucemia secondaria. Le nitrosouree e la procarbazina sono associate con una frequenza di leucemie secondarie maggiore (22), e il busulfano e il melfalan sono più leucemogeni della ciclofosfamide (23). Di recente sono state riportati casi di leucemia secondaria anche in pazienti trattati con temozolamide (24). Le leucemie conseguenti al trattamento con alchilanti (3, 15, 20) si manifestano dopo almeno 2 anni, hanno il loro picco di incidenza dopo 5-7 anni e raggiungono un plateau dopo 8-10 anni. La malattia può iniziare con i chiari segni della leucemia con interessamento trilineare, ma più frequentemente in almeno il 70% dei casi è prece- duta da una fase preleucemica, caratterizzata da pancitopenia periferica e midollo con segni di mielodisplasia. La SMD secondaria ad alchilanti evolve frequentemente (>50%) e rapidamente (<12 mesi) in LMA (3, 11, 12, 15, 20). Nei pazienti che esordiscono con franca leucemia si riscontra in genere un sottotipo FAB M1 e M2 anche se la caratterizzazione accurata del sottotipo FAB può essere difficile a causa dell’interessamento multilineare (3, 12). L’analisi citogenetica rivela nelle leucemie, come nelle SMD secondarie, anomalie cromosomiche non random nel 7590% dei casi (11, 12, 25). La maggior parte di queste forme mieloidi hanno un pattern citogenetico con monosomia del cromosoma 5 o perdita e delezione del 5q (-5/5q-) e/o monosomia del cromosoma 7 o delezione e perdita del 7q (-7/7q-) (11, 12, 26, 29). Le forme t-SMD/LMA secondarie con alterazioni del cromosoma 5 (-5/ 5q-) e 7 (-7/7q) presentano un simile andamento clinico e differenze biologiche poco significative, tali da essere raggruppate insieme. Attualmente si tende a distinguere un primo sottogruppo che include pazienti con alterazioni del cromosoma 5 (-5/5q-) con o senza alterazioni del cromosoma 7 e un secondo sottogruppo con la sola alterazione del cromosoma 7. Nel primo sottogruppo sono spesso presenti alterazioni del cromosoma 17, monosomia o delezione o perdita de17p(-17/17p-), mutazioni Leucemie secondarie therapy-related della P53, duplicazione ed amplificazione della banda q23 del cromosoma 11 ed un cariotipo complesso con aberrazioni cromosomiche non identificate (26). Il secondo sottogruppo con l’interessamento del solo cromosoma 7 presenta la metilazione del promotore del gene P15(CDKN4B) (27) e la mutazione somatica di RUNX1 (11, 19). Questa suddivisione è supportata da recenti studi con i microarray (29). n ANALOGHI DELLE PURINE Gli analoghi delle purine sono farmaci antineoplastici appartenenti alla categoria degli anti-metaboliti (purine, azatioprina, 6-tioguanina, fludarabina) e condividono somiglianze strutturali con composti presenti in natura quali i nucleotidi. Possono essere incorporati nel DNA e/o nel RNA, causando una inibizione della proliferazione cellulare (14). La azatioprina è grandemente usata come immunosoppressore nelle malattie autoimmuni o nei riceventi i trapianti di organo spesso in associazione con la ciclosporina e gli steroidi. Malgrado il meccanismo di azione degli analoghi delle purine non sia completamente conosciuto, a dispetto dell’uso clinico ultratrentennale, è generalmente accettato che la incorporazione della tiopurina e della tioguanina nel DNA ne determina la citotossicità e l’effetto terapeutico, legato anche alla capacità del DNA 6-T ad essere facilmente metilato con meccanismi non enzimatici (14). Un eccesso di casi di LMA è stato trovato tra i pazienti trattati con azatioprina dopo trapianto d’organo o per patologie autoimmuni (30, 31). Per spiegare l’insorgenza del clone leucemico dopo chemioterapia con alchilanti o analoghi delle purine bisogna ricordare il meccanismo del DNA mismatch repair (MMR) e della sua possibile deficienza (14, 30). Le tiopurine e gli agenti alchilanti differiscono marcatamente nella loro struttura e nel meccanismo di azione ma hanno in comune la possibilità di indurre danno al DNA che poi deve essere riparato dallo stesso meccanismo del MMR (14, 30) Esiste una resistenza crociata tra i 2 tipi di farmaci che possono provocare entrambi aumento della instabilità dei microsatelliti del DNA e quindi SMD e LMA (14). In aggiunta al frequente comune riscontro di insta- bilità dei microsatelliti, i pazienti trattati con farmaci alchilanti e gli analoghi delle purine condividono altre caratteristiche come per esempio la perdita di parte o tutto il cromosoma 5 o 7 (31, 32). La instabilità dei microsatelliti (MSI), la cui presenza denuncia una carenza del MMR, è stata trovata nelle cellule midollari di tutti i 7 pazienti con t-SMD/LMA successiva a trattamento con tiopurine (30). Poiché la MSI si ritrova raramente nelle SMD/LMA de novo, gli autori concludono che la selettiva proliferazione di cellule mieloidi deficienti nel MMR e resistenti alla azatioprina può contribuire in maniera significativa allo sviluppo di un clone leucemico nei pazienti trapiantati d’organo ed in trattamento immunosoppressivo (14, 30). La fludarabina è un antimetabolita che inibisce la sintesi di DNA ed è l’analogo delle purine attualmente più frequentemente usato, essendosi rivelato di grande efficacia nelle LLC, nei linfomi indolenti (32-34) e nella macroglobulinemia di Waldestrom (MW) (35). La fludarabina è un profarmaco che è convertito nel nucleoside libero 9-beta-D-arabinosyl-2-fluoroadenina, che entra nelle cellule e si accumula come composto 5-trifosforilato, il 9-beta-D-arabinosil-2-fluoroadenosina trifosfato (F-ara-ATP). Il Fara-ATP inibisce la ribonucleotide reduttasi, come pure la DNA ligasi e la DNA primasi. In aggiunta il F-ara-ATP viene incorporato nel DNA e ne impedisce una ulteriore polimerizzazione (14). La fludarabina è stata utilizzata anche in combinazione con altri agenti chemoterapici ed in particolare con la ciclofosfamide, un agente alchilante che induce danno del DNA e ne aumenta l’efficacia e probabilmente anche l’incidenza di leucemie secondarie (3, 32-34) e con il mitoxantrone, anch’esso chiamato spesso in causa come leucemogeno in associazione (36). Anche da sola è in grado di indurre leucemie secondarie e questo è stato verificato in pazienti trattati con la sola fludarabina per linfomi indolenti o per la Malattia di Waldestrom (MW). (33, 35). L’uso di idrossiurea (HU) come agente mielosoppressivo presenta un rischio limitato di trasformazione leucemica (37). Da uno studio del Research Council (MRC, UK) sembra che l’uso della sola HU non aumenti il rischio di t-SMD/LMA nella trombocitemia essenziale e nella policitemia vera (38). 35 36 Seminari di Ematologia Oncologica n INIBITORI DELLA TOPISOMERASI II Alcuni dei farmaci clinicamente più efficaci come antiblastici provocano la morte cellulare interagendo con le topoisomerasi I o II. I farmaci che agiscono sulla topoisomerasi II si dividono in agenti intercalanti (es. doxorubicina) e non-intercalanti, come le epipodofillotossine (es. etoposide e teniposide). Un solo inibitore della topoisomerasi I, il topotecan, è usato attualmente in clinica. Il farmaco intercalante actinomicina D interagisce sia con la topoisomerasi I che II. Gli inibitori delle topoisomerasi comunemente usati in clinica, agiscono legandosi al complesso enzima/DNA al momento del clivaggio dei filamenti successivo all’azione della topoisomerasi (13). Il farmaco blocca la reazione enzimatica attraverso una rilegazione ed una liberazione dell’enzima che lascia il DNA con una rottura permanente tra i filamenti. Le rotture multiple tra i filamenti conducono a morte cellulare, attraverso l’induzione della apoptosi, mentre l’interruzione del processo di replicazione è importante nella inibizione da topoisomerasi I. C’è evidenza che sia l’effetto antineoplastico che l’effetto leucemogeno mediati dalle epidofillotossine sono dovuti a una rottura dei cromosomi e spesso una successiva ricomposizione bilanciata, che si risolve in una traslocazione con la trasformazione leucemica (13). Il rischio di t-SMD-LMA dopo epipodofillotossine va dal 2 al 12% (13) (Tabella 2). Al di là del farmaco stesso, alcuni fattori collaterali sembrano favorire la trasformazione leucemica, tra questi è segnalato il contemporaneo uso di asparaginasi e di G-CSF, meno importante sembra il ruolo della dose cumulativa (39, 40). L’esposizione agli inibitori della topoisomerasi II come l’etoposide si associa generalmente alla traslocazione del gene MLL, che si trova sulla banda q23 del cromosoma 11 (13, 39-41). Il gene MLL è un tipico regolatore di trascrizione e alcune tipiche traslocazioni che interessano MLL suggeriscono che un guadagno delle sue funzioni contribuisce criticamente alla leucemogenesi. Le anomalie del gene MLL, per lo più traslocazioni reciproche e più raramente duplicazioni interne, delezioni ed inversioni si ritrovano anche nelle leucemie de novo del bambino (in circa il 10%) e dell’adulto (in circa il 5%) (13, 40). Circa il 10% delle leucemie con l’interessamento di MLL sono therapy-related. In un sistema di colture cellulari di cellule staminali emopoietiche CD34+ in presenza di etoposide, si assiste frequentemente ad alterazioni del gene MLL, alle quali può seguire una incompleta ed incongrua riparazione e conseguente formazione di duplicazioni tandem, traslocazioni con possibilità di delezioni e inserzioni aggiuntive (41, 42). La trasformazione leucemica con interessamento di MLL è più frequente nei pazienti giovani e può interessare sia la linea mieloide che linfoide dimostrando un profilo genico che suggerisce che il riarrangiamento di MLL inizia nella cellula staminale emopoietica indifferenziata (43). Tuttavia è di rilievo che il gene partner di MLL è generalmente il cromosoma 4 nella LLA (6) e il cromosoma 9 nella LMA (13, 43). Oltre alle alterazioni del cromosoma 11, dopo epipodofillotossine sono state descritte leucemie acute a promielociti (LPA) con la tipica traslocazione t(15;17) (13, 44), descritta soprattutto in pazienti dell’Europa mediterranea affetti da istiocitosi di Langherans, dove però la trasformazione leucemica potrebbe anche essere indipendente dal trattamento (44). Ma altri inibitori delle topoisomerasi occupano un ruolo di rilievo nell’indurre la LAP descritta dopo somministrazione di bimolano, un altro inibitore delle DNA topoisomerasi II, in pazienti affetti da psoriasi (45). Inoltre ci sono diversi reports di LAP in pazienti con sclerosi multipla trattati unicamente con mitoxantrone (46-48). Il mitoxantrone sembra inoltre essere un fattore di rischio per le leucemie che si sviluppano nelle pazienti con tumore della mammella, che è tra le neoplasie più frequentemente associate a promielocitiche secondarie (49). I punti di rottura delle traslocazioni in questi casi sono strettamente raggruppati nella regione di 8bp dell’introne 6 del gene PML (47, 48). Mediante esami di tipo funzionale si è potuto dimostrare che questo hot spot e il punto di rottura di RARA sono comuni siti di clivaggio indotti dalla topoisomerasi sotto l’influenza del mitoxantrone. Sia la doxorubicina che il mitoxantrone erano in grado di indurre questo stesso tipo di clivaggio. Analogamente a MLL, il fattore di trascrizione AML1 (CBFA2), localizzato sul cromosoma 21 banda q, è interessato in traslocazioni bilanciate Leucemie secondarie therapy-related con diversi partners nelle leucemie secondarie a epipodofillotossine o mitoxantrone (50, 51). n DERIVATI DEL BENZOLO La LMA che si sviluppa dopo esposizione al benzolo presenta aspetti simili a quella therapy-related (10). Gli individui a rischio si riscontrano tra i lavoratori di oli minerali, meccanici e lavoratori dei calzaturifici. Il pericolo di leucemie in queste categorie di lavoratori si è molto attenuato (52) sino a scomparire (10, 53) nei paesi occidentali, ma tende a rimanere alto tra i lavoratori delle industrie nei paesi in vai di sviluppo come la Cina (54, 55). n INCIDENZA DELLE T-SMD/LMA La loro incidenza è andata man mano aumentando negli anni sia per il prolungamento della sopravvivenza dei pazienti con precedenti neoplasie, sia per l’uso più frequente di terapie aggressive a scopo antineoplastico o immunodepressivo (56). Dato che l’intervallo di tempo tra somministrazione del farmaco ed insorgenza della leucemia può essere anche di 10 anni è naturale che solo un lungo follow-up ci può dare indicazioni attendibili sulla esatta incidenza della forma secondaria. Ma oltre ai farmaci bisogna considerare anche la patologia primitiva. Le malattie neoplastiche che più frequentemente precedono una t-SMD/LMA sono nell’adulto le malattie linfoproliferative, più di fre- quente il linfoma di Hodgkin (LH) e i linfomi non Hodgkin (LNH), i tumori della mammella e dell’apparato riproduttivo (ovaio e testicolo) e nel bambino la LLA e i tumori del sistema nervoso centrale (SNC) (1, 3, 56) (Tabella 3). L’incidenza della leucemia secondaria dipende sia dal tipo di terapia, dal tipo di malattia primitiva e da fattori individuali di tipo ambientale e genetico (3). Fino al 10% dei pazienti con malattia linfoproliferativa, trattati con terapia convenzionale e successivamente con terapia di salvataggio e autotrapianto di cellule staminali emopoietiche può sviluppare entro 10 anni una leucemia secondaria (1). Nei pazienti con LH il rischio di andare incontro a una leucemia secondaria varia fra <0.5% e 10% a seconda del tipo di terapia, dell’ampiezza della popolazione studiata e della durata del follow-up (1). Bisogna però dire che anche nelle grandi casistiche si è notata nel tempo una diminuzione dell’incidenza delle leucemie secondarie man mano che venivano evitati i farmaci maggiormente leucemogeni e ridotta la estensione delle irradiazioni (57, 58). Infatti un rischio più alto si è subito notato in pazienti sottoposti alla terapia con il regime MOPP rispetto all’ABVD e alla sola radioterapia (59, 60). L’aggiunta della radioterapia aumenta il rischio particolarmente se è associata alla MOPP (59-61) (Tabella 4). Riguardo agli schemi di terapia attualmente in uso, l’incidenza di leucemia secondaria dopo ABVD continua ad essere riportata estremamente bassa, come confermano i dati di Brusamolino et al. (62) che non ha riportato casi di leucemia secondaria in 120 Neoplasie ematologiche Tumori solidi Malattie non neoplastiche Linfoma di Hodgkin I linfomi Non-Hodgkin Mieloma multiplo Leucemia linfoblastica acuta Leucemia mieloide acuta Malattie mieloproliferative croniche Carcinomi Mammellla Ovaio Prostata Polmone Cervice Testicolo Sarcoma di Ewing Neuroblastoma Osteosarcoma Tumore di Wilms Rabdomiosarcoma Artrite reumatoide Granulomatosi di Wegener Epilessia Psoriasi Sclerosi multipla Neutropenia severe congenita Trapianti d’organo TABELLA 3 - Malattie neoplastiche e non, più frequentemente trattate con farmaci a rischio di indurre leucemie secondarie. 37 38 Seminari di Ematologia Oncologica Riferimenti Pazienti (n.) Terapia SMD/LMA (n.) Rischio cum. % Brusamolino et al. (59) Josting et al. (60) 24 304 ABVD 0 1 0 0.3 Brusamolino et al. (62) 118 ABVD±/Radio involved field 0 Schwartz et al. (64) 209 ABVE-PC 3 1.4% Engert et al. (63) 261 469 466 COPP+ABVD BEACOP baseline BEACPP escalated 1 7 14 0.4 (10 yrs) 2.2 (10 aa) 3.2 (10 aa) Forrest et al. (66) Sirohi et al. (65) 202 195 Chemio+ABMT Chemio+ABMT 4 7 2 (7 aa) 4 (10 aa) TABELLA 4 - Rischio cumulativo di t-SMD/LMA in patient sottoposti a chemio-radioterapia per LH in riferimento ai trattamenti attualmente più impiegati. pazienti con malattia non-bulky stadio I-IIA, trattati con 4 cicli di ABVD e campi limitati di radioterapia. Lo stesso non può dirsi con cicli anche di recente introduzione come il BEACOPP (bleomicina, etoposide, adriamicina, ciclofosfamide, vincristina, procarbazina e prednisone) negli adulti (63) e l’ABVE-PC (doxorubicina, bleomicina, vincristina, etoposide, prednisone, ciclofosfamide) nei bambini (64). In questi ultimi 2 cicli, rispetto all’ABVD-MOPP ibrido, viene esclusa la dacarbazina, considerata leucemogena in primo grado e si è sostituto il cloramin con la ciclofosfamide, che probabilmente è meno leucemogena; tuttavia si è introdotto l’etoposide, che ha un’attività leucemogena ampiamente dimostrata. Un significativo aumento della incidenza di t-SMD/LMA è stato soprattutto riscontato nel BEACOPP escalated (63). Un ulteriore incremento della incidenza di leucemia secondaria si ha nei pazienti recidivati pluritrattati che raggiungano una durevole remissione completa (RC) con o senza autotrapianto (65), specie se in età avanzata (66). Per quanto riguarda i LNH, gli studi sono diversi: ci limitiamo a riportare i più recenti, rimandando a review specialistiche per i dati meno recenti (1-3, 15). In uno studio britannico apparso nel 2006 (67) su 2.456 pazienti, di età <60 anni, in cui non si differenzia tra LNH indolento e aggressivo, trattati dal 1973 al 2000, venivano segnalate 123 seconde neoplasie, di queste 17 erano LMA con un rischio relativo 10.5. Il rischio maggiore si aveva quando alla chemioterapia veniva associata la radioterapia, mentre la sola radioterapia non aumentava il rischio di leucemie. Tra i farmaci inoltre il rischio era maggiore quando i pazienti erano trattati con il clorambucil (RR 19.2, 9.6-34.3) rispetto al CHOP (RR 14.2, 6.8-26,2). Il rischio relativo era simile nei linfomi aggressivi e indolenti e diminuiva con l’aumento dell’età al primo trattamento. Passando ai farmaci introdotti più recentemente nelle patologie linfoproliferative poco aggressive, nei pazienti con LNH indolente è stato trovato un aumentato rischio di neoplasie secondarie ed in particolare di t-SMD/LMA quando i pazienti erano trattati con fludarabina (33-37, 68). Ad un follow-up mediano di 62 mesi, la incidenza cumulativa di seconda neoplasia a 12 anni era di 10.5 in 563 pazienti italiani trattati con differenti schemi. Fattori di rischio indipendenti erano l’età avanzata, il sesso maschile e i regimi di terapia contenente fludarabina (68). Il massimo di incremento di leucemia secondaria si è avuto nei pazienti sottoposti a chemio/radioterapia eradicante seguita da trapianto di cellule staminali emopoietiche autologhe, sia eseguito nei pazienti resistenti come salvataggio, che impiegato nella terapia di prima linea (69, 70) (Tabella 5). Un aumento di neoplasie secondarie ed in particolare di LMA e SMD è stato ugualmente osservato nei pazienti con LLC o con MW trattati con fludarabina (32, 34, 35). L’incidenza era massima nei pazienti con LLC successivamente sottoposti ad autotrapianto di midollo dopo eradicazione con radiochemioterapia (71). Per quanto riguarda la MW, in un recente studio americano (35) venivano esaminati 439 pazienti con un simile follow-up, Leucemie secondarie therapy-related Riferimenti Pazienti (n.) Terapia CHOP Chlorambucil Radioterapia SMD/LMA (n.) Rischio cum. % Fattori di rischio 14.2 19.2 0 9 0 0.3 Mudie NJ et al. (67) Brit. Cohort Study 2456 McLaughlin et al. (36) 202 Flu-MitoxDesa±R 5 4 Fludarabina Mitoxantrone Sacchi S et al. (68) GISL 563 ALK±Antrac ± Fludara 12 2.1 Fludarabina Gyan et al. (70) GOLEAN 80 CHT intensiva CHVP + IFN 1 0.8 Gyan et al. (70) GOLEAN 86 CHT intensiva TBI+ABMT 6 7 TBI TABELLA 5 - Rischio cumulativo di t-SMD/LMA in patienti che sottoposti a chemio/radioterapia per LNH. di cui 193 trattati con fludarabina, 136 senza e 110 senza alcuna terapia. Ad un follow-up mediano di 5 anni, 12 (6.2%) dei 439 patienti trattati con fludarabina erano andati incontro o ad una trasformazione in linfoma aggressivo (n=9; 4.7%) o in tSMD/LMA (n=3; 1.6%). Undici dei 12 pazienti con evoluzione di malattia erano stati tratatti con fludarabina, mentre 1 solo paziente non trattato con fludarabina e nessuno dei pazienti non trattati avevano una malattia evolutiva (35). I 3 pazienti con t-SMD/LMA decedevano nel giro di 5 mesi, mentre i pazienti in trasformazione linfomatosa venivano recuperati da una terapia di salvataggio. Nei LNH aggressivi il gruppo francese GELA (72) nel 2004 ha riportato dei dati molto significativi su un gruppo di 2.837 pazienti trattati tra il 1984 ed il 1998 con il regime ACVBD (adriamicina, bleomicina, vindesina, ciclophosphamide e prednisone). Ad un follow-up mediano di 74 mesi venivano riportate 81 neoplasie secondarie di cui 17 ematologiche, con un aumento statisticamente significativo soprattutto per le t-SMD/LMA, il cui rischio aumentava di 15 volte. Più recentemente Sacchi et al. (73) ha riportato i dati del gruppo italiano GISL su una serie di 1280 LNH a grandi cellule B, trattati tra il 1988 e 2003. Sono state osservate 48 neoplasie secondarie di cui 8 casi di tSMD/LMA. Il rischio cumulativo attuariale a 5, 10 e 15 anni era di 1.5, 3.3 e 6.8 per i tumori solidi e di 0.8, 1.4, e 1.4 e per le t-SMD/LMA, dimostrando ancora una volta che la LMA secondaria è evento raro trascorsi 10 anni dalla terapia, mentre l’incremento delle neoplasie solide continua. Metayer et al. (74) hanno riportato un ampio studio policentrico in 12 istituzioni americane su 2.739 pazienti (955 LH e 1784 LNH) sottoposti a terapia antiblastica sovra massimale, trattati tra 1989 e 1995. Venivano riportati 56 pazienti con tSMD/LMA, che rappresentano un rischio cumulativo a 7 anni del 3.7% (3.3% per il LH e 3.9% per i LNH). In una valutazione caso-controllo su 168 pazienti con le stesse caratteristiche, all’analisi multivariata apparivano significativi, nel determinare il rischio leucemico, l’intensità della terapia pre-trapianto con la mecloretamina (RR da 2.0 a 4.3 a seconda delle dosi) e con clorambucile (RR = da 3.8 a 8.4), rispetto ai regimi contenenti ciclofosfamide. In questo gruppo di pazienti la total-body irradiation (TBI) costituiva un fattore di rischio solo alla dose superiore a 13.2 G. L’uso di cellule staminali del sangue periferico costituiva un fattore di rischio scarsamente significativo. Il rischio leucemogeno della radioterapia nel condizionamento pretrapianto appare dunque un dato costante, potendosi ritrovare come si è detto anche nei pazienti con LNH indolente (70) e nei pazienti con LLC (71). Inoltre il condizionamento radioterapico sembra costituire ugualmente un fattore di rischio, mentre non sembra accertato il ruolo della mobilizzazione e dei fattori di crescita (75). Nella nostra esperienza l’uso della sola chemioterapia ad alte dosi seguita da autotrapianto con cellule staminali del sangue periferico non ha indotto un aumento significativo delle t-SMD-LMA, mentre è risultato ancora una volta evidente come fattore di rischio il pregresso uso della fludarabina (76). 39 40 Seminari di Ematologia Oncologica Nella popolazione pediatrica i tumori secondari therapy-related hanno un ruolo di particolare importanza, considerata la lunga attesa di vita dei pazienti trattati per una neoplasia (57). La tSMD/LMA ha un certo impatto nella sopravvivenza nei pazienti pediatrici affetti da LH, osteosarcoma e neuroblastoma (57), e rimane uno dei problemi più importanti tra le complicanze tardive nella LLA del bambino (40, 57, 77, 78), mentre ha un minore impatto nella forma dell’anziano (78, 79). Tuttavia, le esperienze sono diverse tra le varie scuole ed in genere il gruppo tedesco (80), che utilizza lo schema BFM, riporta una incidenza molto inferiore a quella del gruppo americano del St. Judes Hospital (40, 77) e anche dei gruppi nordici (81). In uno studio retrospettivo al St. Judes, Hijiva et al. (77) hanno analizzato l’incidenza di neoplasie secondarie nell’arco di 30 anni. Una neoplasia secondaria sviluppava come primo evento in 123 dei 2.169 patienti trattati, includendo 46 neoplasie mieloidi, 3 linfomi, 22 tumori cerebrali e 16 meningiomi. Il rischio cumulativo di seconda neoplasia a 15 anni era del 4.17% e continuava a salire dopo i 20 anni, per portarsi al 10.58% a 30 anni. Il rischio di LMA è maggiore nei bambini con LLA che ricevono alte dosi cumulative di epipodofillotossina in dosi settimanali o bisettimanali e che ricevono G-CSF o irradiazione craniale (39, 77), passando dal 2.7% al 11% e al 12.3 % nei pazienti trattati con G-CSF o radioterapia. Un aumento molto inferiore viene riportato dal gruppo tedesco (79), mentre l’aumento è più significativo nel gruppo nord-europeo (81), che in un lavoro recentis- Riferimenti Pazienti (n.) simo mette in evidenza l’importanza del trattamento di mantenimento con purinetol e metotrexate e l’importanza dei polimorfismi della metiltrasferasi in grado di produrre un aumento della tossicità da purine e quindi la leucemia secondaria. Questa evenienza non è stata confermata nei pazienti tedeschi trattati con il BFM (80). Tra i tumori solidi che possono precedere una t-SMD-LMA si riscontrano in primis i tumori tipici del sesso femminile, mammella, ovaio, cervice, e quindi prostata, urotelio, polmone (1, 56). I tumori della mammella (Tabella 6) occupano un ruolo particolare sia per l’elevata incidenza, rappresentando più di 1/3 dei tumori solidi quale primo tumore, sia per il particolare rapporto con le leucemie (2, 3, 56). Diversi studi epidemiologici di coorte indicano che l’incidenza di tutte le leucemie è aumentata nelle donne che hanno sofferto di una neoplasia mammaria (82, 83); la LMA è la neoplasia secondaria più frequente nelle donne giovani con pregresso tumore della mammella (Tabella 6) in tutti gli studi epidemiologici europei ed americani con un rischio RR sempre superiore a 2, indipendentemente dalla terapia e dallo stadio di malattia (82, 83). A differenza delle malattie ematologiche, il rischio relativo è superiore nelle pazienti giovani rispetto alle anziane (83, 84), inoltre una maggiore frequenza di t-SMD-LMA veniva riscontrato nelle pazienti con una anamnesi familiare positiva per neoplasie specie della sfera ginecologica (85, 86). Da questi studi appare evidente come la pregressa neoplasia mammaria predisponga alla leucemia secondaria (83-87), Terapia SMD/LMA (n.) Rischio cum. % Praga et al. (90) 7110 1427 903 Epirubicin regimens CMF Tp ormonale 28 1 1 0.55 (8 y) 0.07 0.11 Smith et al. (88) 6018 2545 Doxo+CTX Doxo+CTX+G-CSF 21 22 0.12 0.86 Bernard-Marty et al. (89) 255 267 CMF Epirubicina regimens 0 3 0.9 (6 y) 1569 3330 2837 890 Doxo regimens CTX regimens Radiotherapy GCS-F/GM-CSF 18 40 38 16 1.14 1.20 1.33 1.79 Hershman et al. (92) TABELLA 6 - Rischio di t-SMD/LMA in pazienti che ricevevano la radio/chemioterapia per tumore mammario. Leucemie secondarie therapy-related di converso numerosi studi caso/controllo hanno dimostrato l’importanza fondamentale della chemio/radioterapia. L’impiego frequente di alcuni degli inibitori delle topoisomerasi in particolare del mitoxantrone, che ha un potere leucemogeno superiore alla adriamicina (3) nelle terapie antiblastiche del tumore della mammella, giustifica l’alta frequenza di LAP (49, 88). Negli studi caso controllo è più evidente ed individuabile il ruolo della chemioradioterapia (3, 88-94). Praga et al. (90) analizzando 9796 casi di tumore della mammella in 19 trial randomizzati ha trovato un rischio cumulativo di leucemia secondaria dello 0.55%, che però variava grandemente (dallo 0,37% al 4,97%) a seconda della dose cumulativa di epirubicina ricevuta. In un recente studio francese (91) è stata messa in evidenza nel tumore della mammella la maggiore leucemogenicità del mitoxantrone rispetto all’adrialastina e l’effetto leucemogeno dell’aggiunta di G-CSF alla chemioterapia. Quest’ultimo dato, già segnalato nel 2003 (88) veniva sottolineato da un contemporaneo dato americano su un notevole numero di pazienti (92), ma non confermato da un altro studio sui soggetti anziani (93). In definitiva sembra accertato un aumentato rischio per fattori genetici ed ambientali, l’importanza degli inibitori della topoisomerasi, e tra questi in primis del mitoxantrone, della radioterapia e probabilmente dell’uso del G-CSF. n FATTORI PREDISPONENTI I fattori predisponenti e la patogenesi delle t-SMDLMA sono ancora in via di definizione, ma è improbabile che la leucemia secondaria sia un evento del tutto casuale. Dal momento che soltanto una piccola percentuale dei soggetti esposti a terapia citotossica sviluppa una t-MDS/AML therapy-related, è ipotizzabile una predisposizione individuale genetica. Tale suscettibilità potrebbe dipendere da fattori ereditari, quali i polimorfismi del metabolismo dei farmaci o della riparazione del DNA (94, 95), che sembra importante in particolare per le forme con anomalie dei cromosomi 5 e/o 7, dove i fattori predisponenti sono simili (5, 20). Una predisposizione specifica appare associata non solo al tipo di trattamento, ma anche al tumore primitivo, come dimostrato per la LAP secondaria a car- cinoma della mammella o a sclerosi multipla, trattate con mitoxantrone (47-49, 84-87). Gli enzimi del metabolismo svolgono un ruolo importante nel metabolismo, trasformazione e detossificazione dei farmaci o degli xenobiotici (3, 94). Gli enzimi di fase I (Attivazione) comprendono la superfamiglia del citocromo P450, mentre gli enzimi di fase II (Detossificazione) includono diverse superfamiglie di enzimi, fra cui sulfotrasferasi, glucuronosiltrasferasi, NAD(P)H:chinone ossidoreduttasi (NQO), epossido-idrolasi (EPH), glutatione S-trasferasi (GST) e N-acetil-trasferasi (NAT). La coniugazione delle sostanze mediante gli enzimi di fase II aumenta l’idrofilia e l’eliminazione delle sostanze tossiche nella bile e/o nell’urina, e di conseguenza influenza la detossificazione e l’eliminazione in ultimo di molti farmaci e xenobiotici. In alcuni casi, la coniugazione con gli enzimi di fase II può indurre la formazione di metaboliti attivati e aumentarne la tossicita (94) (Figura 2). Le epipodofillotossine, etoposide e teniposide, così come ciclofosfamide, ifosfamide, vinblastina, e vindesina sono substrati del metabolismo mediante CYP3A, il componente del sistema CYP piu’ abbondante nel fegato (13, 93, 96). Una variante del CYP3A4 nella regione del suo promotore (CYP3A4-V) influenza la produzione del metabolita delle epipodofillotossine catecolo, che è il precursore della chinina, con caratteristiche genotossiche simili al benzolo (97). Molti autori, incluso il nostro gruppo (98), hanno dimostrato una ridotta prevalenza del polimorfismo CYP3A4-V nelle t-SMD-LMA, suggerendo che il genotipo CYP3A4nativo potrebbe aumentare la produzione di metaboliti intermedi genotossici, e aumentare il rischio leucemico (96, 98). Un altro enzima importante per il metabolismo del benzene è il NAD(P)H:chinone ossidoriduttasi (NQO1), che trasforma l’idrochinone e altri metaboliti idrossilici in metaboliti meno tossici. I difetti del sistema di NQO1 causano inoltre un più veloce accorciamento dei telomeri e inducono ematopoiesi clonale a seguito dello stress ossidativo (54). Nei lavoratori del benzene è stata descritta un’alterazione ematologica simil-SMD, associata ai polimorfismi MPO -463GG e NQO1 465CT, in particolare se associati (54). Inoltre è stato dimostrato che la frequenza degli eterozigoti per NQO1 era più alta nei pazienti affetti da leucemia rispet- 41 42 Seminari di Ematologia Oncologica to alla popolazione generale, e che gli omozigoti erano circa il 4% delle LMA de novo e l’11% delle t-LMA (98, 99). Queste percentuali aumentavano ulteriormente nei pazienti con anomalie dei cromosomi 5 e/o 7, da sole o associate, o nei pazienti trattati con agenti alchilanti per la neoplasia primitiva. Molti farmaci citostatici come l’adriamicina, BCNU, bleomicina, clorambucile, cisplatino, etoposide, melfalan, mitomicina C, mitoxantrone, vincristina e ciclofosfamide vengono inattivati inoltre dalle GST (100). Molti enzimi della famiglia delle GST presentano polimorfismi frequenti nella popolazione e per questo interessanti nella leucemogenesi. In particolare il gene di GSTP1 presenta un allele variante, con una sostituzione della isoleucina a valina a livello del codone aminoacidico 105 (Ile105Val), che è presente in circa il 30% delle popolazioni caucasiche ed è associata a ridotta attività enzimatica (3, 94, 100). Tale polimorfismo si presenta frequentemente in eterozigosi nelle t-SMD-LMA, in particolare in seguito a precedente trattamento chemioterapico con noti substrati di GSTP1, e non in seguito a trattamento esclusivamente radioterapico (100). Un altro meccanismo di leucemogenesi secondaria sono i difetti di riparazione del DNA (95). Le rotture a doppia elica del DNA sono la classe più importante di danno perché inducono la morte cellulare o la perdita di materiale genetico, che induce a sua volta anomalie cromosomiche e/o traslocazioni. Una riparazione inefficiente permette l’acquisizione e la persistenza delle mutazioni, mentre una riparazione eccessiva può inibire l’apoptosi e consentire alle cellule danneggiate di tentare di riparare il danno al DNA, e quindi sopravvivere con un DNA riparato in maniera non corretta. Le rotture a doppia elica vengono riparate nei mammiferi dai sistemi della ricombinazione omologa o dell’end-joining non omologo. Una delle proteine più importanti della ricombinazione omologa è RAD51, che si lega al DNA e induce un appaiamento delle eliche ATP-dipendente, favorendo così la riparazione del danno. RAD51 interagisce con BRCA1 e BRCA2 ed è essenziale per la sopravvivenza e stabilità genetica della cellula: modelli murini di knock-out per RAD 51 sono letali in fase embrionaria, probabilmente a causa di un accumulo di rotture cromo- somiali. La proteina XRCC3 svolge anch’essa un ruolo nella riparazione delle rotture della doppia elica e interagisce direttamente con RAD51, stabilizzandolo. Il gene di RAD51 presenta un polimorfismo G/C nella posizione -135 (RAD51-G135C), mentre XRCC3 presenta un polimorfismo del codone 241. Studiando 51 pazienti con t-SMD-LMA veniva riportata una frequenza del polimorfismo RAD51G135C significativamente aumentata rispetto ai controlli normali, di simile età e razza, e ciò aumentava di 6-volte il rischio di leucemia secondaria. (94). La presenza dei due polimorfismi RAD51135C e XRCC3-241Met contemporaneamente aumentava il rischio di LMA di 6 volte in presenza, mentre il rischio di t-SMD-LMA aumentava di 8 volte (94). Anche il meccanismo di riparazione mediante escissione dei nucleotidi sembra coinvolto nella leucemogenesi secondaria: la ridotta attività del gene per lo xeroderma pigmentosum gruppo D (XPD) dovuta a polimorfismo si associava a ridotta sopravvivenza nella leucemia acuta e a un rischio aumentato di 2 volte di sviluppare una leucemia secondaria dopo chemioterapia (101). Il sistema di DNA mismatch repair è invece importante per la correzione di errori replicativi che sfuggono ai controlli della DNA polimerasi (102). Negli uomini i complessi MSH2/MSH6 e MSH2/MSH3 riconoscono e legano mismatch di singole basi e sequenze di inserzioni/delezioni del DNA. Il sistema di riparazione, viene particolarmente inibito da una ridotta funzione di MSH2 o MLH1 (102, 103). Studiando 3 markers mononucleotidici quasi monomorfici, si evidenziava una bassa percentuale di instabilità dei microsatelliti nelle LMA de novo (0-30% dei casi), mentre essa risultava significativamente più elevata (38%) nei casi di t-AML. In questo senso anche i polimorfismi di MLH1 erano più frequenti nelle t-SMD-LMA (102). Le mutazioni di caspase-5, FANCD2 e NF1 possono anch’esse essere alla base della instabilità dei micro satelliti nelle t-LMA (104). Le mutazioni del gene oncosoppressore p53, fondamentale per la difesa della cellula da molti agenti dannosi per il DNA, sono importanti per la patogenesi delle t-SMD/LMA. Conseguentemente è stato dimostrato che due varianti funzionali comuni della via di p53, che ne riducono l’attività, col- Leucemie secondarie therapy-related laboravano nell’aumentare il rischio di t-SMD-LMA, in particolare nei portatori di delezioni dei cromosomi 5 e/o 7 (105). L’elevata frequenza di instabilità dei microsatelliti e l’evidenza della perdita di funzione di MSH2 nelle t-SMD-LMA suggerisce che una disfunzione del DNA mismatch repair potrebbe essere l’evento iniziatore della malattia. Il conseguente accumulo di eventi genetici secondari potrebbe indurre la proliferazione di cellule con attività ridotta di p53, aumento dell’espressione dei geni della ricombinazione omologa (incluso RAD51), eccessiva riparazione del DNA, e aumento dell’instabilità cromosomica, che conduce alle anomalie tipiche delle t-SMD/LMA. Questo potrebbe essere inoltre favorito dalla presenza di polimorfismi del metabolismo degli xenobiotici dal momento che le specie reattive che sfuggono ai meccanismi di detossificazione o che vengono prodotte in eccesso possono danneggiare il DNA, che viene poi riparato in maniera errata da meccanismi di riparazione difettosi. Ciò conduce all’espansione clonale delle cellule danneggiate e alla fase mielodisplastica. La trasformazione in LMA procede quindi come un’evoluzione naturale e la t-SMD/LMA possono essere considerate come un’unica malattia. Quest’ipotesi è sostenuta dal numero significativo di pazienti con un difetto combinato di detossificazione e riparazione del DNA (97, 98). n POSSIBILITÀ DI TRATTAMENTO Il trattamento delle t-SMD-LMA-related è molto complesso ed è stato oggetto di pochi studi chiari e completi. Daremo soltanto alcuni linee di comportamento rimandando a pubblicazioni specifiche che saranno riportate in altri capitoli di questa rivista. In molti report terapeutici si raggruppano le LMA post-SMD con le secondarie a chemio-radioterapia (106, 107) e anche con le leucemie che si presentano come secondo tumore (108), indipendentemente dalla terapia che è stata eseguita per il tumore primitivo. D’altra parte la t-SMD-LMA non ha delle stimmate morfologiche e citogenetiche particolari, ma la diagnosi è basata unicamente sul dato anamnestico (7), la pregressa chemioterapia con farmaci riconosciu- ti come leucemogeni o la radioterapia, senza una specificazione di temporalità e nemmeno chiara indicazione nominale dei farmaci ritenuti leucemogeni, per cui possono non venir inclusi casi di mera coincidenza temporale o di stessa suscettibilità di due neoplasie (la primitiva e la neoplasia mieloide therapy-related) a fattori cancerogeni diversi ma comuni. Pertanto si dovrà tener conto della sola letteratura che specificatamente parla di leucemie secondarie therapyrelated. Quando si dovrà scegliere la terapia per questo particolare tipo di leucemia bisognerà fare una valutazione clinica del singolo caso che tenga conto della malattia primitiva e distinguere se si tratti di una neoplasia ematologica o non ematologica o una malattia autoimmune (56), verificare se la malattia di base è in fase attiva o meno, verificare i danni provocati dalla pregressa neoplasia e soprattutto dalla terapia antiblastica e radioterapica (110, 111). È noto infatti che le comorbidità influenzano la prognosi dei pazienti leucemici sia che essi vengano trattati con la sola classica chemioterapia, che con l’aggiunta di trapianto di midollo (111-113). In particolare andrà valutato il danno cardiovascolare e polmonare delle pregresse terapie in quanto generalmente poco reversibile (109, 110). La prognosi e la risposta alla terapia della leucemie therapy-related, come delle de novo, sono strettamente dipendenti dalle alterazioni citogenetiche presenti (114, 115). Sicuramente le leucemie therapy-related che insorgono senza essere precedute da una SMD e che presentano una traslocazione hanno una prognosi migliore delle forme precedute da una fase mielodisplastica, rispondendo al trattamento antiblastico convenzionale in maniera simile alle de novo e come tali vanno trattate (56, 109). È dubbio se le leucemie therapy-related insorte senza una fase mielodisplastica abbiano la stessa prognosi delle de novo, come riportato dalla esperienza GIMEMA (109). La maggior parte degli autori (56, 116) sostiene che la patogenesi postchemio di per sè condizioni in ogni caso negativamente la prognosi. Ci sono alcuni dati che fanno pensare ad una minore sensibilità ai farmaci, come riportato recentemente per le forme interessanti CBFA sia nella translocazione t(8;21) che nella inversione del 16, per cui la specifica sen- 43 44 Seminari di Ematologia Oncologica sibilità di queste due forme alla citosina arabinoside sarebbe inferiore nelle therapy-related rispetto alle forme de novo con lo stesso interessamento di CBFA (116). Lo stesso non si può dire delle LPA therapy-related che sembrano rispondere ugualmente bene ai classici trattamenti impieganti l’acido retinoico e le antracicline (49, 87). Le forme precedute da SMD e in genere e caratterizzate da delezione o monosomia dei cromosomi 5 o 7 dovrebbero essere trattate, quando possibile, immediatamente con trapianto di cellule staminali emopoietiche, preceduto da un regime di condizionamento chemioterapico standard o ridotto tenendo conto dell’età del paziente (117, 118), similmente a quanto proposto per le SMD ad alto rischio (112). Si possono ottenere delle remissioni complete e lunghe sopravvivenze dal 20 al 50% dei casi. Il trapianto di midollo preceduto da un condizionamento di tipo classico eradicante o ad intensità ridotta sembra produrre delle buone risposte (sopravvivenza a 3 anni >50%) nei pazienti con precedente neoplasia solida, in genere tumore mammario (117-119) e senza fase mielodisplastica, che condiziona la prognosi sia nei pazienti con leucemia de novo che secondaria (117, 118). A nostro giudizio per le le forme citopeniche con displasia il trapianto va fatto in prima battutta o dopo terapia con farmaci demetilanti. Nei pazienti con pregressa malattia ematologica proliferativa (117) in specie il LH la prognosi è decisamente peggiore, come sottolineato dal gruppo tedesco. Anche i bambini che vanno incontro a una LMA dopo una LLA hanno una prognosi sfavorevole anche se trapiantati (<20% lunghe remissioni complete) (57). I pazienti non candidabili al trapianto o anziani con comorbidità cardiovascolare nella nostra esperienza possono rispondere molto bene accusando poca tossicità all’associazione citosina-arabinoside a dosi classiche con il priming di G-CSF e l’aggiunta di mylotarg al termine del ciclo di terapia (120). Altri autori hanno utilizzato nei pazienti con gravi comorbidità la Citosin-Arabinoside a basse dosi o il solo supporto trasfusionale e nei pazienti giovani alte dosi del farmaco con risultati momentaneamente discreti, con remissioni complete nel 50% dei casi, ma seguite invariabilmente da recidiva (57). n BIBLIOGRAFIA 1. Leone G, Mele L, Pulsoni A, Equitani F, Pagano L. The incidence of secondary leukemias. Haematologica. 1999; 84: 937-45. 2. Pagano L, Pulsoni A, Tosti ME, Camera A, Melillo L, Leone G, et al., Gruppo Italiano Malattie Ematologiche Maligne dell’Adulto. 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Circa il 20-25% dei pazienti di età <60 anni non ottiene la remissione completa (RC) con la terapia di induzione (citosina arabinoside + antraciclina ± etoposide), mentre circa il 60-70% di quelli che la ottengono sono destinati a morire a causa della ripresa di malattia, entro 4 anni circa dalla diagnosi. Per i pazienti di età >60 anni la prognosi è significativamente peggiore con un overall survival rate a 5 anni non superiore al 10-15% (1, 2). È probabile quindi, che le attuali strategie chemioterapiche abbiano espresso il massimo delle loro potenzialità, cosicché non è lecito attendersi ulteriori miglioramenti in termini di efficacia terapeutica se non a prezzo di inaccettabile tossicità. Emerge quindi, la richiesta di nuove molecole capaci di potenziare l’efficacia delle terapie convenzionali, di superare la resistenza ad esse od infine disponibili per pazienti anziani non in grado di tollerare i regimi chemioterapici correnti. Per Parole chiave: leucemia mieloide acuta, terapie innovative, inibitori di tirosin-chinasi, terapia epigenetica, analoghi dei nucleosidi. Indirizzo per la corrispondenza Prof. Adriano Venditti Reparto di Ematologia Fondazione Policlinico Tor Vergata Viale Oxford, 81 - 00133 Roma e-mail: [email protected] Adriano Venditti questa ultima categoria, l’esigenza di nuove strategie terapeutiche è ancora più avvertita; si stima che al 70% circa, dei pazienti anziani con LMA non venga offerta nessuna forma di terapia a causa del cattivo performance status, della presenza di patologie associate o della semplice percezione che il paziente possa non tollerare chemioterapia intensiva (1). L’evolversi della terapia della LMA sta attraversando una fase di transizione in cui i risultati clinici non riflettono fedelmente i notevoli progressi compiuti nella comprensione dei meccanismi patogenetici (3, 4). Un modello, recentemente proposto come paradigma patogenetico della LMA, è quello che prevede la cooperazione di due diverse classi di mutazioni: di tipo I e di tipo II, le prime con funzioni mitogeniche ed anti-apoptotiche e le seconde di inibizione della differenziazione (1, 5). Numerose molecole (Tabella 1) in grado di interferire con i pathways di tali mutazioni sono in corso di valutazione nel contesto di trials clinici, come singoli agenti o in associazione a chemioterapia. Questo modello, così detto two-hits, è di estremo interesse biologico ed è verosimile che rispecchi con ragionevole accuratezza la patogenesi multistep della LMA, ciò nonostante non spiega in modo convincente l’emergenza di forme particolari quali quelle associate ad alterazioni del cromosoma 5 e/o 7. È verosimile che per queste forme, il modello two-hits vada corretto per la presenza di ulteriori variabili, come ad esempio l’evento epigenetico, ormai considerato un passaggio eziopatogenetico chiave nella leucemogenesi. I meccanismi epigenetici, così come le stesse mutazioni della classe II, possono essere target di specifica terapia mediante inibitori delle DNAmetil-trasferasi e delle istone-deacetilasi (Tabella 52 Seminari di Ematologia Oncologica Evento patogenetico Agente terapeutico Classe I Mutazioni di FLT3 Inibitori di FLT3 (PKC-412, CEP-701, MLN-518, SU-11248) Mutazioni di KIT Inibitori di c-KIT (imatinib, dasatinib, AMN107) Mutazioni di RAS Inibitori di Farnesyl transferasi (tipifarnib, lonafarnib) Iperespressione di BCL2 “Antisense” di BCL (oblimersen) Attivazione NFk-B Inibitori del proteasoma (bortezomib) Attivazione di PI3K/Ak/mTOR Inibitori di mTor (rapamicina, sirolimus, temsirolimus) Classe II RUNX1-MTG8 CBFβ-MYH11 MLL PTD Terapia epigenetica (inibitori DNA metil-transferasi# e istone-deacetilasi§) Ipermetilazione Terapia epigenetica (inibitori DNA metil-transferasi# e istone-deacetilasi§) # 5-Azacitidina, Decitabina. §Acido Valproico, Depsipetide, Vorinostat (SAHA). TABELLA 1 - Potenziali “targets” in relazione alle classi di mutazioni osservabili nella leucemogenesi. 2). È quindi auspicabile che un approccio terapeutico mirato soddisfi, più efficacemente di quello convenzionale, l’esigenza oramai universalmente percepita di trattare non la LMA bensì le sue diverse “espressioni genetico-molecolari” che rendono tale patologia estremamente eterogenea. Alcuni di questi aspetti saranno discussi di seguito, così come la disponibilità di nuovi agenti citotossici e di nuove molecole potenzialmente in grado di interagire con specifici target intracellulari (Tabella 2). n INIBITORI DEL SIGNALLING INTRACELLULARE Inibitori delle tirosin chinasi Molti dei meccanismi leucemogenetici dipendono dalla fosforilazione, tirosin chinasi mediata, di resi- Classe Agente Immunoterapici Gemtuzumab Ozogamicin, Lintuzumab, antirecettori GM-CSF, vaccino-terapia (WT1) Bevacizumab, Talidomide, Lenalidomide MK-0457, VX-680, AZD1152 Amonafide Clofarabina, Troxacitabina, Triapina, Sapacitabina, Citosina Arabinoside coniugata ad acido elaidico Cloretiazina Antiangiogenetici Inibitori di aurora chinasi Inibitori di topoisomerasi II Analoghi dei nucleosidi Alchilanti TABELLA 2 - Nuove classi di farmaci e nuovi farmaci di classi note in corso di valutazione per il trattamento della leucemia mieloide acuta. dui tirosinici di proteine coinvolte nei processi proliferativi, di regolazione dell’apoptosi e dell’angiogenesi. Le tirosin chinasi sono enzimi che catalizzano il trasferimento di un gruppo fosfato sul residuo tirosinico di proteine bersaglio, influenzandone la funzione o la destinazione (Figura 1) (6). Anomalie genetiche che comportano mutazioni delle tirosin chinasi o dei loro recettori ne inducono un’attivazione costitutiva. FLT3 è un recettore tirosin chinasico transmembranario, intensamente espresso nel 70-100% dei pazienti con LMA. In circa il 25-30% di questi, FLT3 si caratterizza per una mutazione nota come internal tandem duplication (ITD) che occorre nel dominio juxtamembranario, in circa il 5-10% dei pazienti è invece presente una mutazione puntiforme dell’ansa di attivazione di FLT3. Entrambe le condizioni attivano costitutivamente il recettore, a sua volta in grado di innescare la cascata del signalling a valle così promuovendo la proliferazione cellulare (46). Le mutazioni di FLT3 sono, dopo quelle di NPM1, le più frequenti nelle LMA a cariotipo normale e sono associate, in particolare ITD, ad una prognosi sfavorevole (4-6). Queste osservazioni hanno fatto da background allo sviluppo di specifici inibitori di FLT3 e, sebbene numerose molecole siano state riportate ave- Terapie innovative re attività inibitoria nei confronti di questo, al momento solo alcuni farmaci di questa classe sono al vaglio della sperimentazione clinica: PKC412 (midostaurin), CEP701 (lestaurtinib), MLN518 (tandutinib), SU11248 (sunitinib) e BAY439006 (sorafenib) (7). PKC412 o midostaurin è un inibitore orale di FLT3 la cui efficacia è stata valutata, come singolo agente, in uno studio iniziale di fase II che ha arruolato 25 pazienti con LMA (8). In 7 (25%) di questi si è osservata una riduzione della blastosi midollare e di quella periferica del 50% e 70%, rispettivamente. Tali effetti sono stati comunque transitori e della durata non superiore ai 2-3 mesi. A seguito di tali risultati, è stato generato un successivo studio di fase IB, in cui midostaurin veniva combinato con daunorubicina e citosina arabinoside, per pazienti con LMA di nuova diagnosi (9). La frequenza globale di RC osservata era del 71% con una significativa prevalenza nei pazienti con mutazione rispetto a quelli wild-type. Infatti, di 12 pazienti con ITD, 11 ottenevano la RC suggerendo una maggiore efficacia dell’inibitore nei mutanti rispetto ai wild-type. Il Cancer and Leukemia Group B (CALGB) in collaborazione con altri gruppi statunitensi ed europei, fra i quali il Gruppo Italiano Malattie Ematologiche dell’Adulto (GIMEMA), ha recentemente avviato uno studio di fase III che prevede la somministrazione randomizzata di midostaurin a pazienti con LMA de novo e mutazioni di FLT3, di età <60 anni e che riceveranno un ciclo di induzione con daunorubicina e citosina arabinoside (3+7). CEP701 o lestaurtinib è un inibitore di FLT3 con ottima biodisponibilità orale. In uno studio randomizzato di fase III, pazienti con LMA in prima recidiva e mutazioni di FLT3 venivano trattati con chemioterapia ± lestaurtinib. Lo schema di chemioterapia adottato dipendeva dalla durata della precedente remissione; i pazienti con precedente durata della remissione ≤6 mesi ricevevano un ciclo secondo schema MEC (mitoxantrone, etoposide, citosina arabinoside), quelli con una precedente durata di RC di >6-24 mesi venivano trattati con alte dosi di citosina arabinoside (10). Dei 22 pazienti trattati nel braccio chemioterapia + lestaurtinib, 5 ottenevano la RC e 5 la remissione parziale (RP); dei 22 trattati nel braccio solo chemioterapia, 3 ottenevano la RC e 3 la RP, indicando un trend a favore del braccio di combina- FLT3 ligando 1. Legame tra recettore e suo ligando SCF a Mem br an cellu lare 2. Omodimerizzazione dei recettori FLT3 c-KIT P P P 3. Autofosforilazione dei residui tirosinici recettoriali P Autofosforilazione 4. Attivazione del “signalling” intracellulare Attivazione SRC Jak2 Ras Pkc PI3K/Akt Membrana nucleare mTOR FoxO3 NFkB Stat Trascrizione dei geni “target” C-Myc 5. Attivazione di fattori della trascrizione 6. Regolazione di proliferazione, differenziazione e sopravvivenza FIGURA 1 - La figura mostra il pathway di attivazione del segnale intracellulare mediato dai recettori tirosin-chinasici. A seguito del legame fra il dominio extramembranario del recettore e suo ligando, i recettori stessi omodimerizzano ed attivano i processi di fosforilazione a valle che conducono alla trascrizione genica. Le mutazioni dei recettori determinano uno stato di attivazione costitutivo, generando segnali proliferativi continui. 53 54 Seminari di Ematologia Oncologica zione. Gli autori hanno anche dimostrato che, con il dosaggio di 80 mg due volte al giorno, è possibile ottenere concentrazioni plasmatiche adeguate in più del 60% dei pazienti. Questo è un dato rilevante, poiché gli stessi autori dimostrano anche che la combinazione di attività plasmatica inibente FLT3 e suscettibilità in vitro a leustartinib correlano significativamente con la risposta clinica. MLN518 o tandutinib è un inibitore di FLT3 biodisponibile per via orale ed impiegato in un iniziale studio di fase I per pazienti con LMA in recidiva/resistente o con sindrome mielodisplastica (SMD) ad alto rischio. Sono stati reclutati 40 pazienti, con o senza mutazioni di FLT3, i quali hanno ricevuto tandutinib come singolo agente alla dose di 525 mg due volte al giorno (11). Gli studi di farmacodinamica condotti nel corso del trial, indicano che con questo dosaggio l’effetto di riduzione del contenuto in FLT3 fosforilato comincia già poche ore dopo la somministrazione del farmaco e persiste per diversi giorni. In un successivo studio di fase II che ha incluso pazienti con LMA ITD positiva, si è osservata una riduzione del 50% della blastosi midollare in 11 di 25 pazienti, 1 paziente ha ottenuto la RC. Anche l’effetto sulla blastosi periferica è stato drammatico poiché in diversi dei 25 casi è stata riportata l’induzione di una leucopenia (12). A seguito di tali risultati, è stato attivato uno studio di fase I/II in cui tandutinib è stato combinato a chemioterapia convenzionale (3+7 standard) per il trattamento di pazienti con diagnosi di LMA de novo; tandutinib veniva somministrato per via orale nei giorni 0-14 (13). La frequenza di risposta globale è stata del 70% e 21 di 30 pazienti hanno ottenuto la RC. Tali risultati indicano che tandutinib possiede attività clinica e che ulteriori trials clinici sono necessari per caratterizzare al meglio il profilo di efficacia di questa molecola. Due ulteriori inibitori di FLT3 sono stati investigati, come singoli agenti, in studi clinici di fase I; questi sono sunitinib (14) e sorafenib (15). L’impiego delle due molecole in monoterapia ha fornito risposte parziali di breve durata. Quindici pazienti con LMA resistente, sono stati trattati con sunitinib per 4 cicli settimanali, seguiti da sospensione del farmaco per 1-2 settimane (14). Alla dose iniziale di 50 mg non sono state osservate tossicità limitanti la dose, quella successiva di 75 mg è stata abbandonata per la comparsa, in un caso, di scompenso cardiaco. Tutti i pazienti con FLT3 mutato hanno risposto almeno in modo parziale, al contrario solo 2 dei 10 valutabili senza mutazione, hanno ottenuto una risposta; le risposte erano comunque transitorie e di breve durata. Sorafenib è stato impiegato in uno studio di fase I, in 15 pazienti con LMA resistente o in recidiva o con SMD ad alto rischio (15). Lo studio era di dose finding e di confronto di due diverse schedule. Era quindi prevista la somministrazione di una dose iniziale di 200 mg due volte al giorno fino a quella massima di 1.200 mg, secondo un disegno standard 3+3. I pazienti venivano randomizzati in un braccio A (sorafenib per 5 giorni a settimana) o B (sorafenib per 14 giorni ogni 21). Dieci pazienti hanno ricevuto almeno un ciclo di sorafenib e 6 hanno risposto (3 nel braccio A e 3 nel B). Gli autori concludono che sorafenib è sicuro e che la dose massima tollerata non è ancora stata raggiunta. Non sono a tutt’oggi riportati studi di combinazione chemioterapia più sunitinib o sorafenib. In generale, nessuno dei 5 inibitori di FLT3 in sperimentazione clinica, ha dimostrato di offrire vantaggi superiori rispetto agli altri. Tutti sono in grado, come confermato dai test farmacodinamici, di inibire il target farmacologico, ciononostante le risposte cliniche osservate sono modeste e limitate ad una transitoria clearance dei blasti periferici e/o midollari. È ragionevole ritenere che la modesta efficacia clinica degli inibitori di FLT3 impiegati come singoli agenti, possa esser imputata al fatto che le mutazioni di FLT3 costituiscano soltanto una delle possibili alterazioni genetiche somatiche necessarie per la trasformazione leucemica. Questa osservazione e quella di una azione sinergistica in vitro tra inibitori di FLT3 e chemioterapici, quando quest’ultimi vengano somministrati simultaneamente o precedentemente agli stessi inibitori (16), hanno appunto stimolato lo sviluppo di protocolli di associazione per il trattamento delle LMA con mutazioni di FLT3. È concepibile che un’ulteriore linea di sperimentazione clinica consista nel tentativo di interferire con pathways multipli coinvolti nella leucemogenesi; questo si potrà ottenere mediante la combinazione di inibitori di FLT3 con altri agenti diretti contro targets molecolari oppure mediante l’impiego di inibitori cosiddetti multitargeted come ad esempio ABT869, capace di ini- Terapie innovative bire contemporaneamente la fosforilazione di FLT3, STAT5 e ERK (17). Inibitori di farnesyl transferasi La farnesyl transferasi (FT) agisce farnesilando i residui terminali di cisteina di una ampia gamma di proteine fra le quali quelle della famiglia delle retrovirus-associated DNA sequence viral oncogene homologue (RAS), coinvolte in pathways di attivazione fitogenica (18). Circa il 30% delle LMA sono descritte avere mutazioni di RAS la cui conseguente attivazione costitutiva stimola la proliferazione cellulare; le mutazioni di RAS potrebbero quindi avere un ruolo patogenetico nella leucemogenesi. Gli inibitori di FT interferendo con la farnesilazione di RAS ne bloccano il trasferimento alla membrana citoplasmatica e precludono quindi, la trasduzione di segnali mitogenici. È verosimile comunque che anche la inibizione della farnesilazione di altre proteine sia elemento rilevante per l’attività degli inibitori di FT (19). Attualmente, sono al vaglio della sperimentazione clinica due inibitori di FT: tipifarnib (R115777) e lonafarnib (SCH66336) (20). Tipifarnib è un inibitore di FT disponibile per via orale e studiato tanto in LMA de novo che in recidiva o refrattarie. Lancet et al. (21) hanno riportato l’ottenimento della RC in 22 (14%) di 158 pazienti anziani affetti da LMA de novo ad alto rischio e trattati con tipifarnib, 600 mg due volte al giorno per 21 giorni, ogni 28 giorni, per un massimo di 4 cicli. La RP è stata osservata in 15 pazienti (9%), per un overall response rate del 23%. La durata mediana della RC è stata di 7 mesi, quella della sopravvivenza 18 mesi, per i pazienti rispondenti. La somministrazione del farmaco è stata ben tollerata e l’inibizione della farnesilazione è stata dimostrata nella maggioranza dei campioni biologici esaminati. Harousseau et al. (22) hanno somministrato tipifarnib con la medesima schedula impiegata da Lancet, ad una coorte di 252 pazienti affetti da LMA in recidiva o refrattaria. Undici (4%) pazienti hanno ottenuto la RC e la sopravvivenza mediana per questi è stata di 369 giorni. In entrambe le esperienze si sottolinea come la mielosoppressione sia stata l’evento avverso più frequente. Fra gli eventi avversi extraematologici si osservavano principalmente febbre, nausea ed ipokaliemia. Recentemente, Raponi et al. (23) hanno identificato un profilo geni- co potenzialmente in grado di predire la risposta alla terapia con tipifarnib. In particolare, gli autori hanno identificato due geni, RASGRP1, un attivatore di RAS che regola lo scambio nucleotidico di guanina, e APTX, convolto nei meccanismi di riparo del DNA, il cui rapporto di espressione è correlato con la probabilità di risposta. Come singolo agente, tipifarnib è stato testato in uno studio di fase III che intendeva confrontare l’efficacia di tipifarnib verso la miglior terapia di supporto (inclusa, laddove necessario, idrossiurea), in pazienti anziani non eleggibili per chemioterapia intensiva (24). Alla dose convenzionale di 600 mg due volte al giorno per 21 giorni, ogni 28, tipifarnib non ha offerto benefici superiori a quelli della terapia di supporto. In uno studio di fase II, tipifarnib è stato anche somministrato in regime di mantenimento alla dose di 400 mg due volte al giorno, per 14 giorni ogni 21, a partire dal recupero ematopoietico dopo terapia di consolidamento (25). I pazienti arruolati erano 48 adulti con diagnosi di LAM de novo, ad alto rischio per età >60 anni, citogenetica sfavorevole o diagnosi di LMA secondaria. La durata mediana della sopravvivenza libera da malattia era di 13,5 mesi, significativamente superiore rispetto a quella di 23 pazienti con caratteristiche similari ed utilizzati come controllo storico. Gli autori concludono che tipifarnib potrebbe avere un ruolo nella terapia di mantenimento di pazienti con LMA ad alto rischio ma sottolineano anche la necessità di ulteriori studi per confermare tale ipotesi. Infine, è recentissima la segnalazione da parte di Karp et al. della potenziale efficacia di tipifarnib in associazione ad etoposide orale. In uno studio di fase I, 84 pazienti di età >70 anni e non eleggibili per chemioterapia intensiva, sono stati trattati con l’associazione tipifarnib 300-600 mg, due volte al giorno per 14-21 giorni, ogni 28 più etoposide orale alla dose di 100-200 mg, somministrato nei giorni 1-3. Ventuno (47%) pazienti hanno ottenuto la RC, indicando come tale associazione possa essere promettente quando usata in pazienti non altrimenti trattabili (26). È anche da segnalare, per i suoi potenziali sviluppi terapeutici, la recente osservazione che in vitro tipifarnib possiede una potente attività inibitoria nei confronti di MDR-1 (multi drug resistance associated protein 1) ed un sinergismo citotossico con daunorubicina (27). Lonafarnib 55 56 Seminari di Ematologia Oncologica (SCH66336) è una molecola meno attivamente investigata ed i dati disponibili sono relativi ad uno studio dose finding di fase I, in cui pazienti con LMA sono stati trattati insieme ad altri con diverse patologie ematologiche neoplastiche quali leucemie linfoblastiche acute, leucemie mieloidi croniche in fase blastica e SMD ad alto rischio (19, 20). I risultati di questo studio hanno identificato la dose raccomandata in quella di 200 mg due volte al giorno. L’efficacia di tale dose è stata quindi valutata in uno studio di fase II che ha incluso una coorte di pazienti con emopatie maligne in fase avanzata (19, 20). Una interim analysis condotta su 54 pazienti di cui 19 con LMA, ha fornito una frequenza di risposta globale del 19% (10/54); uno dei 10 pazienti rispondenti era affetto da LMA. Sono ovviamente necessari ulteriori studi clinici per meglio definire il profilo di efficacia di lonafarnib nel trattamento della LMA. Inibitori del proteasoma Il sistema ubiquitina-proteasoma è un complesso proteasico fondamentale per la funzione cellulare poiché presiede ai meccanismi di degradazione di proteine ubiquitinate. Le proteine da degradare sono marcate con una catena di ubiquitina, successivamente la proteina ubiquitinata è degradata dal proteasome con rilascio di peptidi e ubiquitina libera (Figura 2) (19, 28, 29). A causa della sua funzione il complesso ubiquitina-proteasome è coinvolto nella modulazione di numerosi fattori trascrizionali e regolatori dell’apoptosi, di cicline, di inibitori delle chinasi ciclino-dipendenti quali P27, di geni soppressori quali Tp53 e proto-oncogeni quali c-Jun (19, 28-30). In questo scenario è vitale, per il fisiologico svolgersi dei programmi intracellulari, il controllo funzionale del nuclear factor NF-kB strettamente dipendente dalla inibizione, appunto ubiquitina-proteasome mediata, della proteina IkBα (28, 29). In altri termini, l’attivazione di NF-kB avviene successivamente alla degradazione proteolitica del suo inibitore IkBα. La degradazione di IkBα è un evento finemente regolato dal sistema ubiquitina-proteasoma. Dato che NF-kB è costitutivamente attivato in numerose neoplasie fra le quali le LMA, inibire il proteasoma determinerebbe accumulo intracellulare di NF-kB inattivo, con conseguente arresto del ciclo ed induzione dell’apoptosi (31-33). Bortezomib (PS-341) è un inibitore ad azione reversibile del proteasoma, la cui efficacia e profilo di tossicità sono stati valutati in un iniziale studio di fase I, in pazienti pediatrici con LMA resistente (34). I pazienti hanno tratto scarso beneficio dalla somministrazione di bortezomib e la neutropenia e confusione di grado severo sono stati gli eventi avversi dose-limitanti. Uno studio sovrapponibile è stato condotto in 15 pazienti adulti con LMA resistente o in recidiva (35). Cinque dei 15 in studio hanno risposto in modo tale da soddisfare i criteri del miglioramento ematologico, inteso come risoluzione della blastosi periferica. La diarrea, la nausea, la ritenzione di liquidi e l’ipotensione ortostatica erano gli eventi avversi più frequentemente osservati. La modesta efficacia di bortezomib come singolo agente ha stimolato la generazione di trials di fase I-II volti ad esplorare un possibile effetto sinergico tra bortezomib e terapia citotossica. Trentuno pazienti adulti con LMA (22 de novo e 9 in recidiva), hanno ricevuto un trattamento che associava bortezomib ad idarubicina e citosina arabinoside (36). Tale combinazione ha dato prova di Ubiquitinazione O UBI UBI NH2 HN Lisina Lisina Proteina substrato UBI UBI UBI UBI UBI Proteina ubiquitinata Proteasome UBI = ubiquitina Proteina degradata FIGURA 2 - La figura mostra il pathway ubiquitina-proteasoma. Le proteine substrato da degradare sono coniugate a ubiquitina ad opera di enzimi noti come ubiquitina-ligasi. Il complesso che si forma è una proteina poliubiquitinata che viene riconosciuta dal proteasoma e degradata. La degradazione della proteina substrato libera ubiquitina, che si rende disponibile per un nuovo ciclo di poliubiquitinazione. L’inibizione del proteasoma determina l’accumulo intracellulare di proteine substrato in grado di interferire con il processo proliferativo ed apoptotico. Terapie innovative sicurezza, grazie ad un profilo di tossicità accettabile e di efficacia clinica poiché il 61% dei pazienti ha ottenuta la RC. Sulla base di questi risultati il CALGB ha avviato uno studio di fase III per il trattamento di pazienti anziani con LMA non precedentemente trattata. Infine, sono di interesse, per le potenziali implicazioni terapeutiche, le osservazioni che in vitro bortezomib è sinergico con tipifarnib nell’inibire la chemioresistenza cell-adhesion mediata e che nelle LMA vi è una estrema eterogeneità nel profilo di attività proteasomica dipendente dalla esistenza di almeno sei subunità proteasomiche, ciascuna con variabile sensibilità a bortezomib (37). Inibitori di mTOR mTOR (mamalian target of rapamycin) è una chinasi coinvolta nella regolazione della crescita e proliferazione cellulare in virtù della sua capacità di controllo translazionale della funzione di alcune proteine quali ad esempio p27kip1 (inibitore delle chinasi ciclina-dipendenti), la proteina del retinoblastoma, c-myc, ciclina D1 o STAT3. (38) Ancora più recentemente è stato dimostrato che mTOR è un complesso costituito da due scaffold proteins denominate raptor e rictor noti anche come complesso mTORC1 e mTORC2, rispettivamente. L’interesse di tale osservazione risiede RTK Ras Attivazione nel fatto che mentre raptor (mTORC1) è rapamicina-sensibile, rictor (mTORC2) attiva un pathway rapamicina-resistente (39) (Figura 3). È peraltro ormai evidente che mTOR rappresenta il terminale di una cascata di attivazione che vede coinvolti altri due enzimi che sono PI3K (phosphatidylinositol 3-kinase) e AKT (serine/threonine protein kinase Akt); l’insieme di tali enzimi costituisce un sistema noto come PI3K/AKT/mTOR pathway. Circa il 50-80% dei pazienti con LMA mostra un’attivazione costitutiva dell’asse PI3K/AKT/mTOR, conseguenza della fosforilazione di AKT (39); accanto a questa, anche le mutazioni di classe I (Tabella 1) possono fungere da potenziali attivatori del pathway PI3K/AKT/mTOR (40, 41). Sebbene non vi sia nessuna evidenza che correli lo stato di attivazione di PI3K/AKT/mTOR con aspetti clinico-biologici quali classificazione FAB (French-American-British), percentuale di infiltrazione blastica nel midollo od alterazioni citogenetiche (42), alcune segnalazioni iniziali hanno indicato una più breve durata di sopravvivenza e intervallo libero da malattia per quei casi con attivazione costitutiva del pathway PI3K/AKT/mTOR (43, 44). Più recentemente e sorprendentemente, è stato riportato che le LMA de novo con attivazione del pathway PI3K/AKT/mTOR hanno una migliore prognosi grazie ad una minore frequenza di reci- Recettori delle tirosin-chinasi (PDGFr; c-KIT; ErbR; IGFR; FLT3) p110 PI3K p85 Autofosforilazione AKT Subunità mTORC2 Rapamicina resistente Rictor mTOR Raptor Promuove la transizione del ciclo cellulare da G1 in S interagendo con: 4EBP1, p27 e Ciclina D1 Subunità mTORC1 Rapamicina sensibile Effetti inibitori su apoptosi interagendo con: BAD, Bcl-2, p53 FIGURA 3 - Il pathway PI3K/AKT/mTOR può essere innescato da stimoli a monte mediati da RAS o recettori delle tirosin-chinasi che attivano PI3K. L’autofosforilazione di AKT costituisce un’ altra modalità di attivazione del pathway. In entrambi i casi si determina a cascata l’attivazione di mTOR che modula, tramite l’interazione con mediatori intermedi, i processi proliferativi e di morte programmata. L’impiego di inibitori di mTOR deve tener conto del fatto che questo si compone di due subunità (mTORC1 o raptor e mTORC2 o rictor). Mentre raptor è rapamicina sensibile, rictor controlla una via di trasmissione del segnale cellulare che è rapamicina resistente. 57 58 Seminari di Ematologia Oncologica dive rispetto a quelle forme non associate all’attivazione di PI3K/AKT/mTOR (45). Una possibile spiegazione fornita dagli autori è che l’attivazione di PI3K/AKT/mTOR sarebbe in grado di guidare in fase S anche le cellule leucemiche staminali, aumentandone la suscettibilità all’azione dei farmaci fase S-specifici (45). Si tratta di un’osservazione interessante, che attende comunque conferme anche in virtù del fatto che ulteriori e molto recenti segnalazioni tendono, al contrario, a riaffermare il significato prognostico sfavorevole della iperattivazione del segnale PI3K/AKT/mTOR-mediato (46, 47). Alcuni autori imputano tale prognosi sfavorevole al fatto che il pathway PI3K/AKT/mTOR controlla anche l’espressione di membrana degli ATP-binding cassette transporters, alla cui famiglia appartiene MDR-1, notoriamente coinvolta nei meccanismi di chemioresistenza (48, 49). L’insieme di queste osservazioni ha costituito il background sperimentale affinché l’uso di inibitori del sistema PI3K/AKT/mTOR, come singoli agenti o in combinazione con altri farmaci, venisse posto al vaglio della ricerca clinica (Tabella 3). La classe degli inibitori di mTOR è certamente quella in fase più avanzata di sviluppo; a questa appartengono il sirolimus (rapamicina) ed i suoi derivati temsirolimus (CCI-779), everolimus (RAD001) e deforolimus (AP23573) (Tabella 3). Le iniziali esperienze con rapamicina, dimostraFarmaco Target(S) Rapamicina Temsirolimus (CCI-779) Everolimus (RAD001) AP23573 UCN-01 BAG956 Perifosina JNK Triciribina mTORC1 mTORC1/mTORC2 mTORC1/mTORC2 mTORC1 PDK1, Chk1, PKC PDK1, p110 PI3Ks Akt, MEK/ERK 1/2, Akt1, Akt2, Akt3 mTORC1: mamalian target of rapamycin complex 1; mTORC2: mamalian target of rapamycin complex 2; PDK1:phosphoinositide-dependent protein kinase 1; Chk1: checkpoint kinase 1; PKC: protein kinase C; PI3K: phosphatidylinositol 3-kinase; Akt: serine/threonine protein kinase Akt; MEK: mitogen-activated protein kinase/extracellular signal related kinase; ERK:extracellular signal-regulated kinase 1/2; JNK; jun NH2-terminal kinase TABELLA 3 - Inibitori del “pathway” PI3K/Akt/mTOR in corso di valutazione clinica (modificata da Martelli AM et al. (39)). no un effetto inibitorio in vitro, effetto peraltro molto selettivo. Infatti, alcuni ricercatori francesi hanno osservato come l’inibizione da rapamicina sia marcata nei confronti del compartimento clonogenico leucemico mentre quello normale ne è risparmiato. Dei 9 pazienti con LMA de novo, refrattaria o in recidiva trattati con rapamicina, 4 hanno ottenuto una riduzione della blastosi periferica >50% con una durata mediana della risposta di 38 giorni (50). A seguito di tale promettente osservazione si è dato impulso all’impiego preferenziale di analoghi di rapamicina (temsirolimus, everolimus) che sperimentalmente hanno mostrato capacità inibitoria anche verso mTORC2 (rictor), ossia verso il pathway rapamicina-resistente. Everolimus è stato valutato in uno studio di fase I, in pazienti con neoplasie ematologiche, fra le quali LMA, in recidiva o refrattarie a precedenti trattamenti (51). Non sono state osservate tossicità limitanti la dose e gli eventi avversi di grado 3 più comunemente riportati sono stati iperglicemia, ipofosforemia, astenia, anoressia e diarrea. Nessun dei pazienti con LMA ha mostrato alcuna evidenza di risposta completa o parziale. Deforolimus è stato testato anch’esso come singolo agente, in uno studio di fase II, in 22 pazienti con diagnosi di LMA (52). Solo in un paziente si osservava un miglioramento ematologico, inteso come normalizzazione del numero dei polimorfonucleati. Eventi avversi osservati erano dolore buccale, astenia, nausea e trombocitopenia; tali effetti collaterali erano comunque di lieve entità e tutti reversibili. Numerose evidenze sperimentali suggeriscono un effetto sinergico, additivo o addirittura di ripristino della chemiosensibilità quando rapamicina o i suoi analoghi vengano combinati con chemioterapici (53). Di 23 pazienti con LMA refrattaria, in recidiva o secondaria trattati con MEC (mitoxantrone, etoposide, ARA-C) più sirolimus, 4 (tutti in prima recidiva) hanno hanno ottenuto la RC. Studi di farmacocinetica condotti parallelamente allo studio clinico, indicano come miglior schedula quella che prevede una loading dose di sirolimus di 12 mg al giorno 0, seguita da una dose di 4 mg giornalieri dal giorno 1 al 10 (54). Il gruppo GIMEMA ha recentemente avviato uno studio di fase II che prevede l’associazione di temsirolimus e clofarabina per il trattamento di pazienti anziani con LMA in prima recidiva o resi- Terapie innovative stente ad una prima linea di trattamento. Il gruppo EORTC (European Organization for the Treatment of Cancer), in collaborazione con lo stesso gruppo GIMEMA ha in fase di attivazione uno studio di fase II che prevede l’associazione everolimus e chemioterapia per il trattamento di pazienti anziani con LMA de novo. Inibitori dell’angiogenesi Il potenziale ruolo della terapia antiangiogenetica si è venuto delineando grazie all’osservazione che i livelli plasmatici di mediatori angiogenetici ed il grado di densità microvascolare del midollo osseo sono parametri associati ad una cattiva prognosi nelle LMA (55). In generale, i trials clinici con impiego di un’ampia gamma di agenti antiangiogenetici hanno fornito risultati poco incoraggianti. Semaxinib (SU5416) è uno tra i primi inibitori del vascular endothelial growth factor (VEGF) giunto all’attenzione della ricerca clinica. Si tratta di una piccola molecola con effetto inibente nei confronti non solo dei recettori 1 e 2 di VEGF ma anche di FLT3 e c-KIT. In uno studio di fase II, semaxinib, somministrato per via orale, ha mostrato di possedere attività anti-leucemica sebbene le risposte indotte fossero di breve durata (56). In un ulteriore studio di fase II, le risposte cliniche, seppur rare e transitorie, erano correlate ad una riduzione dei livelli circolanti di mRNA-VEGF e della densità microvascolare midollare (57). Bevacizumab è un anticorpo monoclonale di classe IgG, umanizzato, ricombinante, diretto contro VEGF di cui ne impedisce il legame con lo specifico recettore. Con l’obiettivo di intensificare l’effetto anti-leucemico della chemioterapia, bevacizumab è stato impiegato per il trattamento di pazienti con LMA refrattaria o in recidiva, nel contesto di una schedula sequenziale in cui veniva somministrato 12 ore dopo il termine di citosina arabinoside e novantrone. Di 48 pazienti trattati, 16 (33%) hanno ottenuto una RC e 7 (15%) una RP; in 15 pazienti valutati in modo seriale, la somministrazione del bevacizumab era seguita da una marcata riduzione della densità microvascolare midollare e da un effetto neutralizzante sui livelli plasmatici di VEGF (58). Presso MD Anderson Cancer Center, è stato recentemente completato e chiuso all’arruolamento uno studio di fase III in cui pazienti con LMA de novo erano randomiz- zati per una terapia che prevedeva idarubicina e citosina arabinoside ± bevacizumab. La talidomide e la lenalidomide sono agenti correntemente impiegati per il trattamento di diverse forme di neoplasie ematologiche fra le quali SMD e mieloma multiplo. La loro azione anti-tumorale è verosimilmente dovuta all’interferenza con più di uno dei meccanismi attivi nella cancerogenesi. Fra i possibili effetti esercitati dalle due molecole vengono ipotizzati quelli immunomodulatori, l’inibizione della trascrizione NF-kB-dipendente, l’inibizione della espressione di molecole di adesione e citochine coinvolte nella neoangiogenesi, l’induzione di stress ossidativo mitocondriale ed una potente azione antinfiammatoria (59-61). Talidomide e lenalidomide sono state approvate dalla Food and Drug Administration per il trattamento rispettivamente, del mieloma multiplo e delle SMD con delezione del braccio lungo del cromosoma 5; attualmente sono in sperimentazione in diversi trias clinici, fra i quali alcuni specificatamente sviluppati per la terapia della LMA. In studi iniziali di fase III che hanno arruolato pazienti con LMA resistente o in recidiva, sono state somministrate dosi intermedie-alte di talidomide (200-800 mg) con le quali gli autori descrivono una diminuzione della densità microvascolare midollare nei pazienti con una qualche forma di risposta (62, 63). Un successivo studio di fase II ha esplorato l’efficacia della associazione talidomide e chemioterapia (fludarabina, carboplatino, e topotecan) per il trattamento di pazienti con LMA ad alto rischio (64). Dei 42 pazienti reclutati allo studio, 10 (24%) hanno ottenuto la RC, eventi avversi gravi di natura tromboembolica sono stati osservati in 5 pazienti suggerendo che la combinazione con citotossici potrebbe essere trombogenica e richiedere una profilassi specifica. Nei pazienti che raggiungevano la RC era possibile evidenziare una riduzione della densità microvascolare midollare ma non una riduzione dei livelli plasmatici dei mediatori angiogenetici. Gli autori concludono che il ruolo della talidomide nel potenziare gli effetti della chemioterapia è tutt’altro che chiaro e quindi da meglio esplorare. Riguardo alla lenalidomide, i dati disponibili sono prevalentemente relativi a casi aneddotici, in cui viene dimostrato l’ottenimento della remissione citogenetica in presenza di alterazioni cromoso- 59 60 Seminari di Ematologia Oncologica miche quali trisomia 13 (65), delezione del braccio lungo del cromosoma 5 (66) e delezioni del cromosoma 5 (67). Tali osservazioni indicano che lenalidomide è meritevole di ulteriori valutazioni sperimentali e difatti, diversi trials clinici sono in corso con l’obbiettivo di saggiare l’efficacia del farmaco come singolo agente o in combinazione. In particolare, l’Università di Ulm sponsorizza uno studio di fase I, di recente attivazione, che recluta pazienti con LMA de novo, resistente o in recidiva. Si tratta di uno studio di dose finding, che impiega lenalidomide come singolo agente, ad una dose iniziale di 25 mg. Inibitori di Bcl-2 Bcl-2 è un oncogene coinvolto nei processi regolatori dell’apoptosi, molto frequentemente iperespresso nelle neoplasie linfoidi e mieloidi. In situazione fisiologica, i segnali apoptotici viaggiano dalla membrana cellulare verso i mitocondri, in questa sede avviene l’attivazione del citocromo C che a sua volta induce apoptosi caspasimediata. In questo scenario la funzione di Bcl-2 consiste nello stabilizzare la superficie interna della membrana mitocondriale, prevenendo l’attivazione del citocromo C e prevenendo quindi l’innesco dell’apoptosi medesima (68, 69). Ne deriva quindi, che l’iper-espressione di Bcl-2 conferisce alla cellula leucemica un profilo di resistenza all’apoptosi, anche a quella chemioterapiaindotta, e identifica forme di LMA a peggior prognosi (69, 70). Con lo scopo di inibire il pathway Bcl-2-dipendente è stato sviluppato un oligonucleotide antisense capace di legare mRNA-Bcl2 citoplasmatico e di indurne la degradazione così riducendo i livelli intracitoplasmatici della proteina Bcl-2. Tale oligonucleotide, noto come oblimersen, è stato impiegato in un iniziale studio di fase I in associazione a fludarabina, citosina arabinoside e granulocyte colony-stimulating factor (GCSF), in pazienti con leucemia acuta sia mieloide che linfoide, resistente a precedenti terapie o in recidiva. Nove di 20 (45%) pazienti hanno risposto, in particolare, 6 (di cui 5 LMA) hanno ottenuto la RC (71). In un successivo studio di fase I, oblimersen è stato somministrato tanto in induzione, con citosina arabinoside e daunorubicina, che in consolidamento, con le alte dosi di citosina arabinoside. In questo caso i pazienti eleggi- bili erano di età >60 anni e con LMA non precedentemente trattata (72). Quattordici di 29 (48%) pazienti valutabili hanno ottenuto la RC e sulla base di tali promettenti risultati il CALGB ha avviato uno studio di fase III appunto per valutare il ruolo dell’aggiunta di oblimersen a citosina arabinoside e daunorubicina, in induzione, e alle alte dosi di citosina arabinoside, in consolidamento, in pazienti anziani con LMA de novo. Inibitori di aurora chinasi Gli inibitori di aurora-chinasi costituiscono una nuova e recente classe di farmaci il cui sviluppo è stato implementato a seguito della dimostrazione dell’esistenza di enzimi definiti aurora chinasi (AK). La famiglia delle aurora comprende tre chinasi A, B, C - che svolgono un ruolo chiave nel corretto e fisiologico svolgimento della mitosi (73, 74) (Figura 4). In quanto enzimi associati al ciclo cel- FIGURA 4 - La figura mostra la funzione svolta da aurora-chinasi A e B nel corso della mitosi. Aurora-chinasi A (quella in rosso) partecipa alla funzione del centrosoma, preparando l’ingresso nella mitosi tramite la formazione del fuso mitotico (profase e metafase). Aurora B (quella in verde) è un enzima cromosomico “passeggero” che controlla la corretta segregazione cromatidica durante la mitosi e la successiva fase di separazione degli stessi cromatidi (anafase e telofase). Aurora A e B sono iperespresse in circa il 30% dei casi di LMA. Terapie innovative lulare, le AK sono iper-espresse durante la cancerogenesi; in particolare, nelle cellule di LMA si è osservato un drammatico incremento dell’attività di AK B e, seppure in misura minore, di AK A (75). Gli inibitori attualmente in sviluppo clinico sono: VX680, AZD1152, PHA739358, MLN8054 e CYC116 (76). In vitro, tali inibitori si sono mostrati capaci di inibire la fosforilazione dei substrati di AK, attivare p53 e l’apoptosi caspasi-dipendente, esercitare effetti antiproliferativi mediante il blocco della formazione del fuso mitotico, arrestando le cellule in fase G2/M (75-77). A dispetto di una così ampia valutazione sperimentale, i dati clinici generati sono ancora scarsi. Sono attesi i risultati di uno studio di fase I-II con AZD1152, recentemente completato mentre è in corso di attivazione presso diversi centri europei uno studio di fase II, già aperto all’arruolamento negli Stati Uniti volto ad esplorare l’efficacia, la sicurezza e la tollerabilità di AZD1152 da sola o in combinazione con basse dosi di citosina arabinoside, in pazienti anziani con diagnosi di LMA de novo. n TERAPIA EPIGENETICA L’evento epigenetico è quello in grado di modificare il profilo di espressione di un determinato gene senza alterarne la sequenza nucleotidica. Si tratta di un meccanismo la cui finalità è il controllo trascrizionale, meglio ancora, è un meccanismo di silenziamento genico. L’esempio paradigmatico è rappresentato dalla fisiologica e randomica inattivazione di uno dei cromosomi X nella donna; è questo un processo che si svolge sotto il controllo epigenetico ed avviene tramite silenziamento genico. I pathways tramite i quali l’evento epigenetico esercita la sua funzione sono: 1) metilazione del DNA mediante enzimi noti come DNA-metiltransferasi (DNMT); 2) interferenza con il segnale di traslazione ad opera di microRNA; 3) interferenza con il rimodellamento nucleosomico ad opera di un complesso enzimatico noto come singed wings locus (SWL); 4) deacetilazione delle code istoniche presenti nella catena di DNA, mediata da enzimi detti istone-deacetilasi (IDAC) (78-80). Nonostante uno scarso interesse negli anni ’80 ed agli inizi di quelli ‘90, l’attenzione degli esperti verso questi aspetti biologici si è più recentemente rivitalizzata grazie alla convincenti dimostrazioni sperimentali che nella LMA, e più in generale nelle neoplasie, sono attivamente operanti aberranti fenomeni di silenziamento genico (81). Le maggiori novità ed i risultati più promettenti in termini di ricerca clinica riguardano principalmente le categorie degli inibitori delle DNMT e delle IDAC. Inibitori di DNMT Le DNMT determinano silenziamento genico mediante la metilazione (inserimento di gruppi CH3) di specifici siti del DNA noti come CpG islands (cytosine preceding guanosine islands). In altri termini, la metilazione riguarda solo la citosina che, nella sequenza del DNA, precede la guanosina. L’osservazione che circa la metà dei geni del genoma umano abbiano il loro promoter alloggiato nelle CpG islands rende ragione del ruolo fondamentale di quest’ultime. In condizioni fisiologiche le CpG islands sono non-metilate, la loro metilazione comporta l’inattivazione del promoter in esse alloggiato e quindi la mancata trascrizione di quel determinato gene che dal quel promoter dipende (silenziamento genico) (81). Attualmente sono conosciute 5 isoforme di DNMT (1, 2, 3A, 3B e 3L) di cui si ritiene soltanto 3 essere enzimaticamente attive (1, 3A e 3B); è ovvio quindi che il rationale che sostiene l’impiego clinico di inibitori di DNMT è quello di bloccare i fenomeni di aberrante metilazione del DNA, ripristinando la trascrizione dei geni silenziati (81, 82). Gli inibitori più estesamente investigati sono due analoghi dei nucleosidi, noti come azacitidina (AZA) e decitabina (DAC), già approvati dalla Food and Drug Administration per il trattamento delle SMD. L’enorme interesse scientifico riguardo l’uso di queste molecole è testimoniato dal fatto che, presso il registro statunitense clinicaltrials.gov del National Institute of Health, sono registrati non meno di 8090 studi clinici, in corso o completati, che impiegano AZA o DAC come singoli agenti o in associazione, per il trattamento della LMA. Uno studio di fase I, con dosi scalari di DAC (5-20 mg/m2, per 5 giorni a settimana, per 2 settimane consecutive), ha arruolato 50 pazienti di cui 44 con LMA/SMD ad alto rischio, 5 con leucemia mielomonocitica cronica ed 1 con leucemia linfoide acu- 61 62 Seminari di Ematologia Oncologica ta (83). Il trattamento è stato ben tollerato a tutti i livelli di dose, essendo la mielosoppressione l’evento avverso più frequentemente riportato. Risposte sono state osservate a tutti i livelli di dose ma quella di 15 mg/m2 è apparsa la più efficace con un 65% di risposte (11 di 17 pazienti). Gli autori concludono sottolineando la maggiore efficacia delle basse dosi di DAC rispetto alle alte. L’analisi dei risultati di un successivo studio di fase II con DAC somministrata alla dose di 20 mg/m2 per 5 giorni ogni 4 settimane, ha fornito una frequenza di RC del 26% (14 di 55 pazienti valutabili). I pazienti, la cui età mediana era di 74 anni, erano affetti da LMA non precedentemente trattata. Gli eventi avversi di grado 3-4 più frequenti sono stati neutropenia febbrile, dispnea, astenia e polmonite (84). Silverman et al. hanno pubblicato i risultati di un’analisi retrospettiva di 309 casi di SMD reclutati in tre studi sequenziali di fase III, in cui i pazienti erano randomizzati per ricevere AZA o miglior terapia di supporto (85). L’analisi retrospettiva è consistita nell’enucleare da questi 309 pazienti, i casi che, sulla base dei criteri della World Health Organization (WHO), potevano essere ri-classificati come LMA, per valutarne il decorso. Applicando i criteri diagnostici WHO, 103 di 309 pazienti venivano ri-classificati come LMA. I 27 di questi che erano stati assegnati al braccio di trattamento con AZA, presentavano una durata mediana della sopravvivenza di 19.3 mesi verso 12.9 mesi di coloro assegnati al braccio miglior terapia di supporto. Un’ulteriore analisi retrospettiva, frutto della collaborazione tra diversi centri ematologici italiani, ha consentito di selezionare 55 pazienti con LMA ad alto rischio per età >60 anni, citogenetica o fase di malattia (LMA refrattarie, in recidiva o de novo in pazienti non eleggibili per chemioterapia intensiva), trattati con AZA. Di 51 pazienti valutabili, 8 (16%) hanno ottenuto la RC, 5 (10%) la RP e 5 (10%) un miglioramento ematologico, per una frequenza globale di risposta del 35% (18/51). La probabilità attuariale di sopravvivenza a 16 mesi era del 45% per i pazienti rispondenti verso il 10% di quelli resistenti (p=0,0027). Gli autori concludono che in una categoria di pazienti con LMA a prognosi particolarmente sfavorevole, AZA può essere utilizzata con sicurezza, è efficace e prolunga significativamente la sopravvivenza (86). Inibitori di IDAC Le IDAC, di cui sono note 18 isoforme distribuite in 4 diverse classi, sono così denominate poiché catalizzano il trasferimento di gruppi acetili dal coenzima A acetilato ai residui di lisina delle code istoniche del DNA. Che le code istoniche del DNA siano acetilate o meno è evento rilevante ai fini della trascrizione genica, le code istoniche acetilate conferiscono al DNA una conformazione aperta rendendo i geni accessibili agli enzimi trascrizionali, al contrario il DNA assume una conformazione chiusa laddove le code istoniche siano deacetilate, impedendo la trascrizione genica (87, 88). Quindi, gli inibitori di IDAC agiscono modulando l’espressione genica tramite l’inibizione della deacetilazione delle code istoniche di DNA e riposizionando il DNA stesso in una conformazione accessibile agli enzimi trascrizionali. Vi sono evidenze che gli inibitori di IDAC esercitino anche effetti addizionali quali produzione di radicali ossigenati, acetilazione di proteine chaperone, interferenza con il pathway del NF-kB ed induzione di apoptosi (89). Sono noti diversi farmaci ad azione inibitoria nei confronti delle IDAC quali l’acido valproico (AVP), il fenilbutirrato (FB), alcune benzamidi come MS-275 e MGCD0103, i peptidi ciclici come romidepsin (depsipeptide) ed in fine, acidi idroxamici come vorinostat e tricostatina A (Tabella 4) (88). L’AVP è stato impiegato come sin- Farmaco Target inibito Acidi grassi a catena corta Acido valproico Fenilbutirrato Acidi idroxamici Vornostat (SAHA) Tricostatina A ITF2375 Peptidi biciclici Depsipeptide (romidepsin) Trapoxina FK228 Benzamidi MS-275 MGCD0103 CI-994 IDAC di classe I-II IDAC di classe I-II IDAC di classe I-II IDAC di classe I e IV TABELLA 4 - Inibitori di istone deacetilasi in corso di sperimentazione clinica. Terapie innovative golo agente in studi di fase I e II, mostrando un’attività clinica modesta. In uno studio di 20 pazienti anziani con SMD o LMA, AVP è stato somministrato alla dose di 10 mg/kg; di 11 pazienti valutabili in 5 si è osservata una risposta ematologica (90). In un trial successivo, 75 pazienti con SMD o LMA sono stati trattati con AVP orale in modo continuativo con lo scopo di ottenere una concentrazione plasmatica dello stesso tra 50 e 100 µg/ml (91). La frequenza di risposta era del 30% con tossicità caratterizzata da tremori ed astenia. Il FB ha dato prova anch’esso di modesta attività clinica in pazienti con SMD o LMA, le risposte erano prevalentemente ematologiche e di breve durata. L’ulteriore sviluppo clinico del farmaco è stato ostacolato dalla necessità di infusione continua prolungata e dalla tossicità a carico del sistema nervoso centrale (88). Riguardo alle benzamidi, MS275 è stato utilizzato in uno studio di fase I che ha arruolato 39 pazienti con LMA resistente o in recidiva. Il farmaco è stato somministrato per via orale, alla dose di 4-8 mg/m2 a settimana, per 4 settimane di un ciclo della durata di 6. Le risposte sono consistite essenzialmente in miglioramenti ematologici o stabilizzazione di malattia. La dose massima tollerata è stata identificata in quella di 8 mg/m2, a causa della comparsa di tossicità ematologica (88). Romidepsin è stato a lungo considerato un ottimo candidato per il trattamento dei disordini mieloproliferativi per la sua capacità di inibire in vitro le IDAC anche a concentrazioni molto basse (88, 92). Di 10 pazienti con LMA trattati con romidepsin, nessuno ha ottenuto una RC/RP ma uno ha sviluppato una sindrome da lisi tumorale (92). In un successivo studio di 11 pazienti con LMA/SMD, uno ha ottenuto la RC e 6 mantenevano una malattia stabile (92). A dispetto delle iniziali speranze, romidepsin, come singolo agente, ha dimostrato un’efficacia clinica molto limitata. Vorinostat, derivato dell’acido idroxamico, è stato approvato dalla Food and Drug Administration statunitense per il trattamento dei linfomi cutanei. Riguardo al suo impiego per il trattamento delle LMA, esiste un unico trial clinico di fase I che ha arruolato 41 pazienti con LMA, SMD e leucemia mielomonocitica cronica. Il farmaco è stato somministrato alla dose di 100-300 mg 2-3 volte al giorno per 2 settimane con una settimana di intervallo. Risposte si sono osservate in 7 pazien- ti (2 RC e 2 RC con incompleto recupero ematologico) e la tossicità dose-limitante è consistita in diarrea, nausea, malessere ed astenia (88, 92). In generale, l’esperienza con gli inibitori di IDAC, come singoli agenti, non è stata tale da replicare quella riportata con gli inibitori di DNMT ed è verosimile che il futuro di tali farmaci sarà quello di essere impiegati in associazione con altri. Terapie epigenetiche di combinazione Sulla base di quanto detto, si è venuto creando un crescente interesse verso l’uso di terapie che impieghino inibitori di DNMT e di IDAC in associazione tra di loro o con altri farmaci. Numerosi studi di fase I-II sono in corso, come testimoniato dal fatto che presso il website del National Institute of Health (NIH) sono registrati non meno di 12-15 studi di combinazione. Blum et al. (93) hanno riportato i risultati di uno studio di fase I che ha inteso stabilire la dose biologica ottimale di DAC come singolo agente e quindi, la dose massima tollerata di AVP combinato a DAC. Sono stati arruolati 25 pazienti di età mediana 70 anni e con LMA non precedentemente trattata o in recidiva. Di questi 25, 14 sono stati trattati con DAC come singolo agente. Delle due dosi test investigate (15 e 20 mg/m2 per 10 giorni), la dose biologica ottimale è stata identificata in quella di 20 mg/m2, questo sulla base del superiore effetto di ipometilazione globale del DNA da tale dose indotto. I rimanenti 11 dei 25 pazienti arruolati, sono stati trattati con la combinazione DAC (20 mg/m2 per 10 giorni) e AVP a dosi incrementali (15, 20, 25 mg/kg dal giorno 5 al 21). Di 21 pazienti valutabili, 8 hanno ottenuto la RC e 3 la RP, per una frequenza globale di risposta del 52%, 2 dei 2 pazienti trattati con DAC e AVP alla dose di 25 mg/kg hanno sviluppato una encefalopatia dose-limitante. Gli autori concludono che le bassi dosi di DAC sono sicure ed efficaci ma che la comparsa di encefalopatia nella associazione con AVP richiede l’uso di farmaci alternativi a quest’ultimo. Lübbert et al. hanno avviato un trial con DAC per pazienti con LMA de novo, di età >60 anni e non eleggibili per chemioterapia intensiva (86). DAC è stata somministrata alla dose di 135 mg/m2 in infusione continua per 72 ore, ogni 6 settimane per 4 cicli. Dal giorno 1 al 28 di ciascun ciclo veniva anche somministrato acido all trans retinoico (ATRA) al dosaggio di 63 64 Seminari di Ematologia Oncologica 45 mg/m2. Il protocollo prevedeva anche una fase di mantenimento con DAC somministrata alla dose di 20 mg/m2 nei giorni 1-3, ogni 6-8 settimane per 4 cicli. Sono stati reclutati allo studio 155 pazienti tutti valutabili, la frequenza globale di risposta è stata del 25% (23 RC e 10 RP) con tossicità accettabile. FB è stato uno dei primi inibitori di IDAC usato in combinazione con AZA (95). AZA è stata somministrata alla dose di 25-75 mg/m2 per 5-14 giorni, seguita da FB alla dose di 375 mg/kg al giorno per 7 giorni, mediante infusione continua. I cicli erano ripetuti ogni 28 giorni. Le risposte più significative (RC e RP) sono state riportate ad una dose di 50 mg/m2 di AZA. In 12 pazienti veniva peraltro riportata una assoluta correlazione tra risposta ed induzione di effetto demetilante (93). Soriano et al. hanno arruolato 53 pazienti (49 LMA, 4 SMD alto rischio) in uno studio di fase I-II che combinava AZA (75 mg/m2, giorni 1-7 per via sottocutanea) con alte dosi di AVP (50-70 mg/kg, giorni 1-7 per via orale) e ATRA (45 mg/m2, giorni 35 per via orale). I 49 pazienti con LMA erano anziani, non eleggibili per chemioterapia convenzionale, con malattia resistente o in recidiva (96). Gli autori riportano una frequenza di RC del 29%, risposte midollari del 13%, la durata mediana della risposta era di 26 settimane. Voso et al. hanno recentemente pubblicato i risultati di uno studio cooperativo GIMEMA che ha arruolato 62 pazienti con SMD a rischio intermedio-2 o alto (90), trattati con AVP fino al raggiungimento di una concentrazione plasmatica ≥50 µg/ml, cui seguiva l’inserimento di AZA per via sottocutanea, alla dose di 75 mg/m2 al giorno, giorni 1-7 (97). Dei 62 pazienti arruolati 19, poiché affetti da anemia refrattaria con eccesso di blasti, potevano essere riclassificati come LMA, secondo i criteri WHO. La frequenza globale di risposta (RC/RP) è stata del 30,7% con una durata mediana della sopravvivenza di 14,4 mesi. Tra i fattori prognostici significativi per l’impatto sulla sopravvivenza, gli autori identificano l’International Prognostic Scoring System e una concentrazione plasmatica di AVP ≥50 µg/ml al momento di iniziare AZA (p=0,013 e 0,007, rispettivamente). Sebbene la combinazione di agenti epigenetici rimanga un’area di interesse e di intensa attività di ricerca, rimane tutt’ora da dimostrare la sua superiorità rispetto all’impiego di inibitori delle DNMT come singoli agenti. Soltanto stu- di di fase III potranno rispondere a questo quesito e chiarire definitivamente se il dato clinico correla con quello biologico, validando la funzione predittiva di quest’ultimo. Infine, sono anche da segnalare tentativi di investigare schedule di associazione tra inibitori di IDAC ed ATRA. Cimino et al. (98) hanno condotto uno studio pilota che prevedeva la somministrazione sequenziale di AVP ed ATRA. Il rationale biologico era quello di combinare l’azione di rimodellamento cromatinico esercitata da AVP con l’effetto di riprogrammazione differenziativa indotta da ATRA. Sono stati trattati 8 pazienti con LMA ad alto rischio e non eleggibili per chemioterapie standard. Si sono osservati 2 casi di miglioramento ematologico e 5 pazienti hanno mantenuto una stabilità di malattia di durata compresa fra 60 e 180 giorni. Da un punto di vista biologico, in 7 degli 8 pazienti era possibile documentare i segni della differenziazione mediante tecniche citogenetiche di ibridizzazione in situ; infatti, le lesioni citogenetiche di esordio erano presenti anche nelle cellule più mature confermando la loro discendenza dal clone leucemico. n IMMUNOTERAPIA Il gemtuzumab ozogamicin (GO), un immunoconiugato diretto contro l’antigene CD33, è il prototipo di questa classe e tra gli agenti più estesamente studiati in anni recenti. Il CD33 è una glicoproteina transmembranaria di 67 kilodalton appartenente alla famiglia delle siglecs-3 che interagiscono con l’acido sialico. Il CD33 è espresso in >90% delle LMA ma non dalla cellula staminale pluripotente o dai tessuti extraematopoietici. La sua espressione viene sotto-modulata durante il processo maturativo della cellula mieloide così che è positivo a bassa intensità sui granulociti del sangue periferico e sui macrofagi tessutali (19, 99). Il GO è un anticorpo monoclonale anti-CD33, di classe IgG4 ed umanizzato per più del 93% della sua molecola. L’anti-CD33 è coniugato ad un antibiotico naturale noto come calicheamicina, isolato dall’actinomicete Micromonospora echinospora calichensis. La coniugazione tra GO ed anti-CD33 è resa possibile grazie ad un linker bifunzionale (acido butanoico) che ha la caratteristica di essere stabile Terapie innovative quando esposto al pH fisiologico ematico di 7,4 e di rilasciare calicheamicina quando esposto al pH lisosomiale di 4 (99). A seguito del legame con il CD33 il complesso GO-CD33 viene rapidamente internalizzato nei lisosomi citoplasmatici dove, per effetto della idrolisi acida del linker, la calicheamicina viene liberata, accede al nucleo e danneggia la doppia elica di DNA. Il danno al DNA viene causato da un derivato della calicheamicina che si genera per un processo di riduzione della stessa, catalizzato dalla glutatione-reduttasi. Tale metabolita intermedio della calicheamicina, danneggia la doppia elica del DNA legandola mediante un sito di legame definito come DNA minor groove binding (99, 100). L’uso del GO in monoterapia è stato inizialmente valutato in tre studi di fase II condotti in Europa e negli Stati Uniti. Il report finale circa questi studi era relativo a 277 pazienti di età mediana di 61 anni e con LMA in prima recidiva (101). I pazienti avevano ricevuto GO alla dose di 9 mg/m2 al giorno 1 e 15. Il 13% dei pazienti ha ottenuto una RC ed il 13% una RC con incompleto recupero ematologico. La durata mediana della sopravvivenza era di 4,9 mesi mentre la durata della risposta era compresa fra i 4,5 mesi dei pazienti con RC con incompleto recupero ematologico ed i 6,4 mesi di quelli con RC. Sulla base di questi dati, il farmaco ha ottenuto l’approvazione della Food and Drug Administration per l’uso come singolo agente in pazienti anziani con LMA CD33 positiva, in recidiva e non eleggibili per trattamenti intensivi. A seguito di ciò, gli sforzi si sono concentrati sull’efficacia delle terapie di combinazione tra GO e chemioterapia convenzionale. Un gruppo francese ha recentemente riportato i risultati di uno studio in cui GO è stato associato a mitoxantrone e dosi intermedie di citosina arabinoside per il trattamento di pazienti con LMA CD33 positiva, refrattaria o in recidiva. Sono stati trattati 62 pazienti con età mediana di 55 anni (102). Trentuno (50%) hanno ottenuto la RC ed 8 (13%) una RC con incompleto recupero piastrinico per una frequenza di risposta globale del 63%. La sopravvivenza e l’intervallo libero da malattia a due anni erano del 41% e 53%, rispettivamente. Gli autori concludono che il regime impiegato è efficace in pazienti con LMA ad alto rischio e sottolineano la necessità di sviluppare studi di fase III. Due suc- cessivi studi di fase II, disegnati da gruppi cooperativi, hanno invece coinvolto pazienti affetti da LMA non precedentemente trattata. L’EORTC/ GIMEMA ha esplorato l’uso di GO front-line alla dose convenzionale di 9 mg/m2 giorno 1 e 15, seguito da mitoxantrone, etoposide e citosina arabinoside (MICE), in pazienti di età >60 anni (103). Una iniziale risposta al GO è stata documentata in 20 (35%) di 57 pazienti, la risposta globale al termine della intera sequenza d’induzione (GO+MICE) era del 54%. Questa stessa terapia sequenziale, seppure con una riduzione della dose di GO a 6 mg/m2 per ridurre l’incidenza di epatotossicità, è stata ulteriormente valutata in uno studio di fase III (protocollo EORTC/GIMEMA AML-17), i cui risultati sono in corso di elaborazione. Kell et al. (104) hanno verificato la fattibilità di una combinazione di basse dosi di GO (3 mg/m2) in associazione a tre diversi regimi di trattamento come terapia di prima linea per 72 pazienti affetti da LMA e con età di 17-59 anni. Gli autori hanno osservato una frequenza di RC tra 86% e 91%, la schedula di terapia contenente la tioguanina era quella correlata ad una maggiore incidenza di tossicità epatica di grado 4. Tale esperienza ha costituito il background per lo studio successivo di fase III (Medical Research Council AML15) dalla cui analisi preliminare non emerge alcuna differenza in termini di frequenza di RC tra i regimi con o senza GO, si dimostra invece un beneficio in termini di disease free survival per pazienti appartenenti a classi citogenetiche a prognosi favorevole/intermedia (105). Anche altri gruppi cooperativi (Eastern Cooperative Oncology Group, Southwest Oncology Group, Dutch-Belgian Hemato-Oncology Cooperative Group) stanno conducendo studi di fase III volti ad esplorare i possibili posizionamenti del GO (induzione, mantenimento, purging in vivo prima del trapianto di cellule staminali autologhe) durante il percorso terapeutico del paziente affetto da LMA de novo (vedi anche www.cancer.gov/clinicaltrials). Dall’insieme delle esperienze pubblicate emerge che il GO ha attività limitata come singolo agente e come tale il suo più promettente impiego potrebbe essere nella eradicazione della malattia minima residua, sulla scorta di quanto osservato nella leucemia promielocitica acuta (106). 65 66 Seminari di Ematologia Oncologica n NUOVI AGENTI CITOTOSSICI Analoghi dei nucleosidi La clofarabina è un analogo nucleosidico di seconda generazione, sviluppata come una molecola ibrida di fludarabina e cladribina. Clofarabina è un potente inibitore della ribonucleasi reduttasi e delle DNA polimerasi. Ciò comporta una riduzione del pool nucleotidico intracitoplasmatico ed un effetto di blocco della sintesi del DNA con morte cellulare. A queste caratteristiche si aggiunge anche quella di essere più resistente di fludarabina e cladribina alla deaminazione catalizzata dalla adenosina deaminasi (107). A completare il suo interessante profilo di attività farmacologica, vi sono evidenze che clofarabina sia in grado di interferire con i meccanismi di DNA repair (108, 109). Come singolo agente, la sua efficacia è stata inizialmente esplorata in uno studio di fase II che ha incluso pazienti con LMA ad alto rischio (refrattaria o in recidiva) ed i cui obiettivi erano non solo clinici ma anche farmacologici (110). Diciassette (55%) di 31 pazienti trattati, hanno ottenuto la RC/RP. Successivamente, clofarabina in monoterapia è stata investigata negli studi di fase II BIO121 (111) e CLASSIC II (112). Entrambi gli studi hanno arruolato pazienti anziani, con LMA non precedentemente trattata e non eleggibili per chemioterapia intensiva. Il BIO-121 ha arruolato 66 pazienti trattati con clofarabina 30 mg/m2 nei giorni 1-5, ogni 28 giorni. La frequenza globale di risposta (RC + RC con incompleto recupero ematologico) è stata del 44%, la sopravvivenza a 21 mesi del 23%. Tra gli eventi avversi è stata documentata insufficienza renale acuta, verosimilmente precipitata da concomitanti episodi settici, ma comunque tale da richiedere una riduzione di dose nei cicli successivi al primo. Al CLASSIC II sono stati arruolati 112 pazienti trattati con la medesima schedula impiegata nel BIO121. La frequenza globale di risposta (RC + RC con incompleto recupero ematologico) è stata del 46%, la durata mediana della sopravvivenza 41 settimane. È significativo il fatto che entrambi gli studi riportano frequenze di risposte del 29% e 42%, rispettivamente, in pazienti con citogenetica sfavorevole, collocando clofarabina tra i farmaci potenzialmente più attivi nei confronti delle LMA ad alto rischio. Sulla base di questi risultati è stato condotto uno studio di fase III che ha incluso 70 pazienti anziani con LMA o SMD ad alto rischio non precedentemente trattata (113). Lo studio ha confrontato clofarabina come singolo agente verso clofarabina e basse dosi di citosina arabinoside. La frequenza di risposte nel braccio clofarabina è stata del 31% verso il 63% del braccio di combinazione. Sorprendentemente, nel braccio clofarabina si osservava una maggiore frequenza di mortalità (31% verso 19%); gli autori identificano nel disegno statistico la causa di tale differenza. Lo studio randomizzava i casi secondo un modello Bayesiano che potrebbe aver comportato la concentrazione dei pazienti con i fattori clinici più sfavorevoli nel braccio clofarabina. Il National Cancer Research Institute inglese ha attualmente in corso un trial clinico (AML-16) per pazienti anziani affetti da LMA o SMD ad alto rischio non precedentemente trattata. Lo studio si compone di due parti separate, un braccio intensivo ed uno non-intensivo. Il braccio intensivo randomizza i pazienti per un trattamento daunorubicina e citosina arabinoside ± GO verso daunorubicina e clofarabina ± GO. Dopo il ciclo di consolidamento, che replica quello di induzione ma senza GO, i pazienti sono ulteriormente randomizzati per ricevere AZA come mantenimento verso no terapia. Il braccio non-intensivo randomizza i pazienti tra basse dosi di citosina arabinoside e la combinazione di questa con diversi agenti quali clofarabina, GO, tipifarnib e triossido di arsenico. L’obiettivo primario è la sopravvivenza a sei mesi, la combinazione più efficace nel soddisfare questo obiettivo sarà poi investigata in una successiva fase III di confronto con le basse dosi di citosina arabinoside. Ulteriori numerosi trial di fase II-III, sono attualmente in corso per pazienti con LMA non precedentemente trattata, refrattaria a precedenti terapie o in recidiva (vedi www.cancer.gov/clinicaltrials). Alchilanti La cloretazina è una sulfonilidrazina appartenente alla classe degli alchilanti; studi di fase I hanno identificato in 600 mg/m2 la dose singola raccomandata per studi di fase II. Di 104 pazienti anziani arruolati ad uno studio di Terapie innovative fase II per il trattamento di LMA non precedentemente trattata, il 32% ha ottenuto una risposta (RC 28%, RP 4%) (114). La frequenza di risposta si innalzava al 50% quando veniva enucleata la sola categoria di pazienti con LMA de novo; sono attualmente in corso studi clinici di fase II-III che associano cloretazina e citosina arabinoside (vedi www.cancer.gov/clinicaltrials). Inibitori di topoisomerasi Amonafide è un inibitore di topoisomerasi II che a differenza dei classici inibitori di questa categoria, agisce con un meccanismo ATP-independente e non è un substrato di MDR-1, notoriamente coinvolta nei meccanismi di chemioresistenza (115): rappresenta quindi il candidato ideale per superare il fenomeno dell’estrusione del chemioterapico dalla cellula. In uno studio iniziale di fase I, amonafide è stata somministrata come singolo agente a pazienti con LMA ad alto rischio (LMA secondarie, refrattarie o in recidiva); 4 di 14 pazienti trattati hanno ottenuto la RC. Una frequenza di RC del 46% è stata osservata in uno studio successivo in cui amonafide era associata a citosina arabinoside (116). La popolazione in studio era costituita da 88 pazienti con LMA secondaria (54% con LMA secondaria a precedenti chemioterapie, 47% con citogenetica a prognosi sfavorevole). Tali promettenti risultati hanno stimolato l’attivazione di uno studio internazionale di fase III, in cui amonafide e citosina arabinoside vengono confrontate con daunorubicina e citosina arabinoside per il trattamento di LMA secondarie. n TERAPIA DELLA CELLULA LEUCEMICA STAMINALE Una delle ipotesi che spiegano il fallimento della terapia citotossica è che questa sia scarsamente efficace nei confronti della cellula steminale leucemica (CSL). Sofisticati esperimenti condotti in topi NOD-SCID hanno fornito prove molto convincenti a sostegno dell’esistenza della CSL (117). La CSL appare distinta da quella normale avendo collocazione fenotipica nella frazione cellulare CD34+CD38- (117) e caratterizzandosi per l’espressione di antigeni quali CD123 (recettore della interleukina-3), CLL-1 (C-type lectin-like molecole-1; assente su cellule staminali normali) e CD44, (espresso ad alta intensità). Alcuni degli antigeni e pathways noti per essere preferenzialmente espressi od attivati nella CSL sono riportati in tabella 5; tali targets sono tutti potenziali candidati per terapie mirate. A conferma di ciò è opportuno sottolineare come siano in fase di sperimentazione clinica farmaci quali anticorpi monoclonali diretti contro CD123 e CD44, inibitori di NF-kB (partenolide) e di m-TOR (rapamicina ed analoghi) (117). n CONCLUSIONI A fronte del dato di fatto che negli ultimi 20 anni non si siano registrati sostanziali miglioramenti della sopravvivenza dei pazienti con LMA, i protocolli di futura generazione dovranno confrontarsi con le accresciute conoscenze biologiche di recente Superficiali Intracitoplasmatici Nucleari Proteine di estrusione MDR-1, MRP-1, BCRP Metabolismo colesterolico Aldeide deidrogenasi Self-renewal HoxB4 HoxA9 Bmi-1 Recettori citochinici CD123, FLT-3, c-KIT Signalling NOTCH-mediato γ-secretasi Fattori trascrizionali JunB P53 NF-kB Altri antigeni CD44, CLL-1 Signalling intracellulare Wint/β-catenina/Rac PI3K/AKT/mTOR Apoptosi Telomerasi WT1 TABELLA 5 - Potenziali ”targets” di terapia della cellula staminale leucemica nella LMA. 67 68 Seminari di Ematologia Oncologica acquisizione e con la enorme disponibilità di nuovi agenti ad azione mirata. Nonostante appaia non realistico attendersi che tali agenti abbiano nella LMA il medesimo impatto che gli inibitori di tirosinchinasi hanno avuto nella leucemia mieloide cronica, essi meritano di esser attentamente investigati nel contesto di studi clinici dedicati. Ciò si rende necessario per valutarne il ruolo nel rifinire e potenziare l’azione già nota dei trattamenti convenzionali e nel porsi come valida alternativa alla semplice terapia di supporto per pazienti non eleggibili per chemioterapie intensive. In questo senso, va ricordato come una particolare forma di terapia targeted, quella diretta contro la CSL, sia in fase pressoché embrionale e le sempre maggiori conoscenze che si accumulano in questo ambito contribuiranno anch’esse ad un diverso modo di concepire la terapia della LMA. Grazie alle sue peculiarità di quiescenza e scarsa capacità proliferativa, la CSL pone alla terapia convenzionale sfide di grande fascino biologico e rilevanza clinica. n BIBLIOGRAFIA 1. Kolitz JE. 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Leukemia. 2009; 23: 25-42. 73 La malattia in età pediatrica CARMELO RIZZARI, TIZIANA COLIVA, MARCO SPINELLI, ANDREA BIONDI Clinica Pediatrica, Università Milano-Bicocca, Fondazione MBBM, Ospedale San Gerardo, Monza, Italia n INTRODUZIONE ED ASPETTI EPIDEMIOLOGICI Il termine di leucemia mieloide acuta (LMA) identifica un gruppo eterogeneo di neoplasie ematologiche con connotazioni biologiche e cliniche peculiari tali da comportare un approccio diagnostico e terapeutico differenziato. Le LMA rappresentano il 10-20% dei casi di leucemia acuta dell’età pediatrica (1). L’incidenza annuale riportata nei paesi industrializzati è di circa 7-8 casi per milione di bambini/adolescenti di età inferiore a 18 anni (2). Rispetto alle leucemia acute dell’adulto le LMA sono in età pediatrica meno frequenti delle leucemie linfoblastiche acute (LLA) con un rapporto LMA/LLA di 1:4, eccetto che nel periodo neonatale nel quale si verifica un picco di incidenza di LMA. In contrasto con quanto osservato nella LLA, l’incidenza delle LMA rimane stabile durante l’infanzia mentre se ne osserva un lieve progressivo aumento durante l’adolescenza. Non sono state rilevate significative differenze di incidenza tra i due sessi, ma sono state invece descritte differenze rilevanti in alcuni gruppi etnici (le LMA sono Parole chiave: leucemia mieloide acuta, trattamento, diagnosi, età pediatrica. Indirizzo per la corrispondenza Prof. Andrea Biondi Clinica Pediatrica Università Milano-Bicocca Fondazione MBBM Ospedale San Gerardo Via Pergolesi, 33 - 20052 Monza (MI) e-mail: [email protected] Andrea Biondi più frequenti per esempio nei bambini neri e in quelli di origine ispanica). Pur non essendo state riportate rilevanti differenze di distribuzione dei diversi sottotipi di LMA nei vari gruppi etnici, la leucemia promielocitica acuta (LPA) risulta di gran lunga più frequente nelle popolazioni ispaniche e latine (3). Negli anni ’70 la maggior parte dei pazienti affetti da LMA non riusciva ad essere trattata efficacemente ed i pazienti soccombevano alla malattia generalmente a causa della sua progressione; i risultati sono poi progressivamente migliorati e gli studi più recenti riportano una sopravvivenza a lungo termine superiore al 60-65%. Questa migliore prognosi, che è limitata solo ai paesi più industrializzati, è essenzialmente legata alla razionalizzazione ed alla intensificazione dell’uso di farmaci particolarmente efficaci (citarabina e antracicline), alla miglior identificazione di specifici gruppi di rischio e al conseguente utilizzo di strategie terapeutiche diversificate incluso il trapianto di midollo (TMO) e al miglioramento delle terapia di supporto (terapia antibiotica, trasfusioni, ecc.) (4, 5). In questo articolo verranno descritte le principali caratteristiche biologiche e cliniche della LMA dell’età pediatrica e ne verranno anche discussi gli aspetti eziopatogenetici, i fattori prognostici, i principi generali e particolari di trattamento e le prospettive future. n EZIOLOGIA Nonostante le cause rimangano largamente sconosciute, esistono fattori di rischio che possono 74 Seminari di Ematologia Oncologica essere principalmente ambientali o secondari a condizioni predisponenti ereditarie e/o acquisite. L’esposizione a radiazioni ionizzanti, prodotti chimici (benzene, erbicidi e pesticidi) ed agenti chemioterapici (agenti alchilanti come mostarde azotate, ciclofosfamide, ifosfamide, clorambucile e melfalan ma anche epipodofillotossine e agenti immunosoppressivi usati nel trattamento dell‘anemia aplastica) costituiscono noti fattori di rischio per lo sviluppo di una LMA (3). Sotto il profilo patogenetico si distinguono forme primarie, che compaiono acutamente in soggetti per i quali non è dimostrabile un’esposizione ad agenti leucemogeni, e forme secondarie che rappresentano l’evoluzione neoplastica di una precedente sindrome mielodisplastica (SMD) o l’effetto dell’esposizione del soggetto ad agenti leucemogeni (dette in questo caso t-LMA, therapy related LMA). I termini di LMA secondaria e t-LMA vengono spesso usanti in modo interscambiabile per descrivere una LMA per la quale si ipotizza che un precedente trattamento citotossico possa aver contribuito alla sua eziologia (6). Esistono peraltro prove evidenti che specifiche terapie possano causare una leucemogenesi secondaria (7-10). Si parla invece di LMA “secondaria de novo” nel caso di pazienti con una precedente neoplasia che non sono stati trattati con chemio o radioterapia, per esempio nei casi di sola resezione chirurgica. In questo caso si ritiene che la leucemogenesi rifletta una predisposizione genetica allo sviluppo di multiple neoplasie primitive rispetto alla genotossicità causata dalla chemio o radioterapia (6). Sebbene la prognosi delle LMA secondarie debba essere considerata generalmente meno favorevole rispetto alla LMA de novo, è invece riportata una prognosi simile per le LPA sia de novo che secondarie (11, 12). Poichè un certo numero di LPA secondarie sembra essere non correlato alle precedenti terapie (11, 13) ed in considerazione dell’osservazione che la LPA de novo e le LPA che insorgono dopo altri tumori sono simili clinicamente, alcuni casi di LPA secondarie sono considerate come neoplasie primitive secondarie (12). Le LMA secondarie all’uso di farmaci alchilanti sono spesso precedute da una fase di SMD con associata perdita o delezione del cromosoma 5 o 7. Queste t-LMA tendono a presentarsi tardi- vamente (tipicamente 5-7 anni dopo la terapia); il tempo tra l’insorgenza della SMD e la t-LMA è piuttosto variabile e può essere spiegato dalla necessità del verificarsi di danni genetici successivi alla perdita di materiale dal cromosoma 5 e 7. I sottotipi FAB più frequentemente riscontrati sono M1 o M2 (6). Le LMA secondarie indotte dalle epipodofillotossine sono usualmente caratterizzate da sottotipi FAB M4 o M5, sebbene siano stati descritti anche altri sottogruppi (14), e sono spesso associate a traslocazioni che coinvolgono il gene MLL (1). Diversamente rispetto alle LMA secondarie al trattamento con agenti alchilanti che, come abbiamo visto, si presentano tardivamente e con una fase pre-leucemica, le LMA secondarie al trattamento con epipodofillotossine si manifestano come LMA de novo e dopo un breve periodo (generalmente 2-3 anni) dal termine delle terapie (6). La maggior parte dei casi di LMA insorge in pazienti che non possiedono una predisposizione genetica né familiare né condizioni tipiche di sindromi e insufficienze midollari. In alcuni casi esistono invece condizioni genetiche predisponenti ben inquadrate nosologicamente, quali: Sindrome di Down. I bambini affetti da sindrome di Down (DS) presentano un rischio 10-20 volte superiore rispetto alla popolazione pediatrica di sviluppare una leucemia acuta (15) e nonostante siano stati identificati numerosi geni, come AML1, che possono essere implicati nel processo patogenetico, per nessuno di questi è stata identificata una chiara correlazione eziopatogenetica. Sebbene tali bambini presentino, nella seconda infanzia, un’incidenza di LLA e LMA sovrapponibile, nei primi tre anni di vita la LMA risulta nettamente più frequente (e tra queste è presente soprattutto il sottotipo megacarioblastico). Va inoltre ricordato che i neonati con DS, nel 10% dei casi (16), possono presentare una patologia mieloproliferativa transitoria transient myeloproliferative disorder (TMD), nella quale i blasti risultano essere clonali e con caratteristiche megacarioblastiche. L’esordio può essere anche molto precoce, entro le prime 2-3 settimane di vita (17). La diagnosi differenziale deve essere posta con una reazione leucemoide associata a prematurità, sepsi o asfissia. Solitamente la TMD persiste per alcune settimane ed è associata a muta- La malattia in età pediatrica zioni di GATA 1 (17). Alcuni pazienti (20%) con DS e TMD sviluppano una LMA dopo mesi (fino anche a 4 anni) dalla risoluzione della TMD; la prognosi non sembra essere significativamente diversa da quella delle LMA de novo osservate nei pazienti con DS (17-19). Non è ancora stato chiarito se la progressione da TMD verso LMA possa essere prevenuta da una chemioterapia profilattica. Diversi studi sono in corso per valutare ulteriormente questo aspetto (4). Disordini ereditari caratterizzati da un difetto nei processi di riparazione del DNA e regolazione del ciclo cellulare: anemia di Fanconi, sindrome di Bloom e atassia teleangectasia. Disordini ereditari caratterizzati da alterazione della trasmissione del segnale nei processi di proliferazione e apoptosi cellulare: sindrome di Kostmann, sindrome di Shwachman-Diamond, sindrome di Blackfan-Diamond, e neurofibromatosi di tipo I. Sindrome di Li-Fraumeni. Esistono poi condizioni predisponenti acquisite: - anemia aplastica: una quota rilevante dei pazienti con anemia aplastica trattati con terapia immunosoppressiva sviluppano una SMD e/o una LMA o entrambe in sequenza; - emoglobinuria parossistica notturna; - SMD. n PATOGENESI La leucemogenesi è il risultato di alterazioni genetiche che si verificano a livello di una primitiva cellula staminale ematopoietica e che determinano l’espansione di un clone che è spesso caratterizzato da un blocco incompleto della normale differenziazione (20, 21). Le LMA sono un gruppo eterogeneo di patologie neoplastiche, caratterizzate da un’elevata variabilità clinica e patogenetica in cui sono descritte numerose alterazioni molecolari. Le più frequenti alterazioni cromosomiche coinvolgono geni codificanti fattori di trascrizione; come conseguenza di tali anomalie si generano prodotti chimerici di fusione che contribuiscono al processo di trasformazione (22). Nel caso, ad esempio della traslocazione t(8;21), si determina la fusione del gene AML1 (sul cromosoma 21) con il gene ETO (sul cromosoma 8) e la formazione del gene di fusione AML1-ETO. Questo gene codifica per una proteina con funzioni ibride, avente cioè la capacità di legare il DNA sia attraverso il dominio di AML1 che quello di ETO con la conseguente alterazione delle normali funzioni di AML1 parte integrante dell’attività del core binding factor complex critico per il normale sviluppo dell’ematopoiesi. Anche le t(3;21), t(16;16), t(16;21) e Inv(16) determinano una alterazione del core binding factor complex che anziché attivare l’espressione di alcuni geni target diviene un repressore trascrizionale che abolisce l’attività di questi geni. Questa attività è mediata dall’attivazione di un enzima con attività deacetilasica sugli istoni (HDACs) che appartiene all’apparato che esercita la repressione trascrizionale. Anche altre traslocazioni come la t(15;17) che determina il trascritto di fusione PMLRARα sembrano esercitare la loro funzione attraverso il reclutamento di HDACs con conseguente repressione della trascrizione dei geni target normalmente attivati dal recettore nucleare RARα (23). Molti oncogeni sono stati implicati nella patogenesi leucemica per mutazioni, amplificazione, delezioni o riarrangiamenti di proto-oncogeni che risultano così deregolati o attivati in modo tale da determinare la trasformazione neoplastica della cellula (24). Tale fenomeno può avvenire sia per alterazione dei processi di regolazione della crescita, che della differenziazione, apoptosi e riconoscimento immunologico della cellula mieloide così come del processo di riparazione del DNA(25). I diversi geni che al momento sembrano essere maggiormente coinvolti nelle anomalie genetiche presenti nelle LMA possono essere schematicamente classificati in base alla loro funzione: a) Geni coinvolti nella proliferazione cellulare • FLT3 (gene FMS-like tirosin chinasi 3) codifica per un recettore di membrana tirosin chinasico. Il legame tra FLT3-ligando e la tirosinchinasi del recettore FLT3, induce nella cellula ematopoietica una serie di reazioni che prendono parte, insieme ad altri fattori di crescita e interleuchine, ai processi di crescita e differenziazione cellulare. FLT3 è uno dei geni più frequentemente mutati nelle neoplasie ematologiche, un possibile modello 75 76 Seminari di Ematologia Oncologica per comprendere meglio i meccanismi alla base dell’insorgenza delle leucemie e un target per lo sviluppo di nuove strategie diagnostiche e terapeutiche. Mutazioni del gene FLT3 sono state ritrovate nelle LLA (1-3% dei pazienti), nelle SMD (510%) e nelle LMA (15-35%) (26). Le mutazioni di FLT3 sono prevalentemente di due tipi: la più frequente è una internal tandem duplication (ITD) negli esoni 14 e 15 (cromosoma 13q12) (2) (27); la seconda è una mutazione puntiforme missense nell’esone 20 del dominio tirosin chinasico, che coinvolge tipicamente il codone D835 o D836 e meno frequentemente N841 o N841Y (24). La frequenza di mutazioni ITD nell’adulto (20-30%) è superiore a quella riscontrata nel bambino (1015%) (28, 29). Per quanto riguarda la correlazione con la classificazione FAB, mutazioni di FLT3-ITD sono state riscontrate in tutti i sottotipi di FAB, anche se con una maggiore incidenza nel sottotipo M3, minore in M5 e nelle leucemie con alterazioni della regione CBF (28, 30). La mutazione di FLT3-ITD è significativamente più frequente (20-25%) nel sottogruppo dei pazienti con cariotipo normale (28) e nella maggior parte dei casi è presente in eterozigosi ma talvolta è possibile riscontrarlo in omozigosi in seguito alla perdita dell’allelle di FLT3 normale. C’è chiara evidenza che mutazioni di FLT3 siano associate a una prognosi sfavorevole nelle LMA pediatriche (28, 31), recentemente però sono emersi dati che indicano che non sia tanto la presenza della mutazione FLT3-ITD in sé a correlare con una prognosi sfavorevole quanto il rapporto allelico (AR) tra mutato e wild type: i pazienti con AR <0,4 hanno una prognosi simile a i pazienti senza FLT3-ITD mentre i pazienti con AR >0,4 hanno un pessimo outcome (32). A seguito di questa scoperta e del riscontro di una prognosi peggiore per questi pazienti con associazione di mutazione FLT3-ITD + perdita dell’allele wild type (35 val), si è introdotto una nuovo elemento prognostico: il rapporto FLT3-ITD/wild type (=allelic ratio). La possibilità che ci siano delle variazioni in questo allelic ratio è spiegata dal fatto che in molti casi la leucemia può essere un processo policlonale, ossia con alcune sottopopolazioni di cellule LMA dotati di mutazione FLT3-ITD e altre sottopopolazioni contenenti solo il gene wild type (14 val). Pazienti con un’alta per- centuale di cloni mutati avranno un alto rapporto ITD/WT e saranno soggetti a prognosi peggiore e a maggior rischio di resistenza alla terapia. È interessante che invece le mutazioni puntiformi di FLT3, presenti in almeno il 7% dei pazienti non siano associata con una peggior prognosi (32). • c-KIT, situato sulla banda q12 del cromosoma 4, codifica per una glicoproteina transmemembrana, membro della famiglia RTK di tipo III. Il suo legame con SCF (stem cell factor) attiva una cascata di segnali coinvolta nella proliferazione, differenziazione, migrazione e sopravvivenza di cellule staminali emopoietiche. Sono state descritte diverse mutazioni di c-KIT (tra cui D816V, D816Y/H/F/I) con variabile frequenza (da 3,3 a 11% in due diversi studi) (31, 33). Per quanto riguarda la correlazione con la classificazione FAB, c-KIT nella forma mutata risulta maggiormente associato alle forme con alterazione della regione CBF (40-50%) (34). Recenti studi suggeriscono che anche mutazioni di c-KIT conferiscano una prognosi sfavorevole, specialmente nel sottogruppo delle LMA con alterazione della core-binding factor region, anche se Boissel et al. riportano che mutazioni di KIT non siano predittive nel sottogruppo con Inv(16) (34, 36); fino ad ora questo criterio non è stato utilizzato per la classificazione in gruppi di rischio e studi prospettici con una casistica più ampia sono necessari per confermare il significato prognostico di c-KIT nelle LMA pediatriche (4). • Geni della famiglia RAS codificano per una famiglia di guanine nucleotide-binding proteins, che regolano la trasduzione di segnale di una serie di recettori di membrana, tra cui anche FLT3 e c-KIT, e giocano un importante ruolo nella proliferazione, nella differenzazione e nei processi apoptotici. Se non mutatate, proteine RAS si trovano in equilibrio tra forma attiva e quella inattiva. Vi sono tre geni funzionali: N-RAS, K-RAS e H-RAS. Mutazioni puntiformi in N- e K-RAS sono presenti in circa il 10-15% rispettivamente di tutte le LMA e più frequentemente nelle LMA con alterazione della regione CBF (32%) (31, 32). In realtà studi recenti mettono in discussione l’utilità di N-RAS come marker per il follow-up o per la malattia minima residua (MRM) dopo terapia e in genere il ruolo primario delle mutazioni dei geni RAS nella leucemogenesi. In uno studio eseguito su di un cam- La malattia in età pediatrica pione di 107 pazienti per lo studio di N-RAS all’esordio ed in caso di recidiva di malattia, si è visto infatti che solamente uno di questi ha acquistato la mutazione alla recidiva e 4 degli 8 pazienti mutati per tale gene hanno perso tale mutazione alla recidiva (24). • PTPN11, situato sulla banda q24 del cromosoma 12, codifica per una proteina citoplasmatica tirosin-fosfatasica chiamata SHP2, particolarmente espressa nella cellule ematopoietiche, partecipa alla trasduzione di segnale di fattori di crescita, di citochine, di ormoni e di molecole di adesione cellulare ed è coinvolta nella risposta a KITligando, IL-3, IL-6, GM-CSF (granulocyte-macrophage colony - stimulating factor) ed EPO. Mutazioni somatiche di PTPN11 sono riscontrate nel 20% delle LMA M5 pediatriche in pazienti del sud Europa e solamente nel 7% dei pazienti nel Nord Europa (37, 38). • JAK2 codifica per una tirosin chinasi citoplasmatica, coinvolta nelle vie di trasmissione del segnale. JAK2 gioca un ruolo chiave nella trasduzione del segnale attivata da diversi recettori dei fattori di crescita e da citochine necessarie per l’ematopoiesi. Tra le molteplici mutazioni che coinvolgono questo gene, JAK2 V617F è la più ricorrente e come conseguenza finale porta ad un’iperattivazione di diversi componenti della cascata di attivazione del segnale. La mutazione JAK2 V617F è presente in più del 90% dei casi di policitemia vera, in circa il 50% dei casi di trombocitemia essenziale e di mielofibrosi con metaplasia mieloide, in circa il 70% dei pazienti con LMA secondaria a malattie mieloproliferative e solo nell’1,6% dei casi di LMA primaria (39). b) Geni coinvolti nella differenziazione mieloide • AML1, situato sulla banda q 22 del cromosoma 21, codifica per una delle due sub unità che formano il complesso trascrizionale core binding factor CBF umano. AML1 è uno dei geni più frequentemente sregolati nelle leucemie per il quale sono descritte traslocazioni cromosomiche principali che formano proteine chimeriche quali: AML1-ETO t(8;21) nelle LMA; AML1-ETV6 nelle forme pediatriche di LLA e più raramente AML1-MDS1 t(3;21) nelle SMD e nella fasi blastiche sporadiche della leucemia mieloide cronica (LMC). Sono state descritte sia mutazioni germ-line, sia acquisite: queste ultime sono state osservate nel 6-10% dei casi sporadici di LMA (40). • WT1 (Wilms’ Tumor 1), localizzato sulla banda p13 del cromosoma 11, codifica per un fattore di trascrizione importante per il normale sviluppo e la normale sopravvivenza delle cellule. Esistono diverse modificazioni che possono avvenire durante la trascrizione di questo genere, ma due sono predominanti e derivano da due splicing alternativi: lo splicing dell’esone 5 e di un tratto di 9 nucleotidi (KTS). Dalla combinazione di questi derivano 4 diverse isoforme (A, B, C, D). WT1 ha funzione sia di oncosoppressore che di oncogene in varie forme di cancro (tra cui la LMA); quello che ancora non è chiaro nell’ultimo caso, è se tale gene partecipi nel dare inizio alla malattia o piuttosto alla sua progressione. La sua sovraespressione evidenziata in più del 50% dei casi LAM ne permette l’utilizzo come fattore prognostico e come marcatore di MRM. In letteratura sono stati riportati dati discordanti sull’impatto prognostico negativo di WT1 overespresso all’esordio: nonostante alcuni autori riportino un forte valore predittivo di questo dato altri non confermano tali ipotesi (41). Recentemente è stato dimostrato che pazienti con una elevata espressione di WT1 alla fine dell’induzione presentano un outcome peggiore suggerendo che il monitoraggio dei livelli di espressione di questo gene possano essere utilizzati come indicatori di remissione molecolare (42). Sono state descritte anche mutazioni di WT1 nel 11% dei pazienti pediatrici con LMA (diversi tipi di mutazioni presenti, tra queste le più frequentemente riscontrate sono a livello degli esoni 7 - mutazioni framshift e 9 sostituzioni di singoli aminoacidi, soprattutto a livello dei codoni D396 ed H397, meno frequentemente a livello degli esoni 1, 2, 3 ed 8 (43) e sebbene questi pazienti presentino una frequenza di remissione completa simile ai pazienti che non hanno tali mutazioni, il rischio di ricaduta e la sopravvivenza libera da malattia si sono mostrate marcatamente differenti indicando una prognosi più sfavorevole (44). L’espressione limitata di WT1 nei tessuti normali ha suggerito l’utilizzo di questo gene come target per la terapia. Sono stati avviati studi per lo sviluppo di una immunoterapia diretta specificatamet- 77 78 Seminari di Ematologia Oncologica ne contro WT1, sottoforma o di T - cell specifiche o di vaccini contro peptidi WT1 correlati. Altri approcci terapeutici non immunologici sono in corso di sviluppo, come ad esempio l’utilizzo di oligodesossinecleotidi e ribosomi antisenso. Oggi parlare di prevenzione di leucemia tramite l’utilizzo di vaccini è sicuramente prematuro ma l’ipotesi di una possibile immunizzazione contro la leucemia attraverso vaccini con bersaglio WT1 è da tenersi in considerazione per studi futuri (45). • CEBPα questo gene codifica per una fattore di trascrizione ematopoietico-specifico della famiglia Ets utile per il normale sviluppo delle cellule del sangue e regola una grande varietà di geni target, compresi alcuni geni mieloidi cruciali, come il recettore per i fattori di crescita G-CSF (Granulocyte colony stimulating factor) receptor, l’M-CSF e GM-CSF (46). Le mutazioni di CEBPα sono presenti in circa il 20% delle LMA negli adulti con cariotipo normale e sono associate a prognosi favorevole (47). Nei bambini invece le mutazioni vengono riportate nel 4-11% dei casi di LMA e sebbene siano necessari ulteriori studi, anche in questo caso identificherebbero un gruppo di soggetti con cariotipo normale e miglior prognosi. • PU.1 le mutazioni di PU.1 contribuiscono raramente alla patogenesi delle leucemie mieloidi acute. c) Geni implicati nella regolazione del ciclo cellulare o dell’apoptosi • TP53 localizzato sulla banda p13 del cromosoma 17, è un tumor suppressor gene, con attività di “guardiano del genoma”. Le funzioni della proteina p53 comprendono: attività da fattore di trascrizione, di regolazione di geni coinvolti a valle nell’arresto del ciclo cellulare, di riparazione del DNA e di regolazione a livello dell’apoptosi. La perdita della funzione di p53, conferisce instabilità genomica, compromette l’apoptosi e riduce il freno del ciclo cellulare. Nella LMA p53 può essere inattivato da delezioni o mutazioni puntiformi che sono state però riscontrate in meno del 10% delle LMA primarie. Le mutazioni di p53 sono frequentemente associate a delezioni 17p, solitamente per traslocazioni sbilanciate tra cui la t(5;17). • NPM1 mappa in posizione 5q35 e contiene 12 esoni che codificano per una nucleofosmina presente in 3 diverse isoforme: B23.1, B23.2, B23.3, di cui la più frequente è la B23.1 (48). NPM1 è coinvolto nella via di trasmissione del segnale regolata dall’oncosoppressore arf-p53. Le mutazioni di NPM1 sono state ritrovate in differenti sottotipi FAB, soprattutto M4 e M5, con frequenza molto elevata (50-60%) nei pazienti adulti (48, 49), mentre l’incidenza nei casi pediatrici è intorno al 5-10% con incidenza crescente con l’età alla diagnosi (50); la frequenza può però arrivare al 20-30% se si considera soltanto il sottogruppo con cariotipo normale. I bambini con LMA presentano generalmente mutazioni nelle cellule leucemiche (soprattutto di tipo B) che differiscono da quelle che vengono riscontrata negli adulti (soprattutto di tipo A). Questo potrebbe contribuire a spiegare le differenze di eziopatogenesi delle LMA tra bambini e adulti (51). Le mutazioni di NPM1 sono frequentemente associate a mutazioni nel gene di FLT3 e in questo caso si riduce il loro favorevole impatto prognostico (49, 52). n DIAGNOSI Nel 2001 l’organizzazione mondiale della sanità (WHO) ha pubblicato una nuova classificazione per le LMA che considera una serie di valutazioni morfologiche, immunofenotipiche e citogenetiche e contribuisce a effettuare una classificazione più accurata della LMA in sottogruppi più omogenei (53). Morfologia Tradizionalmente le LMA sono state classificate grazie alla valutazione morfologica ed istochimica. Il più completo sistema di classificazione istochimico-morfologico per la LMA fu sviluppato dal French-American-British (FAB) Cooperative Group a partire dal 1976. Secondo il FAB, le LMA si distinguono in 8 sottotipi: M0, M1, M2, M3/M3v, M4/M4eo, M5a/M5b, M6, M7 (Tabella 1a) (54, 56). Altri sottotipi estremamente rari di LMA sono: la leucemia eosinofila acuta e la leucemia basofila acuta. Il 50-60% delle LMA diagnosticate in età pediatrica è classificato come: M1, M2, M3, M6, o M7; nel restante 40% dei casi si tratta di forme M4 o M5. Circa l’80% dei bambini con una diagnosi di LMA al di sotto dei 2 anni d’età è affetto da un sottotipo M4 o M5. La chemioterapia cito- La malattia in età pediatrica Sigla CATEGORIA Criteri morfologici M0* M1 Indifferenziata Mieloblastica senza maturazione M2 Mieloblastica con maturazione M3 ** M3V** Promielocitica Promielocitica variante ipogranulare M4 Mielomonocitica M4 eo Mielomonocitica con ipereosinofilia M5a Monoblastica M5b Monocitica M6 M7*** Eritroleucemia Megacarioblastica MPO <3% NAE negativa Blasti >90% nel midollo esclusi eritroblasti; <10% componente monocitaria; <10% granulociti, MPO >3% Blasti 30<90%; granulociti >10%; monociti <20% (NE), MPO >3% >20% promielociti anomali ipergranulari (corpi di Auer), MPO >3% Nuclei reniformi, granulazioni fini nel citoplasma, poco visibili al MO, ma MPO +++, MPO >3% Blasti >30% NE, componente granulocitaria 20<80%, componente monocitaria 20<80%, >5x109/l monociti nel sangue periferico o lisozima elevato, MPO >3% Criteri per M4 associati a eosinofili anormali con granuli eosinofili e basofili, MPO >3% >80% NE componente monocitaria; monoblasti >80% della componente monocitaria, NAE positiva >80% NE componente monocitaria; monoblasti <80% della componente monocitaria NAE positiva Cellule eritroidi >50% delle cellule midollari; blasti >30% NE Blasti >30% NE; megacarioblasti, blebs, (mielofibrosi) *M0: MPO e SBB < del 3% in citochimica; markers B e T-lineage negativi (ivi compresi CD3 e CD22 intracitoplasmatici); CD13 e CD33 positivi in circa il 60% e 80% rispettivamente dei pazienti; co-espressione di CD13 e CD33 in circa il 40% dei casi; almeno uno dei due antigeni deve essere espresso per la diagnosi; CD13 più sensibilmente dimostrato da tecniche immunocitochimiche (immunoperossidasi e APAAP) che dalla citometria a flusso; CD117, CD7 e TdT riscontrati nel 55, 41 e 46% dei casi rispettivamente. **M3: L’identificazione di questo sottotipo è critica per il rischio emorragico potenzialmente fatale che può comparire prima o durante la terapia di induzione. ***M7: Megacarioblasti >30% MO; blebs citoplasmatici e fibrosi midollare; positività per CD61, CD42, CD41 e antigene fattore VIII-relato; possono inoltre essere utili: dimostrazione ultrastrutturale di Perossidasi piastrinica, dimostrazione che il subset di cellule CD34+ è CD38+, biopsia ossea. TABELLA 1a - Classificazione istochimico-morfologica FAB. tossica determina una risposta relativamente simile in bambini affetti da sottotipi diversi di LMA. L’unica eccezione è rappresentata dalla categoria FAB M3, per la quale l’acido all-trans retinoico, combinato con un’opportuna chemioterapia, è in grado di assicurare l’ottenimento della remissione e la guarigione nella maggioranza dei casi (23). I criteri originali FAB prevedevano che per porre diagnosi di LMA fosse necessaria la presenza a livello midollare di almeno il 30% di blasti con caratteristiche mieloidi (con eritroblasti inferiori al 50%, altrimenti tale percentuale deve essere calcolata sulla quota cellulare non eritroide); la nuova classificazione proposta dal WHO nel 2001 ha ridotto al 20% la quota blastica necessaria per poter porre diagnosi di LMA prendendo peraltro in considerazione non solo le caratteristiche morfologiche ma anche le anomalie genetico/cliniche presenti (Tabella 1b) (57). Né la classificazione WHO, che non è stata ancora adottata routinariamente in emato-oncologia pediatrica, né la classificazione FAB utilizzano criteri correlati all’età per classificare le LMA, non tenendo quindi conto delle differenze (in termini di sopravvivenza, distribuzione citogenetica e fattori legati al paziente) che esistono tra gli adulti e i pazienti in età pediatrica. In primo luogo con la riduzione della quota blastica necessaria per porre diagnosi di LMA dal 30 al 20%, malattie prima formalmente classificate come SMD (per esempio anemia refrattaria con eccesso di blasti in trasformazione - AREB-t) vengono adesso formalmente classificate come LMA (58). Secondariamente la classificazione WHO non considera importanti sottogruppi pediatrici come i pazienti di età inferiore a 1 anno (infants) con LMA M7 e t(1;22) e quelle con DS (53). Non è ancora stato dimostrato attraverso studi clinici se questi pazienti beneficino effettivamente dal trattamento con schemi di terapia intensi utilizzati per le LMA prima di essere sottoposti a HSCT (4). I dati dell’European Working Group on 79 80 Seminari di Ematologia Oncologica Myelodysplastic Sindrome (EWOG-MDS) suggeriscono che spesso i bambini con SMD presentano una ipoplasia midollare e il trattamento con chemioterapia intensa determina aplasie profonLMA con ricorrenti traslocazioni citogenetiche LMA con displasia multilineare LMA con sindrome mielodisplastica, secondaria a trattamento chemioterapico LMA non altrimenti classificate LMA con t(8;21)(q22;q22) o AML1 (CBF-α)/ETO Leucemia promielocitica acuta LMA con t(15;17) (q22;212) e sue varianti; PML/RAR α LMA con eosinofilia: Inv(16)(p13;q22) o t(16;16)(p13;q22); CBF-β/MYH1 LMA con 11q23 (MLL) LMA con precedente MDS LMA senza precedente MDS Secondaria a trattamento con agenti alchilanti Secondaria a trattamento con epipodofillotossine Altri tipi LMA con minima differenziazione LMA senza maturazione LMA con maturazione LMA mielomonocitica LMA monocitica LMA eritroide LMA megacarioblastica LMA basofila Panmielosi acuta con mielofibrosi TABELLA 1b - Classificazione WHO delle LMA (Modificata da Ref. 4. Riprodotta con il permesso dell’editore proprietario). Mieloperossidasi Esterasi Non Specifica Cloro-acetato a-naftol-acetato Sudan Black B PAS *Queste reazioni sono inibite dal fluoride. TABELLA 2 - Profilo citochimico delle LMA. de e persistenti con un aumento delle complicanze infettive (59). Un approccio più pratico per differenziare tra LMA e SMD, più che una definizione strettamente basata sulla percentuale di blasti, potrebbe essere rappresentato dal sorvegliare la progressione di malattia con un atteggiamento wait and see, ponendo attenzione a segni indicativi di LMA come la comparsa di epato-splenomegalia o specifiche alterazioni geniche (58). Citochimica Il trattamento dei bambini con LMA differisce in maniera rilevante da quello dei pazienti con LLA e per tale motivo l’accuratezza della diagnosi assume un ruolo cruciale. Ciò evidenzia la necessità di eseguire un’attenta e completa valutazione citochimica sugli strisci di sangue midollare di tutti i bambini con LMA. Le colorazioni più comunemente utilizzate che consentono di identificare alcune attività enzimatiche e/o la presenza di particolari sostanze ritenute specifiche per certi tipi cellulari, includono (Tabella 2): • la mieloperossidasi (MPO) → rileva l’attività mieloperossidasica presente nei granuli primari sia dei precursori mieloidi che dei monociti; • i corpi di Auer → accumuli di granuli primari con forma a bastoncino che sono caratteristici dei sottotipi M2, M3 e M5; • la reazione periodica all’acido di Shiff (PAS) → solitamente negativa nelle mieloidi ad eccezione del sottotipo M6; • il Sudan Black B (SBB) → identifica i lipidi intracellulari che sono presenti nei granuli secondari dei precursori mieloidi e dei monociti; • l’esterasi non specifica (NSE) dei positiva prevalentemente sui monociti. LMA, LPA (M1-M3) LMMA (M4) LMOA (M5) LEA (M6) LMCA (M7) LLA M0 - + + +/- - - - - + + - + +* + -/+ +* +/-/+ + + --/+* - + La malattia in età pediatrica Immunofenotipo Lo studio di antigeni di membrana o citoplasmatici espressi nei blasti leucemici mediante l’utilizzo di anticorpi monoclonali (MoAbs) costituisce un elemento indispensabile per la conferma della diagnosi citomorfologica. Gli antigeni particolarmente utili per la diagnosi di LMA sono CD11b, CD13, CD14, CD15, CD33, CD34, CD41, CD42 e CD61, la glicoforina A, l’antigene leucocitario di classe II (HLA - DR) oltre a c-Kit. Nella normale maturazione ematopoietica i precursori altamente immaturi sono caratterizzati dall’espressione di CD13, CD33 e CD34. Nel processo di differenziazione si osserva la perdita del CD34, la progressiva riduzione del CD33 e la comparsa del CD15. Anche l’antigene HLA-DR viene espresso progressivamente nel processo di differenziazione mieloide. La differenziazione in senso monocitico è caratterizzata invece dall’espressione del CD14 e questo marcatore viene utilizzato per l’identificazione della leucemia mielomonocitica (M4) e monocitica (M5). Anche il CD36 e il CD64 possono essere utilizzati per definire la differenziazione monocitaria. Per l’identificazione della linea eritroide si utilizza la glicoforina A che è quindi utile nella diagnosi di leucemia eritroblastica (M6). La differenziazione lungo la linea megacariocitica è rappresentata dall’espressione di proteine associate alle piastrine come CD14, CD42, CD61, glicoproteina Ib, glicoproteina IIB/IIIa (CD41a, 61) o l’espressione dell’antigene del Fattore VIII che quindi identificano la LMA di tipo megacariocitario (M7). L’immunofenotipo è indispensabile per la corretta diagnosi delle forme mieloidi più indifferenziate, perossidasi negative, come le LMA M0, nelle LMA M6 ed M7 o forme miste come le leucemie bifenotipiche (unico clone leucemico le cui cellule blastiche esprimono sulla superficie più di una antigene di linee cellulari differenti) e biclonali(definito secondo la classificazione WHO dalla presenza di due diversi cloni leucemici ciascuno con caratteristiche morfologiche, immunofenotipiche, istochimiche e molecolari diverse). Sono state riportate associazioni tra espressioni particolari di antigeni ed alcuni sottotipi di LMA, caratterizzati da specifiche anomalie citogeneti- che quali Inv(16), t(15;17), t(8;21), ma non è mai stata dimostrata, se non per la LMA M3 (60), una significativa specificità e sensibilità di questo approccio nell’identificare sottotipi prognosticamente rilevanti. L’analisi dell’espressione del pattern di questi antigeni consente la distinzione nel 90% dei casi delle forme di LMA da quelle di LLA ma non esistono antigeni lineage-specifici in modo assoluto che identifichino esclusivamente i blasti di una LMA. I blasti leucemici possono infatti esprimere anche antigeni non strettamente aderenti alla linea di appartenenza e alcuni antigeni caratteristici delle LLA possono essere espressi anche sui blasti mieloidi fino nel 60% dei casi (CD4, CD7, CD10, CD19 e CD24, CD56). Così anche antigeni mieloidi possono essere espressi su blasti linfoidi. Citogenetica e genetica molecolare Le indagini di citogenetica e genetica molecolare devono essere eseguite in tutti i casi di LMA all’esordio sia per il corretto inquadramento diagnostico che per l’identificazione di quelle anomalie associate a prognosi differente. Le tecniche convenzionali di bandeggio cromosomico e di analisi delle metafasi, così come le tecniche di genetica molecolare o di ibridazione fluorescente in situ (FISH), offrono vantaggi di specificità e sensibilità differenti. Anomalie cromosomiche clonali sono state identificate nei blasti del 75% dei bambini con LMA e si sono dimostrate utili nel definire i sottotipi con caratteristiche particolari: • M2 con t(8;21) presente nel 10-15% dei casi, spesso associata a perdita di cromosomi sessuali (delezione del cromosoma X nelle femmine e delezione del cromosoma Y nei maschi); • M3 con t(15;17) e in alcuni casi t(11;17); • M4eo con Inv(16), t(16;16) o del(16) a prognosi favorevole ma con più elevata incidenza di ricaduta sul sistema nervoso centrale (SNC); • M4 e M5 con riarrangiamento della banda cromosomica 11q23, frequente nei bambini sotto l’anno e nelle forme secondarie a epipodofillotossine associata a pessima prognosi (61); • M7 con t(1;22) nei bambini sotto l’anno di vita (infants). 81 82 Seminari di Ematologia Oncologica n FATTORI PROGNOSTICI A differenza di quanto è possibile per la LLA, esistono pochi parametri laboratoristici, clinici o relativi al trattamento utilizzabili come fattori prognostici. I tentativi per formulare valide correlazioni tra risposta alla terapia e reperti clinici, morfologici e citogenetica sono numerosi e continui (62). Nelle LMA pediatriche sono comunque stati identificati alcuni parametri clinici e biologici con significato prognostico, individuabili alla diagnosi quali la valutazione citogenetica o durante la fase di induzione quale per esempio la risposta precoce al trattamento che può essere valutata o direttamente con l’esame morfologico del midollo osseo o mediante lo studio della MRM. Tali parametri vengono utilizzati nella pratica clinica per l’assegnazione dei pazienti a diversi gruppi di rischio ai quali corrisponderanno poi diverse opzioni terapeutiche. L’obiettivo di questa stratificazione è quello di massimizzare l’efficacia del trattamento e ridurre gli effetti collaterali, graduando l’intensità delle cure sulla base delle probabilità di ricaduta del paziente (5). Nello specifico: a) alterazioni citogenetiche: - le t(8;21), Inv(16) e t(15;17) sono generalmente considerate a prognosi favorevole (62, 64); - la t(9;11) viene considerata a prognosi favorevole da alcuni gruppi di studio per esempio la Nordic Society for Pediatric Hematology and Oncology (NOPHO) e il St. Jude Childrens’ Research Hospital (65, 66); - il riarrangiamento del gene MLL presente in circa il 20% dei casi di LMA, generalmente considerato a prognosi intermedia e l’outcome di questi pazienti non differisce significativamente da quelli che non presentano questa traslocazione (66); - la monosomia del cromosoma 5 o 7 e anomalie cariotipiche complesse sono invece considerate a prognosi sfavorevole, nonostante una recente analisi retrospettiva tra diversi gruppi pediatrici ha confermato una precedente affermazione riportata da Grimwade et al che i pazienti con del(7q) abbiano di fatto una prognosi intermedia (67, 68); - un cariotipo complesso è associato a una peggior prognosi; b) Alterazioni molecolari: • il riconoscimento alla diagnosi di lesioni caratteristiche si associa a una prognosi differente a seconda dei casi: - Prognosi favorevole in caso di mutazioni di: CEBPα AML1-ETO CBFB-MYH11 NPM1 - Prognosi sfavorevole in caso di mutazioni di: c-KIT FLT3 over espression di WT1 c) fattori correlati al paziente: - età: più elevata è l’età, peggiore è la prognosi; - razza: quella caucasica avrebbe una prognosi migliore; - sesso: quello maschile sembra avere una prognosi peggiore; - associazione con DS: la prognosi sembra migliorare, soprattutto se il paziente è di età inferiore ai 2 anni di età; - variazioni rispetto al peso corporeo ideale influenzano negativamente la sopravvivenza; - alterazioni enzimatiche associate al metabolismo dei farmaci causano un aumento della tossicità ai farmaci e di conseguenza prognosi peggiore; - risposta alla terapia (valutata precocemente al giorno +15 del primo ciclo di chemioterapia) riveste ovviamente un rilievo particolarmente importante (69, 71), l’iperespressione della proteina MDR-1 (multidrug-resistance) è associata a resistenza al trattamento con alcuni farmaci chemioterapici; - elevato numero di globuli bianchi all’esordio si accompagna a una peggiore risposta alla chemioterapia di induzione; - sottotipo FAB: i sottotipi come M0, M5, M6, M7 sono associati a prognosi peggiore; - forme di LMA secondarie a SMD hanno una prognosi meno favorevole (72). d. Malattia residua minima (MRM) Il termine definisce il riscontro di cellule leucemiche nel sangue midollare giudicato in apparente remissione morfologica (74). Un paziente è definito in remissione morfologica quando le cellule La malattia in età pediatrica neoplastiche costituiscono meno del 5% delle cellule midollari nucleate. La quota di cellule neoplastiche presenti al di sotto di tale livello è indicata come MRM. La determinazione della MRM viene effettuata con scopi diversi, tra i quali quelli prognostici. Inoltre è possibile valutare l’efficacia del trattamento e l’eventuale interessamento di sedi extramidollari. Il livello di MRM, determinato al termine della fase di induzione, sembra rappresentare un fattore prognostico indipendente, in particolare è stata osservata una correlazione significativa tra i livelli di MRM rilevati in due punti della fase di inizio, cioè al giorni 14 e 21, e la sopravvivenza (75). Considerevoli sforzi sono stati effettuati nel ricercare marcatori molecolari utili per valutare la MRM e per predire la recidiva in una fase precoce, prima quindi che questa si manifesti a livello ematologico e clinico, permettendo così un intervento terapeutico tempestivo (41, 50, 76, 77). Idealmente i marcatori di MRM dovrebbero avere i seguenti requisiti fondamentali (78): - avere una sensibilità di almeno 10-3-10-4; - essere specifici; - utilizzare marcatori di clone leucemico stabili nel tempo; - essere facilmente stardardizzabili e consentire una rapida raccolta dati dei risultati; - avere un criterio chiaro e condiviso per quantificare la MRM; - fornire risultati in tempi compatibili con l’intervento clinico. I metodi più utilizzati nel monitoraggio della MRM sono: - citogenetica convenzionale; - ibridizzazione in situ tramite fluorescenza (FISH): ha notevolmente migliorato la sensibilità nel discriminare i riarrangiamenti strutturali, rispetto alla metodica convenzionale di citogenetica, ma la sensibilità raggiunta rimane spesso insufficiente; - immunofenotipizzazione mediante citofluorimetria (CFM): per il riconoscimento di antigeni espressi solo o in quantità maggiore dalla cellula leucemica. Può essere applicata nella maggior parte delle LMA. Un problema rilevante è legato alla possibilità che si verifichino shift di espressione antigenica tra la diagnosi e la ricaduta e alla sensibilità della metodica che varia tra 10-1 e 10-2 (79). Comunque le tecniche stanno migliorando rapi- damente e già sono disponibili citofluorimetri a 8-12 colori con conseguente miglioramento della sensibilità della metodica (4); - polymerase chain reaction (PCR) → amplificazione di sequenze di geni mutati o mediante retroascrizione dei mRNA generati dai geni di funzione. La disponibilità di una metodica quantitativa di PCR (RQ-PCR) può potenzialmente rappresentare un ulteriore avanzamento nella discriminazione della presenza del clone leucemico nel monitoraggio della MRM, con una sensibilità paria a 10-5. Tuttavia marcatori molecolari specifici e ricorrenti su cui applicare la RQPCR sono presenti solo in circa un quarto di tutti i pazienti con LMA (76); La MRM potrebbe essere utilizzata per la classificazione dei pazienti in fasce di rischio ma sono necessari ancora ulteriori dati perché possa essere inserita tra i criteri di stratificazione degli studi clinici (18). n ASPETTI CLINICI I segni e sintomi della LMA derivano sostanzialmente dalla compromissione della produzione e differenziazione delle normali cellule emopoietiche. I dati di laboratorio più frequentemente alterati sono quelli legati all’infiltrazione blastica midollare (leucocitosi con neutropenia, anemia e piastrinopenia). Una conta leucocitaria >100.000/mm3 è riportata nel 15-20% circa dei pazienti e anemia e piastrinopenia di un certo rilievo sono nel presenti nel 50% circa dei pazienti. Febbre, pallore, diatesi emorragica sono sintomi di frequente riscontro. La coagulazione intravascolare disseminata può complicare ogni esordio di LMA ma è tipicamente associata al sottotipo FAB M3. Nel 20% dei casi sono presenti dolori ossei. Se si escludono l’epato e la splenomegalia che sono presenti singolarmente o insieme in più del 50% dei casi, le localizzazioni extramidollari di LMA sono infrequenti. La linfoadenopatia all’esordio è osservata in meno del 25% dei pazienti ed è più comune nelle LMA di tipo M4 e M5 come pure altre localizzazioni più peculiari come le lesioni cutanee (presenti nel 10% dei casi), noduli incolori o lievemente bluastri (blueberry muffin) e l’infiltrazione gen- 83 84 Seminari di Ematologia Oncologica givale (presente nel 10-15% dei casi). I cloromi, i mieloblastomi o sarcomi granulocitici, masse localizzate di cellule leucemiche, sono invece tumori di discrete dimensioni che possono essere anche isolati (ossa e tessuti molli spesso a livello dell’orbita oculare e dello spazio epidurale), quindi in assenza di un coinvolgimento midollare, e sono associati ai sottotipi M2 con t(8;21), M4, M5 e nei bambini di età <1 anno. I testicoli sono raramente interessati. Il coinvolgimento del SNC all’esordio, più frequente che nelle LLA, è riscontrato nel 5-15% dei pazienti e correla con la leucocitosi e il fenotipo FAB M5. Circa la metà di questi pazienti è sintomatico: cefalea, nausea, vomito, fotofobia, papilledema e interessamento dei nervi cranici; raramente si presentano crisi convulsive. Manifestazioni possibili della localizzazione al SNC possono essere anche il mieloblastoma o infiltrazioni meningee con o senza paralisi dei nervi cranici. n FASI DELLA MALATTIA Esordio: criterio essenziale per porre diagnosi di LMA nell’infanzia è che nel midollo osseo siano presenti blasti mieloidi in quantità superiore al 20% (WHO), con caratteristiche morfologiche, citochimiche ed immuofenotipiche compatibili con LMA. Nel caso di localizzazioni extramidollari isolate a livello di ossa e tessuti molli (cloroma), la diagnosi di LMA deve essere anche posta attraverso la biopsia tissutale. Remissione: al trattamento di induzione segue in circa l’80-85% dei pazienti la remissione completa (RC), definita secondo i seguenti criteri: - blasti <5% nell’aspirato midollare, con popolazione cellulare midollare normale, piastrine ≥50x 109/L e neutrofili ≥1x109/L; - liquor con <5 globuli bianchi/mm3 e senza evidenza di blasti; - nessuna evidenza di malattia in ogni altra sede extramidollare. Recidiva: ricomparsa di blasti mieloidi in quantità superiore al 20% (WHO). La prognosi per un bambino con LMA recidivata o resistente è piuttosto grave anche se è ancora possibile ottenere una seconda remissione in oltre la metà dei casi. La probabilità di sopravvivenza globale dei casi di LMA recidivata non è superiore al 25-30%. Le spe- rimentazioni cliniche in atto includono il ricorso a nuovi chemioterapici e/o a nuovi agenti biologici e/o al TMO da donatore HLA identico familiare ed anche non familiare. n PRINCIPI GENERALI DEL TRATTAMENTO Il cardine dell’approccio terapeutico della LMA è rappresentato dall’ottenimento e dal consolidamento della RC con schemi di terapia caratterizzati dall’uso di 2 o 3 farmaci (principalmente citarabina e antracicline cui sono state spesso associate epipodofillotossine o 6-thioguanina) usati spesso a dosi elevate e somministrati in schemi della durata di pochi giorni (4). All’ottenimento della RC (raggiunta nell’80-90% dei casi) (18) seguono ulteriori cicli di chemioterapia intensiva la cui numerosità (generalmente 5-6) e durata (da pochi giorni ad alcune settimane), variano in base al tipo di strategia terapeutica del protocollo di cura. Tali cicli risultano in generale fortemente mielosoppressivi e sono basati, allo scopo di prevenire i fenomeni di farmaco-resistenza, sull’uso sequenziale di farmaci non cross-resistenti quali citarabina (generalmente usato ad alte dosi), le antracicline e le epipodofillotossine. Le dosi cumulative totali di citarabina e antracicline pianificate in vari e moderni protocolli internazionali di cura della LMA pediatriche, risultano talvolta molto diverse fra loro ma permettono risultati comunque favorevoli. La durata totale del trattamento chemioterapico è solitamente di circa 5-6 mesi e in generale non è prevista alcuna terapia di mantenimento. La sopravvivenza secondo i risultati pubblicati recentemente negli studi clinici pediatrici di fase III condotti negli ultimi 15 anni varia tra il 40 e il 60% (Tabella 3) (4) con il miglior outcome riportato dal gruppo Medical Research Council (MRC) (overall survival a 5 anni del 68%) (63). Va comunque sottolineato che i protocolli MRC AML 10 e 12 hanno utilizzato dosi cumulative di antracicline piuttosto elevate (550 mg/mq utilizzando una conversione pari 1 a 5 per ottenere le dosi daunomicina-equivalenti di idarubicina e mitoxantrone) con un possibile aumentato rischio di tossicità cardiaca a lungo termine (80). La malattia in età pediatrica Studio Protocollo AML-BFM SG CCG DCOG EORTC LAME MRC NOPHO POG PPLLSG St. JUDE Tokyo CCSG AML-BFM 98 CCG 2961 AML-92/94 EORTC 58921 LAME 89/91 AML12 AML93 POG9421 AML98 AML97 AML13/14 Pazienti Periodo di tempo Follow up pEFS pOS Ref. 473 901 78 177 309 529 219 565 104 96 216 1993-1998 1996-2002 1992-1998 1993-2000 1988-1996 1995-2002 1993-2000 1995-1999 1998-2002 1997-2004 1991-1998 5 years 5 years 5 years 5 years 6 years 5 years 7 years 3 years 5 years 5 years 5 years 49% 27% 42% 49% 48% 58% 49% 36% 47% 44% 56% 62% 52% 42% 62% 60% 66% 64% 54% 50% 50% 62% Creutzig et al. (110) Lange et al. (111) Kardos et al.112 Entz-Werle et al. (113) Perel et al. (114) Gibson et al. (63) Lie et al. (115) Becton et al. (116) Dluzniewska et al. (117) Rubnitz et al. (118) Tomizawa et al. (119) AML-BFM SG; AML Berlin-Frankfurt-Munster Study Group; CCG Children’s Cancer Group; DCOG: Dutch Childhood Oncology Group; EORTC: European Organization of Research and Treatment of Cancer; LAME: leucemie Aique Myeloblastique Enfant; MRC: Medical Research Council; NOPHO: Nordic Society of Pediatric Hematology and Oncology; POG: Pediatric Oncology Group; PPLSG: Polish Pediatric Leukemia/Lymphoma Study Group. TABELLA 3 - Risultati recentemente pubblicati di studi clinici di fase III nelle LMA pediatriche (Modificata da Ref. 4. Riprodotta con il permesso dell’editore proprietario). I risultati dell’AIEOP sono riportati nella tabella 5. Nel protocollo NOPHO AML 93 è stata maggiormente utilizzata la citarabina (dosi cumulative comprese tra 49.000 e 60.000 mg/m2). Nel protocollo tedesco BFM-AML 98 le dosi cumulative dei due farmaci si collocano su valori intermedi rispetto ai due precedenti protocolli, ma la strategia è stata caratterizzata da un trattamento più prolungato comprendente, oltre che alcuni blocchi di terapia intensiva, anche una fase di consolidamento (della durata di 6 settimane e assai simile agli schemi di induzione/reinduzione utilizzati nel protocollo delle LLA), la radioterapia craniale e una lunga fase di mantenimento. I bambini con LMA di tipo M4 e M5 hanno un’incidenza più alta di meningosi leucemica che varia tra il 5 e il 30% ed è più frequente nei pazienti con iperleucocitosi, e in quelli di età inferiore ad un anno. La chemioterapia intratecale è parte integrante dei protocolli per il trattamento della LMA dell’infanzia ed è considerata oggi una componente standard dell’approccio terapeutico a questa malattia. Per i pazienti senza interessamento del SNC all’esordio il trattamento profilattico è generalmente basato sull’uso di citarabina intratecale da solo o in associazione a metotrexate e/o idrocortisone. Nei pazienti con localizzazione SNC all’esordio il numero iniziale di rachicentesi è più elevato per ottenere e consolidare la remissione anche a livello liquorale (81). Come detto in precedenza l’applicazione di una fase di mantenimento sembra essere di scarsa uti- lità. Il protocollo nord americano CCG-213 ha dimostrato con uno studio randomizzato che una fase di mantenimento non è utile se lo schema di induzione e quello post remissionale sono adeguatamente intensi. Nella stessa direzione vanno i risultati di uno studio prospettico randomizzato condotto dal gruppo francese Leuemie Aique Myeloblastique Enfant (LAME) che dimostrano come una terapia di mantenimento a basse dosi non sia raccomandabile in quanto inutile per prevenire le recidive e capace di indurre farmaco resistenza responsabile di una minore efficacia della terapia di recupero delle forme recidivate (114). Il gruppo Berlin Frankfurt Minister (BFM) continua tuttavia a utilizzare una fase di mantenimento (attualmente 12 mesi), caratterizzata dall’uso di citarabina a basse dosi e 6-thioguanina. Gli studi clinici di fase III attualmente in corso o in fase avanzata di disegno nelle LMA pediatriche affrontano importanti aspetti (Tabella 4): a) in primo luogo vengono introdotti dei nuovi farmaci in associazione: gemtuzumab ozogamicin (GO, mylotarg®), 2-chlorodeoxyadenosine (2-CDA, cladribina®) e daunorubicina liposomiale (DNX, daunoxome®); b) tra gli obiettivi non compaiono solamente la verifica di una aumentata efficacia anti-leucemica ma anche quelli di una ridotta tossicità (soprattutto quella cardiaca a lungo termine); c) in alcuni sottogruppi di LMA viene infine appli- 85 86 Seminari di Ematologia Oncologica Fase del trattamento Gruppo di studio Random Induzione BFM Idarubicina vs daunomicina liposomiale Aggiunta di GO all’induzione FLAG-IDA vs ADE Basse vs alte dosi di ARA-C Aggiunta di 2-CDA al consolidamento negli alti rischi Aggiunta di GO al consolidamento Trattamento con antracicline vs blocchi con citarabina ad alte dosi Aggiunta di un blocco di chemioterapia Aggiunta di GO in base all’MRM per tutti i pazienti non avviati a trapianto del midollo osseo Radioterapia craniale 12 vs 18 Gy COG MRC/DCOG St. Jude Consolidamento BFM COG MRC/DCOG MRC NOPHO Terapia SNC BFM GO: gemtuzumab ozogamicina; ADE: citarabina, daunorubicina ed etoposide; FLAG-IDA: fludarabina, citarabina, GCSF e idarubicina; 2-CDA: 2 chloro-desossiadenosina. TABELLA 4 - Principali quesiti randomizzati dei principali trials clinici di fase III condotti a livello internazionale per il trattamento delle LMA pediatriche (escluse la LPA e la DS LMA) (Modificata da Ref. 4. Riprodotta con il permesso dell’editore proprietario). cato il concetto di terapia mirata somministrando 2-CDA (4) (infatti sebbene siano pochi i casi è stata riportata una aumentata sensibilità alla 2-CDA nei casi di LMA M5 (82, 83). n TRAPIANTO DI MIDOLLO (TMO) L’uso dell’allo-TMO in 1° RC nella LMA è mirato a ridurre il rischio di ricaduta mediante l’uso di un condizionamento a base di chemioterapici usati ad alte dosi (l’uso della TBI si è molto ridotto negli ultimi 10-15 anni) e l’induzione di una graft ver- sus leukemia (GvL) da parte delle cellule midollari trapiantate; l’efficacia della GvL sembra peraltro essere correlata all’induzione di una graft versus host disease (GvHD) clinicamente rilevabile. Per determinare il possibile effetto benefico dell’allo-TMO diversi studi sono stati focalizzati soltanto sulla riduzione del rischio di ricaduta. La mortalità TMO correlata, oggi peraltro piuttosto ridotta rispetto al passato, dovrebbe essere sempre tenuta in considerazione nel riportare i risultati correlati al TMO (4). Il TMO autologo non ha dimostrato con certezza la propria superiorità rispetto alla chemioterapia (84, 86) mentre diversi studi hanno dimostrato la superiorità dell’allo-TMO rispetto alla chemioterapia (87), anche se la riduzione del rischio di ricaduta sembra essere strettamente dipendente dalla efficacia e dalla intensità del braccio di chemioterapia di controllo (88). La maggior parte dei gruppi di studio delle LMA pediatriche ritiene oggi indicato l’allo-TMO in prima remissione completa per i pazienti definiti ad alto rischio (AR) (4, 86). L’AIEOP ha riportato risultati positivi nell’applicazione dell’allo- e dell’autoTMO nella LMA in prima (RC) (85). Per questo motivo, il protocollo attualmente in uso in Italia (protocollo AIEOP LAM 2002) prevede, nell’ambito della strategia terapeutica post remissionale, un ampio uso delle procedure trapiantologiche. In questo protocollo i risultati dei pazienti sottoposti ad TMO sono stati particolarmente favorevoli, con un event-free survival (EFS) del 62% per i 64 pazienti sottoposti ad auto-TMO e del 77% per i 57 pazienti sottoposti ad allo TMO. In quest’ultimo gruppo EFS è stato dell’80% e dell’83% per i 25 ed i 27 pazienti sottoposti ad un TMO da donatore non consanguineo (86). Un problema particolarmente gravoso nell’avviare un bambino con LMA al TMO in 1° RC è rappresentato dalle note sequele che si osservano a lungo termine (soprattutto nei pazienti sottoposti a TMO in età molto bassa e sottoposti a TBI: disturbi endocrini, GVHD cronica, secondi tumori, sterilità, bassa statura, cataratta). Per questo motivo la scelta di sottoporre oggi un paziente ad allo-TMO è oggetto di particolare attenzione. In generale, l’uso dell’allo-TMO in 1° RC non è raccomandato nei soggetti che abbiano fattori prognostici favorevoli quali Inv(16), t(8;21), t(15;17) o nei pazienti con DS (ammesso che sia stata otte- La malattia in età pediatrica nuta la RC). Il TMO da donatore HLA identico non consanguineo (MUD) viene oggi riservato a ristretti sottogruppi di LMA, quali per esempio quelle originate da SMD o con monosomia del cromosoma 7 o le M7 non DS o le LEA o quelle resistenti ai primi due cicli di induzione. Si può infine osservare che con il miglioramento dei risultati e il prolungamento della sopravvivenza è aumentata la necessità di porre attenzione agli effetti collaterali a lungo termine anche del trattamento chemioterapico. In particolare, per i bambini che ricevono la chemioterapia intensiva che comprende dosi cumulative di antracicline particolarmente elevate, è richiesto nel tempo un attento monitoraggio della funzionalità cardiaca. n RECIDIVA Con le moderne strategie terapeutiche il 5-10% circa dei bambini con LMA non ottiene la RC dopo i primi due cicli intensivi di chemioterapia. Un ulteriore 30-35% dei bambini apparentemente in RC dopo l’induzione presenta, in media dopo un anno dalla diagnosi iniziale, una recidiva che nella maggioranza dei casi è localizzata a livello midollare. Per questi pazienti è quindi necessario intraprendere adeguate strategie di salvataggio. La prognosi per un bambino con LMA recidivata o resistente è particolarmente grave con una sopravvivenza globale non superiore al 30%; tale risultato è anche peggiore nei pazienti che presentano una recidiva precoce, entro cioè un anno dalla diagnosi iniziale. Il tipo e l’efficacia del trattamento di seconda linea risultano estremamente variabili, dipendendo soprattutto del tipo di trattamento che il paziente ha ricevuto nel protocollo front-line, incluso l’eventuale TMO. Nei pazienti recidivati dopo un allo-TMO la possibilità di guarigione sono minime. Gli schemi di trattamento delle recidive che includono citarabina, mitoxantrone, etoposide, idarubicina e fludarabina (in generale tutti somministrati ad alte dosi) e consentono ancora di ottenere la seconda remissione completa nel 50%-70% dei casi. Un allo TMO viene generalmente eseguito nei soggetti che ottengono una seconda remissione completa con risultati finali di disease free survival (DFS) intorno al 30-40%. Le sperimentazioni cliniche in atto includono anche il ricorso a nuovi chemioterapici e/o a nuovi agenti biologici e/o l’uso di TMO anche da donatore volontario non familiare o aploidentico (91, 93). In ambito internazionale uno sforzo cooperativo in questo campo è stato effettuato dall’International BFM study group con il protocollo di fase III denominato Relapsed AML 2001/01 nel quale un trattamento convenzionale FLAG (fludarabina 30 mg/m2/die x 5 gg, ARA-C 2 g/m2/die x 5 gg, e G-CSF 200 µg/m2/dose x 6 gg, a partire dal g-1) nel primo ciclo di reinduzione è stato randomizzato contro FLAG + daunorubicina liposomiale (DNX 60 mg/m2/die nei gg 1, 3 and 5). Il secondo ciclo consisteva per tutti i pazienti di un ciclo FLAG. Un auto o allo-TMO da donatore familiare o non familiare era indicato per tutti i pazienti che raggiungevano la RC. Non erano eleggibili i pazienti con età >18 anni e quelli con LPA. Di particolare rilievo il fatto che in questo studio sono stati arruolati pazienti provenienti da circa 200 centri situati in 20 paesi diversi. Dal Giugno 2002 all’Aprile 2009 sono stati randomizzati 394 pazienti. Il significato prognostico di una favorevole risposta precoce al trattamento è risultato evidente con una probabilità di survival a 4 anni del 45% (SE 3%) per i good responders (pazienti con quota blastica <20% dopo i primi 2 cicli di terapia) e del 10% (SE 3%) per i poor responders (p<0.0001). I pazienti randomizzati per FLAG + DNX hanno presentato una percentuale di good response dell’81% vs il 69% (p=0.009). Né il pattern di tossicità né l’overall survival osservati nei due bracci sono peraltro risultati statisticamente differenti. Dai risultati di questo importante studio si può concludere che le LMA recidivata dall’età pediatrica può ancora essere trattata con successo in una discreta quota di pazienti, soprattutto in quelli che mostrano una favorevole risposta precoce al trattamento (90-93). n LEUCEMIA ACUTA PROMIELOCITICA (LPA) È un sottotipo di LMA classificato come M3 secondo il sistema FAB e rappresenta circa il 4-8% delle LMA pediatriche (94). Nelle popolazioni di origine ispanica o latina tale incidenza raggiunge anche il 25-30% (95). Le cellule promielocitiche sono carat- 87 88 Seminari di Ematologia Oncologica terizzate da nuclei bi-lobati e da corpi di Auer, e sono fortemente mieloperossidasi (MPO) positive. Esiste una variante di M3 (M3v - 25% delle LPA) caratterizzata da microgranuli nel citoplasma: sotto il profilo clinico tale forma è caratterizzata da iperleucocitosi e da grave coagulopatia, di solito presente già al momento della diagnosi. La diagnosi può essere effettuata mediante esame morfologico dello striscio di sangue midollare ma deve essere confermato da dimostrazione della t(15;17) mediante citogenetica convenzionale, FISH o reverse transcription-polymerase chain reaction (RT-PCR) (42), analisi immunoistochimica con anticorpi anti PML che evidenziano un particolare pattern nucleare delle proteine PML determinato dalla traslocazione t(15;17) dei blasti promielocitici o mediante analisi dell’immunofenotipo con citofluorimetria (96). L’esordio di LPA rappresenta un’emergenza ematologica. La mortalità alla diagnosi e durante l’induzione, principalmente per complicanze emorragiche, è più elevata in questo sottotipo di LMA che non nelle altre categorie FAB. Il 5% dei pazienti muore entro le prime ore dall’esordio a causa di una emorragia, mentre un ulteriore 5% decede entro la prima settimana dall’esordio. L’introduzione dell’acido all-trans retinoico (ATRA) ha profondamente rivoluzionato la prognosi di questa patologia, riducendo il rischio di emorragie legato in particolare alla CID (coagulopatia intravascolare disseminata) in atto. Proprio per questo motivo, la terapia con ATRA viene generalmente iniziata senza attendere la conferma della traslocazione, il giorno stesso dell’ipotesi diagnostica di LPA (96, 97). Il trattamento chemioterapico è caratterizzato da una terapia di induzione, due-tre cicli di consolidamento, e una prolungata fase di mantenimento. In tutte le fasi di chemioterapia è prevista la somministrazione di ATRA. In induzione l’associazione ATRA-antraciclinici riduce il rischio di recidiva rispetto alla somministrazione esclusiva di ATRA e l’incidenza di sindrome da ATRA. Questa sindrome è caratterizzata da febbre, aumento di peso, distress respiratorio e versamento pleurico e pericardico. Insorge in circa il LPA trattati con ATRA (98). In questo caso deve essere iniziato un trattamento con desametasone fino a scomparsa della sintomatologia. La valutazione della risposta precoce al trattamento, a differen- za di ciò che avviene per gli altri sottotipi di LMA, nei pazienti affetti da LPA che ricevono ATRA rimane scarsamente informativa infatti è tipica una lenta clearance della quota blastica: il midollo osseo 14-21 giorni dopo l’inizio della terapia può dimostrarsi relativamente ipercellulare e fino a 40-50 giorni dopo possono essere evidenziati blasti in corso di maturazione o promieloiciti atipici. Anche lo stato post induzione della PCR non correla con l’outcome in questi pazienti (96). L’uso intensivo e prolungato dell’ATRA, in combinazione con la chemioterapia, ha migliorato la sopravvivenza delle LPA dal 30-40% dagli anni 80 agli attuali al 70%-80% sia nei bambini che negli adulti (99, 100). Il monitoraggio della MRM mediante PCR quantitativa (RQ PCR) del trascritto PMLRARα consente di identificare ricadute molecolari di malattia che andrebbero trattate prima di raggiungere la recidiva morfologica (101, 102). Ci sono infatti evidenze che la persistenza di malattia molecolare dopo il consolidamento o l’aumento del livelli del trascritto alla RQ PCR indichino la ricaduta molecolare che possa evolvere verso una franca ripresa clinica della malattia (103). Questo consentirebbe di evitare le temute alterazioni della coagulazione associate alla patologia e di ridurre il rischio di mutazioni secondarie (4). L’arsenico triossido (ATO) è un agente molto attivo sui blasti di LPA e sembra rappresentare una nuova ed efficace arma contro la LPA. Studi clinici controllati hanno dimostrato che l’uso dell’ATO in caso di recidiva molecolare o conclamata di LPA ha permesso eccellenti risultati sia sul piano molecolare che ematologico (104). Le recidive di LPA sono trattate quindi con chemioterapia di reinduzione, frequentemente associata ad ATRA e/o ATO e successivamente TMO. Dati preliminari sembrerebbero sostenere l’ipotesi che un TMO autologo effettuato durante la fase di remissione molecolare possa determinare una duratura sopravvivenza libera da malattia senza le complicanze legate a un TMO allo genico (105). Sono attualmente in corso anche studi mirati a valutare l’uso dell’ATO come terapia front-line delle LPA (106). Tra il 1993 ed il 2000, il Gruppo Italiano per le Malattie Ematologiche dell’Adulto (GIMEMA) e l’AIEOP hanno condotto un comune protocollo per il trattamento della LPA denominato AIDA. I risultati hanno dimostrato che il 96% dei 107 pazien- La malattia in età pediatrica ti di età <18 anni sottoposti ad una fase di induzione basata sull’uso di ATRA ed Idarubicina ottiene la CR ematologica con un pattern di tossicità particolarmente favorevole. La overall survival (OS) e l’event-free survival (EFS) (43) a oltre 10 anni sono risultati rispettivamente dell’89% (95% CI: 83%-95%) e del 76% (CI: 65%-85%). La conta leucocitaria è risultata di notevole impatto sulla prognosi (i pazienti con GB alla diagnosi ≥10.000/mm3 vs <10.000/mm3 hanno ottenuto un EFS a 10 anni rispettivamente del 59% vs 83%). Il miglior tipo di mantenimento è risultato quello caratterizzato da un prolungato uso (2 anni) di chemioterapia (6mercaptopurina + methotrexate) e di ATRA (98). È importante sottolineare che l’esperienza e la competenza sviluppata in Italia nell’ambito della LPA dell’età pediatrica ha determinato l’affidamento al gruppo AIEOP, nell’ambito del gruppo cooperativo denominato International BFM Study Group, del disegno e della conduzione di uno studio sulla LPA (che è denominato ICC APL Study 01) al quale hanno aderito numerosi gruppi cooperativi europei, extraeuropei ed anche nordamericani. Lo studio è finalizzato ad una riduzione dell’uso di antracicline ed alla stratificazione dei pazienti, sulla base della conta leucocitaria, in rischio standard (SR) (<10.000/mm3) od AR (≥10.000/mm3). L’ATRA è utilizzato durante tutte le fasi di trattamento, mentre dosi intermedie di citarabina sono utilizzate durante la fase di consolidamento post-remissionale. I pazienti SR ricevono solamente 2 cicli di consolidamento mentre i pazienti AR ne ricevono 3. È prevista una fase di mantenimento di 2 anni con 6-mercaptopurina, methotrexate ed ATRA. Lo studio prevede un intensivo monitoraggio del trascritto molecolare PMLRARα e sulla base della sua positività sono previsti interventi terapeutici di rescue ed anche l’uso del TMO. Il protocollo ICC APL Study 01 è già aperto al reclutamento dei pazienti. n IL TRATTAMENTO DELLA LMA NELL’ESPERIENZA DELL’AIEOP Il periodo dal 1982 al 2002 (protocolli LAM82, -87, -87M e -92) Dal 1982 in poi l’AIEOP ha condotto nella LMA dell’età pediatrica 4 studi consecutivi, chiamati LAM-82, -87, -87M e -92. Il trattamento d’Induzione dei primi tre studi consisteva nel classico schema 3+7 (daunorubicina 3 giorni + citarabina 7 giorni) mentre nello studio -92 i pazienti venivano trattati con due cicli di induzione ICE (idarubicina + citarabina + etoposide). I pazienti con LPA erano inclusi solamente nei primi due studi. Il trattamento postremissionale era di diversi tipi, nei primi studi non particolarmente intenso mentre successivamente fu applicato con sempre maggiore frequenza una procedura trapiantologica. I risultati a 5 anni ottenuti nei pazienti trattati nei vari protocolli è riportato nella tabella 5. In particolare, nei protocolli LAM-82, -87 ed -87M risultava abbastanza simile fra di loro mentre nello studio LAM-92 è risultato significativamente migliore dei precedenti (P<0.005). In questo studio l’TMO allogenico od autologo venne effettuato in oltre il 75% dei pazienti (107). Il protocollo AIEOP LAM 2002 L’esperienza derivata dai protocolli condotti in Italia dall’AIEOP tra il 1982 e la fine degli anni ’90 ha ispirato le linee di stratificazione e trattamento dell’attuale protocollo AIEOP LAM 2002 che non prevede peraltro l’arruolamento dei pazienti con LPA e di quelli con DS per i quali sono previsti specifici protocolli. La strategia chemioterapica post-remissionale ha attinto da blocchi di chemioterapia consolidati derivati dall’esperienza BFM. Nel protocollo AIEOP LAM 2002 i pazienti vengono stratificati in due gruppi, rischio standard (SR, i.e. presenza del trascritto di fusione AML1-ETO oppure di anomalie della regione CBF-β che abbiano ottenuto la RC dopo il primo ciclo di induzione) e AR (tutti gli altri pazienti). Per tutti i pazienti sono pre- Protocollo AIEOP No. pazienti No. eventi pEFS a 5 anni LAM 82 LAM 87 LAM 87M LAM 92 LAM 2002 171 151 77 160 205 122 111 65 74 91 0.31 0.27 0.16 0.54 0.55 pEFS = Probabilità di Event Free Survival TABELLA 5 - Probabiltà di EFS a 5 anni per i pazienti reclutati nei protocolli AIEOP LAM 82-87-87M-92 (107) e LAM 2002 (89). 89 90 Seminari di Ematologia Oncologica visti due cicli ICE seguiti da due ulteriori cicli denominati AVE (citarabina ad alte dosi + etoposide) ed HAM (citarabina ad alte dosi + mitoxantrone). I pazienti SR concludono poi il trattamento con un ciclo di HD-ARA-C (citarabina ad alte dosi) mentre i pazienti AR sono sottoposti ad un allo-TMO da fratello HLA identico (ove disponibile) oppure da un TMO autologo con purificazione in vitro effettuata con mafosfamide. L’allo-TMO da donatore HLA identico non correlato è indicato solamente per i pazienti con LMA M7 o con età inferiore ad 1 anno cui viene attribuita una prognosi particolarmente negativa. Il regime di condizionamento prevede l’uso di busulfano, ciclofosfamide e melfalan. Tra il 12/2002 ed il 12/2007, 205 bambini con nuova diagnosi di LMA sono risultati eleggibili e valutabili per il trattamento; di questi 34 (16%) e 171 (84%) sono stati assegnati ai gruppi SR ed AR, rispettivamente. L’82% dei 205 pazienti ha ottenuto la RC dopo l’induzione, con una mortalità del 4,3% ed una percentuale di resistenti dell’11,7%. Il 35% dei pazienti ha presentato una recidiva. Con un follow-up mediano di 43 mesi (range 4-86), la probabilità di OS e di EFS a 5 anni sono stati rispettivamente del 70% e 55% (Tab. V), mentre nei pazienti SR è stata del 97% e del 78% e nei pazienti AR è stata del 64% e 50% rispettivamente. I risultati di questo protocollo relativamente agli aspetti trapiantologici sono già stati riportati nella specifica sezione dedicata al TMO. I risultati globali riportati con il protocollo AIEOP LAM 2002 sono oggi da considerarsi favorevoli ed hanno raggiunto l’obiettivo di EFS prefissato al momento all’apertura del protocollo; inoltre attualmente questo protocollo unifica il trattamento previsto per una LMA diagnosticata nell’età pediatrica su quasi tutto il territorio nazionale (89). Nota Gli studi AIEOP per la LMA sono stati coordinati negli anni ’80 e ’90 dal Prof. Franco Mandelli (Cattedra di Ematologia-Università La SapienzaRoma) mentre a partire dall’anno 2001 il coordinamento è stato affidato al Prof. Andrea PessionPoliclinico S. Orsola-Bologna coadiuvato da un Comitato Scientifico composto da: Prof. Fiorina Casale (Napoli), Dott.ssa Franca Fagioli (Torino), Prof. Franco Locatelli (Pavia), Dott. Luca Lo Nigro (Catania), Dott. Matteo Luciani (Roma), Dott. Giuseppe Menna (Napoli), Dott.ssa Concetta Micalizzi, (Genova), Dott.ssa Caterina Putti (Padova), Dott. Carmelo Rizzari (Monza), Dott. Nicola Santoro (Bari) e con la consulenza di: Prof. Andrea Biondi (Monza), Prof. Giuseppe Basso (Padova), Dr.ssa Anna Maria Testi (Roma Ematologia), Dr. Roberto Rondelli (Bologna). Gli studi AIEOP per le LPA sono stati coordinati fino ai primi anni dopo il 2000 dal Prof. Franco Mandelli in collaborazione con la Dr.ssa Anna Maria Testi, (Cattedra di Ematologia-Università La Sapienza-Roma) ed in cooperazione con il GIMEMA per lo studio AIDA. L’attuale coordinamento del nuovo protocollo internazionale (ICC APL study 01 dell’International BFM Study Group) per le LPA è affidato ad un Comitato Internazionale di cui fanno parte la Dr.ssa Anna Maria Testi ed il Prof. Andrea Pession. n CONCLUSIONI E PROSPETTIVE FUTURE Il trattamento della LMA infantile sembra aver raggiunto risultati apprezzabili e collocabili oggi, con le moderne strategie di cura adottate in molti gruppi cooperativi internazionali, intorno al 60-65% di sopravvivenza a 5 anni. Esiste oggi la ragionevole convinzione che nei pazienti a SR il risultato dell’80% di EFS sia un obiettivo acquisito ma che non possa essere ulteriormente migliorato aumentando l’intensità del trattamento se non rischiando un surplus di tossicità che potrebbe risultare alla fine intollerabile. Anche nei pazienti ad AR la tossicità legata al trattamento sembra essere già massimale per cui gli eventuali miglioramenti futuri non potranno che essere legati in questi pazienti all’adozione di strategie così diversificate: 1. uso sempre più attento e tempestivo della terapia di supporto; 2. individuazione sempre più precisa del rischio di ricaduta dei pazienti utilizzando gli ormai numerosi markers citogenetici e molecolari presenti all’esordio; 3. monitorizzazione della MRM per effettuare interventi di rescue precoci; 4. scelta attenta delle strategie trapiantologiche, anche innovative, più consone al rischio di recidiva; La malattia in età pediatrica 5. uso precoce di agenti terapeutici di nuova generazione. Tra questi ultimi vanno ricordati gli ormai numerosi farmaci aventi targets biologici specifici della cellula leucemica come per esempio gli inibitori delle tirosin kinasi, gli inibitori di FLT3 o gli anticorpi monoclonali come quello contro il CD33 (GO) (108), oppure chemioterapici di tipo più convenzionale ma apparentemente di maggiore efficacia e selettività come la clofarabina (109). Anche nelle LPA esiste la più che promettente possibilità di utilizzare a breve ed in maniera più estensiva anche nell’età pediatrica l’ATO (108-110) che sembra avere notevoli capacità sinergiche con l’ATRA. Tutti questi agenti, che sono già in fase avanzata di utilizzazione nell’età adulta, sono attualmente in fase di avanzata sperimentazione (fasi I e II-III rispettivamente) anche nell’età pediatrica. Certamente restano ancora aperti molti quesiti tra i quali quando ed a quali pazienti proporre questo tipo di terapie, quali e quante anomalie citogenetiche utilizzare nella stratificazione iniziale dei pazienti, quanto essere precoci nel giudicare una malattia anche minimamente “resistente” ed essere autorizzati ad intraprendere terapie innovative basate su esperienze e risultati ancora numericamente limitati. Numerosi studi sono attualmente in corso da parte di gruppi cooperativi pediatrici per tentare di dare una risposta a queste domande. n BIBLIOGRAFIA 1. Smith MA, Rubinstein L, Anderson JR, Arthur D, Catalano PJ, Freidlin B, et al. Secondary leukemia or myelodysplastic syndrome after treatment with epipodophyllotoxins. J Clin Oncol. 1999; 17: 569-77. 2. Stevens RF, Hann IM, Wheatley K, Gray RG. Marked improvements in outcome with chemotherapy alone in paediatric acute myeloid leukemia: results of the United Kingdom Medical Research Council’s 10th AML trial. 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