La filosofia di Platone

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Etica: Platone e Epicuro
a cura di Enzo Galbiati
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Per iniziare
Ringraziamenti (in particolare l’Amministrazione comunale e il
Gruppo Amici e amiche della Filosofia) e presentazione
Premessa:
Lasciare a casa i problemi e le ansie e i dolori …
Ascoltare, domandare e leggere.
Per tutti? Per alcuni?
Aperto a tutti e comprensibile a tutti a patto che:
• Pazienza, molta pazienza, molta molta pazienza;
• Capacità di ascoltare, di porre e di porsi le domande;
• Voglia di apprendere, curiosità per la conoscenza (scienze
umane – filologiche e scienze naturali – esatte).
Il metodo: ascolto, dialogo continuo, studio, lettura...
Libri di testo (vedi bibliografia) e gli affreschi della Stanza della
Segnatura di Raffaello Sanzio.
Platone: le opere
Di Platone ci è giunto tutto. A parte una trentina di epigrammi e il frammento di
un carme in esametri, quasi certamente spuri, il corpus platonico consta di 36
scritti a carattere filosofico che ci sono giunti distribuiti in nove tetralogie (gruppi
di quattro), secondo una schema tradizionalmente attribuito all'erudito Trasillo di
Alessandria (I secolo d.C.) che le aveva suddivise seguendo un'affinità di
argomento. Delle 36 opere, 34 sono dialoghi; una, l‘ "Apologia di Socrate",
riporta in forma immaginaria l'autodifesa pronunciata da Socrate davanti ai
giudici, mentre l'ultima consiste in una raccolta di tredici lettere . Ecco l'elenco
completo delle 9 tetralogie (in grassetto corsivo gli scritti ritenuti autentici):
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere.
Moltissimi dubbi ed ipotesi interpretative sulla cronologia e l’autenticità dei
dialoghi. Un excursus sulla vita di Platone può forse chiarire alcuni aspetti.
Platone: la vita (1)
Platone nasce ad Atene nel 428 o nel 427 avanti Cristo del «settimo giorno
del mese di Targelione [corrispondente alla fine maggio o all’inizio di
giugno del nostro calendario] nel mese in cui i Delii dicono sia nato Apollo»
(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III 1). Il padre Aristone sembra
discendesse da Codro (antico re di Atene). La madre Perictione è figlia di
Glaucone il vecchio, fratello di Crizia (esponente di spicco dei Trenta
Tiranni) nonché parente di Solone.
Da Aristone e Perictione nascono, oltre a Platone, Adimanto,
(entrambi sono interlocutori nel dialogo Repubblica), Potone
madre di Speusippo il quale succederà a Platone nella
dell’Accademia). Rimasta vedova, Perictione sposa
ambasciatore ateniese in Persia ed intimo amico di Pericle.
Glaucone
(che sarà
direzione
Pirilampo,
Questo l’ambiente in cui è cresciuto Platone, il cui vero nome sembra sia
stato Aristocle come quello del nonno: Platone è un soprannome, datogli
più tardi scherzosamente dal maestro di ginnastica alludendo forse alla
sua «ampia» (dal greco πλατύς = platùs) costituzione fisica: «sostengono
altri che egli prese il nome di Platone per l’ampiezza del suo stile; o perché
vasta era la sua fronte» (Vite dei filosofi, III 4).
[segue]
Platone: la vita (2)
La sua è l’educazione data agli altri nobili giovani del V-IV secolo di Atene:
ginnastica e musica, e poi i ginnasi (dal greco γυμνάσιον = gymnasiun nel
senso di «fare esercizi ginnici»: nell’antica Grecia, originariamente luogo
dove i giovani si esercitavano, nudi, nei giochi atletici, e in seguito anche
centro di educazione spirituale e di ritrovo, in cui si tenevano banchetti,
feste, rappresentazioni teatrali, lezioni, conferenze) e i simposi in cui si
discuteva di cultura in generale.
Diogene ci racconta che: «sembra abbia partecipato a gare di lotta e che
abbia studiato pittura e scritto poesie, prima ditirambi [nella letteratura
classica greca, genere di poesia lirica corale, che celebrava
originariamente Dioniso e il culto dionisiaco; i ditirambi, scritti in metri varî,
erano cantati da un coro che danzava in cerchio, accompagnato dalla
musica], poi anche canti lirici e tragedie […]: ma dopo aver ascoltato
Socrate, mentre si accingeva a partecipare con una tragedia all’agone,
dinanzi al teatro di Dioniso, bruciò l’opera» (Vite dei filosofi, III 5).
Sempre Diogene ci riporta che, in merito alla sua formazione filosofica,
sembra che Platone abbia dapprima meditato sulla filosofia eraclitea e
che, dopo il decisivo incontro con Socrate, abbia da un lato risentito
dell’insegnamento di Cratilo eracliteo e dall’altro lato di Ermogene
Parmenideo (Vite dei filosofi, III 5-6).
[segue]
Platone: la vita (3)
Questo aspetto spiegherebbe anche perché Platone non faccia cominciare
la filosofia con Talete, Anassimandro ed Anassimene, bensì con
Parmenide ed Eraclito: da problemi cioè relativi alla questione del «dire»,
ovvero scaturenti dalla domanda socratica relativa alla «definizione».
409 - 407: sono gli anni della sua efebìa [dal gr. ἐϕηβία, der. di ἔϕηβος
«efebo»: istituzione dell’antica Atene in base alla quale i giovani liberi,
all’età di 18 anni, venivano iscritti nelle liste di leva, e, dopo aver ricevuto
sotto la sorveglianza di speciali magistrati elettivi un’educazione militare,
letteraria e musicale, prestavano servizio nella difesa delle frontiere per un
anno o due, dopo di che l’efebia era terminata e gli efebi prendevano posto
tra gli altri cittadini]: sembra partecipi alle tre campagne militari ateniesi di
Tanagra, Corinto e Delio.
408: anche se fin da bambino Platone deve avere sentito parlare di
Socrate in casa da Crizia e da tutti i suoi parenti, sembra che egli sia
entrato in contatto con Socrate nel 408 circa (Vite dei filosofi, III 6).
Socrate e la sua vita, la sua problematica e il suo insegnamento volto
a far «pensare», a essere «se stessi», sono la via segnata di Platone:
di qui anche gli accostamenti a Eraclito – Protagora e a Parmenide –
Zenone -Gorgia.
[segue]
Platone: la vita (4)
404 – 399: la disfatta di Atene alla conclusione della guerra del Peloponneso
nel 404 e l’ingiusta morte di Socrate nel 399 – mal visto dai Trenta Tiranni e
poi ucciso dalla democrazia - sono il problema primo e l’impulso a tutto il
filosofare platonico (VII Lettera, 324 b -326 b). Durante il processo di
Socrate, Platone, con altri amici, mette a disposizione la sua persona e i
propri averi, nel caso in cui Socrate, condannato dal tribunale al pagamento
di una multa, non possa pagare (Apologia, 38 b). Platone, presente al
processo di Socrate (Apologia, 34 a e 38 b), è assente, perché malato, il
giorno della morte del maestro (Fedone, 59 b).
399: dopo la morte di Socrate, si reca a Megara, con altri amici del comune
maestro, presso il socratico e parmenideo Euclide di Megara (Vite dei
filosofi, III 6). Dopo qualche tempo si muove per un lungo viaggio che lo
porta a contatto con gli ambienti della cultura contemporanea. E’ allora
probabilmente che conosce il matematico Teodoro di Cirene e il pitagorico
Archita di Taranto, visita Creta, l’Egitto e altri paesi (Vite dei filosofi, III 6).
388 – 387: all’età di 40 anni (VII Lettera, 326 b-c), Platone nel 388 è
sicuramente a Siracusa (polis importantissima per ricchezza ed influsso
politico) presso il tiranno Dionisio il Vecchio e visita, oltre alla Sicilia, anche
l’Italia (entra forse in rapporto di amicizia con Archita di Taranto).
[segue]
Platone: la vita (5)
A Siracusa si lega in amicizia con Dione (cognato di Dionisio) che rimane
affascinato dall’ideale filosofico-politico di Platone (VII Lettera, 326 d- 327
b). Sembra che Dionisio il Vecchio e la corrotta corte siracusana siano
rimasti infastiditi dalle libere e spassionate critiche di Platone tanto che
questi cerca di ritornare ad Atene.
Si dice che la possibilità gli sia data da Dione, che lo fa imbarcare su di una
nave trireme che reca un’ambasciata spartana in Grecia. Ma il comandante
della trireme, per ordine di Dionisio, sbarca Platone all’isola di Egina, allora
in guerra con Atene; si narra che su quel mercato Platone sia venduto come
schiavo. Fortuna vuole che ad Egina si trovi di passaggio Anniceride di
Cirene che lo riscatta e lo rimette in libertà (Vite dei filosofi, III 18-21).
387 – 367: tornato ad Atene nel 387 vi fonda una «scuola», un centro di
studi, di discussioni, di lezioni sì da «far proprio insieme» un modo di
pensare e di vivere (e in questo senso diciamo «scuola» dal latino
«schŏla», che deriva dal greco σχολή [=scholé] nel senso di «fare proprio»,
liberandosi dall’essere presi, dall’essere dominati, dagli affari quotidiani, dal
«negotium», per vivere invece secondo un proprio modo, in «otium»).
Acquistato un parco dedicato all’eroe Academo, a quasi un chilometro di
distanza da Atene, vi pone la nuova scuola che prende il nome di
Accademia, consacrata alle Muse e ad Apollo.
[segue]
Platone: la vita (6)
Festeggiando il giorno leggendario della nascita di Apollo, si festeggia, ad un
tempo, anche il compleanno di Platone.
L’Accademia viene probabilmente istituita da Platone come contraltare della
scuola di eloquenza che Isocrate (oratore ateniese vissuto fra il 436-338,
seguace del sofista Gorgia, che nelle sue orazioni perorò l'unità panellenica in
funzione antipersiana) aveva fondato ad Atene nel 391.
Platone intendeva così contrapporre alla retorica iscocratea e al rapporto
umano e politico costruito su di essa, la dialettica e la scienza come
condizioni prime di una condotta umana e politica basata su criteri
dialettico – scientifici. Il corso di studi e i relativi dibattiti che si svolgevano
nell’Accademia rispecchiavano certamente il «curriculum» delineato nella
Repubblica (matematica, geometria, astronomia, musica / armonia e
dialettica). Coordinato da Platone, l’insegnamento doveva avvenire mediante
discussioni, conferenze, dibattiti, volta a volta retti anche dai discepoli più
anziani (Speusippo, Senocrate, Filippo di Opunte) o da illustri personalità di
passaggio da Atene (Eudosso di Cnido, Teeteto, Teodoro).
A prima della fondazione dell’Accademia risalgono i dialoghi in cui Platone
mette a fuoco la figura di Socrate e la funzione culturale avuta dai Sofisti, in
una ricostruzione della storia della «cultura» filosofico-politica tra l’inizio della
guerra del Peloponneso e la morte di Socrate,
[segue]
Platone: la vita (7)
vedendone tutte le conseguenze nella storia di Atene dal 395 in poi. Tra il 395 e
il 388 egli avrebbe scritto pertanto i cosiddetti dialoghi «socratici» (Apologia di
Socrate, Critone, Ione, Eutifrone, Carmide, Lachete, Liside) e i cosiddetti
dialoghi «sofistici» (Alcibiade I e II, Ippia maggiore, Ippia minore, I libro
della Repubblica o Trasimaco, Menesseno, Protagora, Gorgia, Menone,
Eutidemo, Cratilo). Dal 387 al 367, invece, in seno all’Accademia e in funzione
delle discussioni e dei dibattiti aperti, Platone avrebbe dovuto scrivere quei
dialoghi in cui, da un lato, si chiariscono le condizioni che permettono il giudizio
e la scienza, dall’altro lato come, «sapendo ragionare» e come è bene che
ciascuna scienza trovi le sue fondamenta, è possibile di contro ad un «vivere
privato», un «vivere pubblico e civile»: da qui i cosiddetti dialoghi della
«maturità» (Fedone, Simposio, Fedro, i libri II – X della Repubblica).
367: muore a Siracusa Dionisio il Vecchio; a lui succede al trono il figlio
Dionisio il Giovane. Dione allora, che non ha interrotto i rapporti con Platone,
fidando della vantata liberalità del nuovo Dionisio, invita Platone a recarsi a
Siracusa, nella speranza di potere attuare ora quella riforma che nel 388 non
rimase che un sogno. Platone si mette in viaggio per Siracusa. Senza dubbio
Dionisio il Giovane, molto più del padre, comprende il significato del
platonismo. Ma anche questa volta grave è la delusione. Tra Dione e Dionisio
sorgono contrasti e litigi.
[segue]
Platone: la vita (8)
Anzi Dionisio, sospettando in Dione un ribelle, riesce ad allontanarlo e a
mandarlo in esilio, pur trattenendo presso di sé Platone di cui si proclama
amico e di cui sfrutta i consigli politici. Platone, giovandosi di questa
amicizia, cerca di riconciliare Dione e Dionisio sempre nella speranza di
potere attuare in Siracusa una vera e propria «res-publica» (VII Lettera, 327
b – 330 e).
365 - 361: scoppia in Sicilia una guerra per cui Platone è costretto a tornare
ad Atene. Ha la promessa di Dionisio che alla fine della guerra lo farebbe
tornare a Siracusa insieme a Dione. Tornato ad Atene Platone riprende la
sua attività all’Accademia. Fra il 365 e il 361 porta a termine il Parmenide e
il Teeteto (i primi due dialoghi «dialettici»).
361: Platone è nuovamente a Siracusa ma senza Dione: alla fine della
guerra Dionisio, che probabilmente voleva valersi dei consiglio di Platone, lo
persuade al nuovo viaggio, assicurandogli che solo la sua presenza a
Siracusa lo avrebbe indotto a richiamare in patria Dione, anche se in un
secondo tempo. L’amicizia per Dione e la speranza di attuare il sogno
politico lo convincono ad accettare. Altra delusione: Dionisio si mostra
sempre più nemico di Dione e contro di lui prende sempre più gravi
provvedimenti.
[segue]
Platone: la vita (9)
Platone apertamente difende Dione, tanto che pessimi divengono i suoi
rapporti con Dionisio. Si arriva al punto che Dionigi tiene prigioniero Platone
mettendone a rischio la vita. Lo salva l’intervento di Archita di Taranto, amico
di Dionisio il Vecchio e di Platone ed in buoni rapporti con Dionisio il Giovane,
che riesce a farlo partire da Siracusa nel 360 (VII Lettera, 337 e – 350 b).
360: passa per Olimpia dove incontra Dione. Lo dissuade dal volere muovere
guerra a Dionisio. Nello stesso 360 rientra ad Atene, da dove non si muove
più. Dal 360 in poi scrive il Sofista, il Politico, il Filebo, il Timeo, il Crizia e
Le Leggi, quest’ultime rimaste non rifinite e che saranno ordinate in 12 libri e
pubblicate dall’allievo academico Filippo di Opunte.
353: se, come molti oramai ritengono, la VII Lettera è opera di Platone, essa
dovrebbe essere scritta ai Siracusani dopo la morte di Dione (avvenuta nel
353) il quale, dopo essersi impadronito di Siracusa nel 357, viene assassinato
durante una congiura da Callippo, un ateniese sedicente discepolo di Platone.
Ogni sogno politico è ormai svanito: la VII Lettera è una testimonianza a
posteriori che Platone da di se stesso, della sua formazione, della sua
problematica filosofica e del suo impegno filosofico e civile.
348 – 347: Platone muore ad Atene ad ottant’anni circa.
Il metodo dialettico di Platone
Il metodo dialogico, adottato dal suo maestro Socrate, rappresenta la forma di
comunicazione privilegiata da Platone. Dei 36 scritti a lui attribuiti, infatti, più di
trenta sono in forma di dialogo. La predilezione platonica per questo metodo, oltre
ad essere un chiaro segno di continuità e di stima nei confronti di Socrate e della
sua arte maieutica, nasconde soprattutto un profondo significato filosofico.
La forma dialogica rispecchia per Platone il modo corretto che l’essere umano
ha a disposizione per avvicinarsi alla verità; un modo basato su un
procedimento di tipo argomentativo-persuasivo, in cui ogni opinione possa e debba
essere argomentata, accettata o confutata, e in cui lo stesso lettore sia stimolato a
farsi un’idea propria dell’argomento in questione. L’orientamento etico-politico,
che permea l’intera opera platonica, risulta qui evidente: solamente chi si
convince spontaneamente di una certa idea, sarà anche stimolato ad agire di
conseguenza, in accordo con essa.
Inoltre in Platone la tensione verso la verità rappresenta, comunque, un aspetto
centrale del pensiero. La verità va perseguita con serietà e dedizione, ma che è
frutto di una ricerca, con tutta probabilità, infinita. La connaturata limitatezza
dell’essere umano, per lo meno nella sua condizione fisica e temporale e la miriade
di ostacoli che l’uomo incontra nel suo cammino verso la verità rendono possibile
soltanto una conoscenza del vero che è parziale, approssimativa, mai definitiva e
tuttavia incrementabile all’infinito. Il metodo dialogico-dialettico, privilegiato dal
filosofo greco, non è che la logica derivazione di questo concetto di verità.
La funzione del mito (1)
Oltre al dialogo, una caratteristica peculiare di Platone nella sua esposizione della sua
filosofia consiste nella reintroduzione, con la sua opera, del mito, quale forma di
conoscenza tradizionale e popolare che, cronologicamente, precedeva di molto la
nascita della filosofia greca. Platone ha un atteggiamento diversificato nei confronti del
mito, che ritiene vada rivalutato in quanto utile, e anzi necessario, alla comprensione.
Esso va infatti inteso come esposizione di un pensiero ancora nella forma di racconto,
quindi non come ragionamento puro e rigoroso.
Il mito ha una funzione allegorica e didascalica, presenta cioè una serie di
concetti attraverso immagini che facilitano il significato di un discorso piuttosto
complesso, cercando di renderne comprensibili i problemi, e creando nel lettore
una nuova tensione intellettuale, un atteggiamento positivo nei confronti dello
sviluppo della riflessione.
Il mito ha così una doppia funzione: da un lato è un semplice espediente didatticoespositivo, retorico in senso proprio, di cui Platone fa uso per comunicare in
maniera più accessibile e intuitiva le sue dottrine.
Dall'altro è un mezzo per superare quei limiti oltre i quali l'indagine razionale non
può andare. I racconti mitici platonici toccano le questioni fondamentali dell'esistenza
umana, come la morte, l'immortalità dell'anima, la conoscenza, l'origine del mondo, e
le collegano strettamente ai temi e ai discorsi logico-critici, a cui il filosofo affida il
compito di produrre una conoscenza e una rappresentazione vere della realtà.
I miti più importanti che si possono riscontrare nell'opera platonica sono
approssimativamente i seguenti:
[segue]
La funzione del mito (2)
Mito della reminiscenza (Menone, 80 d – 81 e)
Mito dell'insoddisfazione del dissoluto (Gorgia, 493 a – 494 a)
Mito del giudizio delle anime (Gorgia, 523 a – 527 e)
Mito dell'immortalità dell'anima (Fedone, 107 c – 115 a)
Mito di Aristofane o dell'androgino (Simposio, 189 c – 193 e)
Mito della nascita di Eros (Simposio, 203 b – 206 a)
Mito di Gige (Repubblica, 359 d – 360 d)
Mito della caverna (Repubblica, 514 a – 519 a)
Mito di Er (Repubblica, 614 a – 621 d)
Mito del carro e dell'auriga (Fedro, 246 a – 249 b)
Mito di Theuth o dell’invenzione della scrittura (Fedro, 274 c – 277 a)
Mito dei cicli cosmici (Politico, 268 e – 274 e)
Mito di Atlantide (Crizia, 108 e – 113 b)
Mito del Demiurgo (Timeo, 29 e – 31 b)
Mito dell'anima del mondo (Timeo, 34 c – 37 c)
Mito delle specie mortali (Timeo, 40 d – 42 e)
Mito del ciclo delle incarnazioni (Timeo, 89 e – 92 c)
Mito della provvidenza divina (Leggi, X 903 b – 905 d)
La filosofia di Platone (1)
Più che un corpo sistematico di dottrine, la filosofia di Platone è un complesso
di problemi soggetti a una continua evoluzione ed elaborazione dialettica.
Nei dialoghi giovanili (detti anche «socratici»), Platone appare totalmente
impegnato ad approfondire le tipiche problematiche socratiche: le tesi
sull'identità di virtù e scienza, sulla determinazione di tale scienza come
«scienza del bene e del male in generale», sull'insegnabilità della virtù, sul
potere di attrazione, rispetto alla volontà, del bene, che si rivela quindi anche
come ciò che è sommamente piacevole ed utile (eudemonismo),
sull'involontarietà del male, ecc. >>> Si rivedano gli appunti su Socrate.
Tuttavia, proprio dalla riflessione su queste tesi socratiche cominciano a
sorgere problemi nuovi. Innanzitutto Platone avverte come quei valori, di cui
era andato in cerca Socrate (bene, giustizia, virtù, coraggio, ecc.), non
possono pretendere di avere quella stabilità e universalità che è loro richiesta
se non sono concepiti come «realtà» che, al contrario di ciò che cade sotto i
sensi, non muta e non perisce. Di qui la «crisi» del socratismo che si
manifesta nel Menone e nel Gorgia, il primo dei quali esprime l'esigenza di un
nuovo concetto di scienza, come conoscenza di verità eterne acquisita prima
della nascita e riacquistabile in vita con l’anamnesi, mentre il secondo fonda un
rigoroso dualismo tra bene e piacere, tra mondo eterno dei valori e mondo
mutevole delle passioni e dei desideri, tra anima e corpo.
[segue]
La filosofia di Platone (2)
Momento fondamentale per questi sviluppi è l'elaborazione platonica della
dottrina delle forme eterne del reale, nota nella tradizione come «dottrina delle
idee». Strettamente connessa alla ricerca socratica della definizione delle
essenze e dei valori universali, tale dottrina ne rappresenta un'originale e più
vasta articolazione. Che cos'è la dottrina delle idee, alla quale Platone giunge
con la «seconda navigazione» (Fedone, 99 c-101 e)?
La parola ἰδέα (=idea), innanzitutto, deriva dalla radice greca «id» che è a sua
volta riconducibile al verbo «orao» (=vedere): è quindi qualcosa che si può
vedere non con gli occhi, bensì con l'intelletto; la percezione degli oggetti
sensibili risveglia il ricordo delle idee dell'iperuranio (= è quella zona – in
senso metaforico e non fisico - al di là del cielo dove risiederebbero le
idee), le quali permettono di misurare l'inferiorità e la deficienza degli
oggetti sensibili rispetto ad esse.
Il termine «idea» viene tradotto anche con «forma», «aspetto», «esemplare»,
«sostanza» e difatti Platone utilizza indifferentemente i termini greci di ἰδέα,
εἶδος ed οὐσία, ad indicare la forma comune di tutti i concetti, gli oggetti e i
pensieri. Così qualunque oggetto sensibile possa essere detto bello, non
coincide mai con l'idea della bellezza nella sua perfezione ed immutabilità. L'idea
di bellezza è il modello in base al quale possiamo denominare belli determinati
oggetti: infatti è perché già possediamo l'idea di bellezza che possiamo designare
belli questi altri oggetti.
[segue]
La filosofia di Platone (3)
I valori / essenze universali sono certamente necessari per i giudizi morali,
come aveva del resto già precisato Socrate: senza la definizione di bene e di
giusto, infatti, non sarebbe possibile distinguere ciò che è bene da ciò che è
male, ciò che è giusto da ciò che è ingiusto; ma essi sono indispensabili per
la stessa conoscenza della natura: come in tutte le azioni virtuose si
riconosce la presenza di ciò che si chiama virtù, così in una molteplicità
di manifestazioni sensibili riconducibili a un'unità dovrà essere colto ciò
che costituisce l'essenza universale, stabile e immutabile comune a tutte
quelle manifestazioni.
È questa essenza che permette di dire di ciascuna cosa che cosa essa sia
e che cosa la distingue da un'altra. Per esempio: che cosa sia un uomo nella
sua essenza e che cosa distingua un uomo da un cavallo.
Modelli o criteri oggettivi e puramente intellettivi in base a cui poter
pensare, nominare e distinguere le singole realtà che si manifestano nella
conoscenza sensibile, o, anche, termini di paragone a cui confrontare
queste ultime per poterne giudicare con verità, i concetti universali sono
per Platone delle forme od essenze dotate di una propria sussistenza
ontologica: sono enti reali che costituiscono la ragione delle cose. Nei
primi dialoghi Platone aveva presentato l'indagine di Socrate proiettata alla
ricerca di definizioni, ossia di risposte corrette alla domanda:
[segue]
La filosofia di Platone (4)
«Che cos'è bello?» (oppure buono, giusto...). Per Platone la risposta a
questa domanda consiste nel rintracciare l'idea in questione (per esempio
l'idea di bellezza, di giustizia...). L'idea è dunque un «universale»: ciò
significa che i molteplici oggetti sensibili, dei quali l'idea si predica,
dicendoli per esempio belli o giusti, sono casi o esempi particolari
rispetto all'idea: una bella ragazza o una bella casa sono casi particolari
di bellezza, non sono «la» Bellezza.
Mentre gli oggetti sensibili sono caratterizzati dal divenire e dal mutamento,
soltanto delle idee si può propriamente dire che sono stabilmente se stesse;
proprio questa differenza di livelli ontologici, ossia di consistenza di essere,
qualifica le idee come modelli rispetto agli oggetti sensibili corrispondenti.
L'attività di un artigiano, per esempio di un costruttore di letti, è descrivibile
da parte di Platone come un insieme di operazioni che mirano a foggiare un
determinato materiale (in questo caso il legno) secondo il modello dell'idea
del letto, alla quale egli si riferisce costantemente con il suo pensiero.
L'idea è quindi dotata di esistenza autonoma, né dipende per la sua
esistenza dal fatto di poter essere pensata (non è cioè un ente di
pensiero); essa è ciò di cui gli oggetti sensibili partecipano. La
partecipazione all'idea, per esempio, di bellezza rende un determinato
oggetto sensibile bello.
[segue]
La filosofia di Platone (5)
È nell'introduzione di questa dimensione ontologica che consiste
essenzialmente il passaggio dall’eterno interrogare di Socrate all’«idea»
platonica. Il tipo di esistenza che spetta alle idee è tuttavia diverso da quello
delle cose comuni: queste, in quanto soggette al divenire, sono particolari,
contingenti e mutevoli, mentre le idee, in quanto modelli e criteri delle cose
sensibili, sono universali, necessarie ed eterne e godono pertanto di
un'esistenza intelligibile in un mondo ideale.
Eternamente costante nelle sue determinazioni, il mondo ideale
«invisibile» è un mondo eleatico che si oppone a quello eracliteo del
divenire «visibile»; esso è il mondo dell'essere: le idee sono infatti «le
cose che realmente sono».
Il pensiero platonico, centrato com’è sulla teoria delle idee, appare connotato
da un dualismo ontologico di fondo, in base al quale esistono due mondi: uno
materiale, sensibile e soggetto alla legge del mutamento e della corruzione,
l’altro immateriale ed eterno, necessariamente migliore, dal punto di vista
qualitativo, del primo. Fra i due mondi esiste un rapporto di μίμησις
(«mimesis» = imitazione), di μέθεξις («metessis» = partecipazione) o di
παρουσία («parusia» =presenza delle idee nelle realtà sensibili): gli oggetti
sensibili non sono che imitazioni, copie imperfette delle idee corrispondenti,
che rappresentano invece la perfezione della qualità che indicano. [segue]
La filosofia di Platone (6)
Risolto così in una prospettiva ontologica il problema socratico della
definizione, Platone indicava nella contemplazione intellettuale delle idee la
vera scienza, in quanto contrapposta al regno dell‘ «opinione» dell'esperienza
sensibile. In particolare, autentica scienza è la conoscenza delle idee e dei
rapporti reciproci che le collegano in un sistema ordinato.
Non soltanto, infatti, le idee si caratterizzano per l'universalità che consente a
ciascuna di riferirsi a una molteplicità di cose singole; esiste anche un
ordine tra le idee stesse, a seconda del maggiore o minore grado di
universalità che spetta a ciascuna di esse: l'idea di cavallo è compresa in
quella di quadrupede, che abbraccia molti altri individui del mondo animale;
quest'ultima è cioè più estesa della precedente, e più estese ancora sono le
idee di animale e di vivente.
Si dà così una gerarchia di idee che da quella più universale discende
via via verso quelle dotate di sempre minore universalità e, perciò, di
sempre maggiori determinazioni. Ma, soprattutto, attraverso la gerarchia
delle idee Platone dava una nuovo significato alla dialettica (dal greco διάλέγειν = dià - légein = «parlare attraverso»): opponendosi alle degenerazioni
sofistiche che avevano ridotto la dialettica a eristica (arte del vincere in ogni
discussione indipendentemente dalla ricerca della verità), Platone intende la
dialettica come lo strumento supremo della conoscenza, quello [segue]
La filosofia di Platone (7)
in virtù del quale, messi da parte la semplice opinione e ogni riferimento al
mondo sensibile, si ripercorrono i rapporti e i nessi oggettivi tra le idee,
pervenendo alla contemplazione di quella gerarchia delle idee che
costituisce la struttura più autentica della realtà.
Ma affinché l'uomo possa, attraverso il procedimento puramente intellettivo
della dialettica, orientarsi nella gerarchia e nei rapporti delle idee, è necessario
che egli conosca, o abbia la facoltà di conoscere, ciascuna di queste idee. Dal
momento che esse non sono conoscibili mediante i sensi e che, nondimeno, la
pura attività intellettiva è in grado di intuirle pur attraverso la molteplicità e la
particolarità sensibile, Platone ne conclude che l'anima abbia conosciuto le
idee in un precedente periodo della sua esistenza, allorché, non ancora
congiunta col corpo e vivendo nel mondo immortale dell'Iperuranio ha
potuto contemplare le idee nella loro sede, per poi dimenticare tale
visione nella sua successiva vita terrena. Ma a poco a poco, riflettendo sulle
somiglianze e sulle dissomiglianze delle cose, l'anima è ricondotta al pensiero
dei supremi esemplari verso cui tali somiglianze si orientano, e si ricorda di ciò
che vide. È questa, a grandi linee, la dottrina platonica della ἀνάμνησις
(«anamnesi», «reminiscenza»), quale fonte di ogni conoscenza terrena
delle idee, dottrina che implica da un lato che le idee siano innate
nell'anima, dall'altro che l'anima sia immortale.
[segue]
La filosofia di Platone (8)
Ma essa presuppone inoltre che l'anima possa vivere indipendentemente dal
corpo e che in tale esistenza separata abbia conosciuto verità superiori a
quelle che derivano dai sensi; ed è così un elemento importante di quella
dimostrazione dell'immortalità dell'anima, che nel Fedone è poi data soprattutto
in base all'affinità di natura che l'anima deve avere con le forme eterne perché
possa conoscerle.
Ma poiché l'anima è immortale e la sua vita corporea non è che un provvisorio
e doloroso stato di «prigionia», essa, riacquistata memoria della sua origine e
del suo destino, non desidera che di tornare alla sua sede eterna, sottraendosi
all'esilio terreno.
Da questa concezione deriva una morale caratterizzata da un netto
orientamento verso l'aldilà, che la distacca dalla pratica e terrena
saggezza di Socrate e l'avvicina piuttosto alla religione degli orfici e alla
filosofia dei pitagorici da cui Platone riprende l'idea della «metempsicosi»
(trasmigrazione dell'anima) attraverso varie esistenze corporee, non
soltanto umane, ma anche animali.
Ogni esistenza è determinata dal comportamento morale dell'anima
nell'esistenza precedente: più essa si lega al corpo, cedendo ai suoi desideri e
lasciandosene dominare, più basso, nella gerarchia naturale, è l'organismo
corporeo in cui deve trasmigrare.
[segue]
La filosofia di Platone (9)
Quando invece l'anima giunge a liberarsi dagli interessi corporei, acquista la
capacità di vivere sola e di tornare all'originaria sede sopra celeste, dove
contemplò le idee. Nel suo significato ultimo la filosofia diviene così per Platone
una «preparazione per la morte», volta a liberare l'anima dal corpo.
Ciò si ottiene esercitando sempre più, nella vita terrena, quelle facoltà
dell'anima che meglio corrispondono alla sua natura divina e meno implicano il
suo legame col corpo. Di qui l'importanza, sul piano etico, della stessa
filosofia, concepita come l'attività puramente intellettiva attraverso cui
l'anima si distacca da ogni elemento corporeo.
La filosofia, infatti, in quanto è "amore di sapere", esprime una tendenza
irresistibile a tornare a quello stato contemplativo del mondo ideale
sperimentato dall'anima nella sua vita nel mondo sopra celeste, tendenza
che insorge nell'anima quando in essa si ridesta il ricordo, attraverso
l'ausilio della dialettica, della realtà ideale che costituisce il modello
eterno di quella sensibile.
In questa prospettiva rientra anche la definizione platonica, nei termini di una
tensione dell'anima verso il mondo delle forme ideali, della concezione
socratica dell'attrattiva che la conoscenza dei valori esercita sulla volontà:
l'idea suprema, della cui essenza partecipano tutte le altre, è infatti quella del
Bene.
[segue]
La filosofia di Platone (10)
L’idea del Bene esercita un'attrattiva irresistibile sull'anima, spingendola a elevarsi
sempre di più nel dominio dell'universale. In questa tensione all'ideale e all'eterno,
delineata nel Simposio attraverso la figura del demone Eros, consiste il cosiddetto
«amore platonico», forza che spinge l'anima alla contemplazione della bellezza
ideale e, perciò, data l'inscindibilità di bello e bene, del vero bene.
Se la vita pratica, il mondo dei sentimenti e dei desideri terreni vengono così
confinati dall'etica platonica nella sfera corporea, d'altra parte la morale di Platone
non implica una totale svalutazione dei desideri e degli impulsi che caratterizzano
la vita corporea: si tratta piuttosto di riconoscere la presenza nella stessa anima di
questi elementi, secondo la dottrina psicologica esposta nella Repubblica, e di
mantenerli in uno stato di subordinazione e di equilibrio, in modo che non
ostacolino l'anima nella realizzazione del suo compito morale più elevato.
Nel Fedro Socrate cerca infatti di confutare il paradosso dell’oratore Lisia secondo
il quale bisogna cedere a colui che non è innamorato, poiché l’amore in quanto
passione irrazionale sembra indurre alla rovina, ma le diverse forme di mania
(profezia, divinazione, ispirazione poetica e delirio erotico) sono doni divini e
producono beni. L’anima, naturalmente alata, perde le ali allontanandosi da ciò
che è bello e buono, dalla perfezione dell’iperuranio; l’amore può farle rinascere.
Diversamente dalla retorica, che ha di mira la verosimiglianza e l’opinione della
moltitudine, la dialettica è ricerca della verità; la stessa scrittura, con le sue
tecniche retoriche, è un ostacolo e non un ausilio per chi pratica la filosofia. [segue]
La filosofia di Platone (11)
Come detto, per descrivere la divinità e l’immortalità dell’anima nel Fedro
(246 a – 249 c) Socrate ricorre al mito dell’auriga che deve condurre un
carro alato trainato da due cavalli: l'auriga rappresenta la parte razionale e
intellettiva, quella che conosce la verità e il bene, mentre i due cavalli ne
rappresentano rispettivamente la parte coraggiosa o irascibile, da cui
derivano gli impulsi nobili, e la parte concupiscibile o desiderante, sede degli
impulsi legati alla sfera corporea. In particolare il cavallo bianco raffigura la
parte dell'anima dotata di sentimenti di carattere spirituale e si dirige verso
l'Iperuranio; quello nero raffigura invece la parte dell'anima concupiscibile e si
dirige verso il mondo sensibile.
Il carro alato è diretto verso l‘iperuranio, un luogo metafisico a forma di
anfiteatro dove risiedono le idee. Lo scopo dell'anima, infatti, è contemplare il
più possibile l'Iperuranio e assorbirne la sapienza delle idee. L'auriga quindi
deve riuscire a guidare i cavalli nella stessa direzione, verso l'alto, tenendo a
bada quello nero e spronando quello bianco, in modo da evitare o ritardare il
più possibile il «precipitare» nella reincarnazione. Chi è precipitato subito
rinascerà come una persona ignorante o comunque lontana dalla saggezza
filosofica, mentre coloro che sono riusciti a contemplare l'Iperuranio per un
tempo più lungo rinasceranno come saggi e come filosofi. Questo mito spiega
la reminiscenza ed è riconducibile all'immortalità dell'anima.
[segue]
La filosofia di Platone (12)
La concezione psicologica espressa dal Fedro, oltre che una dottrina morale,
implica anche una dottrina politica. È proprio su questa psicologia, infatti, che,
nella Repubblica, Platone basa la dottrina dello stato ideale diviso nelle tre
classi dei filosofi, che contemplando le idee lo dirigono razionalmente; dei
soldati, o «guardiani», che lo difendono; e degli artigiani / produttori, che ne
assicurano l'esistenza dal punto di vista economico.
Eguali di conseguenza sono le virtù che presiedono a ciascuna delle tre parti
dell'anima e delle tre classi dello stato: rispettivamente la sapienza per i
filosofi-re, il coraggio per i guardiani, la temperanza per gli artigiani, sulle
quali domina poi la giustizia che, facendo operare nel proprio campo
ciascuna parte o classe e impedendole di oltrepassare i limiti delle sue
funzioni, assicura il miglior ordine tanto nella sfera morale quanto in quella
politica. La perfezione dell'anima è così, da questo punto di vista, non
tanto nella negazione ascetica delle passioni, e in genere di ogni attività
non contemplativa, quanto nella subordinazione armonica delle facoltà
inferiori alle superiori.
Analogamente, nello stato non c'è salute se le classi non partecipi della
sapienza non obbediscono a coloro che, più vicini alla verità, meglio degli altri
possono intuire ciò che per lo stato è bene e legiferare e governare in
conformità a tale conoscenza.
[segue]
La filosofia di Platone (13)
Si ha quindi un'assoluta aristocrazia del sapere, da cui deriva un'estensione
dei poteri statali fin sulla proprietà e la famiglia, risolte nell'unica famiglia e
proprietà dello stato. Questo dualismo di politica e ascesi, di interesse fattivo
per il mondo e di orientamento verso l'aldilà, che Platone propriamente non
concilia (nonostante una certa prevalenza del motivo ascetico, dal momento che
la stessa Repubblica culmina in una rappresentazione mistica del destino
oltremondano dell'anima del tutto analoga a quella che chiude il Fedone), si
rispecchia infine, nella forma più tipica, nella negazione del valore dell'arte, che
per Platone non è conoscenza e manifestazione di verità, ma costruzione
fantastica, che dalla verità sempre più si allontana.
E se la singola individualità esistente è imitazione dell'idea, l'artista che
raffigurando o descrivendo la imita produce una realtà che nella gerarchia degli
enti occupa il terzo e infimo grado. Non solo: ma le rappresentazioni della poesia
e dell'arte, agitando nel modo più vivo le forze passionali dell'uomo, rendono più
difficili il loro dominio o la loro eliminazione, e così contrastano il compito
supremo della filosofia. Riferendosi alla divinità la umanizzano, e le attribuiscono
qualità indegne della sua eterna natura.
La riflessione sul tema dell'eleatismo parmenideo sta alla base del profondo
riesame che Platone compie di tutta la sua filosofia negli ultimi dialoghi (i
cosiddetti «dialoghi dialettici», in particolare: Parmenide, Teeteto e Sofista).
La filosofia di Platone (14)
Nel Parmenide si descrive il dialogo fra il vecchio Parmenide, Zenone e il
giovanissimo Socrate, avente come oggetto il problematico rapporto fra l’uno e il
molteplice, donde origina l’aporeticità conseguente sia alla negazione, sia
all’assunzione positiva del molteplice.
I Parte del Parmenide: la dottrina delle idee (127 d -135 c)
Nella casa di Pitodoro, Zenone dà lettura di un proprio scritto in cui, difendendo
le affermazioni del maestro, attacca quanti ammettono la molteplicità degli enti:
se infatti gli enti fossero molteplici, sorgerebbero infinite contraddizioni, col
risultato che di ogni ente si dovrebbe dire che è al tempo stesso uno e
molteplice, simile e dissimile, e via discorrendo. A tale conclusione Socrate però
obietta che i molti possono sì esistere, se partecipano di alcune unità da cui
traggono il nome: per esempio, diciamo «simili» tutte le cose che partecipano di
un’idea della somiglianza.
Non ha dunque senso meravigliarsi che le cose, i molti, siano simili e dissimili
allo stesso tempo; piuttosto ci si dovrebbe meravigliare se il simile in sé
diventasse dissimile, e viceversa (129 a).
Parmenide tuttavia non tarda a mostrare al giovane interlocutore alcune difficoltà
che sorgono da quanto ha appena detto. Non è da escludersi che Platone abbia
voluto rappresentare, per bocca del giovane Socrate, alcune delle sue originarie
considerazioni filosofiche, di cui analizza le possibili contestazioni.
[segue]
La filosofia di Platone (15)
Una prima obiezione, di carattere generale, riguarda la natura delle idee: l'Eleate
si domanda se, accanto alle idee di giusto e bene, uguaglianza e grandezza,
esistano anche quelle di uomo e acqua, o addirittura quelle decisamente ridicole
di capello o fango. Socrate è sicuro per quanto riguarda bontà e grandezza affermando quindi la natura assiologica delle idee, mentre esprime perplessità su
quelle di uomo e acqua, e riconosce l'assurdità delle idee di capello o fango.
Parmenide prosegue allora con altre tre obiezioni più specifiche.
Prima obiezione: la prima difficoltà riguarda la partecipazione dell'idea con
l'oggetto sensibile: «ciascun oggetto che partecipa [di un'idea] partecipa
dell'intera idea o di una parte»? Socrate tenta un paragone con il giorno, che pur
essendo uno illumina varie terre, e con un lenzuolo che copre molti uomini.
Tuttavia, il lenzuolo non potrà essere per intero su ciascun uomo, ma solo per
una sua parte. Se ne deduce che anche l'idea dovrà essere divisa in tante parti,
quante gli oggetti che ne partecipano (130 e -131 e).
Seconda obiezione: Parmenide pone a Socrate una seconda difficoltà
(argomento "del terzo uomo"). Se si pensa che tutte le cose grandi, tra di loro,
abbiano qualcosa che le accomuna, ovvero la partecipazione al grande in sé,
allora è plausibile pensare anche che tutte le cose grandi, a loro volta, abbiano
qualcosa in comune con il grande in sé: ecco apparire una seconda idea di
grandezza, di cui partecipano sia gli oggetti grandi sia l'idea di grande.
[segue]
La filosofia di Platone (16)
Allo stesso modo, è però possibile ipotizzare che vi sia qualcosa che accomuni il grande
in sé, gli oggetti grandi e la nuova essenza appena trovata, ipotesi che porterebbe alla
comparsa di un'ulteriore idea di grandezza, innescando così un processo infinito: «Io
credo che tu sia indotto a concepire ciascun genere delle cose come una unità da
questo: ogni qual volta tu ritieni di trovarti di fronte ad un certo numero di cose grandi, ti
pare, direi, che ci sia un certo aspetto caratteristico, unico e proprio lo stesso, visibile a
chi getta il suo sguardo su tutte e così tu opini che la grandezza sia come tale una unità.
Apparirà quindi un altro genere della grandezza, sorto accanto alla grandezza e alle
altre cose che partecipano di questa, e ce ne sarà un altro in tutte le cose di cui
abbiamo parlato fin qui in ragione del quale tutte queste saranno grandi; e non sarà più
per te uno solo ciascun genere delle cose, ma infinita pluralità» (132 a - b).
Socrate ipotizza allora che le idee possano essere modelli fissi, di cui le cose sensibili
sono solo copie. In questo caso la partecipazione delle cose alle idee consisterebbe
nell'«essere foggiate come immagini di esse», ma così si ricade nell'obiezione del
«terzo uomo» (132 b -133 a).
Terza obiezione: si tratta della più pesante teoreticamente. Se le idee sono veramente
entità in sé, aventi sostanza in rapporto a sé stesse, diventano per noi inconoscibili,
poiché occuperebbero un piano ontologico a sé stante rispetto a quello
umano/sensibile. Se è così, non solo sarebbe per noi impossibile conoscere il bello o il
bene in sé, ma accadrebbe che persino gli Dèi, detentori della scienza in sé, non
sarebbero in grado di conoscere gli oggetti sensibili presenti nel mondo degli uomini conclusione a dir poco assurda (133 a – 135 c).
[segue]
La filosofia di Platone (17)
II Parte del Parmenide: indagine ipotetica sull'uno (137 c -166 c)
La dottrina delle idee comporta dunque varie difficoltà teoriche all'apparenza
quasi insormontabili, ultima delle quali l'impossibilità da parte degli uomini di
poter coltivare una scienza delle cose soprasensibili. Questa conclusione
induce Parmenide a porre al suo interlocutore la domanda: «Che farai allora
della filosofia?» (135 c).
Per Parmenide, il principale problema di Socrate è l'essere troppo giovane e
poco allenato nell'esercizio dell'indagine filosofica. Per rimediare l'Eleate
delinea un metodo di indagine basato su ipotesi da verificare attraverso il
ragionamento (136 a - c): a proposito di qualsiasi oggetto, si prendono due
ipotesi tra di loro contrarie e opposte, una che dica "che è" e l'altra "che non è",
e se ne svolgono tutte le conseguenze possibili.
Valutando alla fine i risultati di questa indagine dialettica, è possibile scoprire
quale delle due ipotesi sia veritiera e quale no. Solo con un simile allenamento
si può apprendere il modo per discernere la verità ed evitare che essa sfugga
da sotto gli occhi. Si noti che tale esercizio riprende il metodo dialettico e
argomentativo di cui Zenone ha dato prova all'inizio del dialogo,
spostando però l'oggetto di indagine dalle cose sensibili alla metafisica.
Per far comprendere meglio quanto appena descritto, Parmenide decide di
darne prova con l'aiuto di Aristotele, brillante ragazzino lì presente. [segue]
La filosofia di Platone (18)
Oggetto di un'analisi accurata e dettagliatissima sarà l'uno, svolgendo dapprima
l'ipotesi che lo afferma, e in seguito quella che lo nega. Per ogni ipotesi verranno
dedotte quattro serie di conseguenze, per un totale di otto di deduzioni:
A. Se l'uno è (137 c -160 b)
1. L'uno in sé. Se l'uno è uno, non ammetterà nessuna forma di pluralità, sia essa
interna o esterna. L'uno quindi non è composto di parti, non è in nessun luogo e non è
né in movimento né in quiete, ed è esterno al tempo. Tuttavia in questo modo, nessun
altro ente potrà esistere all'infuori dell'uno, nemmeno l'essere stesso. Ma non
esistendo l'essere, nemmeno l'uno sarà (137 c -142 a).
2. L'uno in rapporto agli altri dall'uno. Se l'uno è, dovrà partecipare dell'essere. Ma
non coincidendo, l'uno e l'essere costituiranno due parti di un tutto, e per renderli fra
loro diversi, si dovrà introdurre anche il diverso. Viene introdotto il due, e di
conseguenza anche il numero. Pertanto l'uno non è uno, ma un insieme di parti: l'uno
contiene in sé la molteplicità (142 b -157 b).
3. Gli altri dall'uno in rapporto all'uno. Se l'uno è, gli altri dall'uno, in quanto ad
esso partecipi, cioè in quanto parti del tutto, si troveranno ad essere allo stesso tempo
infiniti (in quanto molteplici) e limitati (in quanto parti). Essi cioè saranno un insieme
molteplice composto di unità, trovandosi ad essere tra di loro simili e dissimili (157 b 159 b).
4. Gli altri dall'uno considerati in sé. Se l'uno è, gli altri dall'uno considerati in sé
stessi come separati dall'uno, non parteciperanno dell'uno e pertanto, privi dell'uno,
non potranno essere composti di unità, e quindi non saranno molti (159 b -160 b).
La filosofia di Platone (19)
B. Se l'uno non è (160 b -166 c)
1. L'uno in rapporto agli altri dall’uno. Se l’uno non è, esso è diverso dagli altri, in
quanto «non essere» qui significa semplicemente «essere diverso da». In questo caso
l’uno si pone in relazione col molteplice, e a loro volta gli altri dall'uno parteciperanno
delle loro affezioni (160 b -163 b).
2. L'uno in sé. Se l'uno non è, e se «non essere» indica l'assenza dell'essere, esso
sarà privo di caratteri e perciò non sarà né uno né molti (163 b -164 b).
3. Gli altri dall'uno considerati in sé. Se l'uno non è, gli altri dall'uno, rispetto a sé
stessi, non possederanno nessuna delle affezioni dell'uno, e nemmeno saranno molti,
ma lo sembreranno soltanto. Infatti, ogni singolo ente di cui la molteplicità si compone,
potrà solo apparire uno, senza esserlo, poiché l'uno non esiste (164 b -165 e).
4. Gli altri dall'uno in rapporto all'uno. Se l'uno non è, gli altri dall'uno rispetto all'uno
che non è, non parteciperanno di ciò che non è, e non saranno né uno né molti né
niente di determinato (165 e -166 c).
La conclusione aporetica (= dal greco ἀπορία nel significato di «difficoltà, incertezza»; in
filosofia indica la difficoltà di fronte alla quale viene a trovarsi il pensiero nella sua
ricerca, sia che di tale difficoltà si ritenga raggiungibile la soluzione, sia che essa appaia
intrinseca alla natura stessa della cosa e quindi ineliminabile) del Parmenide, che verrà
sviluppata negli scritti successivi e in particolare nel Teeteto e nel Sofista, è che:
«sia che l’uno sia, sia che non sia, esso stesso e gli altri, rispetto a sé stessi e
reciprocamente fra loro, sono tutto, secondo ogni modo di essere e non lo sono,
appaiono esser tutto, secondo ogni modo di essere e non appaiono così» (166 c).
La filosofia di Platone (20)
Nel Teeteto Platone affronta la quesitone relativa alla definizione del concetto
di scienza. Alla questione vengono date nel corso del dialogo tre diverse
risposte tutte respinte da Socrate (la scienza è sensazione; la scienza è
opinione vera; la scienza è opinione vera accompagnata da ragionamento),
intervallate da due intermezzi, il primo riguardante l’arte maieutica di Socrate
(148 e - 151 d), il secondo relativo alla figura del filosofo, la sua libertà di
spirito, il suo ideale di assimilazione alla divinità (172 c - 177 c).
Quel che più conta però è che nel Teeteto Platone risponda a tutte le critiche
contro la dottrina delle idee che egli immagina gli siano rivolte da Parmenide e
da Zenone (177 c - 186 e). Superata l'obiezione zenoniana, la tesi di una
molteplicità di idee e della loro realtà non poteva ancora essere garantita di
fronte alla rinascente obiezione parmenidea, per cui ogni realtà particolare
(cioè parte di un molteplice, come lo è anche ciascuna idea) si presenta come
tale che «è» sé stessa e «non è» tutte le altre, mescolanza, quindi, di «essere»
e di «non essere» e pertanto apparenza, ma non vera realtà.
E così Platone nel Sofista si decide a compiere il «parricidio», a confutare
cioè la tesi centrale del «venerando e terribile» Parmenide e a dimostrare che
anche il «non essere» in qualche modo «è». Il punto fondamentale di questa
dimostrazione sta nella risoluzione del «non essere» nella «alterità»: quando
noi diciamo che una cosa «è» sé stessa e «non è» le altre
[segue]
La filosofia di Platone (21)
non facciamo altro che mettere in evidenza ciò che in essa vi è di «identico»
con sé stessa e ciò che vi è di «diverso» dalle altre, e quindi che essa «è»
identica con sé stessa ed «è» diversa dalle altre. Il discorso così si muove
sempre nel piano dell’«essere» e viene meno la contraddizione parmenidea.
L’analisi nel Sofista è avviata dall’esigenza di differenziare la scienza del
sofista da quella del politico e del filosofo (216 a - 217 b). Il sofista pratica
una «caccia» pacifica mediante la persuasione (= retorica) e commercia
cognizioni per ottenerne guadagno (224 b). La sua abilità nel confutare
mediante l’antilogia (= la contrapposizione di discorso a discorso) genera
però una scienza solo apparente e nel praticarla si diviene piuttosto
«incantatore» e «imitatore» (234 b - 235 a) che sapiente.
Oggetto delle dispute sofistiche sono infatti «parvenze» prive di reale
consistenza ontologica, ossia forme di non-essere (235 b - 236 d). In tal
senso si pone il problema di come si possa parlare di ciò che, essendo
solo «parvenza» o «immagine», propriamente non è, senza incorrere
nelle obiezioni di Parmenide (236 d - 237 b).
Dire il falso comporta infatti che il non-essere si possa in qualche modo
‘dire’ e ‘pensare’, e alla luce di tale difficoltà bisogna protrarre l’indagine e
commettere quasi un «parricidio», sul piano teorico, nei confronti di
Parmenide (241 d).
[segue]
La filosofia di Platone (22)
Si tratta di ripensare il rapporto fra essere e non-essere, superando le aporie
fra unità e molteplicità, e fra moto e quiete, quali risultano dalle diverse ipotesi
dei «materialisti» (per i quali è reale solo ciò che è corporeo) e degli «amici
delle forme» (che ammettono molteplici forme intelligibili: 245 e - 246 d), e dalla
ulteriore contrapposizione fra «monisti» e «pluralisti» (242 b - 243 c).
Per comprendere il modo in cui l’essere si predichi dei termini da cui sorgono
tali opposizioni, è necessaria la «dialettica», scienza filosofica per eccellenza
(contrapposta alla mera abilità del confutare, tipica del sofista: 252 e - 254 b).
Essa consiste nel saper dividere (διαίρεσις) e distinguere fra i diversi
«generi» delle cose, ma anche nel saper vedere se e come i diversi generi
entrino in comunicazione ovvero si mescolino fra loro (253 e); in tal modo
il problema logico dei generi della predicazione viene a coincidere con
quello ontologico dei generi dell’essere.
Applicando la dialettica alle distinzioni dell’essere, nel Sofista si enucleano
cinque generi sommi: oltre all’essere, la quiete, il movimento, l’identico, il
diverso (254 c - 257 c). Il non-essere non ha valore assoluto e consiste
nell’«essere diverso» rispetto a ciò che si predica, al modo in cui, per
esempio, «ciò che non è grande» ha comunque una certa grandezza e
non è mero non-essere (258 c).
L’analisi dei modi in cui nomi e verbi si uniscono nel discorso,
[segue]
La filosofia di Platone (23)
derivata dall’analisi dei generi dell’ «essere», consente di spiegare il dire falso
come discorso non circa ciò che non è, ma circa ciò che è in altro modo rispetto a
ciò che è realmente (262 d - 263 d). Così il non-essere, sia ontologicamente sia
logicamente, si riduce all’‘essere altro’, ossia all’alterità (263 d - 264 b).
Poiché il pensiero può riferirsi all’ «essere altro» è possibile l’errore, ma il
sofista, diversamente dal filosofo, se ne avvale nel produrre «immagini» che
si fondano sull’opinione invece che sulla scienza.
Su questa base Platone può, da un lato, elaborare una nuova e compiuta
descrizione del metodo dialettico come divisione dei generi e delle specie e in
essi di ciò che vi è di identico e di ciò che vi è di diverso e, dall'altro lato, dare
un'adeguata risposta alle aporie sofistiche, ciniche e megariche nella predicazione:
la «comunanza» dei generi e delle specie (cioè l‘«identico») e la loro
differenza (cioè il «diverso») creano tutta una trama di rapporti ontologici che il
pensiero e il linguaggio devono rispecchiare quando connettono soggetto e
predicato. In questo modo può trovare finalmente una soluzione anche il
problema dell'errore, inspiegabile e inconcepibile finché interpretato come un
dire e un pensare «ciò che non è», ma perfettamente comprensibile se inteso
come un dire e un pensare il «diverso».
I risultati così conseguiti e la fecondità della nuova dialettica del Sofista sono
messi alla prova da Platone anche nell'analisi dei problemi etici e politici, nei
dialoghi Filebo e Politico.
[segue]
La filosofia di Platone (24)
Nel Filebo infatti egli tenta, correggendo anche il precedente rigido dualismo tra
bene e piacere, d'inserire positivamente il piacere (o almeno il piacere "puro")
nella scala dei valori morali, anche se al di sotto del bene e della scienza; nel
Politico poi, pur ribadendo l'opportunità che il potere tocchi solo a coloro che
sono sapienti nella scienza politica (o "arte regia"), manifesta un'attenzione più
comprensiva della realtà concreta che mitiga l'utopia della Repubblica e prepara
il vasto affresco giuridico-costituzionale delle Leggi.
Questa attenzione più comprensiva della realtà concreta che è caratteristica, per
tanti aspetti, dell'ultimo Platone sta altresì alla base della cosmologia (la
disciplina che studia la struttura materiale e le leggi che regolano l'universo) del
Timeo e dell'estremo tentativo di mediare il rigido dualismo tra mondo delle idee
e mondo sensibile, che è del resto visibile anche in quella dottrina delle «ideenumeri», come intermediari tra le idee e le cose, che ci è nota non dagli scritti di
Platone, bensì dalla testimonianza di Aristotele.
Nel Timeo possono essere individuati: un prologo (17 a - 27 c), in cui si
presentano i personaggi, si pone una certa continuità con il discorso del giorno
precedente sulla città ideale di cui alla prima parte della Repubblica (Socrate
chiede che si presenti la città ideale «effettivamente in azione»: 19 b - 20 c), e si
prepara un piano sui discorsi che restano ancora da svolgere; un preludio al
discorso cosmologico di Timeo da Locri (27 c - 29 d), in cui si illustrano i principi
metafisici che ne sono alla base; e tre parti principali.
[segue]
La filosofia di Platone (25)
La prima (29 d - 47 e) è dedicata al tema dell’intelligenza cosmica e delle sue
operazioni e si diffonde sulle ragioni della bellezza dell’Universo e della sua
unità, individuando nella bontà del Demiurgo la causa dell’origine del mondo, la
generazione e l’attività dell’anima cosmica, i suoi movimenti armonici, la
creazione del tempo, dei corpi celesti, delle singole anime, degli animali,
dell’uomo.
La seconda parte (47 e - 69 a) si concentra sul principio materiale del cosmo
inteso come «necessità», «ricettacolo», «spazialità», «movimento caotico»;
narra inoltre l’origine dei quattro elementi mediante i solidi geometrici regolari e
i rapporti numerici, mostrando le forme che essi assumono e le impressioni e
sensazioni che suscitano, discute inoltre delle cause di queste.
La terza parte (69 a - 92 c) è dedicata alla natura dell’uomo, alla sua fisiologia e
anatomia, infine all’anima razionale, posta nell’uomo da Dio come «demone
tutelare»; si richiama infine il tema della metempsicosi e le implicazioni
escatologiche connesse.
Sullo sfondo del trattato sta l’idea centrale della matematica, dei numeri, dei
rapporti numerici e delle figure geometriche come strumento fondamentale di
cui l’anima cosmica si serve per compiere le sue attività.
Il racconto del Timeo prende avvio dalla ribadita distinzione tra «ciò che è
sempre e non ha nascita» e «ciò che nasce sempre e mai è»:
[segue]
La filosofia di Platone (26)
il cielo, o piuttosto tutto il «cosmo», in quanto corporeo e visibile, non è stato
sempre, ma è nato, cominciando da un principio e per opera del divino artefice,
il Demiurgo, che ha plasmato il mondo a immagine del modello eterno:
plasmato e non creato, perché Platone, oltre che del modello e della copia,
parla anche di un «ricettacolo universale», che è il luogo (χώρα = chora) in
cui si svolge il divenire e che in sé comprende le determinazioni della materia e
dello spazio.
Poiché nulla è più bello del «vivente», il mondo, opera bellissima del
Demiurgo, è anch'esso un vivente, fornito di un'anima (l’ Anima del mondo)
che il Demiurgo ha formato con l'essenza dell'indivisibile (eterno) e con
quella del divisibile (divenire), unendo ad esse un'essenza mista, che
partecipa dell'identico e del diverso. Una rigida proporzione matematica, la
stessa che presiede all'armonia musicale, regola la composizione del cosmo,
strutturato in due cerchi intrecciati, di cui quello esterno è quello dell'identico
e l'altro è quello del diverso, distinto a sua volta in sette circoli ruotanti e
costituenti le orbite planetarie, mentre il tempo, «immagine mobile
dell'eterno», scandisce la regolarità dei loro movimenti.
L'azione del Demiurgo e degli altri dèi inferiori, la loro opera di mediazione
rispetto al modello eterno è possibile solo in quanto esistono, come
intermediari, gli enti matematici: i veri elementi delle cose
[segue]
La filosofia di Platone (27)
infatti non sono i quattro elementi della tradizione naturalistica (la terra, l'acqua,
l'aria e il fuoco), ma le figure geometriche, che determinano secondo regole
precise la superficie, e quindi la corporeità, di tutte le cose: terra, acqua, aria e
fuoco anzi traggono le loro proprietà dal fatto che sono conformati secondo
specie determinate di poliedri regolari, nell’ordine: tetraedro o piramide a base
triangolare (formato da quattro triangoli equilateri), esaedro o cubo (formato da
sei quadrati), ottaedro (formato da otto triangoli equilateri), dodecaedro
(formato da dodici pentagoni), icosaedro (formato da venti triangoli equilateri). I
poliedri di cui parla Platone nel Timeo hanno le seguenti caratteristiche:
→ sono gli unici solidi le cui facce sono equilatere e uguali tra loro, ovvero
congruenti, e i cui spigoli e i cui vertici sono equivalenti;
→ sono le uniche figure solide che, inscrivendosi in una sfera, presentano tutti i
loro vertici giacenti sulla superficie della stessa.
La filosofia di Platone (28)
Platone associa quindi il tetraedro al fuoco, l’ottaedro all’aria, l’icosaedro
all’acqua, il cubo alla terra, mente al dodecaedro spetta il ruolo di racchiudere
ed inglobare in sé l’intero l’universo. È da queste premesse che Platone svolge
nel Timeo le complesse ipotesi e dottrine che vanno dalla cosmologia
all'astronomia, dalla teologia astrale alla matematica, dalla fisica
all'antropologia, dalla biologia alla medicina: questo stesso carattere
enciclopedico e sistematico spiega l'enorme fortuna che quest'opera ha avuto
nel corso dei secoli.
Per molti secoli la fortuna di Platone è stata legata in modo particolare al
Timeo. Già nella scuola platonica si registrano accesi dibattiti sulle tesi
timaiche, anche in ragione delle critiche aristoteliche al dialogo, che Aristotele
cita più di qualunque altro scritto platonico, probabilmente attribuendogli un
ruolo centrale nella produzione di Platone.
Proclo, il massimo rappresentante del neoplatonismo greco, ha dedicato al
dialogo un monumentale commentario; Cicerone ne approntò una traduzione
latina, mentre già Filone di Alessandria lo utilizzava per una interpretazione
filosofica del libro biblico della Genesi. Ma furono soprattutto la traduzione
latina e il commento di Calcidio nel IV secolo e la loro valorizzazione nel XII
secolo da parte della scuola di Chartres a determinare l’enorme influenza del
Timeo, che fu l’unico dialogo platonico ad essere letto nel Medioevo. [segue]
La filosofia di Platone (29)
La fortuna nel Rinascimento fu assicurata dalla nuova traduzione e commento
di Marsilio Ficino ed è dimostrata dal fatto che nella celebre Scuola di Atene di
Raffaello il libro raffigurato tra le mani del «divino» Platone sia proprio il
Timeo.
Il dialogo Crizia costituisce una prosecuzione dell'incontro del Timeo con gli
stessi personaggi protagonisti. E’ un’opera incompiuta.
Crizia esordisce dicendo che gli argomenti che sta per trattare sono più
complessi rispetto a quelli trattati da Timeo, che aveva parlato del Demiurgo: è
infatti più facile parlare di divinità agli uomini (come ha fatto Timeo) che non di
uomini agli uomini (come sta per fare Crizia): gli dei non sono mai stati visti
così non è possibile capire se uno sta dicendo il vero o il falso mentre parla di
loro .
Crizia introduce quindi il suo argomento: egli parlerà di due grandi città che
entrarono in conflitto tra loro: Atene e Atlantide, città che per via di cataclismi
si inabissò e sparì dalla faccia della Terra e diede il nome al Mar Atlantico.
L'Atene descritta da Crizia è un'Atene fuori dal tempo, quasi mitologica.
Gli dei patroni di Atene erano Efesto, il fabbro degli dei, e Atena, la dea della
sapienza che diede il nome alla città. Gli dei, pur abitando sulle vette del monte
Olimpo, si spartivano le terre tra di loro con un sorteggio effettuato da Dike (la
divinità greca della Giustizia).
[segue]
La filosofia di Platone (30)
Nelle terre che venivano loro assegnate svolgevano sugli uomini le stesse
mansioni che i pastori svolgono sulle greggi. Fatto sta che ad Atena e ad
Efesto, forse perché erano fratelli, forse perché nutrivano interessi affini (il
sapere, l'arte) toccò la stessa terra. In Atene vi erano diverse classi di
cittadini, ciascuna delle quali svolgeva determinate funzioni. Vi erano i
guerrieri, i produttori, i governatori. La proprietà privata non esisteva.
Crizia si sofferma sull'assetto urbanistico della città di Atene ed in particolare
sull’acropoli, diverso da quello dei suoi tempi, per poi passare alla descrizione
di Atlantide. Quest'isola con il sorteggio toccò a Poseidone, il dio del mare.
Era un'isola molto ricca: basti pensare che dal mare fino al centro dell'isola
era tutta una pianura fertilissima. Vi era poi nel mezzo un monte non
altissimo, sulle cui vette abitava un uomo, di nome Euenore, con la moglie
Leucippe, dalla quale aveva avuto una figlia, Clito, che però rimase orfana
proprio quando era in età da marito.
Poseidone, preso da compassione, giacque con lei. Quindi scavò tutt'intorno
all'altura sulla quale dimorava Clito formando come dei cerchi concentrici,
alternativamente di terra e di mare, ora più larghi, ora più stretti. Così il monte
risultava inaccessibile agli uomini e Clito poteva vivere tranquilla. Si era
venuta a creare una vera e propria isola irraggiungibile (dal momento che
allora non c'erano le navi e la tecnica della navigazione era sconosciuta).
La filosofia di Platone (31)
Poseidone rese prosperosa quella terra facendovi zampillare fonti e facendovi
crescere frutti di ogni qualità. Poi allevò 5 coppie di gemelli e suddivise l'isola
di Atlantide in 10 parti, ciascuna delle quali venne affidata ad uno dei 10 figli. Il
vero capo era però il più anziano dei fratelli, a cui Poseidone mise il nome
dell'isola e lo chiamò Atlante. Il secondo lo chiamò Gadiro. La progenie di
Atlante fu numerosa e gloriosa ed i successivi sovrani accumularono tantissime
ricchezze; l'isola di Atlantide era del tutto autosufficiente, ma tuttavia non
rinunciava alle importazioni.
Abbondava di metalli ed in particolare di oricalco (= metallo leggendario
utilizzato per la prima volta proprio qui da Platone; il termine in seguito è stato
usato per indicare una lega di rame e zinco). Poi costruirono dei ponti che
mettevano in contatto l'isola con l'isolotto costruito da Poseidone, che era
divenuto sede dei sovrani.
I dieci sovrani gareggiavano tra di loro in magnificenza e sontuosità. Come ogni
città degna di rispetto c'era anche l'acropoli, al centro del quale era situato il
tempio sacro a Poseidone e a Clito, recintato da un muro in oro.
L'isola abbondava pure di fonti d’acqua, sia fredde sia calde, pronte all'uso: gli
abitanti vi disposero attorno edifici, giardini e vi riempirono grandi e magnifiche
vasche. L'acqua defluiva poi verso il bosco sacro a Poseidone, che faceva
crescere piante rigogliose ed una natura lussureggiante.
[segue]
La filosofia di Platone (32)
L'isola di Atlantide aveva anche un suo esercito, formato dalle genti di tutta
l'isola. Dei dieci re ciascuno disponeva a suo piacimento delle genti su cui
regnava; tra i vari sovrani c'era un patto di alleanza regolato dallo statuto di
Poseidone.
Proprio nel tempio di Poseidone, sull'acropoli, si radunavano i 10 sovrani ogni 5 6 mesi per prendere decisioni di interesse comune e per processare coloro che si
erano mal comportati. I processi venivano svolti dopo la celebrazione di un rito in
cui fondamentale era la presenza del toro.
Tra le varie leggi senz'altro la più importante era quella che proibiva
assolutamente ai sovrani di farsi guerra tra di loro: vi doveva essere
massima armonia e concordia e dovevano essere alleati e combattere
insieme contro il nemico comune. Sembrava un vero e proprio paradiso
terrestre, ma improvvisamente vi fu una degenerazione. Il che non piacque
a Zeus, il padre degli dei, che volle punire l'isola.
Le Leggi sono il titolo dell'ultima e più lunga opera di Platone. Rimasta
incompiuta, fu pubblicata postuma dal discepolo Filippo di Opunte, che la divise
in dodici libri e ne aggiunse uno finale, l'Epinomide.
In quest’ultimo dialogo, in cui non compare più il personaggio di Socrate, Platone
allarga la propria prospettiva dalla singola città all'ordine divino presente nel
cosmo, del quale l'ordine politico è solo una parte più piccola e subordinata.
La filosofia di Platone (33)
Inoltre, viene generalmente riconosciuto alle Leggi il tentativo di proporre
un modello politico più aderente alla realtà. Secondo il filosofo, è di
fondamentale importanza evitare il conflitto tra le classi sociali, e proprio a
questo fine hanno un ruolo fondamentale le leggi di uno Stato. Esse hanno
una duplice funzione:
• costrittiva, cioè prescrivono quale debba essere la condotta migliore
per un buon cittadino;
• educativa, cioè educano i giovani che saranno i cittadini futuri.
Platone sostiene che vadano istituite anche sanzioni, che devono essere
viste come uno strumento atto a correggere gli errori commessi
dall'individuo. Le leggi sono intese come esplicitazione dell'intelligenza,
rendendo manifesta la continuità con quanto affermato nei dialoghi della
vecchiaia (in particolare nel Parmenide, nel Teeteto e nel Sofista).
D'altra parte, però, la preminenza della legge sull'attività del politico
allontana le Leggi dalle tesi esposte nella Repubblica e nel Politico:
mentre nella produzione precedente il politico era sopra la legge, nel suo
ultimo dialogo Platone lo pone come custode delle norme e
dell'ordinamento giudiziario.
Le «dottrine non scritte» (1)
Come abbiamo visto, il problema politico ritorna, nell’ultima parte della sua
vita, a interessare Platone. Nel Politico e nelle Leggi il filosofo tenta di porre
le condizioni pratiche per la realizzazione dello Stato ideale. In particolare
viene delineata una forma di costituzione mista, in cui dovrebbero conciliarsi
monarchia e democrazia. Platone avverte adesso, rispetto agli anni delle
dottrine metafisiche della Repubblica, il bisogno di avvicinarsi concretamente
alla realtà, di rendere realizzabile il suo ideale di Stato il cui funzionamento è
controllato da una serie di rigorosi provvedimenti legislativi.
Unica eccezione il decimo capitolo delle Leggi, nel quale Platone fornisce una
sorta di dimostrazione dell’esistenza degli dei, il cui scopo, però, risulta
anch’esso di carattere pratico: ovvero convincere gli uomini a comportarsi
secondo virtù.
Occorre infine accennare al cosiddetto «Platone orale». La maggior novità
nel campo degli studi platonici della seconda metà del secolo XX è costituita
dalla rinnovata discussione sulle cosiddette «dottrine non scritte» (ἄγραϕα
δόγματα = àgrapha dόgmata) suscitata dall'interpretazione «esoterica» (le
dottrine e gli insegnamenti segreti, che non devono essere divulgati perché
destinati a pochi) della Scuola di Tubingen dovuta principalmente a H. J.
Krämer, K. Gaiser e Th. A. Szlezák.
[segue]
Le «dottrine non scritte» (2)
Tale interpretazione ha poi trovato consensi anche in Francia (P. Hadot) e in
Italia (G. Reale). Che esistessero dottrine che Platone avrebbe esposte solo
oralmente nell'Accademia era noto sia da ciò che dice Aristotele, sia da altre
fonti: celebre sarebbe stata una lezione Sul bene, dove Platone avrebbe
sostenuto che i numeri sono i principî di tutte le cose.
La scuola di Tubinga, basandosi sulla tesi di Platone circa la superiorità del
discorso orale rispetto a quello scritto e sulla sua esplicita affermazione, nella
VII Lettera (341 a; 344 c), di non aver mai messo per iscritto la sua vera
dottrina, ne ha concluso che queste dottrine orali costituiscono l'autentica
filosofia di Platone, quella che starebbe sullo sfondo del Platone «essoterico»
(quella parte dell’insegnamento, nelle antiche scuole filosofiche a cui era
ammesso un pubblico più largo) dei dialoghi.
Secondo l'interpretazione di Krämer, se il senso del pensiero platonico è da
individuare soprattutto nelle dottrine orali e se queste sono costruite sulla
teoria dei «principi», allora il pensiero di Platone appare meno connesso
all'insegnamento di Socrate e più direttamente dipendente dall'orizzonte
presocratico: a partire dal problema dei principî, e non dal concetto socratico,
Platone sarebbe giunto infatti alla dottrina delle idee.
Platone: La Repubblica (1)
La Repubblica è un complesso e suggestivo dialogo di filosofia e teoria
politica scritta da Platone approssimativamente tra il 390 e il 360 a.C., la quale
ha avuto enorme influenza nel pensiero occidentale.
Il titolo originale dell'opera è la parola greca Πολιτεία (= Politeίa) che
tradizonalmente viene tradotto con La Repubblica, che è una traduzione un
po' fuorviante, derivata dal latino res publica. Tale espressione indica
l’organizzazione come bene comune di tutti i cittadini e, di conseguenza, la
costituzione politica ottimale. Una traduzione più precisa potrebbe quindi
essere: La Costituzione.
Il dialogo ruota intorno al tema della giustizia, sebbene il testo contenga
anche tutte le altre teorie platoniche, come la dottrina delle idee, la concezione
della filosofia come dialettica, una versione della teoria dell'anima differente
rispetto a quella già trattata nel Fedone e il progetto di una città ideale ed
utopica (kαλλίττολις = kallipolis, la citta bella), governata in base a principi
filosofici.
La Repubblica coinvolge inoltre argomenti e discipline come l'ontologia, la
gnoseologia, la filosofia politica, il collettivismo, il sessismo, l'economia, l'etica
medica e l'etica in generale. Questo dialogo si presenta pertanto come
un'opera organica, enciclopedica e circolare, concernente, più in generale, il
rapporto tra universale e particolare.
[segue]
Platone: La Repubblica (2)
L'opera è strutturata in dieci libri e ha per protagonista Socrate, ma un Socrate
che è decisamente diverso da quello degli altri dialoghi, e che in più punti va
modificandosi a poco a poco. Questo processo di purificazione porta Socrate
ad abbracciare a poco a poco delle tesi che non sono sue, bensì appaiono di
natura piuttosto platonica, e legate soprattutto al momento storico che Platone
viveva dopo la guerra del Peloponneso con il governo dei Trenta Tiranni e la
condanna a morte di Socrate.
Vediamo quindi il vecchio filosofo esporre teorie che vanno dalla parità dei
sessi, alla condivisione delle proprietà private, alla scomparsa della famiglia, e
all'obbligo, per coloro che fossero destinati a essere i «guardiani», a non avere
nessun guadagno dal loro lavoro ed essere mantenuti dai cittadini.
Come detto, La Repubblica risale al periodo della maturità di Platone, e
l'interpretazione tradizionale la considera come un nuovo tentativo di dare una
risposta soddisfacente alle obiezioni avanzate in precedenza da Callicle nel
Gorgia, secondo cui la virtù e le leggi della polis sono un trucco escogitato da
una massa di deboli per irretire la brama di potere degli individui migliori, pochi
di numero ma portati per natura a governare.
Il dialogo si svolge tra Socrate, Polemarco e Cefalo (i padroni di casa), alcuni
familiari di Platone (Glaucone e Adimanto sono i suoi fratelli maggiori) e
Trasimaco (uomo politico sofista).
[segue]
Platone: La Repubblica (3)
Libro I. Durante le feste Bendidie (antica festa ateniese in onore della dea tracia
Bendis – divinità femminile della Natura simile ad Artemide – che si celebrava al
Pireo a maggio con un rito consistente in una processione, una fiaccolata a cavallo
e una festa notturna), Socrate si reca con Glaucone e altri a casa di Cefalo che
inizia a discutere con Socrate sui svantaggi e sui benefici della vecchiaia.
Il discorso quindi si incentra sull'essenza della giustizia. Polemarco sostiene
che la giustizia consiste nel fare del bene agli amici e del male ai nemici;
Socrate confuta questa tesi mostrandone i paradossi, e pone l'accento sulla
necessità di distinguere i veri amici e i veri nemici da coloro che sembrano tali, ma
in realtà non lo sono. Aggiunge che chi danneggia rende sempre peggiore il
danneggiato, e questo non può essere l'obiettivo del giusto.
Qui irrompe nel dialogo Trasimaco, che con un intervento aggressivo afferma che
la giustizia consiste nell'interesse del più forte, cioè di chi detiene il potere.
Prima obiezione di Socrate: i più forti possono anche sbagliare, cosicché
obbedire loro potrebbe significare danneggiarli. Trasimaco replica che i governanti,
quando esercitano la loro arte con competenza, non sbagliano mai.
Seconda obiezione di Socrate: ogni arte non persegue il proprio utile, ma l'utile di
ciò cui si rivolge. Trasimaco insiste: la giustizia è un bene altrui, mentre l'ingiustizia
giova a se stessa; per questo è superiore alla giustizia e l'ingiusto gode di una vita
più felice del giusto.
[segue]
Platone: La Repubblica (4)
Socrate ribadisce che ogni arte è disinteressata; se chi pratica un'arte ne trae
un guadagno, ciò è dovuto al fatto che egli pratica insieme anche l'arte
mercenaria. Perciò il vero uomo politico non mira al proprio interesse,
ma a quello dei sudditi, e non accetta di governare per ricevere un
compenso. Dato che Trasimaco identifica l'ingiustizia con la virtù, Socrate lo
porta ad ammettere che il giusto non cerca di prevalere sul giusto, ma solo
sull'ingiusto, l'ingiusto invece cerca di prevalere su entrambi; non si può
quindi attribuire all'ingiustizia la sapienza e la virtù, poiché in tutte le attività
chi è competente (e quindi sapiente) cerca di prevalere solo su chi è
incompetente.
L'ingiustizia indebolisce l'azione degli uomini, rendendoli discordi tra
loro e invisi agli dèi. Posto che ogni cosa ha una sua funzione e una sua
virtù, grazie alla quale può fare ciò che è meglio, la funzione e la virtù propria
dell'anima è la giustizia; quindi solo l'anima giusta è felice.
Libro II. Intervento di Glaucone, che distingue tre categorie di beni: quelli
che si desiderano solo per se stessi, quelli che si desiderano anche per i
vantaggi che procurano, quelli che si desiderano solo per questi ultimi. La
giustizia, secondo Socrate, rientra nella seconda categoria, ma l'opinione
comune, di cui Glaucone si fa portavoce, la colloca nella terza. Glaucone con
un discorso provocatorio finge di sostenere la tesi di Trasimaco:
[segue]
Platone: La Repubblica (5)
il massimo desiderio dell'uomo è commettere ingiustizia restando
impunito e la paura più grave è subire ingiustizia senza potersi vendicare;
chi non commette ingiustizia lo fa solo per timore delle conseguenze.
Adimanto intenzionalmente reca altri argomenti a favore di Trasimaco: gli
uomini in realtà non lodano la giustizia, ma la reputazione di uomo giusto; la
condizione migliore è dunque quella di un'ingiustizia mascherata da giustizia.
Socrate allora propone di analizzare la giustizia non più nell'ambito personale,
bensì nell’ambito più ampio dello Stato e delinea una città semplice e
primitiva, costituita da contadini, artigiani e commercianti e basata su una
precisa divisione dei compiti.
Glaucone reclama uno Stato più ricco, il che però comporta un ampliamento
della città; ciò implica l'esercizio della guerra, e di conseguenza la creazione
della classe dei guardiani, dedita alla difesa della città. I guardiani devono
essere miti e animosi a seconda delle circostanze, nonché amanti del sapere.
Si pone quindi il problema della loro educazione, che sarà innanzi tutto
musicale e ginnica. Quanto all'educazione musicale, bisogna eliminare dalla
città tutte le opere poetiche che danno un'immagine distorta di dei ed eroi,
presentandoli immersi nei vizi e nella malvagità. La divinità, essendo buona e
perfetta, può compiere solo azioni buone e non subisce metamorfosi.
Vedi il brano «L’uomo ha molti bisogni»: 368 e - 371 b.
Platone: La Repubblica (6)
Libro III. Poiché i guardiani vanno educati al coraggio e alla temperanza, bisogna
rigettare le poesie e i miti che suscitano paura della morte e offrono rappresentazioni
sconvenienti e mendaci di dei ed eroi; solo i governanti hanno il diritto di mentire ai
sudditi a fin di bene. Socrate distingue tre forme di poesia: narrativa, imitativa e mista.
I guardiani devono astenersi dall'imitazione, a meno che non concerna un uomo o
un'azione virtuosa; ne consegue che il poeta imitatore non dev'essere accolto nella città
ideale. Socrate poi passa in rassegna le armonie, gli strumenti musicali e i ritmi,
indicando quali si addicono ai guardiani e quali no; la loro educazione musicale deve
mirare a un ideale di bellezza attraverso il ritmo e l'armonia.
Il successivo esame dell'educazione ginnica evidenzia i rapporti tra essa e la medicina
e permette un confronto tra i medici e i giudici: i primi, curando il corpo con l'anima,
devono avere esperienza delle malattie, mentre i secondi, curando l'anima con l'anima,
devono avere l'anima incorrotta. Sia i medici sia i giudici non devono lasciar vivere il
corpo o l'anima inguaribile; mantenere in vita corpi incapaci di svolgere la propria
funzione è infatti esiziale per la città. L'educazione ginnica deve sviluppare più la forza
morale che quella fisica e deve pertanto contemperarsi con l'educazione musicale.
Per esporre i criteri di scelta dei guardiani, Socrate ricorre al mito della nascita degli
uomini dalla terra e della loro distinzione in tre classi: aurea (governanti), argentea
(guerrieri), bronzea (prestatori d'opera).
Seguono alcune prescrizioni circa la vita dei guardiani, che sono esclusi dalla proprietà
privata, hanno alloggio e vitto in comune e sono mantenuti a spese dello Stato.
Vedi il brano «Il comunismo» : 416 d – 417 b.
[segue]
Platone: La Repubblica (7)
Libro IV. Rispondendo a un'obiezione di Adimanto, secondo cui i guardiani non
sono felici, Socrate precisa che la città ideale mira al benessere della collettività,
non di una singola classe; perciò deve evitare l'eccesso sia della povertà sia della
ricchezza, che crea divisioni interne, e avere una giusta estensione territoriale. A
tale scopo i guardiani devono impedire modifiche nell'educazione ginnica e
musicale; la legislazione dovrà basarsi su pochi precetti fondamentali, sanciti da
Apollo delfico.
La presenza nella città ideale della giustizia viene appurata tramite la ricerca
delle tre virtù che si connettono ad essa: sapienza, coraggio, temperanza. La
sapienza è la virtù di coloro che hanno compiti di governo, il coraggio la virtù
dei guardiani dediti alla guerra e alla difesa; la temperanza invece deve
risiedere in tutte e tre le classi dei cittadini.
La giustizia consiste nell'assolvere il proprio compito all'interno della città, senza
scambi tra le tre classi che alterino la compagine statale.
Socrate dimostra che la giustizia nello Stato è la stessa che nell'individuo, in
quanto la struttura dell'anima è analoga a quella della città, anzi dipende da
essa. Vengono quindi distinte le tre facoltà dell'anima: facoltà razionale,
concupiscibile, irascibile.
L'uomo è giusto quando la parte razionale dell'anima, sostenuta da quella
impulsiva, comanda su quella concupiscibile; in caso contrario si ha l'ingiustizia.
Vedi «Anima razionale, concupiscibile, irascibile»: 439 a–441 e
Platone: La Repubblica (8)
Libro V. Adimanto chiede spiegazioni circa la comunanza di donne e figli. Socrate
affronta la «prima onda», ossia l'identità di compiti e di educazione tra uomini e
donne, e spiega che la differenza di sesso non implica una differenza di attitudini,
benché le donne siano più deboli fisicamente.
Viene quindi affrontata la «seconda onda»: la regolamentazione dei matrimoni e
delle nascite. I matrimoni dovranno avvenire tra i cittadini migliori, per mantenere
costante la qualità e il numero degli abitanti. I bimbi saranno condotti appena nati
in nidi d'infanzia; bisogna inoltre stabilire un'età per la procreazione ed evitare
matrimoni tra consanguinei. Solo questo principio, afferma Socrate, può garantire
la concordia interna e la felicità dei cittadini. I giovani dovranno ricevere
un'educazione guerriera ed assistere alle battaglie per imparare il loro futuro
compito; la città dovrà riservare dei premi ai giovani più valorosi. Socrate aggiunge
che essa non combatterà contro altri Greci, data la comunanza di stirpe, e deplora
le discordie esistenti tra le città elleniche.
Si arriva così al problema più arduo, la «terza onda»: una tale città implica che i
filosofi governino o i governanti pratichino la filosofia. Dopo aver definito il filosofo
come colui che ama la verità pura, Socrate traccia la differenza tra ignoranza,
scienza e opinione: l'ignoranza è mancanza di conoscenza, la scienza è
conoscenza dell'essere, l'opinione è uno stato intermedio.
Vedi i brani: «Sulle donne in comune»: 451 c–452 e; 457 d-e; «Filosofi e filodossi»:
475 e–480 a
Platone: La Repubblica (9)
Libro VI. Il filosofo deve governare perché è il solo a conoscere l'essere e la
verità; inoltre è sincero, temperante, disprezza i beni mondani, apprende con
facilità e possiede l'armonia interiore. Adimanto però obietta che i filosofi sono
persone strane e inutili allo Stato. Attraverso l'allegoria della nave Socrate
spiega che ciò accade negli Stati esistenti, governati da demagoghi.
Il filosofo non è malvagio, ma l'ambiente in cui vive può corromperlo, poiché
anche le migliori nature sono corruttibili, se male educate; tale azione
corruttrice è dovuta al volgo e ai sofisti, indegni seguaci della filosofia. Il filosofo
si corrompe per compiacere il volgo, e pochi riescono a mantenersi coerenti
isolandosi dalla massa. Nessuna delle costituzioni vigenti conviene alla
filosofia: solo la città ideale consente ai filosofi di svolgere la propria opera e di
convincere il popolo, quindi dev'essere governata da loro. L'educazione dei
filosofi deve mirare alla disciplina più alta, avente come oggetto il bene. A
questo punto si rende necessaria la definizione dell'idea del bene, di cui
Socrate coglie l'analogia con il sole: come il sole, pur dando vita, colore e
nutrimento agli oggetti sensibili, non si identifica con essi, così il bene permette
la visione del mondo intellegibile e lo trascende.
L'analisi prosegue con l'immagine della linea divisa in quattro segmenti,
che rappresentano quattro tipi di oggetti del conoscere: immagini, oggetti
sensibili, concetti scientifici e idee.
[segue]
Platone: La Repubblica (10)
I primi due concernono il mondo sensibile, i secondi due il mondo intellegibile. Ad
essi corrispondono quattro gradi di conoscenza: immaginazione, assenso,
riflessione e intelletto. Vedi i brani «Un’utopia realizzabile»: 502 a – c; «L’idea di
Bene»: 504 e - 508 e; «Quattro gradi della conoscenza»: 509 d – 511 e
Libro VII. Il complesso discorso teoretico del libro precedente viene esplicitato
attraverso il mito della caverna, allegoria del filosofo che si solleva dal sensibile
alle idee e ritorna nel mondo per governarlo; infatti il filosofo, la cui missione non si
realizza nella pura contemplazione dell'intellegibile, dev'essere costretto a
governare.
Nella sua educazione, che ha il compito di convertire il suo sguardo verso l'idea
del bene, la musica e la ginnastica devono essere affiancate da altre discipline: la
matematica, la geometria, l'astronomia, la stereometria (geometria dei solidi),
l'armonia e soprattutto la dialettica, che ha come scopo la conoscenza del bene.
Vengono quindi esposti i criteri di scelta dei futuri filosofi dialettici, le loro qualità e
la loro educazione graduale, a partire dall'infanzia: dopo un periodo propedeutico
di educazione ginnica, essi dovranno studiare le varie discipline e solo a trent'anni
incominceranno a essere avviati alla dialettica. Infine, dopo i cinquant'anni, i filosofi
alterneranno la studio della filosofia con i turni obbligatori (a sorteggio) di governo
della città.
Vedi i brani «Il mito della caverna»: 514 a – 517 a; «Il governo dello Stato»: 519 e
– 521 b; «L’educazione»: 538 d – 541 b
Platone: La Repubblica (11)
Libro VIII. Socrate annuncia di voler ritornare all'argomento principale della
sua indagine, ossia la felicità del giusto e l'infelicità dell'ingiusto; a tal proposito
conduce un'analisi delle quattro forme di governo esistenti, cui
corrispondono quattro tipi di uomo: timocrazia, oligarchia, democrazia e
tirannide.
La timocrazia, la costituzione più vicina allo Stato perfetto, cioè all'aristocrazia,
nasce dalla corruzione di quest'ultimo: ciò accade perché i guardiani non
determinano con esattezza il "numero nuziale", che regola il ciclo delle nascite.
Socrate delinea il carattere del regime timocratico, dove regnano l'ambizione e
un occulto amore per il denaro; di conseguenza l'uomo timocratico, la cui
anima è guidata dall'elemento impulsivo, è ambizioso e avido. Quando l'amore
per il denaro diventa palese nasce il regime oligarchico, basato sul censo e
diviso al suo interno in Stato dei poveri e Stato dei ricchi. Anche nell'uomo
oligarchico, parsimonioso e dedito agli affari, prevale l'elemento animoso.
Dalla rivolta contro questo regime nasce la democrazia, caratterizzata da una
libertà che degenera in anarchia, poiché sia lo Stato sia l'uomo democratico
sono dominati dall'elemento concupiscibile; il popolo stesso fornisce al tiranno
la possibilità di salire al potere.
Una volta che ha preso in mano lo Stato, il tiranno opprime il popolo ed elimina
i cittadini migliori.
Platone: La Repubblica (12)
Libro IX. Nel proseguire l'esame del carattere tirannico, Socrate pone l'accento
sulla presenza in ogni individuo di desideri sfrenati e contrari alla legge, che si
manifestano soprattutto nei sogni: il tiranno non si ferma di fronte a nulla pur di
soddisfare tutti questi appetiti. Viene poi contrapposta la perfetta felicità dello
Stato regio, cioè della città ideale, alla perfetta infelicità dello Stato tirannico, e si
adducono le prove dell'infelicità del tiranno.
La prima è di natura politica: l'uomo tirannico, come il regime che rappresenta, è
schiavo, pieno di paura e di lamenti, perciò è sommamente infelice; al contrario la
massima felicità spetta all'uomo regale, essendo il grado di felicità di ciascun
regime proporzionato al suo grado di perfezione.
La seconda prova concerne la divisione dei piaceri in tre specie, rispondenti alle
tre parti dell'anima; il filosofo si dedica solo ai piaceri della parte razionale, che
sono superiori agli altri.
La terza prova, di carattere metafisico, viene dall'esame della natura dei piaceri.
Socrate poi passa all'analisi degli effetti prodotti dalla giustizia e dall'ingiustizia. La
tripartizione dell'anima implica una triplice composizione dell'uomo, che
consta di un mostro policefalo, un leone e un uomo.
Quando l'uomo, con l'aiuto del leone, tiene a freno il mostro prevale la giustizia,
quando il mostro domina sulle altre due parti si ha l'ingiustizia. Socrate conclude
questa trattazione osservando che il sapiente si realizza non nella sua patria, ma
solo ed esclusivamente nella città ideale.
Platone: La Repubblica (13)
Libro X. La discussione torna sulla poesia e l'imitazione, e si opera la
distinzione teoretica tra le idee, gli oggetti sensibili e gli oggetti dell'arte. Il poeta e
il pittore imitano gli oggetti sensibili, ovvero ciò che è come appare: la loro arte,
imitazione dell'apparenza, è perciò tre gradi lontana dalla verità. L'imitatore non
ha né scienza né retta opinione di ciò che imita; l'arte genera illusione e si
rivolge alle passioni e alle parti inferiori dell'anima, come dimostrano gli
effetti negativi che la poesia tragica e comica produce sugli spettatori.
Così Omero, e più in generale la poesia, vanno banditi dalla città ideale.
Vedi il brano «La critica dell’arte»: 597 a – 598 d.
L'accenno alle ricompense assegnate alla virtù dopo la morte offre a Socrate
l'aggancio per dimostrare l'immortalità dell'anima. Innanzi tutto l'anima non
perisce né per il male suo proprio, cioè l'ingiustizia, né per il male altrui, cioè del
corpo. Il numero delle anime non è soggetto a variazioni.
La composizione dell'anima è perfetta, ma la si può contemplare nella sua
purezza solo dopo che si è staccata dal corpo. Si passano infine in rassegna i
premi concessi alla virtù e alla giustizia dagli uomini nella vita terrena e dagli Dèi
in quella ultraterrena. L'opera si conclude con il mito di Er, che in una grandiosa
rappresentazione della struttura dell'universo, governato da una perfetta
armonia, descrive il giudizio cui le anime vengono sottoposte nell'aldilà e la loro
reincarnazione.
[segue]
Platone: La Repubblica (14)
Nel mito Er, un soldato morto in battaglia che ha l'avventura di resuscitare, racconta che
nell'al di là le anime vengono a caso sorteggiate per scegliere tra quali vite reincarnarsi.
Chi è stato sorteggiato tra i primi è sì avvantaggiato, perché ha una scelta maggiore, ma
anche chi sceglie per ultimo ha molte possibilità di libera scelta perché il numero dei
paradigmi di vita possibili offerto è più grande di quello delle anime e poi non è detto che
la possibilità di scelta sia determinante poiché ciò che importa è che si scelga bene.
Quindi il caso non assicura una scelta felice mentre determinanti potranno essere
i trascorsi dell'ultima reincarnazione. Scegliere, nella visione platonica, significa
infatti essere coscienti criticamente del proprio passato per non commettere più errori e
avere una vita migliore.
Le Moire (corrispondenti alle Parche latine, erano Cloto, Lachesi ed Atropo ed erano
le divinità che presiedevano al destino dell'uomo: la prima filava il filo della vita, la
seconda dispensava i destini, assegnandone uno a ogni individuo stabilendone anche la
durata, e la terza, l'inesorabile, tagliava il filo della vita al momento stabilito; le loro
decisioni erano immutabili, neppure gli Dèi potevano cambiarle) renderanno poi la scelta
della nuova vita immodificabile: nessuna anima, una volta operata la scelta, potrà
cambiarla e la sua vita terrena sarà segnata dalla necessità.
Le anime si disseteranno con le acque del fiume Lete ma quelle che lo hanno fatto in
maniera smodata dimenticheranno la vita precedente, mentre i filosofi, che guidati dalla
ragione non hanno bevuto, manterranno il ricordo, solo un po' attenuato, del mondo
delle idee, alle quali, durante la nuova vita, potranno riferirsi per ampliare la loro
conoscenza e vivere serenamente.
Interpretazioni della Repubblica (1)
Indubbiamente La Repubblica è il dialogo più importante di Platone. Questo
però non deve indurre a sopravvalutarne la fortuna nel corso dei secoli, perché
solo nel corso del Novecento essa ha costituito un nodo centrale della
riflessione filosofica specie in ambito etico-politico.
Infatti da un lato La Repubblica non ha quasi mai condiviso il prestigio e
l’autorità sempre riconosciuti a Platone: in lunghi tratti della storia bimillenaria
del Platonismo, al contrario, si è apprezzato Platone nonostante La
Repubblica; dall’altro lato il ruolo svolto da questo dialogo nella formazione
delle teorie etico-politiche dell’Occidente non è stato neppure lontanamente
paragonabile, per autorità ed efficacia a quella svolta dalla Politica di
Aristotele.
Proprio nel libro II di questa sua opera, Aristotele considerava che il prezzo che
Platone aveva pagato in nome dell’unità della città - per evitare che essa fosse
spaccata fra ricchi e poveri, e poi divisa in una molteplicità di gruppi di interesse
tanti quanti erano i nuclei patrimoniali e familiari - fosse eccessivo e comunque
psicologicamente inaccettabile.
Ogni uomo, diceva Aristotele, costruisce la propria identità sulla base di
ciò che costituisce la sua sfera privata, cioè di quei beni ed affetti di cui
può appunto dire: «questo è mio».
Interpretazioni della Repubblica (2)
L’interesse collettivo è solo secondario e mediato; nessuno dedica ai beni comuni,
oppure ai figli comuni, neppure un millesimo delle energie e delle cure che è pronto
a dedicare ai beni e ai congiunti propri.
A partire da Aristotele, e fino al nostro secolo, la tradizione del pensiero liberale ha
su queste basi radicalmente respinto il progetto platonico. Nella celeberrima opera
del 1944 «La società aperta e i suoi nemici», Karl Popper ha considerato
Platone (insieme con Hegel e Marx) uno dei principali nemici della società liberale,
e perciò uno dei padri dei totalitarismi tipici del nostro secolo.
Popper vedeva in Platone il primato assoluto dello stato sull’individuo, e,
all’interno dello stato stesso, la consegna di un potere assoluto ad una
minoranza che si proclamava depositaria di un sapere assoluto, i cui metodi e
i cui fondamenti non potevano però venir resi pubblicamente espliciti: che
cosa ci può garantire, diceva Popper, che questa minoranza (di filosofi in
Platone, ma magari anche dei dirigenti di partiti quali quello giacobino,
comunista o nazista) non eserciti di fatto una dittatura sottratta ad ogni
controllo democratico?
I difensori di Platone si sono divisi, di fronte a queste critiche, in due gruppi. I
simpatizzanti delle posizioni liberal-democratiche hanno sostenuto che l’utopia
proposta nella Repubblica non deve venir presa alla lettera. Si tratterebbe, come
sostiene ad esempio Hans Georg Gadamer, di una provocazione puramente
intellettuale, che ha una funzione critica rispetto allo stato di cose esistente ai tempi
Interpretazioni della Repubblica (3)
di Platone (cioè l’esercizio del potere in funzione di interessi privati di gruppi e di
famiglie), ma che non pretende in alcun modo che i suoi contenuti siano possibili e
desiderabili. Un gioco intellettuale, in sostanza, senza alcun aspetto progettuale.
All’estremo opposto, i simpatizzanti del pensiero socialista e comunista, come
Robert Pohlmann, hanno visto in Platone uno dei precursori di questa tradizione,
anche se si sono scontrati con il problema della limitazione del «comunismo»
platonico alla sola classe dirigente, così come sia pure problematicamente sembra
indicare la Repubblica. Una limitazione che aveva indotto, cento anni prima, lo
stesso Karl Marx ad assumere una posizione chiaramente anti-platonica nel
capitolo 12 del I Libro del Capitale: «La Repubblica di Platone, per quanto
riguarda lo svolgimento della divisione del lavoro come principio formativo dello
Stato, è stato soltanto una idealizzazione del sistema egiziano delle caste», ovvero
il prodotto di una nostalgica ideologia di ceto (ma a questa drastica svalutazione
dell'opera platonica contribuiva certamente anche l’antipatia marziana per ogni
forma di comunismo utopico e non materialistico storico).
Non sono mancati, infine, negli anni Venti e Trenta del nostro secolo, usi di Platone
in senso fascista e nazista: essi apprezzavano il primato che Platone
indubbiamente assegna allo stato, rispetto ai cui interessi le libertà e i diritti
individuali vengono in secondo piano (Platone scrive ad esempio che non è giusto
che la medicina prolunghi la vita di coloro la cui capacità di prestazioni utili agli
interessi collettivi sia irrimediabilmente compromessa). Accenno a Havelock.
Premessa: l’atomismo di Democrito (1)
La formulazione della teoria atomistica è attribuita a due pensatori: Leucippo e
Democrito. Il primo sembra essere il vero fondatore della teoria, per quanto il
suo contributo sia stato poi eclissato da quello di Democrito (tanto che
l’atomismo viene visto principalmente come creazione di quest’ultimo, al punto
che Epicuro, nato circa 150 anni dopo, non accenna all’esistenza di Leucippo).
Democrito di Abdera (Abdera, Tracia, tra il 470 e il 457 a.C. - ivi, forse tra il 360 e il
350 a.C.) fu un grande filosofo e naturalista. Dei numerosi scritti di fisica, etica,
matematica, letteratura e musica, ci sono pervenuti soltanto circa trecento
frammenti. Discepolo di Leucippo, Democrito ne ha sviluppato rigorosamente la
concezione atomistica mirando a una spiegazione della realtà non solo fisicoscientifica, ma anche e soprattutto metafisica. L’ontologismo eleatico rappresentato
da Parmenide era giunto, a causa del suo monismo, a condannare come privi di
realtà lo spazio vuoto, la molteplicità, il movimento, il mutamento, la genesi, la
distruzione, e quindi il divenire in generale. In tal modo il mondo dell’esperienza
sensibile era ridotto a un tessuto di parvenze non vere.
Contro il monismo di Parmenide, gli atomisti tentano di dar ragione dei
mutamenti delle cose senza ricorrere ad omeomerie o elementi, ossia
valendosi del concetto del movimento spaziale di realtà molteplici.
Gli elementi reali, che con i loro raggruppamenti costituiscono tutte le cose
concrete, devono essere indivisibili (atomi): infatti, se l’essere fosse sempre
continuamente divisibile, e non si ponesse un termine a tale divisibilità, esso
si ridurrebbe a diventare nulla. (DK 68 A 37; DK 68 A 37 a).
[segue]
Premessa: l’atomismo di Democrito (2)
L’obiettivo degli atomisti consiste nel conciliare i fenomeni osservabili consistenti in
pluralità, moto e cambiamento con la negazione eleatica della possibilità di inizio
e fine dell’esistenza (DK 67 A 7). In questo sono assimilabili ad Anassagora ed
Empedocle, ma a differenza di questi ultimi i loro principi non sono costituiti da
elementi o particelle osservabili, e i processi primari di formazione e disgregazione
degli enti non consistono nel mescolarsi e separarsi degli elementi.
La fisica atomistica postula infatti due principi fondamentali: il primo consiste
nell’esistenza di enti primari individuali, eterni e sempre uguali, che operano
attraverso un processo di aggregazione e separazione.
Queste particelle sono invisibili e quindi non osservabili – è possibile assegnare
loro delle proprietà solo per via teorica. Le particelle sono anche indivisibili e per
questo sono chiamate atomi (letteralmente: impossibile da dividere, DK 67 A 13;
DK 67 A 14; DK 67 A 15).
Il secondo consiste nell’esistenza del vuoto, ovvero di uno spazio in cui nulla è
presente e che permette agli atomi di circolare e formare aggregati (DK 67 A 19).
Un attributo che si presta ad entrambi è quello dell’infinità: gli atomi sono infiniti in
numero e lo spazio in cui si muovono è un continuo tridimensionale e infinito che
può essere occupato o meno in ogni sua parte.
Il moto degli atomi è eterno ed è regolato dalle precedenti interazioni tra gli atomi
stessi. Gli atomi risultano indivisibili non per la loro estrema piccolezza, ma perché
non contengono vuoto: gli atomi sono fisicamente indivisibili, dal momento che
sono duri, solidi, quindi impenetrabili.
[segue]
Premessa: l’atomismo di Democrito (3)
In virtù della loro indivisibilità, gli atomi si avvicinano all’essere di Parmenide, di
cui possiedono anche gli altri caratteri essenziali: sono infatti ingenerati,
imperituri, immutabili e privi di qualità sensibili.
Se tutti gli atomi hanno una stessa natura, affinché costituiscano una pluralità,
occorre che siano moltiplicati e frammentati dal vuoto che l’eleatismo aveva
identificato con il non-essere.
Il non-essere esiste non meno dell’essere; e insieme l’essere (il pieno) e il
non-essere (il vuoto) costituiscono i due principi di tutte le cose. Poiché
l’essere è una pluralità in forza del non-essere, ossia del vuoto, gli atomi
possono distinguersi tra loro soltanto per le differenze che il vuoto può
produrre nel pieno, ossia per le loro proprietà spaziali e geometriche: la
figura, l’ordinamento e la posizione (DK 67 A 6).
Attraverso i raggruppamenti degli atomi si formano tutte le cose, che si
dissolvono a causa delle loro divisioni.
Democrito concepisce il movimento in modo rigidamente meccanico: il pieno,
quando si trova nel vuoto, continua nel suo movimento ingenerato ed
eterno, del quale non si deve chiedere ragione proprio perché esso è
originario ed è da sempre avvenuto.
Gli atomi, che sono infiniti, muovendosi in tutte le direzioni nel vuoto, anch’esso
infinito, si incontrano, dando origine a un movimento vorticoso che determina
raggruppamenti di elementi simili per qualità geometriche.
[segue]
Premessa: l’atomismo di Democrito (4)
L’universo degli atomisti è caratterizzato da meccanicismo, determinismo e
mancanza di una causa finale: ogni evento è effetto di un movimento di atomi
ed è causa dei movimenti successivi, e questo procedimento è necessario e
senza inizio o fine, con ogni movimento derivante da uno precedente.
Non è possibile ricostruire in maniera precisa questa parte della dottrina per via
della natura frammentaria delle testimonianze, ma solitamente si dà una
posizione centrale al frammento DK 67 B2 il quale recita: «nulla si produce
senza motivo, ma tutto con una ragione e necessariamente». Questo
potrebbe implicare che niente nasce dal caso, dal momento che un movimento
di atomi causato da un altro movimento di atomi non può non accadere; e
questo non vuol dire che il caso non abbia un ruolo nella teoria atomistica, per
quanto non sia facile stabilire precisamente quale sia.
Secondo le testimonianze di Aristotele (DK 68 A 68, 69 e 70) e Simplicio (DK
68 A 67) l’origine di tutti i movimenti è attribuita ad un vortice di atomi che
nascerebbe in maniera casuale (DK 68 B 167). In accordo con queste
testimonianze si tende a identificare la necessità con l’impatto tra atomi, che
avviene secondo tre forze: una di repulsione che si presenta in mancanza di
contatto diretto e due di attrazione, una che unisce atomi di forma uguale e
un’altra che unisce atomi di forma diversa. In tal modo si formano i cosiddetti
elementi (fuoco, aria, acqua, terra), le sostanze complesse e i mondi, che sono
infiniti perché tali sono lo spazio e gli atomi.
[segue]
Premessa: l’atomismo di Democrito (5)
Il principio di vita è l’anima, che è corporea perché risulta di atomi di
fuoco, sottili, lisci, sferici, mobilissimi, capaci di attraversare e di
muovere ogni cosa, anche il corpo.
L’anima è diffusa in tutto l’organismo ed è mortale perché si dissolve con
il corpo. Identificando l’essere con il corpo, Democrito riconduce tutti i processi
conoscitivi, sia percettivi sia intellettuali, a movimenti spaziali di atomi corporei.
Per interpretare le percezioni Democrito si avvale della teoria degli εἴδωλα
(=eidola, cioè «immaginette», «effluvi»).
La sensazione avviene quando effluvi o immaginette di atomi incontrano
pori appropriati a loro. Gli eidola, quasi come dei motori esterni,
determinano il movimento dell’anima e quindi dalla sensazione dipende il
pensiero, anch’esso da intendersi come semplice moto atomico, fisico,
corporeo.
Le mutevoli qualità sensibili, tuttavia, non possiedono oggettività, il mondo del
divenire e del mutamento esiste come apparenza; l’unica vera realtà oggettiva
è costituita dal vuoto e dagli atomi.
Le qualità sensibili delle cose, che mostrano differenze qualitative e mutamenti,
esistono non in natura ma per convenzione, ossia hanno esistenza solo
soggettiva, in quanta relativa ai sensi percipienti, e non oggettiva, cioè relativa
alle proprietà reale delle cose (DK 68 B 9).
[segue]
Premessa: l’atomismo di Democrito (6)
La conoscenza oggettiva è quella razionale, che è diretta alle esigenze del
pensiero e permette di penetrare nell’intima natura della realtà, cioè gli
atomi invisibili e non ciò che ci dicono i sensi:
«Democrito afferma che vi sono due modi di conoscenza, cioè mediante i sensi
e mediante l’intelletto: e chiama genuina la conoscenza mediante l’intelletto,
riconoscendo ad essa la credibilità nel giudicare il vero, mentre all’altra dà il
nome di oscura, negandole la sicurezza nel conoscere il vero. Dice
testualmente:
“Vi sono due forme di conoscenza, l’una genuina e l’altra oscura; e a quella
oscura appartengono tutti quanti questi oggetti: vista, udito, odorato, gusto e
tatto. L’altra forma è la genuina, e gli oggetti di questa sono nascosti [alla
conoscenza sensibile od oscura]”.
Poi, mostrando la superiorità della conoscenza genuina su quella oscura,
prosegue dicendo:
“Quando la conoscenza oscura non può più spingersi ad oggetto più piccolo né
col vedere né coll’udire né coll’odorato né col gusto né con la sensazione del
tatto, ma <si deve indirizzar la ricerca> a ciò che è ancor più sottile, <allora
soccorre la conoscenza genuina, come quella che possiede appunto un organo
più fine, appropriato al pensare» (DK 68 B 11).
Intermezzo: meccanicismo
Meccanicismo: in generale, concezione di tipo materialistico che tende a spiegare le
proprietà degli oggetti e dei processi del mondo fisico in termini esclusivamente meccanici,
cioè sulla base di concetti connessi con la materia e il movimento, giungendo talora a
interpretare ogni aspetto della realtà, sia naturale sia umana (storica, individuale,
sociale), come il prodotto di una causalità deterministica: negando quindi la presenza di
una finalità superiore o immanente, ovvero riducendo la complessità e l’evoluzione del
mondo reale a relazioni lineari di causa-effetto che, regolate da leggi immutabili, escludono la
considerazione di dinamiche di tipo dialettico o di processi retroattivi.
Nella storia del pensiero filosofico e scientifico, il meccanicismo che può essere fatto risalire
alle dottrine degli atomisti greci (Leucippo, Democrito, Epicuro) in quanto esse
riconducevano la molteplicità del sensibile alle proprietà geometrico-meccaniche delle
particelle ultime indivisibili da cui si pensavano costituiti tutti i corpi, e agli effetti del
loro moto casuale.
Ripresa nel pensiero moderno nel Seicento, tale concezione si sviluppa sulla base della
distinzione tra qualità primarie, oggettive e definite in termini puramente meccanici (figura,
grandezza, posizione, movimento, numero) e qualità secondarie (colori, sapori, odori, suoni),
considerate effetti dell’azione della materia sugli organi di senso (nelle sue varie forme, si
oppone al razionalismo finalistico e al metodo classificatorio su base qualitativa propri della
tradizione aristotelica, come risulta dalle opere di Galilei, Cartesio, Gassendi, Hobbes).
Nel Settecento, la concezione filosofica del meccanicismo illuministico si propone come
fondamento dell’unità delle scienze (e che influenzerà anche il positivismo ottocentesco),
secondo la convinzione che tutti i fenomeni, inclusi quelli biologici, psicologici e sociali,
andrebbero interpretati come effetti di processi materiali di natura meccanica in aperta
contrapposizione alle concezioni idealistiche e spiritualistiche.
L’Etica del movente (1)
La caratteristica di una concezione fondamentale dell’etica nella storia della
filosofia è che in essa il bene non viene definito in base alla sua realtà o alla sua
perfezione, ma solo come oggetto della volontà umana o delle regole che la
dirigono.
Così mentre nella prima concezione le norme sono derivate dall’ideale che si
assume come proprio dell’uomo (la perfezione della vita razionale in Aristotele, lo
Stato in Hegel, la società aperta o chiusa in Bergson, ecc.), in questa concezione
si mira anzitutto a determinare il movente dell'uomo, cioè la regola alla quale
egli ubbidisce in linea di fatto; e conseguentemente si definisce come bene ciò a
cui si tende in virtù di quel movente o che è conforme alla regola in cui esso
si esprime.
I primi rappresentanti di questo secondo filone sono Aristippo e la scuola dei
Cirenaici affermavano che solo il piacere è desiderato per se stesso e vedevano
la conferma di questo nel fatto che sin da bambini gli uomini, senza deliberata
volontà, cercano il piacere e quando l'hanno raggiunto non cercano altro, mentre
fuggono il dolore che ne è l'opposto.
I Cirenaici intendevano il piacere come piacere in movimento, negavano che
l'assenza di dolore fosse piacere ed infine ritenevano i piaceri del corpo
superiori a quelli dell'anima. Quindi il bene è il piacere che l'uomo può godere
momento per momento, poiché non vi è nessuna certezza che ne possa godere
nel futuro, dove il destino può rendere vana ogni speranza di vita felice. [segue]
L’Etica del movente (2): Epicuro
Anche per Epicuro (Samo 341 - Atene 270 a. C.) il principio dell'etica è il
piacere (Massime capitali, 12).
Fondatore di una delle più importanti scuole filosofiche dell'età ellenistica, detta
il "Giardino" (perché aveva sede in un giardino attiguo alla sua casa), della sua
opera, amplissima (essa comprendeva quasi 300 titoli), restano:
• i frammenti di circa 9 libri (erano in tutto 37) del Περὶ ϕύσεως (= Sulla
natura provenienti prevalentemente dai frammenti papirologici di Ercolano)
• Lettera a Erodoto sulla fisica
• Lettera a Pitocle sulla cosmologia e le meteore
• Lettera a Menèceo sull'etica
• le Massime capitali
• le Sentenze vaticane.
Già in Samo, ancora ragazzo, poté ascoltare le lezioni del platonico Panfilo:
ma gliene derivò soltanto l’avversione, non più abbandonata, per la filosofia
platonica. Più tardi, a Teo, fu scolaro del democriteo Nausifane: e questa volta
l’influsso, egualmente stabile, fu invece positivo, e fece di Epicuro un convinto
atomista. A diciott’anni si recò ad Atene: forse ascoltò, all’Accademia,
Senocrate; a trentadue anni cominciò la sua carriera di maestro di filosofia:
prima a Mitilene, poi a Lampsaco e infine ad Atene.
[segue]
L’Etica del movente (3): Epicuro
Qui fondò la sua scuola, che ebbe il nome dal giardino in cui amava trattenersi
coi discepoli: onde gli stessi epicurei furono poi chiamati «filosofi del giardino».
Al pari dell’Accademia e del Liceo, anche il Giardino ebbe il carattere di
un’associazione religiosa, ma non dispose mai dei larghi mezzi posseduti dalle
altre due, e conservò il carattere di possesso privato di Epicuro.
Secondo il suo testamento il Giardino passava ai suoi eredi, per quanto questi
dovessero lasciare l’uso alla scuola e provvedere alle necessità di quest’ultima.
Caratteristico era poi nel Giardino il fatto che il culto religioso non era reso a divinità
(per esempio alle Muse, come nell’Accademia o nel Liceo), ma allo stesso Epicuro,
e secondo prescrizioni lasciate da lui medesimo.
Ciò derivava, d’altronde, dalla fondamentale irreligiosità dell’epicureismo, e
favoriva a sua volta quel dogmatismo reverente che (anche se talora
esagerato dalla tradizione) distinse in ogni modo da tutte le altre filosofie
quella del Giardino.
Suggestive le ultime parole di Epicuro così come ce le ha riportate Diogene Laerzio
(Vite dei filosofi, X): «Ecco la lettera che scrisse a Idomeneo in punto di morte: In
questo bellissimo giorno, che è anche l'ultimo della mia vita, ti scrivo questa lettera.
I dolori della vescica e dell'intestino non possono essere più lancinanti, eppure la
gioia del mio animo riesce ad opporsi a loro per il dolce ricordo del nostro filosofare
insieme. Abbi cura dei figli di Metrodoro, come è degno della buona disposizione
che fin da giovane avesti verso me e la filosofia».
[segue]
L’Etica del movente (4): Epicuro
Epicuro costruisce la sua etica sullo schema del meccanicismo puro, per esser
sicuro che l’uomo non fosse in balia di alcuna volontà superiore liberandolo quindi
dal terrore del divino e dalla paura della morte (intesa come morte non solo del
corpo, ma anche dell’anima che si dissolve negli atomi originari ed eterni). Tutto ciò
ha ovviamente delle conseguenze sulla sua proposta etica. I caratteri fondamentali
dell’etica epicurea sono infatti:
• il reale è perfettamente conoscibile dall'intelligenza dell'uomo;
• nelle dimensioni del reale c'è spazio per la felicità dell'uomo;
• la felicità dell'uomo è mancanza di dolore e turbamento;
• per raggiungere la felicità l'uomo ha bisogno solo della sua saggezza (=
φρόνησις, intesa anche nel senso di prudenza, che in alcuni casi è preferibile
alla «filosofia») e di un «sobrio calcolo» dei piaceri (Lettera a Menèceo 131 132);
• non servono alla felicità dell'uomo la πόλις, le istituzioni, le ricchezze e gli onori.
Diversamente da Aristippo, per Epicuro il vero piacere è "assenza di dolore nel corpo"
(aponia, dal greco antico ἀπονία) e "mancanza di turbamento nell'anima" (atarassia,
dal greco antico ἀταραξία - da α + ταραξις: assenza d'agitazione), perché è il solo che
non può crescere ulteriormente e on può lasciarci insoddisfatti. Epicuro cercava quindi
il piacere stabile e duraturo, quello che si ottiene con la privazione del dolore e che
solamente genera la felicità. Inoltre, a differenza dei Cirenaici, Epicuro ritenne i
piaceri dell'anima superiori a quelli del corpo: infatti l'anima soffre anche per le
esperienze passate e per quelle future, mentre il corpo soffre solo per quelle presenti.
L’Etica del movente (5): Epicuro
Tradizionalmente la filosofia di Epicuro viene divisa in canonica, fisica ed etica.
Vedi il brano «Il valore pratico delle sintesi teoriche»: Lettera a Erodoto 35 -36.
La canonica: con il termine canone Epicuro intende indicare i criteri necessari e
sufficienti per condurre l’uomo verso la verità. Tali criteri sono tre:
a) le sensazioni (colgono sempre l’essere in modo infallibile, quindi sono sempre e
tutte vere);
b) le prolessi (sono le rappresentazioni mentali delle cose, anticipano l’esperienza
ma solo nella misura in cui sono prodotte dall’esperienza: ad esempio i “nomi”
delle cose);
c) i sentimenti di piacere e dolore (servono per riconoscere i valori dai non valori criterio logico-ontologico ed anche assiologico).
Criterio fondamentale di verità è quindi l’ ἐνάργεια (= enargeia, cioè l’evidenza),
posseduta in primo luogo dalle sensazioni (αἰσϑήσεις): e queste a loro volta sono
provocate da specie di emanazioni delle cose (εἴδωλα = eidola cioè «immaginette» o
anche ρεύματα cioè «efflussi»). Tra le sensazioni, vanno distinte quelle che provengono
da un diretto e costante afflusso di εἴδωλα, e che testimoniano quindi della reale
esistenza delle cose (sensazioni propriamente dette) e quelle che invece derivano da
combinazioni, saltuarie e arbitrarie, di εἴδωλα erranti: sensazioni fantastiche. La logica
anti-idealistico cerca di giustificare oggettivamente anche l’immaginazione. In questa
conoscenza sensibile è d’altronde la fonte di ogni sapere: perché quella stessa
conoscenza ideale, che tanto aveva impegnato il pensiero di Socrate, Platone e
Aristotele, non è per Epicuro che un prodotto secondario della sensazione, memoria del
percepito e anticipazione («prolessi») del percepibile.
[segue]
L’Etica del movente (6): Epicuro
La fisica di Epicuro, sulla scorta dell’insegnamento di Democrito, è una visione generale
della realtà nella sua totalità e nei suoi principi ultimativi. Essa tuttavia è elaborata
esclusivamente per dare fondamento all’etica. In forza del grande principio parmenideo
nulla nasce in assoluto (cioè viene dal non-essere), e nulla muore in assoluto (torna
al non-essere), si può parlare unicamente di composizione e scomposizione a partire da
elementi originari, che sono gli atomi che danno luogo a due tipi di corpi: i corpi
indivisibili (gli atomi) e i corpi divisibili (le cose concrete e visibili, composte da
aggregati di atomi).
La presenza del movimento dimostra inoltre l’esistenza del vuoto che consente
appunto ai corpi di spostarsi. Gli atomi hanno molte forme anche se non infinite, peso,
grandezza, movimento perpendicolare dall’alto in basso che può talvolta modificarsi a
seguito dell’inclinazione (= παρέγκλισις = clinàmen): talvolta, in maniera casuale, gli
atomi deviano dal loro moto perpendicolare, scontrandosi così con gli altri atomi
che in quel momento si trovano attorno (non si spiegherebbe altrimenti l’origine
dei corpi). Ma la teoria del clinàmen (che nei testi di Epicuro è assente - tranne forse in
Lettera a Erodoto 43; è presente invece in Lucrezio, De rerum natura, II, 216 – 276) è
introdotta non solo per ragioni fisiche, ma anche e soprattutto per ragioni etiche. Infatti,
nel sistema dell’antico atomismo tutto avviene per necessità: il Fato e il Destino sono
sovrani assoluti; ma in un mondo in cui predomini il Destino, non ci sarebbe posto per la
libertà umana e dunque nemmeno per una vita morale quale Epicuro la concepisce.
Vedi i brani: «Vuoto e movimento»: Lettera a Erodoto 39 - 40 e «Atomi ed aggregati
nell’illimitato»: Lettera a Erodoto 40 - 42.
[segue]
L’Etica del movente (7): Epicuro
Anche la struttura dell'universo viene spiegata da Epicuro soltanto mediante la nozione
di atomo e vuoto presenti nell'universo. Egli respinge la costruzione di modelli
astronomici e matematici per spiegare i fenomeni celesti. La cosmologia di Epicuro
poggia su un assunto razionale, in quanto esclude qualsiasi intervento divino e
qualsiasi antropomorfismo nella concezione degli astri e dei corpi celesti.
A differenza di Aristotele, Epicuro non ammette alcuna materia privilegiata per i corpi
celesti. Conduce poi una serrata polemica contro la cosmologia platonica del Timeo:
egli rifiuta infatti la composizione degli elementi e del cosmo sulla base dei 5 poliedri
regolari, che Platone non è stato in grado di dimostrare indivisibili: se non sono
indivisibili, dice Epicuro, perché mai si dovrebbe ritenere che le altre figure siano formate
da questi, se questi a loro volte sono formati da altri.
Per quanto riguarda la metereologia, ossia quei fenomeni e eventi lontani da noi, dei
quali la causa non è evidente, Epicuro ritiene che siano possibili molteplici spiegazioni.
Così per il sorgere e il tramontare degli astri, per le loro dimensioni, per il formarsi di
tuoni, lampi, terremoti, venti e così via. Di questi fenomeni si possono fornire più
spiegazioni che risultano tutte accettabili, purché in accordo con i fenomeni e non
smentibili da parte di altri fenomeni. Epicuro rifiuta la spiegazione di questi eventi in
termini di teleologia o finalismo, alla maniera di Platone e di Aristotele: essi non
avvengono in vista di un fine.
Soprattutto egli esclude che gli dei agiscano come cause o agenti provvidenziali sul
mondo degli uomini; in tal modo egli si allontana sia dalle credenze della religione
popolare, sia dalle teorie elaborate in proposito dai filosofi.
[segue]
L’Etica del movente (8): Epicuro
Epicuro ha sviluppato inoltre una teoria del linguaggio dalla quale derivano anche
certi aspetti della linguistica moderna e contemporanea: nella Lettera a Erodoto
75 – 76 egli si chiede se il linguaggio è per natura o è per convenzione. La sua
risposta è che il linguaggio è per natura e insieme per legge.
Riallacciandosi alla concezione degli Atomisti, distingue fra gli atomi linguistici e i
rapporti di atomi linguistici, da cui nasce il linguaggio. Come i corpi e la realtà
nascono da atomi che, in base a come si incontrano, determinano una realtà o
un’altra, un mondo o un altro, così, in base a come si legano tra di loro gli atomi
linguistici, nasce un linguaggio o un altro. Quindi l'atomo linguistico è «per
natura», mentre il linguaggio è «per convenzione». Pertanto, anche se in diversi
paesi si parlano diverse lingue, gli atomi linguistici sono uguali per tutti.
Subendo affezioni particolari, a seconda dei singoli popoli, e cogliendo
particolari differenti, i vari uomini fanno uscire in modo particolare l'aria,
dietro l'impulso di ciascuna di tali affezioni, che sono per natura. In base a
come questi suoni si articolano tra di loro in un certo paese, diventano dei nomi,
delle parole che hanno degli elementi. Si tratta di suoni che, legati in un
determinato modo, significano determinate cose per convenzione. Quindi, la
differenza dei suoni non è arbitraria, ma convenzionale. Pertanto le impressioni che
si ricevono sono le stesse nei vari linguaggi, anche se cambia la fonetica. In tal
modo Epicuro riesce a spiegare la differenza dei linguaggi e a considerare la lingua
barbara non più come tale, ma solo come un diverso linguaggio.
[segue]
L’Etica del movente (9): Epicuro
Epicuro ammette l'esistenza degli dei anche se li vede lontani dalle vicende degli
uomini. Secondo il filosofo infatti la divinità non si interessa minimamente delle
vicende umane ed egli lo dimostra con un ragionamento simile a quello aristotelico:
la divinità è una realtà beata, e se si occupasse delle vicende umane, come
potrebbe esserlo? Sarebbe un‘auto-diminuzione occuparsi di tali cose.
Tuttavia dire che gli dei non si curano delle vicende umane non vuol dire che siano
irrilevanti: essi sono un modello da imitare per l'uomo; gli dei vivono la
migliore delle vite, piena di felicità e l'uomo imitandoli può condurre una vita
uguale alla loro: da qui nasce la teoria secondo cui l'uomo è uguale agli dei,
può assimilarsi ad essi.
L'unica differenza tra uomo e dei, oltre al fatto che questi ultimi vivono negli
intermundia, ossia gli spazi che separano un mondo dall'altro, è che gli dei
hanno la vita eterna e di conseguenza la felicità eterna, l'uomo invece no. Ma che
cosa mi importa se c'è la felicità quando io non ci sono più:
«Non è infatti per me cosa piccola o priva di importanza ciò che rende la mia
disposizione d' animo simile a quella degli dei e indica che non siamo
inferiori alla natura incorruttibile e beata, nonostante la nostra condizione
mortale. Perché, da vivi, possiamo godere di una felicità pari a quella degli
dei anche se si sia ricevuta una diminuzione; ma se non si è in grado di
sentire, in che modo si può ricevere una diminuzione?» (vedi Lettera a
Menèceo ).
[segue]
L’Etica del movente (10): Epicuro
Se per Aristotele la divinità muoveva il mondo, per Epicuro essa muove gli uomini,
che devono tentare di imitarla (esattamente come i pianeti per Aristotele imitavano
l' eternità e la perfezione di Dio). Tra l'altro questa concezione della divinità che non
interviene nel mondo umano sortisce anche un altro effetto: dissipa il timore per la
divinità, che non va temuta in quanto non interverrà mai nel nostro mondo. Per
Epicuro la religione tradizionale degenera in superstizione e atteggiamenti ridicoli
dati dalla paura che l'uomo prova nei confronti di Dio: «non è irreligioso chi
rinnega gli dei del volgo, ma chi le opinioni del volgo applica agli dei».
Innanzitutto gli dei, secondo Epicuro, non sono composti come gli altri oggetti,
altrimenti sarebbero anch'essi sottoposti ai processi di disgregazione. Gli dei,
invece, sono immortali, immuni da dolori e vivono beati in quelli negli spazi che
separano tra loro gli infiniti mondi. La condizione di beatitudine, ossia l'assenza
di ogni genere di turbamento, è usata da Epicuro per dimostrare che gli dei
non si occupano del mondo e delle cose umane.
Attribuire agli dei il governo del mondo equivarrebbe a privarli della beatitudine, che
è propria della loro condizione divina. Altro argomento contro la provvidenza divina
è quello che fa leva sulla presenza del male nel mondo. Se gli dei intervengono
nelle vicende del mondo, perché non eliminano il male? Le risposte possibili hanno
la seguente forma: o perché non possono o perché non vogliono o perché né
possono né vogliono. Ma se non possono, gli dei sono impotenti; e se non
vogliono sono invidiosi, ossia non sono divinità buone.
[segue]
L’Etica del movente (11): Epicuro
Impotenza e invidia sono caratteristiche incompatibili con la nozione di divinità. D'altra
parte se possono e vogliono, come mai il male continua a essere presente nel
mondo? L'unica soluzione che consente di non attribuire alla divinità caratteristiche
negative consiste, allora, nel riconoscere che gli dei non si occupano del mondo e
delle faccende umane. Gli dei sono indifferenti all'uomo, né minacciosi né
benigni, e la natura non è un ordine protettivo nel quale gli esseri umani sono
inseriti.
Con queste argomentazioni Epicuro ritiene di eliminare uno dei timori che attanagliano
gli uomini e impediscono loro di raggiungere la serenità: il timore degli dei, di un loro
intervento e della loro possibilità di assegnare premi o castighi. Ma gli uomini vivono
anche in preda ad un altro timore, il timore della morte, con il conseguente desiderio
di immortalità; al filosofo, invece, interessa la qualità, non la quantità della vita.
Epicuro cerca quindi di elaborare un'argomentazione che liberi gli uomini anche da
questo timore.
Le premesse di essa sono date dai principi della sua dottrina fisica. L'uomo è un
composto di atomi e vuoto, in quanto anche l'anima è costituita da un tipo particolare
di atomi di forma sferica (o comunque «perfetta»). La morte equivale alla
disgregazione di questo composto; ma con essa viene meno ogni possibilità da parte
dell'uomo di percepire questo evento, perché la sensibilità è legata alla condizione di
integrità di quel composto atomico che è l'uomo. Questo punto è compendiato da
Epicuro nell'affermazione celebre: la morte non va temuta, perché quando ci
siamo noi non c’è lei, e quando c‘è lei non ci siamo noi.
[segue]
L’Etica del movente (12): Epicuro
L' uomo di fronte alla morte deve ragionare così : se la vita trascorsa è stata
colma di gioia ci si può ritirare da essa come un convitato sazio e felice dopo un
lauto banchetto; se al contrario è stata segnata da dolori e tristezze, perché
desiderare che essa prosegua? Solo gli stolti vogliono ad ogni costo continuare
a vivere, anche se nulla di nuovo li può attendere perché accadono sempre e
solo le stesse cose.
La liberazione da questi due timori è per Epicuro condizione fondamentale per
raggiungere il fine della vita umana. Essa fa parte del quadruplice farmaco
predisposto dalla filosofia (il quadrifarmaco), il quale provvede a liberare
anche da altri due timori, quello del dolore e dell'irraggiungibilità della felicità.
In altre parole nella teoria del quadrifarmaco si dice che la filosofia di Epicuro:
1) libera l'uomo dalla paura degli dei, che non si curano delle vicende umane;
2) libera l'uomo dalla paura della morte, che è semplicemente una
disgregazione di atomi;
3) dimostra la brevità e provvisorietà del dolore: il dolore se è intenso è breve,
se è lungo non è intenso e se è intensissimo porta in fretta alla morte, la
quale è assoluta insensibilità;
4) dimostra la facile raggiungibilità della felicità, che consiste nel piacere
catastematico (cioè stabile).
Di seguito l’esemplificazione del quadrifarmaco.
[segue]
L’Etica del movente (13): Epicuro
Mali
Terapia del quadrifarmaco
Gli dei sono perfetti e quindi, per non contaminare la loro natura divina, non si
interessano delle faccende degli uomini mortali e non impartiscono loro premi
Il male che deriva o castighi.
dalla paura degli dei “La divinità o vuol togliere i mali e non può, oppure può e non vuole o anche
e della vita dopo la non vuole né può o infine vuole e può. Se vuole e non può, è impotente; se
morte
può e non vuole, è invidiosa; se non vuole e non può, è invidiosa e impotente;
se vuole e può, donde viene l’esistenza dei mali e perché non li toglie?”
(Frammenti, 374 e Massime capitali, I).
Il male che deriva “La morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è lei, e
dalla paura della quando c'è lei non ci siamo più noi” (Lettera a Menèceo, 125 e Massime
morte
capitali, II).
Esso è facilmente evitabile seguendo il calcolo epicureo dei bisogni da
Il male che deriva
soddisfare; dunque il solo piacere da perseguire sempre è il cosiddetto
dalla mancanza del
piacere catastematico, cioè quello duraturo e non transeunte, legato ai soli
piacere ovvero dai
beni naturali e necessari, capaci di mantenersi inalterati nel tempo (Massime
desideri insoddisfatti
capitali, III).
Se il male è lieve, il dolore fisico è sopportabile, e non è mai tale da offuscare
la gioia dell'animo; se è acuto, passa presto; se è acutissimo, conduce presto
Il male che deriva dal
alla morte, la quale non è che assoluta insensibilità. I mali dell'anima sono
dolore fisico o morale
invece prodotti dalle opinioni fallaci e dagli errori della mente, contro i quali ci
sono i rimedi della filosofia e della saggezza (Massime capitali, IV).
L’Etica del movente (14): Epicuro
Epicuro ripone dunque nel piacere (ovvero la felicità) il fine della propria vita umana, ma,
diversamente da quanto aveva pensato Platone nel Gorgia, piacere e dolore non sono
contrari, bensì contradditori, nel senso che se c’è l'uno non c‘è l'altro e viceversa. Come le
sensazioni e i concetti sono i criteri di verità, così le sensazioni di piacere e di dolore sono
i criteri della scelta. Il piacere è dunque definito in primo luogo come assenza di dolore e
caratterizza la condizione di chi gode di una buona condizione di salute fisica e psichica (di
nuovo Massime capitali, I - IV). Il dolore, invece, sia fisico sia psichico, è turbamento di
questa condizione naturale. Partendo dalla constatazione che ogni piacere è di per sé un
bene, ma non è detto che le sue conseguenze nel tempo siano vantaggiose per noi, Epicuro
distingue tra piacere cinetico o in movimento, il quale accompagna un processo ed è
sempre mescolato al turbamento o al dolore, e piacere catastematico o stabile, proprio
invece da uno stato privo di dolori (piacere cinetico come variazione di quello catastematico:
Massime capitali, XVIII). Secondo il filosofo del Giardino i piaceri possono essere (Massime
capitali, XXIX):
1. piaceri naturali e necessari che sono quei piaceri strettamente legati alla conservazione
della vita dell'individuo, come ad esempio il mangiare, il bere e il riposare. Questi sono gli
unici piaceri che vanno sempre e comunque soddisfatti perché sono i soli che trovano in
loro stessi un limite preciso (sulla naturalità dei desideri: Lettera a Menèceo, 130);
2. piaceri naturali ma non necessari che sono, invece, tutti quei piaceri che costituiscono
variazioni superflue dei piaceri naturali: mangiare bene, bere bevande raffinate, ecc.
Questi non hanno già più quel limite perché non sottraggono il dolore corporeo, ma
variano solo il piacere e possono provocare un notevole danno;
3. piaceri non naturali e non necessari che sono quei desideri vani come tutti i piaceri
legati alla ricchezza, alla potenza e all’onore. Questi non tolgono il dolore corporeo e
arrecano sempre turbamento all'anima rendendoci insaziabili.
[segue]
L’Etica del movente (15): Epicuro
Per Epicuro la piena realizzazione dei fini umani non è raggiunta attraverso la partecipazione
attiva alla vita politica e associata: su questo punto egli si allontana decisamente dal Platone
della Repubblica e in parte anche da Aristotele. La società e le tecniche si sono costituite
e sviluppate sotto la spinta della ricerca dell'utile, ossia per raggiungere il piacere ed
evitare il dolore, ma secondo Epicuro il vero luogo in cui il piacere e la felicità possono
essere perseguiti e raggiunti è la piccola comunità di amici raccolti intorno ad un
maestro non la città.
La città per Epicuro è propriamente soltanto condizione negativa rispetto a questo scopo. Egli
definisce, inoltre, la giustizia come un patto o contratto stipulato allo scopo di non recare o
subire danni. Essa quindi non è una virtù cooperativa, come avrebbe voluto Platone, ma una
semplice convenzione, dettata non da obblighi morali né dalla natura, bensì dall'utile
individuale. Lo scopo è quello della protezione e della difesa: acconsentire di non
danneggiare altri a patto che essi non danneggino me: l'uomo saggio si asterrà dalla
politica. A questo proposito va senz'altro citato il motto di Epicuro: λάθε βιώσας (= lathe
biosas, cioè «vivi nascosto», «vivi ignorato dagli altri») al quale possiamo affiancare
quello contenuto nei Tristia di Ovidio: «bene qui latuit, bene vixit» (= ha vissuto bene chi ha
saputo stare ben nascosto).
Ciò non significa vivere una vita solitaria o rompere i legami con la città alla maniera dei
Cinici. Si tratta, invece, di non ricercare nella città la felicità e l'autosufficienza che soltanto i
legami di amicizia possono assicurare. Epicuro ravvisa infatti nell' amicizia la causa di
massimo piacere e felicità. E l'amicizia è realizzata pienamente soltanto nella piccola
cerchia della scuola filosofica, al riparo dalle tempeste della vita. Il Giardino era un luogo
privato dove l'amicizia era centrale (Sentenza vaticane, 23 e 78; Massime capitali, XXVII e
XXVIII). Per finire, il brano: «La filosofia, la felicità e la natura degli Dèi e degli uomini»:
Lettera a Menèceo (o Lettera sulla felicità) 122 - 135.
Opere consultate per il corso (in rosso quelle difficili) 1
Testi su Raffaello e la Scuola di Atene:
E.H. Gombrich: La Stanza della Segnatura di Raffello e il carattere del suo simbolismo,
in Immagini simboliche, Einaudi, 1978.
G. W. Most: Leggere Raffaello: la Scuola di Atene e il suo pre-testo, Einaudi, 2001
P. De Vecchi: Raffello – l’opera completa, Rizzoli, 2002
G. Reale: La Scuola di Atene di Raffaello, Bompiani, 2005.
Testi e opere dei filosofi trattati:
Platone:
Simposio, Apologia di Socrate, Critone e Fedone, Mondadori, 2005.
Opere complete, Laterza, 1986 (si riportano solo i dialoghi letti in preparazione del corso):
Volume II (Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico)
Volume III (Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro)
Volume V (Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone)
Volume VI (La Repubblica, Timeo, Crizia)
Volume VIII (Lettere)
Aristofane: Le donne al Parlamento, Rizzoli, 1999
Aristotele: Etica Nicomachea, Rizzoli, 1986
Epicuro: Opere, Frammenti, Testimonianze, Laterza, 2003
Tito Lucrezio Caro: De rerum natura, Einaudi, 2003
Opere consultate per il corso (in rosso quelle difficili) 2
Testi su Platone:
E.A. Havelock: Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza,
1983
F. Adorno: Introduzione a Platone, Laterza, 1986.
G. Reale: Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e pensiero, 1997.
F. Fronterotta: Guida alla lettura del Parmenide di Platone, Laterza, 1998
M. Vegetti: Guida alla lettura della Repubblica di Platone, Laterza, 1999.
M. Vegetti: Quindici lezioni su Platone, Einaudi, 2003.
M. Heidegger: La dottrina platonica della verità (un'interpretazione di Platone 1931/32, 1940), in Segnavia, Adelphi, 1987.
P. Friedländer: Platone : Eidos, Paideia, Dialogos , La nuova Italia, 1979.
K.R. Popper: La società aperta e i suoi nemici, Bompiani, 2010
L. Canfora: La crisi dell'utopia. Aristofane contro Platone, Laterza, 2014.
Testi su Aristotele:
G. Reale: Introduzione a Aristotele, Laterza, 1987.
E. Berti (a cura): Guida ad Aristotele, Laterza, 1997.
E. Berti: Aristotele nel Novecento, Laterza, 2008.
C. Natali: La saggezza di Aristotele, Bibliopolis, 1989
Opere consultate per il corso (in rosso quelle difficili) 3
Testi su Epicuro:
D. Pesce: Saggio su Epicuro, Laterza, 1974
P. Innocenti: Epicuro, La nuova Italia, 1975
J. Fallot: Il piacere e la morte nella filosofia di Epicuro, Einaudi, 1982
D. Pesce: Introduzione a Epicuro, Laterza, 1985
J. Brun: Epicuro, Xenia, 1986
L. Canfora: Vita di Lucrezio, Sellerio, 1993
F. Verde: Epicuro, Carocci, 2013
K. Marx: Differenza tra la filosofia di Democrito e quella di Epicuro (1841), Editori Riuniti,
1990
Testi sull’etica:
C.A. Viano: L’etica, Mondadori, 1981
E. Lecaldano: Etica, UTET Libreria, 1995
M. Vegetti: L’etica degli antichi, Laterza, 2010
Manuali e opere di storia della filosofia antica:
M. Dal Pra: Sommario di storia della filosofia, Volume I, La Nuova Italia, 1986.
G. Reale: Storia della filosofi antica, Volumi II e III, Vita e Pensiero, 1984.
F. Adorno: La filosofia antica, Volumi I e II, Feltrinelli, 1984.
P. Hadot: Che cos' è la filosofia antica?, Einaudi, 1998
G. Colli: La natura ama nascondersi, Adelphi, 1988
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