Elementi di filosofia del linguaggio - Digilander

Elementi di filosofia del linguaggio
by Epi
NOTA: più che un “elementi di” questa è una sorta di formulario, o di mini-dizionario di
Filosofia del linguaggio. Ha quindi finalità pratiche, e non può e non vuole essere completo o
esauriente. Vuole solo raccogliere alcune utili nozioni in un modo stringato ma chiaro e (si
spera) preciso.
Ho stilato questo documento attingendo al testo del prof. C. Penco Introduzione alla filosofia
del linguaggio, LaTerza 2004; e sulla base del test usato dal Prof. Penco per la parte
istituzionale del suo corso.
Per cui, come spesso capita, anche a me va la seguente sfortuna: che per i meriti del presente
documento, potete rivolgervi a Penco; per le colpe, a me.
A.S.: Ho sommariamente diviso il documento principalmente in autori, anche se questo va
contro le mie massime: sii analitico, evita gli storicismi :-)
Mi sono anche accorto che qui ci sono (anzi, non ci sono) temi importanti non trattati, o
comunque trattazioni che non rendono giustizia neanche parzialmente agli autori. Tuttavia,
come ho già detto, questo documento vuole avere dei dichiarati limiti; anche perché, come
direbbe un altro Tractatus, in un altro mondo possibile: di ciò di cui si ignora, si deve tacere.
Gottlöb Frege
La differenza tra a=a e a=b.
a=a è una tautologia, quindi un’espressione non informativa. a=b ci “dice” invece che, appunto, i
due termini si riferiscono allo stesso oggetto; quindi ci danno un’informazione. L’oggetto è
“presentato” attraverso due sensi diversi.
[Frege si pone il problema all’inizio del suo celeberrimo saggio Über Sinn und Bedeutung,
chiedendosi se l’uguaglianza espressa sia tra oggetti o tra segni, e conclude che essa esprime il fatto
che due Sinn (sensi, modi di presentazione) individuano uno stesso oggetto].
Senso e riferimento per i nomi propri
Il senso di un nome proprio è il “modo di darsi” dell’oggetto, il modo di presentazione
dell’oggetto a cui il termine si riferisce. Il nome proprio esprime il proprio senso, che si può dire
che sia il contenuto cognitivo oggettivo.
Il riferimento (possibile traduzione di Bedeutung, assieme a “denotazione”; traducibile
letteralmente con “significato”, termine che può però portare ad equivoci) di un nome proprio è
l’oggetto a cui il termine si riferisce.
es. di Frege: “Stella del mattino” e “Stella della sera” sono due espressioni con stesso riferimento (il
pianeta Venere), cioè denotano lo stesso oggetto, ma con senso diverso: si può dire che descrivono
l’oggetto in modo diverso.
es. mio (ma non troppo): Le due espressioni “Il maestro di Alessandro Magno” e “L’autore della
Metafisica” individuano (si riferiscono a) lo stesso oggetto, cioè Aristotele. Ma lo “presentano” in
due modi diversi, hanno cioè diverso senso.
Senso ≠ rappresentazione
Il senso è il contenuto cognitivo oggettivo, pubblico, di un nome; la rappresentazione è invece
l’immagine mentale soggettiva che il parlante associa al nome.
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Senso e riferimento per gli enunciati
Frege estende la distinzione tra senso e riferimento agli enunciati: il senso di un enunciato è il
pensiero che esso esprime; il riferimento è il suo valore di verità.
L’argomentazione di Frege
Primo argomento: prendiamo un enunciato con un riferimento. Se in esso sostituiamo una parola
con stesso riferimento ma senso diverso, l’enunciato mantiene il suo riferimento, ma cambia il
pensiero espresso. Quindi, dato che l’unica differenza tra il primo enunciato e il secondo è il senso
della parola sostituita, il mutamento di pensiero è causato dal mutamento di senso, ed è quindi
ragionevole identificare senso e pensiero.
Secondo argomento: siamo interessanti al riferimento dei costituenti di un enunciato se e solo se
siamo interessati al valore di verità dell’enunciato. In poesia invece non ci interessa quale sia il
riferimento dei costituenti, e neppure se ci sia, perché non siamo interessati al valore di verità
dell’enunciato, ma solo al pensiero che esso esprime.
Pare quindi ragionevole identificare il riferimento di un enunciato con il suo valore di verità.
I principi di composizionalità e sostitutività
Principio di composizionalità: il riferimento di un enunciato dipende dal riferimento delle sue
parti costituenti e dalle regole di composizione.
Principio di sostitutività: due espressioni coreferenziali sono sostituibili in un enunciato,
mantenendo inalterato il valore di verità. (E’ la controparte semantica della indiscernibilità degli
identici).
Problemi dei due principi
Il principio di composizionalità non vale nei contesti indiretti. (Quindi non vale neanche la
sostitutività.) Questo perchè un’espressione in un contesto indiretto assume un riferimento indiretto,
che equivale a un senso ordinario.
Nel discorso indiretto ci riferiamo a pensieri.
Senso vs. Tono e Senso vs. Forza
Il tono è il senso indiretto, cioè la scelta, per es., di un certo lessico e di certe sfumature del
linguaggio (i “paludamenti” che travestono il senso). Riguarda quindi l’atteggiamento dei parlanti.
Ma in genere anche la traduzione tende a cambiare il tono, mantenendo però, ovviamente, il senso.
La forza indica lo scopo per cui l’enunciato viene proferito. (Asserzione, domanda, comando...) In
contrapposizione ad essa, il senso è invece il potenziale inferenziale dell’enunciato.
Il principio del contesto
Principio di contestualità: una parola ha significato solo nel contesto di un enunciato.
Termini non denotanti
Per Frege un enunciato contenente termini non denotanti non è né vero né falso (non ha valore di
verità). Per Russell un enunciato ha sempre un valore di verità, in virtù della sua teoria delle
descrizioni.
Bertrand Russell
La teoria delle descrizioni definite
Va premesso che per Russell i nomi propri del linguaggio naturale sono abbreviazioni di descrizioni
definite (attribuzioni univoche [o quasi] di proprietà).
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Ogni enunciato ha una sua forma logica nascosta, che va esplicitata. Quando la si esplicita, si vede
che i nomi vanno formalizzati sotto forma di descrizioni, e non di costanti logiche. E le descrizioni
definite presuppongono l’esistenza e l’unicità dell’individuo descritto. Da qui, la possibilità di
attribuire valore di verità a ogni enunciato, anche contenente termini non denotanti.
Così Russell salva il principio di bivalenza.
Ludwig Wittgenstein (I)
Classificazione degli enunciati nel Tractatus di Wittgenstein
Gli enunciati sensati sono quelli descrittivi, che descrivono stati di cose e che quindi hanno
condizioni di verità.
Gli enunciati privi di senso sono le tautologie e le contraddizioni, sempre vere e sempre false
indipendentemente dal mondo. Non hanno condizioni di verità.
Gli enunciati insensati sono quelli della metafisica, dell’estetica, dell’etica, che non descrivono
alcunché, anche se pretendono di farlo.
Tra gli enunciati insensati ci sono quelli della filosofia, che però sono (o dovrebbero essere) nonsense palesi, tali da insegnare l’uso corretto del linguaggio.
Influenza sul neopositivismo
Il neopositivismo erediterà queste distinzioni, formalizzandole nel Principio di verificazione, già
formulato da Wittgenstein e poi da M. Schlick: “il significato di un enunciato è il suo metodo di
verifica”. (Qui significato sta per senso). Da qui, la visione secondo cui un enunciato è sensato se e
solo se è verificabile.
Il Principio di verificazione è quindi Criterio di significanza per gli enunciati.
Senso come condizioni di verità
Wittgenstein definì il senso (qui, sinonimo di significato) di un enunciato come le sue condizioni di
verità, cioè gli stati di cose che devono sussistere nel mondo affinché l’enunciato risulti vero.
Wittgenstein, come Frege, correla senso e comprensione dicendo che “conosco il senso di un
enunciato se so cosa accade se esso è vero”.
Questa concezione del senso vale per tutti gli enunciati, atomici o composti.
In particolare, il senso di una proposizione atomica è la situazione descritta dalla proposizione. Il
senso di una proposizione composta (molecolare) si mostra nelle sue condizioni di verità (la parte
sinistra della tavola di verità).
“I corvi gracchiano” è vero solo se i corvi gracchiano. (Il gracchiare dei corvi è condizione
necessaria per la verità dell’enunciato).
“I corvi gracchiano e i cani latrano” è vero solo se i corvi effettivamente nella realtà gracchiano e i
cani latrano, cioè se entrambe le condizioni sono soddisfatte.
Rudolf Carnap
Tautologie e contraddizioni
Chiamiamo, con Carnap, “descrizioni di stato” (poi chiamate mondi possibili) le possibili
combinazioni di stati di cose nel lato sinistro delle tavole di verità. Ora possiamo definire la
tautologia come una forma proposizionale che assume valore Vero per ogni descrizione di stato, e
la contraddizione una forma proposizionale che assume valore Falso per ogni descrizione di stato.
Es. di tautologia: “Se i cani parlano e non parlano, allora i corvi gracchiano”. (Applicazione dell’ ex
falso quodlibet di Scoto).
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Es. di contraddizione: “I cani parlano e non parlano”.
Intensione ed estensione
In generale, l’intensione di un concetto è la classe di proprietà condivise dagli oggetti che cadono
sotto il concetto; l’estensione è invece la classe degli oggetti che cadono sotto il concetto.
Intensione ed estensione in Carnap
Carnap ridefinisce l’intensione come funzione da mondi possibili a estensioni.
Per cui, ogni espressione di un linguaggio formale (per es., un enunciato) avrà una estensione (per
es., un valore di verità) e una intensione (una funzione da mondi possibili a valori di verità, in
questo caso una proposizione).
Limitazioni dei due principi di Frege
Lavorando sulla logica modale, Carnap si imbatte in problemi di sostitutività in contesti modali, e
cerca di risolvere problemi già incontrati da Frege (vedi sopra) dando delle limitazioni al principio
di sostitutività:
in generale, due espressioni sono sostituibili salva veritate sse aventi stessa estensione;
ma:
-in contesti modali, due espressioni sono sostituibili salva veritate sse aventi stessa intensione;
-in contesti doxastici ed epistemici due espressioni sono sostituibili salva veritate sse aventi stessa
struttura intensionale.
Semantica
Tarski: modello e Interpretazione
Un modello è una coppia composta da un insieme e una funzione, il Dominio e l’Interpretazone.
M = <D,I>
L’Interpretazione è una funzione che interpreta le espressioni del linguaggio formale in domìni. In
altre parole, assegna estensioni alle espressioni del linguaggio. In particolare, assegna individui ai
temini singolari, classi ai predicati e valori di verità agli enunciati.
Nota: alcuni autori preferiscono chiamare M struttura modello; essa è un modello solo in quanto
rende vere certe formule del linguaggio.
Sintassi, semantica e pragmatica
La tradizione divide la semiotica generale in tre campi:
sintassi: studio del rapporto dei segni con altri segni;
semantica: studio del rapporto dei segni con gli oggetti del mondo;
pragmatica: studio del rapporto dei segni con i parlanti.
Ludwig Wittgenstein (II)
Significato come uso
Wittgenstein, nelle Ricerche filosofiche, conclude che “il significato di una parola è il suo uso nel
contesto di un enunciato e quindi di un gioco linguistico”.
In particolare, critica l’idea che nel Tractatus egli dava della “proposizione atomica”: non è vero
infatti che ogni proposizione è indipendente dal resto del sistema linguistico. Anche per
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comprendere una proposizione atomica abbiamo bisogno di informazioni supplementari. Non solo:
una proposizione atomica può implicare altre proposizioni atomiche: se “Questo è rosso” è vera,
segue, ad esempio, che “Questo è blu” è falsa.
I giochi linguistici
Un gioco linguistico è un contesto di azioni e parole, in cui le espressioni possono avere significato.
Wittgenstein pensa al concetto di gioco linguistico come a:
-uno strumento per studiare situazioni idealizzate di comunicazione;
-un dato da cui partire per descrivere differenze e somiglianze tra giochi linguistici.
In questo modo il linguaggio viene studiato, per così dire, empiricamente, e non, come nel
Tractatus, pretendendo di spiegarne l’essenza.
Somiglianze di famiglia
Nella visione classica, un concetto specificava un insieme di proprietà che “cadevano” sotto di esso.
Wittgenstein oppone a questa visione “essenzialista” la sua idea di somiglianza di famiglia:
spesso le esemplificazioni di concetti sono “imparentate” da somiglianze di famiglia: non è detto
che ci sia un carattere comune a tutti i membri di una famiglia, ma un membro A può avere un
carattere comune con B, e questo può avere un diverso carattere comune con C e così via.
Hilary Putnam
Divisione del lavoro linguistico
Putnam osserva che tra le divisioni del lavoro nelle società vi è anche la divisione del lavoro
linguistico: ogni comunità linguistica possiede alcuni termini tali che il loro significato è fissato da,
e conosciuto da, un sottoinsieme dei parlanti. Quando gli altri parlanti usano tali termini, si
“appoggiano” a un significato che è socialmente distribuito e che non è nella loro testa.
Putnam contro Frege: La Terra Gemella
Putnam, assieme a Kripke, porta avanti la teoria del riferimento diretto, che critica il vecchio
descrittivismo e la nozione di senso di Frege.
Le teorie duali del riferimento distinguono un contenuto ampio (il riferimento diretto) e un
contenuto stretto (ciò a cui i parlanti vogliono riferirsi) di un enunciato.
Per Putnam il riferimento non è determinato dal senso, ma dal mondo.
Propone un esperimento mentale: immaginiamo un individuo, Oscar, che vive sulla Terra prima
della scoperta della chimica. Immaginiamo poi una “Terra Gemella” del tutto simile alla “nostra”
Terra, in cui vive ovviamente un Oscar Gemello. L’unica differenza tra le due Terre è che su Terra
l’acqua è (cioè ha composizione chimica) H2O, mentre su TerraG l’acqua è qualcosa di diverso, che
chiameremo XYZ. Ma, per ipotesi, le due “acque” sono indistinguibili. Quando dicono “acqua”,
Oscar e OscarG si riferiscono a due cose diverse, eppure hanno lo stesso contenuto mentale. Quindi,
se il senso è un contenuto mentale (come per Frege, seppur oggettivo), esso non determina il
riferimento, che è invece determinato in modo diretto dal mondo.
Putnam in particolare vuole mostrare che ci sono due assunzioni di Frege che non possono essere
prese assieme:
-il senso determina il riferimento;
-il senso è un contenuto mentale.
O si accetta il primo o il secondo, ma non entrambi. Con l’esperimento mentale di cui sopra, lui
accetta il secondo.
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Il senso quindi non può rendere conto sia del riferimento col mondo sia del riferimento che il
parlante ha in testa. La semantica deve lavorare su due aspetti, il contenuto ampio e il contenuto
stretto.
Saul Kripke
Kripke contro Frege
Per Saul Kripke, i nomi del linguaggio naturale sono designatori rigidi, cioè designano lo stesso
oggetto in tutti i mondi possibili. Quindi, per Kripke i nomi non hanno un senso (come invece
sostiene Frege), e il senso non consiste in descrizioni definite (come sostengono Russell e Searle).
Infatti noi potremmo cambiare le descrizioni che diamo, per es., di Aristotele, e immaginarci mondi
possibili in cui Aristotele non sia stato maestro di Alessandro Magno. Egli rimarrebbe comunque
Aristotele. Kripke propone la sua teoria causale del riferimento: il riferimento del nome dipende
da un battesimo iniziale e dalla catena causale che segue, che determina l’uso del nome nella società.
Non il senso, non una descrizione, ma una catena causale lega un nome al suo riferimento.
La visione descrittivista e la visione causale
Per la visione descrittivista (in cui possiamo includere Frege, Russell, Searle con la sua cluster
theory) un nome deve possedere la somma (logica) delle proprietà attribuite al suo portatore. Se
Aristotele non fosse stato maestro di Alessandro, non sarebbe Aristotele.
Per la visione causale (il cui portabandiera è Kripke) un nome è un designatore rigido, e (per via
del battesimo e della catena causale visti prima) si riferisce allo stesso oggetto in tutti i mondi
possibili. Aristotele sarebbe quindi Aristotele indipendentemente da fatti contingenti come il fatto
che sia nato a Stagira o che sia stato precettore di Alessandro.
La visione causale accetta quindi che un oggetto abbia proprietà essenziali e altre accidentali.
Questo essenzialismo è una peculiarità della visione di Kripke. (Anche se il problema non è così
semplice...)
John Austin
Austin e i performativi
Austin contrappone alle enunciazioni constative (quelle che descrivono stati di cose, le uniche
sensate per i neopositivisti) le enunciazioni performative, quelle con cui si compiono azioni.
Delle performative non si può dire che siano vere o false, perchè sono azioni. Possono però essere
felici o infelici.
In realtà la distinzione è un trucco retorico; Austin vuole mostrare che usare il linguaggio è
un’azione, con aspetti sia constativi sia performativi. Elabora quindi una teoria generale dell’agire
linguistico.
La teoria degli atti linguistici
Austin in realtà vuole sostenere che tutti i proferimenti sono azioni, generalizzando così l’idea
fregeana di forza.
Nella sua teoria generale, Austin distingue tre aspetti di ogni enunciazione (ogni azione linguistica):
atto locutorio (l’atto di dire qualcosa; include gli aspetti fonetici, sintattici e semantici);
atto illocutorio (l’atto che si compie nel dire qualcosa, cioè asserzione, domanda, offerta, ecc...);
atto perlocutorio (l’atto che si compie col dire qualcosa; riguarda le conseguenze dell’atto
sull’ascoltatore).
Condizioni di felicità
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Le condizioni di felicità sono le condizioni che un’enunciazione performativa deve soddisfare per
costituire un’azione felice. Ci sono condizioni che riguardano le convenzioni: le enunciazioni, per
non andare a vuoto, devono rispettare delle convenzioni; altre che riguardano le intenzioni del
parlante: le enunciazioni devono essere sincere, altrimenti commetto un abuso, e l’azione è meno
piena.
L’atto illocutorio
L’atto illocutorio è l’atto che si compie nel dire qualcosa.
Riguarda gli aspetti convenzionali dell’enunciazione, e per esso valgono le condizioni di felicità.
Classificazione degli atti linguistici
Austin classifica gli atti linguistici basandosi sui performativi espliciti alla prima persona, e
distingue: verdettivi, esercitivi, commissivi, comportativi, espositivi.
Paul Grice
Il principio di cooperazione
Grice osserva che la conversazione segue certe regole senza le quali non c’è comunicazione, e tali
regole sono espressione di un generale Principio di cooperazione: conforma il tuo contributo
conversazionale a quanto è richiesto dall’intento comune.
L’implicatura conversazionale
Un’implicatura conversazionale è un “far intendere” qualcosa mediante una (apparente)
violazione delle massime.
Willard Van Orman Quine
La traduzione radicale
La traduzione radicale è una traduzione tra due lingue e culture che non hanno mai avuto contatti.
Il traduttore si può basare solo sulle connessioni tra espressioni verbali e comportamenti osservabili.
Quine usa l’idea di traduzione radicale come esperimento mentale: non può esistere la traduzione
corretta. Diverse traduzioni sono relative allo schema concettuale usato dai traduttori, e possono
tutte adattarsi ai dati empirici (indeterminatezza della traduzione). L’indeterminatezza della
traduzione non impedisce comunque le traduzioni, che devono essere guidate dal Principio di carità.
I due dogmi dell’empirismo
L’ “empirismo” criticato da Quine è il neopositivismo. Egli critica quelli che per lui sono due dogmi
dell’empirismo:
-la dicotomia analitico sintetico;
-il riduzionismo (fisicalista).
Contro il primo dogma
Quine critica la dicotomia analitico/sintetico mostrando che è impossibile definire l’analiticità senza
cadere in una petitio principii. (Per asserti analitici lui non intende le sole tautologie. Fa notare che
le tautologie non esauriscono l’insieme degli asserti analitici. Carnap cercherà di dar conto degli
asserti analitici non tautologici con i postulati di significato).
In particolare:
Frege aveva definito analitici gli enunciati che possono essere ridotti a tautologie sostituendo
sinonimi con sinonimi. Quindi per definire l’analiticità bisogna definire la sinonimia. La sinonimia
sembra essere definibile tramite la sostitutività. Ma nei contesti intensionali non tutte le espressioni
co-referenziali sono sostituibili salva veritate: non quelle aventi diverso senso (come rilevato già da
Carnap). Insomma, è sinonimo ciò che è sostituibile in tutti i contesti.
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I contesti intensionali comportano le nozioni di necessarietà e contingenza. E la necessità è definita
mediante l’analiticità: “necessariamente” produce una verità quando e solo quando è applicato a un
asserto analitico. Qui sta la circolarità. Siamo tornati al punto di partenza.
Quindi, per Quine, la distinzione netta tra analitici e sintetici non è sostenibile. Tutti gli asserti
hanno una componente logica e una fattuale. In qualche asserto la componente fattuale è nulla, e
questi sono i giudizi analitici.
Donald Davidson
L’olismo semantico
Davidson ritiene di individuare un “terzo dogma” dell’empirismo (sulla scia di Quine, vedi sopra)
nella dicotomia schema concettuale/contenuto empirico. Parallelamente all’olismo epistemologico
della tesi Duhem-Quine, Davidson sostiene un olismo semantico (che si presenta come
un’estensione del principio del contesto di Frege):
una parola (e un enunciato) ha significato solo nel contesto di un linguaggio.
Sempre sulla scia di Quine, Davidson considera la interpretazione radicale e sostiene che non può
esistere la interpretazione corretta.
Michael Dummett criticherà l’olismo semantico sostenendo che se fosse vero non avremmo la
comunicazione. Davidson replica dicendo che la comunicazione è comunque possibile perché in un
dialogo, i parlanti si riferiscono allo stesso mondo, e quindi hanno significati e credenze in comune;
in generale però i parlanti non condividono segnificati, bensì convergono verso gli stessi significati.
In particolare, Davidson cerca di estendere la teoria di Tarski alle lingue naturali, definendo però
(inversamente a Tarski) l’interpretazione dando per scontata la verità.
Michael Dummett
Teorie atomiste, oliste, molecolariste
Il problema è: in cosa consiste il significato dei componenti di un enunciato? Come già visto, la
tradizione ha elaborato due (famiglie di) teorie contrapposte:
atomismo (il primo Wittgenstein, Russell, Fodor): ogni parola ha significato indipendente dalle
altre;
olismo (Quine, Davidson): il significato di una parola dipende dall’intero enunciato.
Gli atomisti ricorrono, per la loro teoria, alla distinzione analitico/sintetico, rifiutata dagli olisti
(vedi Quine), che elaborano la loro teoria proprio partendo dalla constatazione che è impossibile
isolare gli aspetti costitutivi del significato.
Dummett introdurrà un nuovo paradigma: rifiutando enrambe le teorie precedenti, elaborerà una
sorta di olismo debole: gli aspetti costitutivi del significato sono in realtà isolabili, ma non con la
distinzione analitico/sintetico (che dopo la critica di Quine è usata da pochi), bensì con la nozione di
complessità logica. Molecolarismo: il significato di una parola dipende da un sottoinsieme del
linguaggio.
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Spunti
Il test di Turing
Negli anni ’50 Alan Turing propose il suo famoso “test”:
facciamo sedere un umano davanti a un terminale, e facciamolo “dialogare” con un altro terminale a
questo collegato, senza che lui sappia con chi stia dialogando. All’altro terminale può esserci un
uomo o un computer. Se il nostro umano non riesce a capire chi stia dall’altra parte (e dall’altra
parte c’è un computer), allora il computer ha passato il test; ha cioè presentato un comportamento
(linguistico) tale da considerarlo “pensante”.
Già pochi anni dopo la proposta di Turing, furono sviluppate macchine in grado di passare il test,
anche se l’interpretazione di questo fatto non è pacifica: Turing usò “pensante” in un’accezione
particolare, comportamentista, e ne era consapevole. Più che pensare, si può dire che in tali casi la
macchina mostra un comportamento molto simile a quello umano.
Il test di Turing
Il funzionalismo
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Dall’idea della metafora tra uomo e macchina di Turing, dai successi dei calcolatori col test di
Turing, e da varie correnti di pensiero che pongono l’accento sulle facoltà cognitive a base
computazionale della mente umana, nasce il funzionalismo: la mente sta al cervello come il
software di un computer sta al suo hardware.
Il funzionalismo si occupa di studiare la mente come software, a un livello cioè funzionale,
indipendente dal sostrato fisico sul quale è realizzato.
Alla base del funzionalismo c’è, tra le altre idee, quella della realizzabilità multipla: stesse funzioni
possono essere realizzate tramite diverse implementazioni fisiche: un “software” può essere
realizzato su silicio come su neuroni, così come il volo può essere realizzato dagli uccelli e dagli
aerei.
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