Sono grato alla Presidenza diocesana dell`Azione

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Il discorso della Chiesa sulla pace nel Novecento
Intervento nella manifestazione conclusiva
del Mese della pace organizzata dall’Azione Cattolica diocesana
nella sala San Placido a Monreale
il 25 gennaio 2003
Sono grato alla Presidenza diocesana dell’Azione cattolica e all’Ufficio diocesano
per la cultura e l’impegno sociale e politico dell’invito rivoltomi a tenere questa
conversazione a conclusione del Mese della pace. È per me un’opportunità. Non solo di
incontrare, agli inizi del mio ministero episcopale, tanti e parlare loro, ma anche di
tornare a riflettere su un tema che mi ha sempre particolarmente interessato, perché
ritengo che esso, nell’età contemporanea, sia divenuto davvero centrale per l’umanità ed
anche per la Chiesa e per l’esercizio della sua missione.
Ovviamente, questa sera non si tratta di tenere una lezione accademica, ma di
proporre una riflessione che si saldi con le nostre attese di pace e le nostre
preoccupazioni di oggi, ed anche con la preghiera che ci è stata richiesta con particolare
insistenza da Giovanni Paolo II. Una riflessione, dunque, che aiuti a cogliere come
l’invito che viene da Giovanni Paolo II a mettere in atto ogni mezzo che impedisca la
guerra e la sua richiesta ai credenti di pregare perché ciò avvenga si collocano nel solco
di una valutazione sempre più critica della guerra quale strumento di soluzione delle
controversie tra gli Stati che la Chiesa cattolica, principalmente nel suo vertice, il papa
di Roma, è venuta maturando lungo il Novecento, il secolo da poco tramontato. È una
valutazione che realizza un notevole mutamento nell’atteggiamento che la stessa Chiesa
ha tenuto verso la guerra nei secoli precedenti. Ed è una valutazione nuova che si è
espressa non solo nell’insegnamento pubblico e solenne delle encicliche ma anche in
una molteplicità di modi, comprese le dichiarazioni prima delle guerre per evitarle o
durante le guerre per invitare a interromperle, e ancora, più di recente, con i messaggi
dell’inizio di ogni anno e altre esortazioni in circostanze particolari, come ad esempio il
saluto, nel gennaio di ogni anno, al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede,
e, dunque, attraverso un discorso ampio e articolato sulla guerra e sulla pace, cioè
attraverso una riflessione che si sviluppa e cresce in interventi diversificati, precisandosi
e approfondendosi sempre più, e che si fa anche proposta all’interno e all’esterno della
Chiesa, sollecitazione a tutti gli uomini di buona volontà ad un ripensamento,
suggerimento per una ulteriore e più corale riflessione.
La pace: via dell’evangelizzazione
Ripercorrendo l’insieme di questi interventi dei papi del Novecento sulla guerra e
sulla pace, si ha l’impressione che la Chiesa cattolica abbia individuato nel secolo
appena trascorso nella ricerca e promozione della pace uno dei suoi principali compiti,
una dimensione nuova ed importante dell’esercizio della sua missione evangelizzatrice.
C’è stato un approfondimento della coscienza della Chiesa circa questo suo compito
nuovo. La ricerca della pace è venuta apparendo sempre più come un aspetto essenziale
del dialogo della Chiesa con gli uomini del nostro tempo, un importante banco di prova
della testimonianza di carità che la Chiesa ha da dare al mondo, un contenuto non
secondario dello stesso annunzio cristiano.
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E sempre più è venuta ampliandosi nella Chiesa la consapevolezza che questa
ricerca e questa testimonianza non possono essere del solo papa, della sola Santa Sede,
ma devono coinvolgere le diverse componenti ecclesiali, che devono farsi portatrici, per
la loro parte e nel proprio ambiente, del discorso sulla pace. Si può dire che c’è oggi
nella Chiesa una diffusa coscienza che la guerra è un male che bisogna cercare di
evitare in tutti i modi e che non la si può considerare affatto come qualcosa di
inevitabile e, ancor meno, di auspicabile o anche solo normale nel rapporto tra gli Stati e
i popoli.
Le tante articolazioni del discorso sulla pace
Per questa via è apparso sempre più chiaro che il discorso sulla pace ha delle
importanti implicazioni a livello delle singole persone, delle famiglie, dei gruppi. La
guerra nasce dall’accumulo del risentimento, dall’esplosione della violenza. C’è una
dimensione quotidiana del rifiuto della guerra che si esprime nella ricerca umile e
costante della pace nelle relazioni tra le persone e all’interno degli ambienti ordinari di
lavoro e di convivenza, sulla scorta delle esigenti parole di Gesù nel Vangelo: «Avete
inteso che fu detto agli antichi: non uccidere… Ma io vi dico: chiunque si adira con il
proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà
sottoposto al sinedrio».
Nella diffusa coscienza credente è venuta sempre più imponendosi, lungo il
Novecento, anche la convinzione che la ricerca della pace è legata alla preghiera, alla
forza debole del cristiano che è appunto la sua preghiera col Cristo e nel Cristo: «Se due
o tre di voi si accorderanno per chiedere qualcosa al Padre nel mio nome, l’otterranno».
Progressivamente la pace è diventata un contenuto ricorrente della preghiera dei
cristiani, a cominciare dalle ordinarie liturgie domenicali.
Anche il dialogo interreligioso promosso dalla Chiesa cattolica è venuto
collocandosi lungo il binario della preghiera per la pace, come mostrano le tante
iniziative di Giovanni Paolo II in proposito, a cominciare dall’incontro tra i laeders di
numerose religioni ad Assisi nel 1986.
E sempre più chiaro è apparso anche il nesso tra guerra e povertà e, al contrario,
tra pace e progresso. È il significato del binomio: giustizia e pace. Laddove c’è miseria
diffusa, si prepara la guerra. E laddove c’è la guerra, c’è povertà. La povertà è madre e
figlia della guerra. Accettare l’esistenza oggi, nel mondo, di vaste arre di povertà
endemica, significa rassegnarsi all’idea dello scoppio più o meno vicino della guerra,
pur essendo vero che le guerre possono nascere anche dalla ricchezza, possono essere
prodotte dall’esigenza di difendere ed ampliare gli spazi di un potere economico.
Oggi – all’inizio del nuovo secolo e del nuovo millennio – il discorso della Chiesa
sulla pace ha queste ed altre importanti sfaccettature, presenta una grande articolazione
di temi, si colloca a diversi livelli di consapevolezza, agisce su piani diversi che vanno
dalla diplomazia della Santa Sede agli aiuti di una parrocchia dell’Occidente ad un’altra
parrocchia gemellata del Terzo Mondo.
Ma perché questo maturasse è stato necessario tutto un cammino in cui hanno
avuto grande importanza le indicazioni dei papi, l’insegnamento delle encicliche, le
suggestioni dei messaggi papali del primo dell’anno. Per una Chiesa come quella
cattolica, in cui il papa ha un ruolo decisivo, la spinta che è venuta da Roma è stata
fondamentale.
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La guerra nel giudizio dei papi del Novecento
Cominciò Benedetto XV, durante la prima guerra mondiale, col definire la guerra
«inutile strage», scontentando non solo i governi delle potenze in conflitto ma anche
grosse componenti della Chiesa del tempo che non comprendevano un giudizio tanto
radicalmente negativo e che stroncava alla radice le giustificazioni nazionaliste che le
parti in causa davano del loro impegno bellico. Quella definizione della guerra fu data
dal papa nell’agosto 1917, nel momento di maggiore stallo della guerra in corso, e i
governi e una buona parte dell’opinione pubblica dell’Europa la interpretò come un
incentivo al disfattismo, uno stimolo alla diserzione dei militari al fronte. Un
predicatore nella cattedrale di Parigi si rivolse al papa proclamando che su quel punto
non lo si poteva seguire.
E fu poi il successore Pio XI, mentre l’Europa si preparava al secondo conflitto
mondiale, a dichiarare tutta la sua avversione alla guerra, invocando Dio, con le parole
del salmo, a disperdere coloro che vogliono la guerra.
Pio XII, poi, nel 1939, alla vigilia della seconda guerra mondiale, lanciò l’appello.
«Tutto è perduto con la guerra, niente è perduto con la pace».
E negli anni Sessanta pochi mesi dopo il superamento della crisi di Cuba e due
anni dopo l’erezione del muro di Berlino, Giovanni XXIII pubblicò l’enciclica Pacem in
terris con cui diceva forte la sua convinzione che la pace non è impossibile.
Paolo VI insistette molto nel suo magistero sulla pace come condizione di ogni
possibilità di sviluppo. Lo sviluppo era, per lui, il nuovo nome della pace. E fu lui a
istituire l’uso del messaggio papale per la pace all’inizio di ogni anno.
E, infine, alla vigilia della guerra del Golfo, nel 1989, Giovanni Paolo II ha
parlato della guerra come di «avventura senza ritorno». Una definizione molto critica.
Ed oggi non manca di mettere sull’avviso sulle conseguenze negative del conflitto che
si prepara in Medio Oriente. Nel discorso dello scorso 13 gennaio al corpo diplomatico
ha definito la guerra una «sconfitta dell’umanità».
C’è, dunque, una evidente continuità nella valutazione della guerra da parte dei
papi del Novecento. Per lo storico si pone la questione dell’individuazione dei motivi
che hanno spinto la Chiesa del Novecento a un giudizio sulla guerra che si distacca da
quello dei secoli precedenti e che finisce per superare gradualmente, almeno di fatto, o
comunque innovare profondamente lo stesso concetto di guerra giusta che era nella
tradizionale dottrina morale cattolica.
Il nuovo volto della guerra nel ‘900
Indubbiamente un primo motivo si può scorgere nella constatazione del carattere
altamente distruttivo assunto dalla guerra nell’età contemporanea. La guerra si avvale
lungo il Novecento di armi sempre più dotate di un potenziale di danno alle persone e
alle cose davvero inimmaginabile nei secoli precedenti. Con la scoperta e poi l’uso della
bomba atomica ed anche delle potentissime armi chimiche, la guerra ha finito col
configurarsi come possibile apocalissi dell’umanità o, comunque, come rischio di
radicale sovvertimento dell’ecosistema della terra. Ma anche le cosiddette armi
convenzionali, non atomiche e non chimiche, hanno raggiunto un livello tale di
distruttività da far pensare alla guerra come qualcosa di assolutamente negativo e da
evitare in ogni caso.
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Ed accanto alla nuova potenza distruttiva delle armi, c’è il carattere di totalità che
la guerra ha assunto lungo il Novecento, a partire dalla prima guerra mondiale. Guerra
moderna significa guerra totale, in cui cioè cessa la distinzione tra il fronte e il resto del
Paese in guerra. La guerra non è più ristretta alle truppe, non riguarda i soli soldati
combattenti. Anche nei secoli precedenti le popolazioni civili erano state coinvolte nella
guerra. Ma allora questo avveniva nel cosiddetto teatro di guerra, laddove cioè
avvenivano i combattimenti. Ora avviene come un fatto normale e generalizzato. È tutta
la nazione in guerra. È tutta la nazione a caricarsi dello sforzo bellico. Non restano spazi
di vita civile non coinvolti in tale sforzo. Ed è tutta la nazione a subire le conseguenze
della guerra. E – cosa non secondaria per la Chiesa – guerra totale significa anche una
certa mistica della guerra, un’esaltazione collettiva per le proprie buone ragioni, una
sorta di religione della guerra o, comunque, della nazione in guerra. La Chiesa non può
non guardare con estrema diffidenza e preoccupazione al carattere totalitario della
guerra in età contemporanea. Carattere totalitario che è derivato anche dalla dimensione
ideologica che ha finito col caratterizzare le guerre del Novecento. Non si combatte,
come era nei secoli passati, solo per questo o quel territorio da conquistare, ma anche e
principalmente per far prevalere la propria visione dell’uomo, dello Stato, dei rapporti
internazionali, il proprio sistema di valori contro quello dell’avversario. Tutto ciò ha
radicalizzato lo scontro bellico ponendo come suo fine la distruzione dell’avversario, la
sua resa senza condizione, la sua eliminazione politico-militare.
E guerra moderna significa anche guerra mondiale. E in un certo senso e di fatto,
la guerra è mondiale non solo quando coinvolge apertamente un gran numero di Stati di
quasi tutti i continenti, come è accaduto nella prima e nella seconda guerra mondiale,
quella del 1914-18 e l’altra del 1939-45, ma anche quando è localizzata in una sola area
geografica e coinvolge apertamente solo due Stati, perché anche in questo caso sono
implicate, più o meno apertamente, altre potenze di altre aree. È questa l’esperienza di
tutto il Novecento, nella cui seconda metà la Guerra fredda tra i due blocchi –
occidentale-atltantico e orientale-comunista – è stato il quadro e la radice di un gran
numero di guerre locali. E ora, all’inizio del nuovo secolo, si è aggiunta l’esperienza di
una guerra – quella provocata dal terrorismo dotato di potenti mezzi di distruzione – in
cui non ci sono formalmente degli Stati che dichiarano guerra ma che finisce con
l’implicare coalizioni di Stati che agiscono contro altri Stati ritenuti colpevoli di
appoggio al terrorismo internazionale.
E a tutto questo si deve aggiungere la constatazione che le guerre del Novecento
non hanno risolto mai veramente i problemi che le hanno provocate. Ogni guerra
sembra essere diventata, dopo la sua conclusione, causa di un’altra guerra. Ogni guerra
ha posto le premesse di nuovi conflitti.
È comprensibile come il carattere estremamente distruttivo, totale, ideologico e
mondiale della guerra in età contemporanea ed anche la sua nota di improduttività
abbiano spinto la Chiesa ad un giudizio sempre più nettamente critico sulla guerra,
anche senza procedere ad una riformulazione della tradizionale dottrina della guerra
giusta e senza abbracciare la causa di un pacifismo radicale.
La guerra è un male per la stessa Chiesa
Ma non è solo la constatazione del livello altissimo di negatività raggiunto dalla
guerra quale concretamente condotta ai nostri giorni che spiega l’atteggiamento della
Chiesa. Lo storico Andrea Riccardi ha messo in evidenza, in diversi suoi studi, come la
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Santa Sede abbia visto nella guerra in età contemporanea, già a partire dall’Ottocento,
ma con più evidenza a partire dalla prima guerra mondiale, un fatto estremamente
negativo per la sua stessa vita interna. Il cattolicesimo è religione mondiale, è
comunione delle Chiese sparse nelle varie nazioni e ormai in tutti i continenti. E la
Santa Sede interpreta la sua funzione principalmente come servizio all’unità delle
Chiese. I papi e la curia romana vivono questo loro ruolo spesso con grande
preoccupazione e in taluni casi con un sentimento quasi di angoscia per le difficoltà che
il suo esercizio comporta nel nostro tempo. Durante le guerre questo compito di centro
di unità e di promozione della comunione tra le Chiese diventa difficilissimo. Durante le
guerre le comunicazioni con gli episcopati nazionali si complicano. E inoltre durante le
guerre la Santa Sede non riesce ad avere rapporti diplomatici con tutte le parti in
conflitto, è come tagliata fuori dal giuoco diplomatico, almeno quello vero. La Santa
Sede non ha divisioni militari da far valere, come brutalmente fece notare Stalin. Ha
solo il suo prestigio morale. Ma durante le guerre le parti in conflitto non danno molto
peso ai fattori morali e, comunque, tendono a strumentalizzare al proprio fine
l’influenza della Chiesa. L’esperienza della prima guerra mondiale, quando non c’era
ancora uno Stato vaticano internazionalmente riconosciuto – cosa che avverrà col
trattato lateranense del 1929 --, fu davvero traumatica per la Santa Sede. Il papa aveva
difficoltà a comunicare con gli stessi nunzi. E poi, quando i bolscevichi, giunti al potere
in Russia, in seguito alla rivoluzione del 1917, resero di pubblico dominio i patti segreti
della Russia zarista, scoprì che l’Italia per entrare in guerra accanto alle potenze
dell’Intesa aveva chiesto e ottenuto l’impegno degli alleati ad escludere la Santa Sede
dalle future trattative di pace, perché temeva che il papa avrebbe riproposto la questione
dello Stato pontificio occupato nel 1870. Veramente ormai la Santa Sede non contava
politicamente alcunché. Poteva esercitare una qualche influenza morale in tempo di
pace. Ma durante la guerra la parola è alla forza delle armi. La guerra è una pessima
situazione per la Chiesa. Non solo non la fa contare nel giuoco diplomatico. Non solo le
impedisce di tenere le fila della comunione tra le Chiese nelle singole nazioni, tutte
tentate di appiattirsi sulle ragioni del proprio Paese. Ma anche la mette in difficoltà nello
sforzo di elaborare una linea conforme alla propria missione e che risulti comprensibile
ai più. Durante la seconda guerra mondiale si fecero a Pio XII le pressioni più diverse
perché si dichiarasse per una parte o per l’altra. Il papa scelse una linea di imparzialità
che ebbe i suoi costi. Di cui il più grave – il cui peso dura tuttora – è la polemica che si
innescò dopo la guerra sui suoi silenzi circa l’olocausto. Anche da parte cattolica si
accusò il papa di mancanza di parresia, di ardimento cristiano. Ecco perché la Chiesa
auspica la pace, preferisce una situazione di pace e si adopera in tutti i modi perché le
guerre non scoppino e, una volta scoppiate, finiscano al più presto. La guerra non è un
male solo per il mondo. È un male anche per la Chiesa: le impedisce di vivere
tranquillamente la sua universalità, compromette la sua vita interna, rischia di mettere in
discussione il suo stesso vertice.
Il nuovo rapporto della Chiesa con l’Occidente
Ma c’è ancora un terzo motivo che spiega la valutazione negativa che la Chiesa dà
della guerra lungo il Novecento. Non è solo per l’orrore che provoca la inedita capacità
distruttiva della guerra o per la preoccupazione dei danni che la guerra produce per la
stessa vita interna della Chiesa. La Santa Sede – e dietro di lei gradualmente la Chiesa
cattolica tutta – dà un giudizio negativo della guerra, perché essa – dopo il fallimento
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della Restaurazione nella prima metà dell’Ottocento – vive e sperimenta un rapporto
nuovo con l’Europa e con l’Occidente. Non è più l’Europa cristiana del medioevo o
della stessa età moderna, pur in seguito alle divisioni prodotte dalla riforma protestante.
È l’Europa degli Stati laici ed anticlericali. È l’Occidente secolarizzato. E in
quest’Europa nuova, dal 1870, il papa non gode più di una sovranità politica, non ha più
l’antico Stato pontificio, anche se dal 1929 recupera un simulacro di sovranità che
serve, se non altro, a permetterle di intrattenere rapporti diplomatici con gli Stati e a non
essere giuridicamente e politicamente ospite dello Stato italiano. Comunque la Chiesa
non si sente più a casa sua nell’Occidente contemporaneo. Avverte il mondo
contemporaneo come ostile, in ogni caso come altro da sé. È una condizione nuova per
la Chiesa cattolica che ha dato forma culturale all’Europa. La Chiesa sa di essere alla
radice dell’Occidente, ma ora sente l’Occidente come estraneo. Ed è da questa
condizione nuova della Chiesa – radicata nell’Occidente e, nello stesso tempo, estranea
all’Occidente -- che la Santa Sede valuta adesso la guerra. Non solo non è più la guerra
di una volta, violenta e crudele anch’essa ma non così distruttiva come la guerra
moderna. Non solo non è più una guerra per interessi dinastici o per conquistare un
pezzo di terra, ma una guerra di tipo ideologico, con una avversione totale per
l’avversario e il suo stile di vita. Non solo non è più una guerra dalle dimensioni
limitate, ma guerra totale e, nel caso delle due guerre mondiali, geograficamente
allargata pressoché a tutto il mondo. Ma è anche una guerra tra Stati e nazioni che sono
fuoriusciti dall’antica christianitas e che, perciò, non vedono più nel cristianesimo la
loro cultura fondante e non considerano la Chiesa di Roma un riferimento ineludibile. In
questa nuova situazione la Santa Sede guarda alla guerra con una nuova libertà. La può
giudicare alla luce del messaggio evangelico. La può valutare come fece Benedetto XV
nella sua prima enciclica, nel 1914, come l’espressione più chiara, nella sua forma
moderna, dell’allontanamento dell’Occidente dal cristianesimo. Può sviluppare un
discorso, anche su base razionale, di critica alla guerra, come fece Giovanni XXIII
nell’enciclica Pacem in terris di quarant’anni fa.. E comunque ormai la situazione è
chiara. La guerra è affare degli Stati. La Chiesa invece auspica sempre la pace, invita
alla pace e prega per la pace. Anche nel caso di una guerra condotta da Stati democratici
per la salvaguardia dell’ordine mondiale o motivata dalla cosiddetta ingerenza
umanitaria, la Chiesa non benedice la guerra, sta attenta a non dare alcuna
autorizzazione alla guerra, mira sempre a circoscrivere l’uso della forza. La Chiesa non
sposa le motivazioni di un pacifismo radicale – che, del resto, non è nella sua tradizione
dottrinale – ma si fa promotrice di una cultura diffusa di pace, si impegna perché da tutti
si comprenda come la guerra è diventata con chiarezza uno strumento interamente
inadatto a risolvere le controversie internazionali. Superando le iniziali diffidenze verso
la Società delle Nazioni sorta dopo la prima guerra mondiale e, all’inizio, anche verso le
Nazioni Unite – considerate come un’internazionale senza anima cristiana – la Santa
Sede, dalla fine degli anni Cinquanta, guarda all’ONU ritenendola come l’istituzione
internazionale che meglio si può adoperare per la pace tra le nazioni, evitando le guerre.
Le recenti polemiche giornalistiche
Quest’ultima motivazione che ho indicato dell’atteggiamento che la Chiesa è
venuta assumendo lungo il Novecento sulla guerra, cioè la posizione dialettica verso
l’Occidente contemporaneo, mi sembra molto importante anche per valutare recenti
polemiche giornalistiche. In un articolo del 7 gennaio scorso sul «Corriere della sera»
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Ernesto Galli della Loggia ha criticato gli appelli alla pace del papa perché sembrano a
lui piuttosto unilaterali, intrisi di antioccidentalismo e, più particolarmente, di
antiamericanesimo. Hanno commentato questo giudizio varie testate giornalistiche. È
intervenuto anche il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, cardinale Ruini,
nella prolusione del Consiglio permanente della stessa Conferenza il 20 gennaio scorso,
affermando che in un mondo insidiato da minacce cangianti ma sempre terribilmente
pericolose, tra cui innanzitutto il terrorismo, la solidarietà occidentale rimane garanzia
di pace, di sicurezza, di libertà e di sviluppo e che la Chiesa si preoccupa anzi di
«avvalorare tale solidarietà e di renderla più capace di affrontare i problemi e le sfide
che si delineano all’orizzonte, ancorandola più saldamente, e in una prospettiva davvero
universale, a quei principi e valori umanistici che sono la sua più solida e durevole fonte
di legittimità e forza propulsiva». Secondo il presidente dei vescovi italiani, la Chiesa,
movendosi lungo questa linea dialettica che è sì di sostegno all’Occidente ma nello
stesso tempo di richiamo ai valori umanistici dello stesso Occidente, «non si estrania
[...] dall’Occidente, ma lo aiuta ad esprimere il meglio di sé, a conferma del fatto che il
cristianesimo costituisce la sua anima più profonda e più capace di futuro».
Un discorso semplice e complesso
Queste parole del cardinale Ruini mi sembrano emblematiche di quella condizione
interna e nello stesso tempo esterna all’Occidente che la Chiesa ha vissuto lungo il
Novecento e che le ha permesso di sviluppare un complesso e articolato discorso sulla
guerra e sulla pace, un discorso che si rivolge ai credenti ma anche ai non credenti; un
discorso che nasce dal Vangelo ma vuole essere anche condotto su base razionale; un
discorso che appare sempre più come componente importante dell’annuncio cristiano e,
nello stesso tempo, si fa voce di un desiderio di pace comune a tutta l’umanità; un
discorso che interpreta l’umanesimo della tradizione di radice cristiana dell’Occidente
ma che intende avere un’apertura a tutte le culture, una dimensione universale; un
discorso che è fatto di appelli ai capi delle nazioni perché risolvano le crisi
internazionali senza il ricorso alle armi ma anche di inviti a tutti gli uomini di buona
volontà perché si affermi stabilmente una cultura della pace; un discorso che è fatto di
parole agli uomini per mutare il loro cuore e la loro mente ma anche di invocazione a
Dio nella consapevolezza che la pace è suo dono perché solo Lui può realmente
convertire i cuori e le menti; un discorso che è fatto di parole ma anche di silenzi,
perché non sempre le parole sono veramente decisive, perché non sempre si riesce a dire
qualcosa di significativo, perché non sempre il silenzio è fuga dalla responsabilità,ma
può essere un umile affidare a Dio nella preghiera la propria difficoltà a dire qualcosa di
efficace e ad agire con qualche risultato.
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