Perché serve la memoria
ARRIGO LEVI
C'è davvero un «rischio di overdose» nelle celebrazioni delle «giornate della memoria»? O
non c'è invece ancora il rischio opposto, della memoria perduta, tra le giovani generazioni, di
quelle che sono state le tragedie del Novecento, le guerre e i massacri di avversari politici o di
intere popolazioni? Mi è accaduto di partecipare, quest'anno, sia alla celebrazione al
Quirinale del «Giorno della Memoria», dedicata, per volontà del Presidente della Repubblica,
oltre che ai milioni di vittime dell'Olocausto al ricordo dei Giusti italiani, che a rischio della
vita salvarono migliaia di ebrei italiani e stranieri dalla deportazione nei campi di sterminio;
sia a una commossa celebrazione del «Giorno della Memoria» in una scuola di Carpi
intitolata a Odoardo Focherini, un «Giusto» carpigiano, cattolico fervente, che finì lui stesso
deportato in un lager da cui non fece più ritorno, dopo avere organizzato il salvataggio di
molte decine di ebrei.
In ambedue i casi i protagonisti dell'evento sono stati non tanto gli oratori intervenuti con
analisi e ricordi, quanto le platee di centinaia di studenti (al Quirinale, provenienti da diverse
regioni d'Italia) che avevano compiuto ricerche sulla Shoah e sui «giusti» della loro terra, e gli
appassionati interventi di alcuni di loro. No, non posso proprio dire di avere constatato, in
queste celebrazioni, un «rischio di overdose», e nemmeno eccessi di retorica o di conformismo.
Di fatto, da quando è stato istituito in Italia, alcuni anni or sono, il «Giorno della Memoria», è
andato crescendo il numero di classi, in genere delle scuole medie, che, grazie anche
all'impegno dei funzionari della Pubblica Istruzione e delle autorità locali, hanno dedicato
tempo prezioso per la loro formazione, con la guida dei loro insegnanti, allo studio di
quell'evento centrale ed emblematico di tutti gli orrori del Novecento che fu l'eliminazione
sistematica degli Ebrei europei da parte del nazismo e dei regimi suoi alleati, fra cui il
Fascismo.
Il Fascismo, che con le leggi antiebraiche del 1938, firmate da un discendente di Carlo
Alberto, che novant'anni prima aveva concesso agli ebrei italiani parità di diritti civili, aveva
prima aperto la strada e poi partecipato attivamente con le leggi e l'operato della Repubblica
di Salò al tentativo di mandare a morte tutti gli Italiani di religione ebraica, che pure erano
stati fra i protagonisti delle guerre per l'unità d'Italia e della crescita civile e culturale di
quella che sentivano come la loro patria. Se se ne salvarono più di ventimila fu soltanto grazie
al rifiuto di uno stuolo immenso di Giusti, molti di loro religiosi, ma per lo più comuni
cittadini di ogni classe sociale, militari e poliziotti, funzionari dello Stato, in qualche caso
persino «camicie nere», di lasciarsi corrompere o intimidire dall'imperante ideologia di
morte.
Non è per conformismo o partigianeria se cresce ogni anno il numero delle scolaresche che si
recano a visitare i campi di sterminio: tanto da imporre, come è stato scritto recentemente e
con ragione su La Stampa, il rifacimento del «Museo dell'Olocausto» italiano ad Auschwitz,
per dargli un contenuto informativo ed educativo che non aveva nella sua originaria
concezione
celebrativa.
Non si celebrano oggi nelle scuole, come nelle scuole fasciste che frequentammo, le glorie di
Roma o i fasti illusori dell'Impero. Si parla, purtroppo, di storia contemporanea, come è stata
realmente, di tragedie profondamente radicate nella natura, complessa e contraddittoria,
della nostra «civiltà» europea. Se alla scuola italiana si può muovere un rimprovero, è, se mai,
di non dedicare abbastanza tempo allo studio di un passato tanto recente da far giudicare
impossibile che non abbia lasciato tracce, palesi o nascoste, nella coscienza delle nuove
generazioni. Come possono i giovani capire, e sentire come cosa loro, quest'Europa di nazioni
riconciliate nella libertà e nella democrazia, se non hanno memoria dell'incubo da cui siamo
usciti, se non si rendono anzi conto che proprio dalla consapevolezza dell'abisso di orrori in
cui era precipitata l'Europa è nata la volontà di dire: mai più guerre fra noi?
La Shoah, che rappresenta in qualche modo il culmine dell'epoca più fosca della nostra storia,
è un punto di riferimento ineludibile per rafforzare la coscienza della nostra attuale identità,
della nostra faticosa opera di costruzione di un'Europa di libertà e di pace: in un mondo che
non è in pace e che ci appare carico di minacce. Nella nostra memoria, nella nostra coscienza,
non può non esserci la Shoah. Così come ci sono, ovviamente, le guerre europee del
Novecento, che fecero, fra l'una e l'altra, una settantina di milioni di morti, e i gulag staliniani
non meno dei lager nazisti: tutti parte della stessa storia, della storia contemporanea europea.
Abbiamo dedicato gran parte della nostra vita a cercare di capire, e di spiegare, come poté
accadere ciò che accadde, appena ieri. Tener viva la memoria non è un rito formale: è compito
essenziale non solo degli storici ma anche degli educatori. I giovani debbono ricordare. Senza
ricordo del passato, come costruire un futuro diverso?