XII / ns 2 - fupress.net

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Rivista fondata nel 1994
XII / n.s. 2
Luca Ronconi
Firenze Cinque-Seicento
Queen’s Masques
Gli attori del Siglo de Oro
Archivio Multimediale
degli Attori Italiani
Ricerche in corso
‘Canterine’ e attrici italiane
del Sei-Settecento
Poste Italiane spa - Tassa pagata - Piego di libro
Aut. n. 072/DCB/FI1/VF del 31.03.2005
Eleonora Duse
Anno XII / n.s. 2 - 2015
ISSN 1122-9365
www.fupress.com
FIRENZE
UNIVERSITY
PRESS
DRAMMATURGIA
XII / n.s. 2
2015
DRAMMATURGIA
NUOVA SERIE
RIVISTA ANNUALE DIRETTA DA SIRO FERRONE E STEFANO MAZZONI
Anno XII / n.s. 2 - 2015
Firenze University Press
2015
Anno XII / n.s. 2 - 2015
Direzione
Siro Ferrone, Stefano Mazzoni.
Comitato direttivo
Maria Chiara Barbieri, Alberto Bentoglio, Carla Bino, Francesco Cotticelli, Paola
Daniela Giovanelli, Renzo Guardenti, Gerardo Guccini, Claudio Longhi, Teresa
Megale, Caterina Pagnini, Laura Peja, Marzia Pieri, Anna Scannapieco, Francesca
Simoncini, Elena Tamburini, Anna Maria Testaverde, Alessandro Tinterri, Paola
Ventrone, Piermario Vescovo.
Comitato scientifico
Alessandro Bernardi, Lorenzo Bianconi, Annamaria Cascetta, Françoise Decroisette,
Jérôme de La Gorce, Andrea Fabiano, Teresa Ferrer Valls, Georges Forestier, Sara
Mamone, Lorenzo Mango, Silvia Milanezi, Cesare Molinari, Juan Oleza, Franco
Perrelli, Franco Piperno, Mirella Schino, Ferdinando Taviani.
Redazione
Lorena Vallieri, caporedattore; Emanuela Agostini, Lorenzo Galletti, Leonardo
Spinelli, Gianluca Stefani, segreteria di redazione, documentazione ed editing.
Consulenza telematica: Stefano Marapodi, Lorenzo Mucchi.
Digitalizzazione immagini: Giovanni Martellucci.
I saggi editi in «Drammaturgia» sono stati valutati, in forma anonima, dal Comitato
Direttivo e/o dal Comitato Scientifico e dai referees anche internazionali, tutti
coperti da anonimato. Per informazioni sul sistema peer review utilizzato dalla
rivista si rinvia al sito: www.fupress.com/drammaturgia
In copertina: Luca Ronconi e Mariangela Melato durante le prove di Amor nello
specchio di Giovan Battista Andreini, regia di Luca Ronconi (2002). Foto di Marco
Caselli Nirmal. Si ringrazia il fotografo per la gentile concessione dello scatto.
Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4380 del 21 aprile 1994
© 2015 Author(s). This is an open access journal distributed under the terms of the
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Borgo Albizi, 28, 50122 Firenze, Italy
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INDICE
SAGGI
Claudio Longhi, Per Luca Ronconi (1933-2015): quasi una «leçon de ténèbres»
Sara Mamone, Drammaturgia di macchine nel teatro granducale fiorentino. Il teatro degli
Uffizi da Buontalenti ai Parigi
Anna Maria Testaverde, L’avventura del teatro granducale degli Uffizi (1586-1637)
Caterina Pagnini, Anna di Danimarca e i ‘Queen’s Masques’ (1604-1611)
Françoise Siguret, La lumière et le temps sur la scène baroque : Poetique & Pratique
Paologiovanni Maione, «Il possesso della scena»: gente di teatro in musica tra Sei e
Settecento
Anna Scannapieco, I ‘numeri’ delle comiche italiane del Settecento. Primi appunti
Franco Perrelli, Il mulo di Lessing
Alessandro Tinterri, Silvio d’Amico e la nascita del Burcardo
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109
129
141
DOCUMENTI E TESTIMONIANZE
Teresa Megale, Eleonora Duse. Nuovi frammenti autografi di un lungo percorso teatrale
‘Co2’. Intervista a Giorgio Battistelli, a cura di Anna Menichetti
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169
RICERCHE IN CORSO
Teresa Ferrer Valls, Il punto sul mondo degli attori del Siglo de Oro
Francesca Simoncini, Le prime attrici della compagnia Reale Sarda nel database AMAtI
Francesca Simoncini-Antonio Tacchi, Carlotta Marchionni
Daniela Sarà, Amalia Bettini
Emanuela Agostini, Antonietta Robotti
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197
201
223
241
INDIZI DI PERCORSO E PROGETTI
Gianluca Stefani, Sebastiano Ricci impresario in angustie a Venezia: i guai della stagione
1718-1719 al Sant’Angelo
Adela Gjata, Le regie goldoniane di Renato Simoni (1936-1947)
263
291
Summaries
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Gli autori
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DRAMMATURGIA, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 5-6
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), © Firenze University Press
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Claudio Longhi
PER LUCA RONCONI (1933-2015):
QUASI UNA «LEÇON DE TÉNÈBRES»
Shivà
Qui a New Orleans l’aria è secca.
Seduti su due piccoli panchetti di legno
addossati alla parete
i due fratelli Lehman
aspettano
salutano
ringraziano.
La porta si chiude
poi si riapre: un altro.
La barba lunga, tutti e due
non più tagliata da quando è cominciato il lutto.1
Il 21 febbraio scorso, sul far della sera, è uscito di scena Luca Ronconi. Senza clamori, col suo consueto passo felpato ed elegante di flâneur del teatro, in
bilico tra Baudelaire e Robert Walser, intimamente romano, ma in fondo di
casa pure tra Vienna e Berlino. Distinto, caustico e sornione a un tempo, riservato, ma con insospettabili generose aperture, e in fondo anche un po’ snob,
capace di collere bibliche e di insensibilità sconcertanti, ma anche teneramente
innamorato delle sue rose e dei suoi cani… Se n’è andato scivolando ironico e
leggero, secondo i suoi ben noti tracciati ortogonali, oltre la soglia sospesa, lì
a sinistra: una finestra buia ritagliata nel candore clinico e splendente del pal1. S. Massini, Lehman Trilogy, Torino, Einaudi, 2014, Parte prima. Tre fratelli, p. 37.
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 7-16
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18358
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CLAUDIO LONGHI
coscenico. Se n’è andato come gli algidi e umanissimi titani della sua ultima
fatica, la Lehman Trilogy, in scena quella stessa sera in via Rovello: personaggi
esaltati, fissati e di maniera, ricalcati dal copione di Massini, ma profilati con
quel suo inconfondibile tratto spezzato, formatosi alla bottega dell’adorato
Binswanger. Svelte silhouettes grottesche ritagliate da una fantasia di Bosch, o
da un capriccio di Goya, incollate sulla piatta e rarefatta attesa, tutta metafisica, di un quadro di Magritte.
Dai tempi leggendari dei Lunatici (1966), ormai mitico anno zero della sua
carriera registica che lo aveva visto balzare agli onori delle cronache teatrali
nazionali, fino a quella sera di febbraio, Luca era stato (ed era pervicacemente rimasto) l’enfant terrible (e, a tratti, l’enfant gâté) delle nostre scene: sempre,
e comunque, l’enfant. Lo era ancora, a quasi ottantadue anni, non per la perniciosa abitudine tutta italiana di ritardare i processi di crescita, ma perché di
fatto, in barba all’anagrafe, e a dispetto di ogni pascolismo edulcorato, Luca era
rimasto, con tutta la violenza, la crudeltà e la trasgressività del caso, un bambino – meglio: un adolescente estroso e inquieto. In mancanza di una lucida
comprensione di questa sua lampante schizofrenia, non si capirebbe la follia,
geniale e ottusa, di circa mezzo secolo di progetti teatrali esorbitanti, vissuti
à bout de souffle.
Un ragazzo ‘favoloso’, una siepe, l’infinito… «Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo
esclude» (Leopardi, L’infinito, vv. 1-3): in fondo Luca e il suo teatro erano tutti lì, fissati, da sempre e per sempre, in questo icastico quadretto leopardiano.
Da una parte un desiderio, quasi pantagruelico, di conoscere tutto – nel senso
più fisico e radicale del termine – attraverso la scena; di collezionare e catalogare
– sulle tracce di Giulio Camillo – l’universo intero in teatro; di nutrire la propria accesa fantasia di qualsivoglia ‘scrittura’ – da quella più ortodossamente
teatrale a quella più lontana dalla scena («si può recitare tutto a teatro», era solito ripetere, «anche l’elenco del telefono») – ma con una evidente inclinazione per l’eccentricità, l’anomalia o la mostruosità. Dall’altra il limite (fisico ed
economico), la barriera, la convenzione, o peggio ancora l’abitudine, il condizionamento – insuperabile – della realtà: quei confini, insomma, che Luca ha
sfidato e calpestato e violato per tutta la vita e a cui ogni volta è testardamente tornato nella profonda e radicata convinzione che solo nel vincolo e nella
gabbia l’artista trova la sua vera libertà. Non per nulla, al principio degli anni
Novanta, proprio Nella gabbia di Henry James aveva attratto la sua curiosità e
ne era nato un prezioso e intelligente divertissement, in cui, relegati i settanta
privilegiati spettatori in una tribunetta montata in palcoscenico, al Morlacchi
di Perugia, il teatro, per trasparente allegoria, si era fatto claustrofobica scena del liberissimo fluire del racconto. Dalla Käthchen von Heilbronn, naufragata
sulle acque del lago di Zurigo nel 1972 e presentata finalmente al pubblico in
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PER LUCA RONCONI
una versione mutila e largamente approssimativa rispetto al disegno originale
schizzato con Arnaldo Pomodoro, alle rocambolesche disavventure delle tournée di Orestea (1972-1974) e Utopia (1975), con recite continuamente bloccate
o interrotte per problemi di sicurezza o difficoltà di allestimento; dalla messa
in scena mai realizzata di Vida es sueño in un campo di grano nei dintorni di
Brescia all’ipotesi degli ultimi anni Novanta di rappresentare il De rerum natura, in un travestimento di Edoardo Sanguineti, fuori dai palcoscenici tradizionali, o ancora ai tentativi ricorrenti, mai arrivati a buon fine, di metter mano
alla Commedia della vanità di Canetti o all’Annibale di Grabbe, la teatrografia di
Luca è piena, a ben vedere, di aborti o fallimenti o sogni impossibili rimasti
nel cassetto, non meno significativi per capire il suo approccio alla scena dei
grandi spettacoli che lo hanno reso famoso: la poetica di un puer, certo sempre
senex per la profondità della sua cultura e la lucidità del suo sguardo, pronto
a sacrificare qualunque cosa (o teatro) e chiunque (a cominciare da sé stesso),
con una intransigenza quasi talebana, pur di dar forma alla propria prorompente immaginazione.
E in quella irriducibile dialettica tra «siepe» e «ultimo orizzonte» appena
evocata, si celava forse, Leopardi docet, uno dei segreti dell’arte di Ronconi: il
suo incessante inseguimento, attraverso le lande drammaturgiche più estreme,
dello «spettacolo infinito», di uno spettacolo, cioè, che «per le sue connotazioni spazio-temporali» fosse capace di sottrarsi, in essenza, «all’attenzione totale
del pubblico».2 Di qui la caratteristica Sehnsucht di tutti gli spettacoli di Luca,
pure i più parossisticamente irridenti: l’anelito o la nostalgia, che sempre vi
si respirava, di un infinito impossibile. Di qui anche la sua irrisolta e irrisolvibile incertezza tra l’inesausta passione per la scena, luogo deputato di ogni
esperienza e conoscenza possibili («il teatro è una forma complessa di conoscenza maturata attraverso l’esperienza» era un altro suo celebre adagio), e, a
un tempo, il disagio del teatro, spazio fisico e mentale endemicamente afflitto
da una cronica ‘inadeguatezza’, o incommensurabilità, a qualsivoglia oggetto
sia in esso rappresentato. Difficile, a questo proposito, non pensare a Infinities
(2002), labirintica e parzialissima sineddoche, per via tutta allusiva, de l’Infinito, universo e mondi in cui fluttuiamo.
Il pencolare di Luca tra passione e disagio della scena era stato evidente fin
dai suoi esordi teatrali, non già in veste di regista, ma di attore, quando Luigi
Squarzina, suo maestro in Accademia, nel 1953 lo aveva scelto, appena ven-
2. Conversazione con Luca Ronconi (Roma, 10 marzo 1996), a cura di C. Longhi, in E.
Sanguineti, ‘Orlando furioso’. Un travestimento ariostesco. Prima rappresentazione: Spoleto, 4 luglio
1969. Regia di Luca Ronconi, Bologna, Istituto per i beni artistici culturali e naturali della regione
Emilia Romagna-Soprintendenza per i beni librari e documentari / Il nove, 1996, p. 300.
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CLAUDIO LONGHI
tenne, per vestire i panni di Mauro Bartoli nei suoi Tre quarti di luna. Arrivato
alla ribalta dopo soli due anni di studi, contro i tre richiesti dagli statuti della
scuola, Luca intraprende al fianco di Vittorio Gassman, sotto l’egida della prestigiosa ditta Teatro d’Arte Italiano, una carriera di interprete fortunata che
nel volgere di una manciata d’anni lo porta a confrontarsi coi maggiori registi
del panorama nazionale: oltre allo stesso Squarzina – riincontrato, dopo Tre
quarti di luna, con Lorenzaccio (1954), Tè e simpatia (1955), La Romagnola (1959),
La congiura (1960) –, Orazio Costa (Candida, 1953), Giorgio Strehler (Tre quarti
di luna, 1955), Giorgio De Lullo (Il diario di Anna Frank, 1957) o Michelangelo Antonioni (Io sono una macchina fotografica, 1957). Una carriera promettente
che lo vede, però, anche continuamente insoddisfatto; perennemente ombroso, taciturno e defilato, nonostante il favore di molti critici. Al fondo del suo
stare in scena, infatti, si colgono sempre una riposta e acuta insofferenza nei
confronti del teatro come è e una incontenibile voglia di immaginare un possibile teatro futuro. Lo strappo arriva, giusto giusto in capo a dieci anni, quando nel 1963 Luca, vincendo le sue esitazioni, smette le vesti d’attore e firma la
sua prima regia per la compagnia Gravina-Occhini-Pani-Ronconi-Volonté:
La buona moglie, sintesi delle due commedie goldoniane La putta onorata e La
buona moglie, appunto, debuttata a Roma, al teatro Valle, il 23 dicembre. Allergico alle consuetudini e al bon-ton della società teatrale di quegli anni, per
il suo debutto registico Luca rompe con tutte le tradizioni goldoniane conosciute: dalla placida e implacabile comicità di Baseggio, percorsa da brividi inquieti, agli stereotipati omaggi a un lezioso Settecento di maniera, caratteristici
delle messe in scena più sciatte, al realismo arioso e sorprendente di Visconti.
Il suo è un Goldoni aspro e nero, che puzza di un’efferata Italietta di provincia. Il fiasco è colossale e talmente inappellabile da far vacillare la vocazione
teatrale del giovane regista. Ma dopo due prove in sordina (Il nemico di se stesso, per il teatro di Ostia Antica, nel 1965, e Commedia degli straccioni, a Portocivitanova Marche, nell’estate del 1966), la rivelazione arriva con i Lunatici il
12 agosto sempre del ’66. A contatto con il ribollente magma drammaturgico di Middleton e Rowley, la melanconia saturnina di Ronconi si incendia.
Lo spettacolo non è meno crudo del Goldoni di tre anni prima. La coppia di
protagonisti che lo porta in scena, i beniamini del pubblico televisivo Sergio
Fantoni e Valentina Fortunato, è ridotta ad una sconcia caricatura di sé stessa.
La recitazione, violentemente fisica, è acida e gridata. I gesti, legnosi ed eccessivi. Ma i tempi sono cambiati e questa volta l’intellighenzia teatrale plaude. Si scomoda Artaud e il suo ‘teatro della crudeltà’. A novembre, Luca è già
tra i firmatari dell’appello Per un convegno sul nuovo teatro, pubblicato da Franco Quadri sulle pagine di «Sipario» (n. 247), e proprio il gran satrapo Franco
diventerà negli anni il suo più sagace e lucido esegeta. Lungi dal risolversi in
pulsione autodistruttiva, con i Lunatici l’avversione per i limiti del teatro si tra-
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PER LUCA RONCONI
sforma in energia rivoluzionaria, propulsiva per nuove sfide: nella marginalità
accentratrice del regista, motore immobile della rappresentazione, deus ex machina continuamente presente e radicalmente assente, di fatto ormai diventato
nel sistema teatrale italiano il vero depositario ed estensore del patto drammaturgico, a metà degli anni Sessanta, l’inquieto ed estroso Luca scopre dunque il proprio precario e solidissimo ubi consistam. Tre anni dopo, nel 1969, in
tandem con l’imbattibile guastatore letterario Edoardo Sanguineti, in veste di
Dramaturg, la più schietta vena creativa di Ronconi trova finalmente modo di
sgorgare copiosa con Orlando furioso, la straordinaria ‘anatomia’ teatrale dell’omonimo poema ariostesco che, ab origine, per dirla con Calvino, «si rifiuta di
cominciare, e si rifiuta di finire».3 In un estremo sforzo di adesione al dettato
d’Ariosto, fittamente intrecciato in labirintico entrelacement, la scatola scenica
è sottoposta dal regista a una torsione spasmodica che la manda in frantumi e
la rappresentazione tracima sull’intero spazio, in un continuum indistinto e simultaneo che abbraccia ugualmente pubblico e attori. La chimera dello spettacolo infinito è alla sua prima rutilante oggettivazione.
In fondo l’intero sterminato catalogo delle regie di Ronconi, nei suoi mille rivoli difficili da ridurre a unità, è figlio del big bang dell’Orlando e della sua
trascinante e febbricitante foga utopica generata dalla negazione della misura.
Una medesima ambizione enciclopedica a dilagare e a saturare, alla ricerca di
un fine e di una fine perpetuamente rinviati, e uno stesso caparbio rigetto delle
scelte scontate, dei modelli dati una volta per tutte, pervadono infatti le frequenti
e stranianti incursioni di Luca nel teatro antico alla ricerca del «rito perduto»4
(Orestea, 1972; Die Bakchen, 1973; Die Vögel, 1975; Die Orestie, 1976; Baccanti,
1978; Pluto, 1985; Medea, 1996; Prometeo incatenato-Baccanti-Rane, 2002), così
come i suoi affondi sulla scena contemporanea (Calderón, 1978 e 1993; Besucher,
1989; Davila Roa, 1997; Itaca, 2007; La modestia e Il panico, rispettivamente 2011
e 2013; Lehman Trilogy, 2015); il suo culto per le ‘favole filosofiche’ dei drammaturghi della Mitteleuropa (Al pappagallo verde e La contessina Mizzi, 1978;
Commedia della seduzione, 1985; L’uomo difficile, 1990; Professor Bernhardi, 2005;
Inventato di sana pianta, ovvero Gli affari del barone Laborde, 2007); la sua impietosa
scintigrafia della crisi del dramma borghese nelle sue diverse e morbosamente
seducenti facies ippocratiche svarianti da Ibsen (L’anitra selvatica, 1977; John Gabriel Borkman, versione televisiva, 1982; Spettri, 1982; Verso ‘Peer Gynt’, esercizi per gli attori, 1995; Nora alla prova da ‘Casa di bambola’, 2010) a Strindberg (Il
sogno, 1983 e 2000; Danza macabra, 2014), da Pirandello (Die Riesen vom Berge,
3. I. Calvino, La struttura dell’‘Orlando’ (1974), in Id., Perché leggere i classici, Milano,
Mondadori, 1991, p. 78.
4. Cfr. F. Quadri, Il rito perduto. Saggio su Luca Ronconi, Torino, Einaudi, 1973.
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CLAUDIO LONGHI
1994; Questa sera si recita a soggetto, 1998; In cerca d’autore. Studio sui ‘Sei personaggi’, 2012) a Čechov (Tre sorelle, 1989; Laboratorio per ‘Un altro gabbiano’, 2009) o
a O’Neill (Strano interludio, 1990; Il lutto si addice ad Elettra, 1997); la sua sagace critica al realismo (Ignorabimus, 1986) e le sue ritornanti tentazioni mistiche
(Dialoghi delle carmelitane, 1988; I fratelli Karamazov, 1998); le sue avvertite e curiose ricognizioni della letteratura (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, 1996;
Memorie di una cameriera, 1997; Quel che sapeva Maisie, 2002; Pornografia, 2013),
delle scienze (Infinities, 2002; Biblioetica, dizionario per l’uso, 2006; Lo specchio del
diavolo, 2006) o del cinema (Lolita, 2001) alla ricerca di sempre nuove frontiere genuinamente ‘contemporanee’ del teatrale; la sua spontanea inclinazione al
kolossal (Gli ultimi giorni dell’umanità, 1990; Progetto domani, 2006) e ancora le sue
sistematiche esplorazioni del teatro per musica, ugualmente disposte ai commerci
con Rossini (Il barbiere di Siviglia, 1975; Il viaggio a Reims, 1984; La Cenerentola,
1998) e alla dimestichezza con Wagner (L’oro del Reno, 1979; La Valchiria, 1980;
Sigfrido, 1981; Il crepuscolo degli dei, 1981), allo studio dei classici del repertorio
contemporaneo (Globokar, Traumdeutung, 1969; Stockhausen, Samstag aus Licht,
1984; Janáček, Il caso Makropulos, 1993 e Nono, Intollerance 1960, 2011), così come all’attenta meditazione sul lascito dei grandi maestri del melodramma barocco (Rossi, Orfeo, 1985; Monteverdi, Orfeo e Il ritorno di Ulisse in patria, 1998;
L’incoronazione di Poppea, 2000; Händel, Giulio Cesare in Egitto, 2002). Ecco: il
barocco. Il cangiante universo barocco, regno indiscusso di Circe e del pavone,
con le sue ansie di ricapitolazione e di sistematizzazione e le sue stupefacenti
e teatralissime Wunderkammer, resta lo spazio d’azione privilegiato di Luca.
Un barocco saggiato nelle sue più varie declinazioni: dalle lussureggianti invenzioni elisabettiane, tra Shakespeare (Misura per misura, 1967 e 1992; Riccardo
III, 1968; Le marchand de Venise, 1987; Re Lear, 1995; Sogno di una notte di mezza estate, 2008; Il mercante di Venezia, 2009) e colleghi (La tragedia del vendicatore
di Cyril Tourneur, 1970; Una partita a scacchi di Thomas Middleton, 1973; Peccato fosse puttana di John Ford, 2003), alle abissali implosioni di Racine (Fedra,
1984), dalle spastiche visioni dell’antirinascimento italiano (Il candelaio, 1968 e
2001) alle austere pompe dei campioni della controriforma iberica (La vita è sogno, 2000) e su tutto il concettoso teatro di Andreini (La centaura, 1972 e 2004;
Le due commedie in commedia, 1984; Amor nello specchio, 1987 e 2002). Strano alter
ego, Lelio, attore-autore campione ‘dell’Arte’, del regista-drammaturgo Ronconi, sempre così dichiaratamente ostile alle antiche tradizioni dei ‘comici’
italiani in aperto spregio di mode registiche ampiamente diffuse, da Copeau a
Mejerchol´d, tutte tese a rivalutare i tesori del professionismo ‘all’improvviso’
del nostro Bel Paese. In fondo la duplice Centaura di Luca, couplet di allestimenti
rispettivamente firmati per l’Accademia d’arte drammatica di Roma nel 1972 e
per il Teatro Stabile di Genova nel 2004, resta uno degli emblemi più limpidi
della sua scena ‘smisurata’ ed eccezionale, quando non eccessiva.
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PER LUCA RONCONI
Nel grande teatro-mondo di Ronconi, la tragica antitesi leopardiana
«siepe»/«orizzonte» non governa, però, le sole scelte drammaturgiche, ma innerva ogni aspetto dell’arte scenica, dalla progettazione degli spazi, continuamente giocata in montaggio sul doppio binario della suprema concentrazione
e della massima dilatazione, alla concertazione della recitazione. La prosodia
dell’attore italiano – innaturalmente esemplata, secondo Luca, sulla sintassi
francese divenuta lingua ufficiale delle nostre ribalte tra Otto e Novecento attraverso la barbara pratica delle grossolane traduzioni a calco imposte dalla dura
legge del mercato – è violentata e decostruita. La battuta – aperta e scomposta,
fin dall’Orestea di Belgrado, secondo le regole della linguistica strutturalista –
diventa oggetto di una vivisezione e di una ricucitura maniacali, nell’intento, ancora una volta impossibile, di far piazza pulita di ogni regola acquisita e
risalire sperimentalmente al guizzo germinante del pensiero, al lampo che lega l’immagine concettuale alla parola, al cortocircuito folgorante che traduce
l’impulso nervoso nell’inarcarsi della lingua. E con la stessa furia con cui distrugge e rifonda metrica e sintassi, Luca sovverte e riplasma l’articolazione,
sminuzza e reimpasta i fonemi. Guardateli e ascoltateli gli attori che recitano
nei suoi spettacoli, tutti intenti a mangiare le parole. Torna subito alla mente
Gadda: «E in lingua nostra, che la parola si può stirare, contrarre e metastatare (palude, padule: femminile e maschile) secondo libidine, come la fusse una
pasticca tra i denti».5 E quella stessa tragica antitesi disciplina anche le pratiche
pedagogiche di Ronconi, perché Luca – oltre a essere per sua stessa ammissione ‘allievo’ di attori, in primis Marisa Fabbri – come i grandi ‘padri fondatori’
del primo Novecento è stato pure un ‘regista pedagogo’. Nessun sistema, alla sua scuola. «In oltre trent’anni di attività», aveva infatti spiegato nell’incipit
della sua lectio magistralis, pronunciata in occasione del conferimento della laurea ad honorem in Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo, presso
l’Università di Bologna, nel 1999, «mi è capitato in più di una circostanza di
dichiarare di non essere – a differenza di altri miei ‘colleghi’ del passato e del
presente – un ‘regista-teorico’: come spesso mi sono trovato ad osservare nel
corso di interviste, dibattiti o altri appuntamenti», argomentava ancora, «il mio
lavoro non nasce dall’applicazione di una teoria e nemmeno amo teorizzare
‘a posteriori’ su di esso o sul teatro – ho come l’impressione, infatti, che se lo
facessi non sarei più in grado di cimentarmi in quell’operazione sempre nuova
che è la messa in scena di un testo».6 Nessun ‘sistema’, dunque, per il Ronconi
5. C.E. Gadda, Lingua letteraria e lingua dell’uso (1942), ora in Opere di Carlo Emilio Gadda,
iii. Saggi giornali favole e altri scritti, a cura di L. Orlando, C. Martignoni, D. Isella, Milano,
Garzanti, 1991, vol. i, p. 491.
6. Testo trascritto da un frammento della registrazione video della lectio magistralis tenuta
da Ronconi a Bologna in occasione del conferimento della laurea ad honorem in Discipline delle
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CLAUDIO LONGHI
‘maestro’, ma solo – sulle tracce di Goethe – una sana e ‘delicata empiria’.7 In
mancanza di un paradigma metodologico preordinato da consegnare al discente, il costante sforzo di Luca, nelle sue ‘lezioni’, era infatti quello di trasmettere all’allievo un ethos: quello stesso ‘comportamento’ appreso decenni prima
in Accademia nei corsi del grande Orazio Costa, ossia l’arte di ‘scartocciare le
patate’. Ronconi non insegna le regole della recitazione, ma costringe i giovani a confrontarsi con la loro «siepe», il testo, per liberare le potenzialità infinite dell’interpretazione – l’«ultimo orizzonte» della loro arte –, in un corpo
a corpo selvaggio che non esclude nessun colpo basso. In un simile approccio
alla didattica smaccatamente laboratoriale – di un laboratorio che è riflesso
dell’antica officina – l’aula è soltanto l’altra faccia del palcoscenico e il palcoscenico dell’aula, le lezioni sono prove e le prove sono lezioni, ogni spettacolo
è un po’ un saggio e ogni saggio è in fondo uno spettacolo. Dai primi corsi
in Accademia dei tardi anni Sessanta, vivaio dei giovani interpreti dell’Orlando e di Orestea, alla scuola per attori fondata a Torino nel 1991 come palestra
di nuovi interpreti per il Teatro Stabile, dai corsi di perfezionamento romani,
propedeutici a Verso ‘Peer Gynt’ o a Questa sera si recita a soggetto, giù giù fino
all’isola felice di Santa Cristina, la scuola/centro teatrale da lui creata nel 2002
insieme a Roberta Carlotto, la pedagogia di Ronconi si salda perfettamente
con la sua prassi di metteur en scène e, messa in scena dopo messa in scena, generazioni di attori – dalla già ricordata Marisa Fabbri a Mariangela Melato o a
Franco Branciaroli, da Franca Nuti a Massimo De Francovich o ad Annamaria Guarnieri, da Giovanni Crippa a Paolo Pierobon, da Maria Paiato a Francesca Ciocchetti o a Fausto Russo Alesi – hanno affinato nel lavoro con Luca
i loro mezzi espressivi, talvolta in un gioco di mutuo e fecondissimo scambio
tra compagni di strada, talaltra in un durissimo tirocinio condotto sotto la sua
vigile sorveglianza, così come altre generazioni di attori – da Gabriella Zamparini a Mauro Avogadro o a Riccardo Bini, da Massimo Popolizio a Galatea
Ranzi, da Manuela Mandracchia a Raffaele Esposito o a Simone Toni – si sono formate proprio sotto la sua guida.
In ultimo, al di là del sacro temenos dell’esperienza estetica, la dialettica
«siepe»/«orizzonte» orienta pure la carriera di Ronconi come amministratore
della cosa pubblica. Dopo i sogni postsessantotteschi della cooperativa Teatro
Libero, e intercalate alle tante esperienze da regista free lance da lui maturate,
la direzione della Biennale Teatro di Venezia (1974-1977), l’avventura esal-
arti, della musica e dello spettacolo il 29 aprile 1999, presso l’aula absidale di Santa Lucia, http://
www.almanews.unibo.it/98_99/Ronconi/Mpg/Ro003.mpg (ultimo accesso: 8 aprile 2015).
7. Cfr. J.W. Goethe, Massime e riflessioni (1983), a cura di S. Seidel, introd. di P. Chiarini,
Milano, TEA, 1988, p. 136 (massima 565).
14
PER LUCA RONCONI
tante e grottesca del Laboratorio di progettazione teatrale di Prato, stritolato
dalle faide interne alla sinistra tra PCI e PSI (1976-1979), e a seguire la direzione artistica del Teatro Stabile di Torino (1989-1994) e del Teatro di Roma
(1994-1998), fino all’estrema stagione alla guida del Piccolo Teatro di Milano
al fianco di Sergio Escobar (1999-2015) sono altrettanti capitoli, spesso scritti a più mani con collaboratori d’eccezione quali Paolo Antonio Radaelli o
Nunzi Gioseffi, di una critica serrata alla politica culturale nazionale, segnatamente di ambito teatrale, improntata a un netto rifiuto della ormai sempre
più asfittica realtà del modello milanese del ‘teatro/servizio pubblico’ in vista
di una appassionata perorazione dell’utopia del ‘teatro/valore’. Centrali, poi,
nella sua visione del sistema teatrale, la difesa dell’idea di canone nazionale,
a dispetto di ogni localismo, esemplata sui grandi modelli d’oltralpe a partire
dalla Maison Molière, e la sua incessante ricerca di una ‘compagnia permanente’, chissà se mai davvero voluta. Beffardo gioco del destino, o del caso, che
proprio il giorno delle sue esequie il MiBACT abbia comunicato la lista dei
nuovi Teatri Nazionali, figli del decreto cultura di Massimo Bray. A petto di
questa strana, appassionata militanza, tutta, però, giocata, si badi, tra le retrovie, senza mai spingersi all’aperta presa di posizione, al braccio di forza con
il potere, sorge il legittimo sospetto che l’arcistrutturalista Ronconi, figlio di
De Saussure e Roland Barthes, coltivasse nel suo raggelato formalismo, apparentemente alieno da ogni interesse civile, una vigile e fin quasi sovreccitata
sensibilità politica: fa riflettere che coi suoi spettacoli – dal Candelaio, diretto
per la prima volta nel 1968 mentre soffiavano i venti della contestazione, agli
Ultimi giorni dell’umanità, portati in scena alla vigilia dello scoppio della guerra del Golfo nell’inverno del 1990 – Ronconi non abbia mai mancato un solo
vero appuntamento con la storia.
Un ragazzo ‘favoloso’, una siepe, l’infinito… Il teatro dell’adolescente Luca vive tra scatole o cataste di mobili – la scatola gialla del Pasticciaccio, la scatola bianca della Lehman Trilogy, le piramidi di tavolini e letti e trumeaux di
Memorie di una cameriera – e porte. Sinistre intelaiature di porte, vuote come
le sbigottite orbite del teschio, o ante abbandonate, gettate alla rinfusa quasi in mucchi di cupi sarcofagi, o porte da ascensore, spalancate e sigillate ermeticamente da silenziose coulisse. Porte come improvvisi varchi nella siepe,
aperture intermittenti affacciate sull’infinito, sullo spazio misterioso dell’altrove. Forse il teatro di Luca è anche questo: un vertiginoso e metafisico teatro della morte. D’altronde l’amico Sanguineti non aveva decretato che «ogni
teatro è un teatro anatomico»?8 E così, nella superficiale e piatta orizzontalità
8. E. Sanguineti, La philosophie dans le théâtre (1992), ora in Id., Il gatto lupesco. Poesie (19822001), Milano, Feltrinelli, 2002, p. 195.
15
CLAUDIO LONGHI
del suo ininterrotto tallonamento dell’infinito, Luca finisce con l’imprimere
una violenta svolta verticale alla sua scena. E il suo teatro scientifico, cinematografico, in costante ricerca della sintonia col suo tempo, sempre chino su di
un presente-in-procinto-di-farsi-futuro, si ritrova improvvisamente un teatro
inattuale, antico quanto l’uomo.
Alla vigilia dello scoppio del secondo conflitto mondiale, Savinio annotava:
«Il drammatismo ha bisogno di speciali condizioni mentali – limitazioni mentali, ostacoli mentali; e il nostro tempo ha abolito tutte le limitazioni mentali,
ha abbattuto tutte le barriere mentali né traccia rimane più di quell’ineffabile
muro contro il quale urtava la mente dell’uomo – e da quell’urto sprizzava il
drammatismo come una negra scintilla».9 Proprio da queste pagine discende
Alcesti di Samuele, il triumphus mortis di Alberto De Chirico, diretto da Ronconi, per il Teatro di Roma, nel 1999.
La sera del 21 febbraio scorso, Luca è uscito di scena, ma non se ne è andato. È ancora lì, col suo consueto passo felpato ed elegante di flâneur del teatro, e scivola, secondo i suoi ben noti tracciati ortogonali, di porta in porta,
a raccontarci, attraverso la memoria dei suoi incredibili spettacoli, dei segreti
della scena e dei misteri dell’arte rappresentativa. Resta ancora con noi (e ci
auguriamo per sempre), come gli algidi e umanissimi titani della Lehman Trilogy, la sua ultima fatica.
Monday Lunch
Intorno al tavolo
tavolo di cristallo
cristallo lungo quanto tutta la stanza
sulle poltrone nere
sembra il lunch del lunedì
anche se è notte
anzi
fra poco
l’alba.
Dentro la stanza, il silenzio regna.
Sei uomini anziani.
Aspettano la notizia.10
9. A. Savinio, Nuova enciclopedia (1977), Milano, Adelphi, 19914, pp. 122-123 (voce
Dramma).
10. Massini, Lehman Trilogy, cit., Parte terza. L’immortale, p. 325.
16
Sara Mamone
DRAMMATURGIA DI MACCHINE
NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO.
IL TEATRO DEGLI UFFIZI DA BUONTALENTI AI PARIGI*
1. La recente scoperta di un manoscritto di Joseph Furttenbach, architetto
tedesco a lungo residente in Italia nella sua fase di formazione, allievo dell’accademia di Giulio Parigi e testimone diretto dello spettacolo del 1608 nel teatro
degli Uffizi, dà l’occasione per ripensare l’intera vicenda della scena medicea1
alla luce di quella preziosa testimonianza consuntiva che rivela dettagliatamente i meccanismi di funzionamento della complessa macchineria fiorentina.
La pratica teatrale fiorentina si caratterizza precocemente non solo come
messa a punto di un organismo drammaturgico che nasce dal recupero della
drammaturgia antica ma anche come il proseguimento di una linea romanza
che accompagna la drammatizzazione dei momenti salienti del calendario liturgico attraverso la messa in evidenza degli episodi più evocativi ed emozionanti, quali l’Annunciazione, il Natale, l’Ascensione, ecc.
Questa spettacolarità romanza,2 a Firenze più che altrove, si vale delle competenze di un’organizzazione sociale fortemente incentrata sulla diffusione
Il 14-15 novembre 2014 Jan Lazardzig ed Hole Rößler dell’Università di Amsterdam hanno organizzato un workshop focalizzato sulla scoperta da parte di Rößler di un manoscritto
di Joseph Furttenbach; il codice (codex iconographicus 401 della Bayerische Staatsbibliothek
München) sarà presto pubblicato sia nella versione originale in tedesco che nella versione inglese. Il presente saggio rielabora l’articolo presentato in quell’occasione col titolo The Uffizi
Theatre: The Florentine Scene from Bernardo Buontalenti to Giulio and Alfonso Parigi e di prossima
pubblicazione in Technologies of Spectacle. Knowledge Transfer in Early Modern Theater Cultures, a
cura di J. Lazardzig e H. Rößler, Frankfurt a. M., Klostermann, 2016. Per ogni informazione
sul progetto: http://www.holeroessler.de/furttenbach.html.
1. Strumento imprescindibile d’informazione resta Il luogo teatrale a Firenze. Brunelleschi
Vasari Buontalenti Parigi, catalogo della mostra a cura di M. Fabbri, E. Garbero Zorzi, A.M.
Petrioli Tofani, introd. di L. Zorzi [ordinatore] (Firenze, 31 maggio-31 ottobre 1975),
Milano, Electa, 1975.
2. Cfr. L. Zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino, Einaudi, 1977, pp. 48 n.54 n.; 170 n.-174 n. Si vedano anche le riflessioni di S. Mazzoni, Ludovico Zorzi. Profilo di uno studioso inquieto, «Drammaturgia», xi / n.s. 1, 2014, pp. 9-137, in partic. p. 93 e relativa bibliografia.
*
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 17-43
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18359
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
© 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License
(CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original
author and source are credited.
SARA MAMONE
dei saperi tecnologici e dell’impiego precoce di ingegneri e architetti civili
nella ricaduta della rappresentazione religiosa. Questa pratica aveva permesso «la sperimentazione di tecniche di scena maturate attraverso la competenza
e l’esperienza acquisite quotidianamente nel campo della tecnologia muraria,
meccanica, nella pratica e nell’esercizio di quegli antichi mestieri (dei funaioli, legnaiuoli, scalpellini, doratori, fabbri; ma anche polveristi, bombardieri) che avevano da tempo costituito i fondamenti di un’economia cittadina e
rappresentato i campi di sperimentazione di attività artigianali di livello non
inferiore alle arti “maggiori”».3 Così che, quando la maturazione umanistica
recupererà l’idea del teatro antico e la sua drammaturgia, questa troverà immediatamente l’innesto dei saperi tecnologici nel nuovo tessuto spettacolare.
Nel XV secolo l’impiego di maestranze artistiche del calibro di Masolino e di
Filippo Brunelleschi, per aumentare il prestigio delle più famose chiese della città in occasione delle celebrazioni rituali, crea un terreno fertilissimo di
competenze che potranno essere messe in campo nel secolo successivo al servizio di un’ideologia umanistica e signorile fondata sulla restituzione dell’antico funzionale alle esigenze di una nuova classe dirigente. Nel corso del primo
trentennio del Cinquecento il patrimonio mitologico è stato convertito come
base di autorizzazione per le prese del potere signorili e l’immenso patrimonio
reinventato a scopi politici e autorappresentativi: il teatro assolve alla funzione
primaria di esibire le capacità di governo della nuova aristocrazia. La base di
questo nuovo modo di rappresentare affonda perciò le sue radici proprio nella
lunga sperimentazione tecnologica delle sacre rappresentazioni.4
3. A.M. Testaverde, L’officina delle nuvole. Il teatro mediceo nel 1589 e gli ‘Intermedi’ del Buontalenti
nel ‘Memoriale’ di Girolamo Seriacopi, «Musica e teatro. Quaderni degli amici della Scala», vii, 1991,
11-12, p. 71. Per una proficua integrazione documentale: T. Pasqui, ‘Libro di conti della commedia’.
La sartoria teatrale di Ferdinando I de’ Medici nel 1589, prefaz. di A.M. Testaverde, Firenze, Nicomp,
2010. Per le competenze tecnologiche e l’uso della macchineria nelle rappresentazioni religiose
a partire dalla fine del XIII secolo si veda N. Newbigin, Feste d’Oltrarno. Plays in Churches in
Fifteenth-Century Florence, Firenze, Olschki, 1996. Limitatamente a una istituzione fiorentina di
lunga durata si veda anche A.M. Evangelista, L’attività spettacolare della compagnia di San Giovanni
Evangelista nel Cinquecento, «Medioevo e Rinascimento», xviii/n.s. xv, 2004, pp. 299-366.
4. Si veda a mo’ di esempio l’evoluzione di una tra le figurazioni macchinistiche di più
vasta applicazione: la nuvola che, evidente tramite tra la terra e il cielo, fa da supporto per le
ascensioni nelle rappresentazioni sacre e, procedendo con l’aiuto di una tecnologia sempre più
complessa, diviene elemento portante di molta simbologia barocca nella quale al Salvatore e ai
Santi dell’universo cristiano si sostituiscono gli dei della mitologia, tramite a loro volta delle figurazioni autorappresentative dei nuovi poteri signorili. Cfr. S. Mamone, Les nuées de l’Olympe
à la scène: les dieux au service de l’eglise et du prince dans le spectacle florentin de la Renaissance, in Images
of the Pagan Gods, a cura di R. Duits e F. Quiviger, London, The Warburg Institute, 2009, pp.
329-366. Per la sacra rappresentazione v. ora P. Ventrone, Teatro civile e sacra rappresentazione a
Firenze nel Rinascimento, Firenze, Le Lettere, 2016.
18
DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO
Senza soluzione di continuità si arriva quindi alla pratica macchinistica sul
palcoscenico che, accogliendo con circa un secolo di ritardo il suggerimento
brunelleschiano del luogo di rappresentazione unitario rispetto al frazionamento dei luoghi deputati, di fatto crea le basi del teatro cosiddetto moderno.
La concentrazione frontale del luogo dell’azione rispetto al luogo della visione determina una netta rottura rispetto all’itineranza degli spettatori e crea le
condizioni per la sperimentazione dello spazio privilegiato in cui organizzare
tutti gli elementi dell’azione scenica.
Assai precocemente in Firenze si determina un diverso interesse per l’allestimento dei testi drammatici rispetto a quei momenti di intrattenimento che
possiamo comprendere nella definizione di ‘intermedio’ e che divennero ben
presto la forma privilegiata dal pubblico, e quindi della magnificenza autorappresentativa del signore committente, e la miglior palestra per le esibizioni
delle competenze tecnologiche dei suoi artisti-apparatori.
Nella rappresentazione del 1539 nel secondo cortile di palazzo Medici per
le nozze di Cosimo con Eleonora di Toledo compariva nel cielo un’Aurora
con alle spalle la macchina del Sole che durante lo spettacolo si muoveva dando l’illusione dello scorrere del tempo.5 L’invenzione di Bastiano da Sangallo
verrà poi ripresa nel 1542 dall’allievo Giorgio Vasari nell’esportazione a Venezia de La Talanta messa in scena da una compagnia della Calza.6 Ancora da
studiare gli episodi relativi agli allestimenti nella sala del Papa del convento
di Santa Maria Novella, sede dell’accademia Fiorentina (Il furto di Francesco
d’Ambra nel 1544, La gelosia del Lasca nel 1550) e le prime prove nel salone dei
Cinquecento di palazzo Vecchio, diventato residenza della famiglia regnante
(I bernardi di Francesco d’Ambra nel 1548 e La gioia di Giovanni da Pistoia nel
5. «[…] ordinò [Bastiano da Sangallo] con molto ingegno una lanterna di legname a uso
d’arco dietro a tutti i casamenti [della scena prospettica che rappresentava Pisa], con un sole alto
un braccio, fatto con una palla di cristallo piena d’acqua stillata, dietro la quale erano due torchi
[torce] accesi, che la facevano in modo risplendere, che ella rendeva luminoso il cielo della scena
e la prospettiva in guisa, che pareva veramente il sole vivo e naturale; e questo sole […] avendo
intorno un ornamento di razzi d’oro che coprivano la cortina, era di mano in mano per via di
un arganetto tirato con sì fatt’ordine che a principio della commedia pareva che si levasse il sole,
e che salito in fino al mezzo dell’arco scendesse in guisa, che al fine della comedia entrasse sotto
e tramontasse» (G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architettori, in Le opere di Giorgio
Vasari, con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, Firenze, Sansoni, 19062, to. vi, p.
442, Vita di Bastiano detto Aristotile da San Gallo).
6. Cfr. ivi, pp. 223-226; e v. G. Scocchera, Il programma e l’apparato. Contributi allo studio
dell’allestimento della ‘Talanta’, in Antropologia e Transculturalismo. Roma e Venezia nel Rinascimento,
«Teatro e storia», x, 1995, 17, pp. 365-402; da integrare, anche per la bibliografia, con L.
Vallieri, Prospero Fontana pittore-scenografo a Bologna (1543), «Drammaturgia», xi / n.s. 1, 2014,
pp. 347-368: 354 e nota 34.
19
SARA MAMONE
1550). Precedente al 1552 (anno di pubblicazione) è una strabiliante descrizione di Anton Francesco Doni riferita a un allestimento teatrale:
udi’ dire d’una comedia, la quale aveva avuto bellissimi intermedii. Il primo fu che
il palco s’alzò e sotto v’apparve una fucina di Vulcano; e al batter dei martelli s’udiva (e non si vedeva altro che gli uomini nudi che l’infocato strale battevano) una
mirabil musica, dopo la quale si richiuse il palco. Dicevano ancóra che al secondo
atto, essendo la scena sopra un perno che si voltava a poco a poco, che appena s’accorsero le brigate che la si volgesse, vi si vedde un teatro pieno di popoli e nel luogo
del palco una battaglia d’alcune barchette in acqua, che facevano stupire in quella
gran sala tutti gli udienti. Fu al terzo atto chiusa Venere e Marte sotto la rete con
una musica d’amori concertata con variati strumenti ascosti, che l’armonia cavava i
cuori dei petti per dolcezza alle persone. Al quarto atto dissero i galanti uomini che
s’aperse il cielo e si vidde tutti gli dei a convito splendidissimo e ricco e tanto ornato d’oro, argento, vestimenti, ornamenti e gioie, che pareva impossibile essersi gli
uomini imaginati tanta pompa: nel qual convito s’udirono molte sorte di concerti di musiche allegre e divine. Al quinto atto gli dei di cielo, di terra, di selve e di
mare, con le ninfe loro, fecero su la scena diverse e mirabili danze. […] E univano
gli atti, i salti, i passi, e ciascuno altro moto con le parole dei canti, che parte erano
di sopra, parte dietro alle prospettive, e parte sotto terra. Nel cielo s’udivano storte, violini, cetere, cembanelle, arpicordi, flauti, cembali e voce di fanciulle; in terra
violoni, liuti, clavicembali, viole a braccio e voci di tutte le parti; sotto terra sonavano tromboni, cornetti senza boccuccio, flauti grossi, e a voce pari, tutti i canti:
talmente che queste musiche e questi intermedi furon giudicati più stupendi che si
potesser far mai e che mai fosser fatti.7
Questa descrizione della commedia con «bellissimi intermedii» che, per la
complessità macchinistica, avevo sempre trascurato ritendendola più frutto di
fantasia che reale descrizione di un evento, deve invece essere attentamente
studiata, alla luce di molte nuove acquisizioni che tendono ad anticipare cronologicamente l’importanza anche tecnologica degli intermezzi8 nell’economia
complessiva della rappresentazione. Dovremo quindi registrare già a quest’altezza molte delle invenzioni che percorreranno come topoi l’intera vicenda del
teatro illusionistico: innalzamento del palco e visione della Fucina di Vulcano,
rotazione totale della scena su perni e apparizione prima di una folla poi di
una piccola battaglia navale; gli Amori di Venere e Marte; l’apertura del cielo e l’apparizione del convito degli dei; la discesa degli dei tra danze e canti
7. In Opere di Pietro Aretino e di Anton Francesco Doni, a cura di C. Cordiè, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1976, to. ii, pp. 705-706.
8. Si ricordi il caso studiato da Vallieri, Prospero Fontana pittore-scenografo a Bologna (1543),
cit., in partic. pp. 359-361.
20
DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO
e, non ultima, la disposizione ‘orchestrale’ degli strumenti musicali tra Cielo,
Terra e Inferi con l’uso del sottopalco.
È stata avanzata l’ipotesi9 che la stupefacente descrizione possa riferirsi a un
allestimento relativo proprio a uno di questi spettacoli dell’accademia Fiorentina e, realisticamente, alla prova matura di uno dei suoi più illustri membri,
appunto quel Giorgio Vasari che, fatte le prime esperienze come allievo di
Sangallo, si avviava in quegli anni a essere il più stretto collaboratore del granduca Cosimo, pronto per le successive prove degli spettacoli dinastici in occasione delle nozze del reggente Francesco con Giovanna d’Austria. La cofanaria
del 1565, nel salone dei Cinquecento in palazzo Vecchio, fu infatti spettacolo
cardine anche dal punto di vista della maturazione del luogo dello spettacolo
e delle sue dotazioni scenotecniche.10 Fu anche la precoce prova di un ribaltamento nella gerarchia dei valori spettacolari nei quali la commedia rappresentata diventerà di fatto secondaria rispetto all’impegno degli intermezzi che,
significativamente, saranno sei, incorniciando quindi i cinque atti e avendo
perciò il ruolo cardine nella gerarchia della ricezione degli spettatori, aprendo
e chiudendo l’intero allestimento. Giova qui ricordare come i sei intermezzi
tra gli atti fossero legati da un filo conduttore unitario (premessa già matura
per l’evoluzione nelle forme del melodramma): la favola di Amore e Psiche.
Dalla descrizione che ne fa il Lasca11 il i intermedio si apre con la discesa
di una nuvola su cui siede, su un carro trainato da due cigni e tempestato di
gemme, Venere, accompagnata dalle tre Grazie e dalle Quattro Stagioni. Nella discesa il carro si allontana dal consesso degli dei celesti che restano al loro
posto cantando soavemente mentre tra i cinque sensi anche l’olfatto viene sedotto da profumatissime essenze vaporizzate nell’aria. Anche Amore entra in
scena scortato dalle personificazioni della Speranza, del Timore, dell’Allegria
e del Dolore; accettato l’invito materno a far innamorare Psiche di un amo-
9. Cfr. A.M. Testaverde, Teorie e pratiche nei progetti teatrali di Giorgio Vasari, in Percorsi
vasariani tra le arti e le lettere. Atti del convegno di studi (Arezzo, 7-8 maggio 2003), a cura di M.
Spagnolo e P. Torriti, Montepulciano (Si), Le Balze, 2004, pp. 63-75, in partic. 66-67.
10. Per la descrizione della sala teatrale e del palcoscenico allestito verso il lato nord del
salone stesso, oltreché per la descrizione dell’apparato di sala e per la scena prospettica, resta
basilare la relazione di Domenico Mellini: Descrizione dell’apparato della comedia et intermedii
d’essa; recitata in Firenze il giorno di S. Stefano l’anno 1565 nella gran sala del palazzo di sua eccellenza
illustrissima nelle reali nozze dell’illustrissimo et eccellentissimo signore il signor don Francesco Medici
principe di Fiorenza, et di Siena, et della regina Giovanna d’Austria sua consorte, Firenze, Giunti,
1566. Si vedano anche le considerazioni di Anna Maria Testaverde nel saggio qui presentato
alle pp. 45-69.
11. Cfr. Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, Descrizione degl’intermedii rappresentati colla commedia nelle nozze dell’illustrissimo, ed eccellentissimo signor principe di Firenze, e di Siena,
Firenze, s.n.t., 1566.
21
SARA MAMONE
re umano, Cupido se ne esce di scena lanciando saette amorose tra il pubblico mentre il carro di Venere riguadagna il cielo con movimento ascendente.
Nel ii intermedio le quattro aperture praticabili, «che per uso de’ recitanti
s’erano nella scena lassate»,12 vedono l’entrata di Zefiro, della Musica, del Gioco, del Riso e di vari Amorini inneggianti alla bellezza di Psiche che aveva
fatto innamorare Amore stesso.
Nel iii «parve […] quasi che il Pavimento della Scena in sette piccioli Monticelli s’andasse alzando; onde si vide a poco, a poco uscire prima sette, e poi
sett’altri Inganni»,13 mentre nel iv i monticelli vengono riassorbiti in sette piccole voragini da cui escono la Discordia, l’Ira, la Crudeltà, la Rapina, la Vendetta e due Antropofagi che, affiancati da due personificazioni del Furore con
armi che celavano strumenti musicali, avrebbero accompagnato la moresca di
chiusura d’atto.14
Il v intermedio, piuttosto complesso, è diviso in due parti. La prima accompagna il canto di Psiche, oppressa dalla Gelosia, dall’Invidia, dalla Preoccupazione e dallo Scorno che suonano meravigliosamente quattro violoni
i cui archetti paiono trasformati in serpi.15 La seconda mutazione contempla
l’apertura del palco con l’apparizione dell’«infernal cerbero» e appresso «con
diversi Monstri si vide apparire Caronte con la sua barca»16 sulla quale Psiche
fece la sua uscita di scena.
L’ultimo intermedio è felicemente pacificatore e contempla un’ulteriore
apertura del sottopalco da dove si vede «in un tratto uscire un verdeggiante
Monticello tutto d’Allori, e di diversi fiori adorno, il quale avendo in cima
l’alato Caval Pegaseo, fu tosto conosciuto essere il Monte d’Elicona».17 Psiche
e Amore, finalmente ricongiunti e pacificati con Venere, scendono le pendici,
accompagnati dal corteggio festoso di Amorini, Zefiro, Pan e Imeneo, e ponendo fine allo spettacolo con «un nuovo et allegrissimo ballo».18
Risulta ormai assestata la macchina scenica con movimenti complessi che
stabiliranno a grandi linee il canone macchinistico del futuro. Sono presenti
dispositivi ascendenti e discendenti: tra essi la nuvola del i intermedio (che in
realtà apre lo spettacolo a mo’ di prologo). Viene usato il sottopalco con effetti illusionistici: i monticelli che emergono e le corrispondenti voragini che
si inabissano, l’apparizione di Cerbero tra fuoco e fiamme e Caronte con la
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
Ivi, p. 7.
Ivi, pp. 8-9.
Cfr. ivi, p. 10.
Cfr. ivi, p. 12.
Ivi, p. 13.
Ibid.
Ivi, p. 14.
22
DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO
sua barca. A sigillo dell’intero spettacolo, il monte Elicona sale dal sottopalco
con in cima l’alato Pegaso. Sarà questa l’immagine topica che si affermerà in
seguito divenendo il vero e proprio simbolo dell’intera macchineria del teatro barocco insieme allo sperimentato ‘ingegno’ delle nuvole. Si segnala già
qui19 l’intervento tecnico del giovane Bernardo Buontalenti per le macchine
più complesse, relative alla costruzione del cielo («a uso di mezza Botte con
cortine di legname, tutto coperto di tele et dipinto con aria piena di nuvole,
che girava in tondo, secondo che faceva tutta la Scena»)20 e la messa in opera
dei ‘tirari del Cielo’ cioè l’insieme della macchineria verticale (salite, discese
e, di lì a poco, anche il virtuosistico movimento in diagonale). La macchina
delle nuvole ospita già in questa occasione quella moltitudine di dei celesti
che diverrà vero e proprio marchio del grande architetto fiorentino, nonché
banco di prova per tutti gli scenotecnici a venire. Di questo episodio, che si
segnala sempre più come prototipico, va inoltre sottolineata l’invenzione del
retropalco,21 cioè l’organizzazione del complesso degli spazi destinati all’azione che consente di razionalizzare la gestione degli impianti macchinistici
e funzionali. Questo nuovo assetto segna anche la definitiva separazione tra
gli spazi dell’azione e quelli della visione. Altro elemento pionieristico la disposizione strumentale in cui si precisa la distinzione tra gli strumenti «apparenti» e quelli «non apparenti», cioè nascosti, destinati a rivestire un ruolo
sempre più rilevante nel meccanismo illusionistico. Nel v intermedio, opera
dello Striggio, le allegorie della Gelosia, dell’Invidia, della Preoccupazione e
dello Scorno, raccolti da terra «quattro Serpenti, che di essa si videro maravigliosamente uscire»22 e nei quali erano congegnati quattro violoni, percotendoli con verghe spinose che nascondevano gli archetti, accompagnarono
il mesto canto di Psiche con tanta maestria «che si vide trarre a più d’uno le
lagrime da gl’occhi».23 Nel 1569 in occasione della visita dell’arciduca Carlo
d’Austria, fratello della granduchessa, i sei intermezzi de La vedova replicano
la complessità scenotecnica già sperimentata nello stesso salone dei Cinquecento. In particolare il consesso finale degli dei conferma l’avvenuto consolidamento del topos.
19. Si veda al proposito A.M. Testaverde, Informazioni sul teatro vasariano del 1565 dai registri
contabili, in Per Ludovico Zorzi, a cura di S. Mamone, «Medioevo e Rinascimento», vi/n.s. iii,
1992, pp. 83-95: 92-93.
20. Mellini, Descrizione, cit., p. 9.
21. Cfr. Zorzi, Il teatro e la città, cit., p. 105.
22. Il Lasca, Descrizione, cit., p. 12.
23. Ibid. E v. le riflessioni di G. Guccini, Loci sonori: i comici e l’invenzione del melodramma,
in Drammaturgie dello spazio dal teatro greco ai multimedia, a cura di S. Mazzoni, «Drammaturgia»,
x, 2003, 10, pp. 141-200: 185 ss.
23
SARA MAMONE
Dopo una lunga e complessa fase di incertezza, la ricchezza delle competenze scenotecniche, applicate a un uso ormai maturo dell’organismo drammaturgico anche nella sua valenza musicale, porta l’esperienza fiorentina alla
sintesi del patrimonio tecnologico della scena e quindi al successivo passo della ‘messa a reddito’ di questi saperi nella razionalizzazione patrimoniale di un
edificio apposito. Accanto ai contenuti, che resteranno neoplatonici per evidenti ragioni di autocelebrazione, il nuovo teatro degli Uffizi sancirà anche il
definitivo trionfo tecnologico di un pragmatico modello.24 Toccherà comunque a Bernardo Buontalenti portare a compimento nel 1586 la laboriosa fase
di strutturazione e destinazione degli spazi del complesso voluto da Cosimo,
progettato inizialmente da Vasari e destinato principalmente alla efficienza del
funzionamento amministrativo. Le complesse questioni riguardanti la sala, le
sue evoluzioni e le differenti attribuzioni di paternità sono trattate in questa
stessa sede editoriale da Anna Maria Testaverde.25
2. La nuova sala razionalizza comunque le esigenze di questa matura scenotecnica e, a partire almeno dalla metà degli anni Ottanta, consolida definitivamente questa destinazione. L’occasione fu data nel 1586 dalla emulazione
dinastica nei confronti della corte estense grazie al matrimonio di Virginia de’
Medici (sorella del granduca) con Cesare d’Este. La commedia (L’amico fido di
Giovanni de’ Bardi) non riveste più alcuna importanza, schiacciata dalla novità
dell’apparato e soprattutto dalla ricchezza degli intermedi sempre più affermato nel gradimento del pubblico. A ben guardare però la novità risiede, oltre
che nell’aspetto scenotecnico, anche nelle possibilità fornite dalla stanzialità.
Un attento esame della macchineria inventata e posta in essere a Firenze negli episodi fin qui citati a partire dal 1539 mostra come venga messa in
campo la tecnica della variatio più che della vera e propria invenzione. Sì che
possiamo ipotizzare che la complessa macchineria registrata da Joseph Furttenbach nel già citato manoscritto inedito sia in realtà testimonianza anche
di una tradizione precedente ai raggiungimenti scenotecnici da lui descritti e
successivamente messi a frutto. Avremmo così non solo la preziosa descrizione dello spettacolo del 1608 ma la storicizzazione di oltre un sessantennio di
storia scenotecnica. Le macchine descritte dal Doni ante 1552 già vedono in
scena la fucina di Vulcano, le apparizioni del mare, il convito degli dei in cielo,
24. Cfr. S. Mamone, Il risparmio e lo spreco sotto lo sguardo di Callot, in Id., Dèi, semidei, uomini. Lo spettacolo a Firenze tra neoplatonismo e realtà borghese (XV-XVII secolo), Roma, Bulzoni,
2003, pp. 149-168. Diverso il caso degli aristocratici Olimpici e del loro struggente sogno di
restituzione dell’antico: v. S. Mazzoni, L’Olimpico di Vicenza: un teatro e la sua «perpetua memoria»
(1998), Firenze, Le Lettere, 20102.
25. Cfr. qui pp. 45-69.
24
DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO
la spettacolare macchina ascendente con il monte Elicona e in cima il cavallo
alato Pegaso, gli intermezzi non apparenti, la rotazione su «perno». L’apparato
del ’65 conferma le tipologie: il movimento simmetrico ascendente e discendente sotto il piano del palco (monticelli che si trasformano in voragini), l’Inferno, la salita del monte Elicona.
Il metodo operativo creato dal Buontalenti per la messa in scena sperimenta
una maggior capienza della soffitta del teatro mediceo rispetto agli ambienti
costruiti per il palcoscenico del teatro vasariano nel salone dei Cinquecento.
Ciò consentì di accrescere la consistenza numerica delle macchine-nuvole sul
palcoscenico degli Uffizi. Nella successiva prova del 1589 le ‘nuvole’ diventeranno ben sette stabilendo così il prototipo che permarrà per tutta la vicenda
scenotecnica del teatro barocco recepita, a livello trattatistico, sia da Furttenbach
che da Sabbatini,26 confermando la tipologia ormai canonica delle scene: il
consesso degli dei in cielo; l’inferno aperto; la gran macchina del giardino; la
scena di mare col carro di Nettuno; la scena di nuvole col carro discendente
di Giunone; il coro di pastori e pastorelle.
La maggior parte delle trovate scenotecniche è affidata alla praticabilità del
piano del palco provvisto di botole e di canali di scorrimento. Ma l’innovazione più rilevante è legata al potenziamento delle macchine, in particolare
quelle delle nuvole che aumentano anche la loro capienza potendo reggere così
presenze di attori e cantori sempre più numerose. Le potenzialità del palcoscenico vengono sfruttate appieno solo nell’episodio del 1589 per gli intermezzi
della Pellegrina in occasione delle nozze del granduca in carica, Ferdinando,
con Cristina di Lorena. Si tratta di un radicale intervento di ristrutturazione che mira a rendere permanente il teatro di corte consentendo parimenti all’architetto di ottimizzare le sperimentazioni scenotecniche. La soluzione
viene trovata aumentando la profondità del palcoscenico ampliato di circa 5
braccia (da m. 11,60 a m. 14,50).27 Come conseguenza si riorganizzò anche il
piano28 predisponendolo con un numero di aperture e canali di scorrimento
maggiore che consentissero la messa in valore delle «macchine saglienti, e di-
26. Cfr. J. Furttenbach, Newes itinerarium Italiae […], Ulm, Saur, 1627; Id., Architectura civilis, Ulm, Saur, 1628; Id., Architectura recreationis […], Augsburg, Schultes, 1640; Id., Mannhaffter
Kunst-Kunst-spiegel […], Augsburg, Schultes, 1663; N. Sabbatini, Pratica di fabricar scene e machine
ne’ teatri (1638), con aggiunti documenti inediti e disegni originali a cura di E. Povoledo,
Roma, Bestetti, 1955.
27. Cfr. Testaverde, L’officina delle nuvole, cit., pp. 82, 91-92.
28. Da rilevare anche la complessità dell’assetto delle stanze di servizio: stanze dei pittori,
stanza delle acconciature, le stanze dei costumi, la stanza dei doratori, la dispensa (la stanza buia
con derrate per l’allestimento dei rinfreschi per i musici e per gli accademici, ecc.; cfr. ivi, p. 93).
25
SARA MAMONE
scendenti dal Cielo, passanti per l’aria, e uscenti di sotto ’l palco».29 Parimenti
si rese funzionale la verticalità dello spazio creando una partizione strutturale
che consentisse la praticabilità di un livello di soffitta che verrà chiamato «Paradiso» e che avrà varie funzioni. Tra queste quella del ricovero delle macchine in riposo e del loro funzionamento nel corso dell’azione. Saranno appunto
queste le macchine discendenti del «Cielo».30
Nel 1991 Anna Maria Testaverde ha pubblicato il Memoriale di Girolamo
Seriacopi, nel quale il provveditore alle fortezze medicee registrava tutti gli
interventi, gli acquisti, e gli ordini relativi alla trasformazione del teatro di
corte. La studiosa aveva suggerito il nome di Furttenbach31 come possibile testimone di un assetto della sala non troppo dissimile da quello di questo 1589.
Effettivamente, in base alle recenti acquisizioni e nel raffronto con i dati forniti dal Seriacopi, le indicazioni dell’architetto tedesco (esplicitamente riferibili al 1608 e anche ad allestimenti successivi) possono estendere il loro valore
testimoniale à rebours fino a quella esperienza.
L’aumento della volumetria consente l’introduzione contemporanea di meccanismi in movimento articolati su tre livelli: la compresenza sia di strutture
aeree, sia di strutture mobili a terra, sia di quelle ascendenti dal sottopalco. Lo
stupore registrato dagli spettatori e dai cronisti è il frutto della razionalizzazione delle funzioni complesse di questa nuova macchina scenica.
Forse più ancora della stupefazione illusionistica vale la pena ricordare qui
il dato materiale dell’organizzazione meccanica che la rende possibile e che
risponde appieno all’innovazione buontalentiana nella tradizione tecnologica
fiorentina. «Tante macchine, e della grandezza […] che noi diremo, si possano
esser vedute uscir di terra, e irsene al Cielo, e venire in terra, e attraversare in
qua, e ’n là quella scena, e sempre cariche di persone», commenta il relatore
ufficiale De’ Rossi.32
La lunga fase organizzativa mette a disposizione dell’artista un bacino di
duecentocinquanta macchinisti dai quali estrapolare volta a volta i circa cento
manovratori necessari. Questi vengono suddivisi in squadre che, coordinate
da caporali, vengono incaricate di svolgere rigorosamente i compiti assegnati
e lungamente messi a punto nelle prove. La suddivisione dei compiti è organizzata nella razionalizzazione spaziale: nel i intermedio, ad esempio, ventidue
29. B. de’ Rossi, Descrizione dell’apparato e degl’intermedi fatti per la commedia rappresentata in
Firenze. Nelle nozze de’ serenissimi don Ferdinando Medici, e madama Cristina di Loreno, gran duchi di
Toscana, Firenze, Padovani, 1589, p. 17.
30. Per la definizione del «Paradiso» e il suo funzionamento v. Testaverde, L’officina delle
nuvole, cit., pp. 94-98.
31. Rivedi nota 27.
32. De’ Rossi, Descrizione, cit., p. 34.
26
DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO
addetti sostano sui ballatoi perimetrali per la manovra dei canapi e dei contrappesi per due nuvole; nel sottopalco la squadra di cinque macchinisti, incaricati della manovra delle medesime nuvole, muove l’argano.33 Si conferma
quindi l’assestamento tematico conseguente all’assestamento macchinistico:
«sette nugole all’aperture, cinque delle quali si movevano, e se ne venivano in
terra, e due si rimanevan lassuso».34
Nel i intermedio, L’Armonia delle sfere, si realizza un gioco complesso di
nuvole portanti, anche laterali, con la contemporanea apertura del cielo in
tre parti. Si materializza uno sfondo di cielo stellato cui seguono la sparizione delle sette macchine-nuvole e la contemporanea chiusura del cielo.
Il ii intermedio La contesa tra le Muse e le Pieridi è composto di ben cinque fasi: la trasformazione della scena in giardino; l’ascesa dal sottopalco del monte
Parnaso su cui sono collocate le Ninfe Amadriadi; l’apparizione di grotte a seguito della rotazione dei periatti; la metamorfosi a vista delle Pieridi in gazze;
la sparizione del monte nel sottopalco.
Il iii intermedio, La lotta tra Apollo e Pitone, è articolato in quattro fasi: la
prima vede ad apertura di sipario un bosco e una caverna che accolgono l’ingresso simmetrico laterale di cantori e ballerini; nella seconda fase si apre la
caverna e appare la testa del drago; nella terza la macchina del drago dispiega le ali distese mentre simmetricamente il dio Apollo discende dal cielo; la
quarta fase è articolata nel combattimento pantomimico tra il dio e il drago e
nella successiva uscita di scena degli abitanti.
Il iv intermedio, L’Inferno, è assai complesso ma al contempo replica tematiche già trattate: su un carro trasportato da una nuvola che si muove orizzontalmente la maga evoca i demoni dell’aria che scendono su una macchina-nuvola
che si apre a semicerchio mostrando il loro consesso («[…] e arrivata al mezzo
s’aperse, e fecesi un semicircolo […] con maraviglia di chi la vide: e non solamente potette nascer la maraviglia nel vedere così gran macchina aprirsi in
aria, ma nel vederla così carica di persone»)35 e poi si richiude e risale in cielo mentre il palco si riempie di «scogli, d’antri, caverne piene di fuochi».36 La
terza fase trasforma lo spazio scenico in mondo inferico: lateralmente il piancito si riempie di altissime rocce mentre il palco sprofonda e simmetricamente emerge l’Inferno con Lucifero dalle grandissime ali.37 Il meccanismo dello
33. La complessità della manovra è descritta minutamente in Testaverde, L’officina delle
nuvole, cit., pp. 93-101.
34. De’ Rossi, Descrizione, cit., p. 60.
35. Ivi, p. 50.
36. Ivi, p. 51.
37. Per la fortuna della macchina scenica di Lucifero e per la sua diretta influenza nell’opera
grafica di Jacques Callot e conseguentemente per la diffusione della figurazione in ambito euro-
27
SARA MAMONE
sprofondamento e della simmetrica emersione è ormai ben assestato, e rimanda all’uso del sottopalco con effetti illusionistici già testimoniato dalla descrizione del Doni del 1552 e replicato nel 1565 con i monticelli che emergono
mentre le corrispondenti voragini si inabissano. Già esibito anche il ‘numero’
dell’apparizione di Cerbero dal sottopalco, tra fuoco e fiamme.
Il v intermedio si apre su una scena marina e ha come soggetto Anfitrite e
la nave di Arione. Si articola in due sequenze indipendenti: nella prima il palco è trasformato in mare; emerge Anfitrite su una conchiglia e dopo il canto
si immerge nelle acque col suo seguito. Appare subito in sequenza, ondeggiando in mezzo alla scena, una galea attrezzata di tutto punto «bene armata,
e ben corredata»38 e con la ciurma in assetto («di quaranta persone carica, se
ne venne ondeggiando in mezzo la scena, su la quale stette sempre in continuo moto»);39 fatto un mezzo giro volta la prua e si pone di fronte al palco dei
principi, ammaina la vela in segno di reverenza mentre Arione, impersonato
da Jacopo Peri, suona divinamente e finito il canto si tuffa in mare, portato
quindi in salvo da un delfino.
Nel vi intermedio, che fa da sigillo allo spettacolo, Gli dei donano ai mortali l’Armonia e il Ritmo. È il gran finale con le sette macchine-nuvole in piena attività a
portare sulla terra il consesso degli dei che si uniscono ai mortali in un ballo conclusivo. Non manca nessun artificio seduttivo tra fumi, profumi e piogge d’oro.
Non abbiamo altra notizia dell’uso del teatro degli Uffizi prima del grande apparato per le nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia nel
1600. Nel gran teatro si rappresenta Il rapimento di Cefalo di Gabriello Chiabrera con musiche di Giulio Caccini e uno stuolo numerosissimo di interpreti
(pare fossero almeno cento). Dal punto di vista dell’efficienza macchinistica
l’episodio rappresenta in qualche modo il punto di rottura nello sperimentalismo scenotecnico almeno per due ragioni: la prima va ricercata forse nel difficile adattamento reciproco delle complesse componenti (l’armonizzazione dei
tempi dell’esecuzione musicale e quelli dell’esecuzione macchinistica); la seconda, a questa legata, sta forse nell’eccesso di ardimento tecnologico tentato
da un apparato allestitorio granducale non in grado di opporsi all’avventurismo sperimentale del plenipotenziario del granduca, il fratello don Giovanni.40
peo, si vedano almeno le tavole delle Tentazioni di Sant’Antonio in cui l’incisore lorenese, allora
testimone diretto e cronista grafico degli eventi spettacolari medicei, si rifà senza ombra di dubbio alla figurazione teatrale. Cfr. almeno D. Ternois, L’art de Jacques Callot, Paris, De Nobelé,
1962. Si veda anche S. Mamone, L’oeil théâatral de Jacques Callot, in Jacques Callot (1592-1635), a
cura di P. Choné e D. Ternois, Paris, Klincksieck, 1993, pp. 203-229.
38. De’ Rossi, Descrizione, cit., p. 57.
39. Ibid.
40. Sulla figura del principe e sul suo ruolo nella organizzazione spettacolare medicea, si
28
DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO
La pubblicistica ufficiale in questo caso si dimostra assai più sobria del solito
lasciando alla descrizione dell’incaricato Michelangelo Buonarroti jr l’ostensione della magnificenza spettacolare.41 La fonte resta fondamentale anche se
da leggersi più come intenzionale che non correttamente cronistica. È opportuno infatti riferirsi a voci meno tendenziose per avere chiara informazione
del non felice esito tecnologico: «Per l’apparato scenico e gli intermedi meritò molta lode, ma il modo di cantarla venne facilmente a noia, oltre che non
sempre il movimento delle macchine è riuscito felice»,42 così testimonia il legato pontificio Pietro Aldobrandini, confermando alcune difficoltà di relazione espresse con ancora maggior perentorietà da Emilio de’ Cavalieri: «Et se il
signor don Giovanni avesse voluto un poco di parere da me circa le musiche
della commedia, et anco da Bernardo sopra le cose appartenenti alle macchine
credo che ogni cosa saria restata terminata e finita, et le musiche sariano state
proporzionate al luogo e al teatro et sariano stati i danari spesi con più soddisfazione degli ascoltatori».43 Le puntuali indicazioni del Buonarroti sono comunque preziose per comprendere l’importanza di questo allestimento come
cerniera tra il passato e il futuro, quasi intenzionale linea di demarcazione tra
una sperimentazione ardimentosa e una successiva pressoché seriale reiterazione di schemi: «argomentare allor si potette, quello il sigillo dovere essere, che
chiugga la porta della magnificenza d’ogni spettacolo per lungo tempo. Imperò
che nessun movimento di macchine così traversanti circolarmente, e discendenti, e saglienti, come venenti inanzi, e chiudentisi per vari modi mancovvi, dismisurati pesi reggendo sopra».44 Interessante la piena valorizzazione del
backstage a conferma di quanto la tecnologia fosse diventata valore esibitorio:
veda S. Ferrone, Attori mercanti corsari. La commedia dell’Arte in Europa tra Cinque e Seicento (1993),
Torino, Einaudi, 2011, pp. 143-199 (Don Giovanni impresario).
41. Cfr. M. Buonarroti Jr, Descrizione delle felicissime nozze della cristianissima maestà di
madama Maria Medici regina di Francia e di Navarra, Firenze, Marescotti, 1600 (cito dall’esemplare
conservato presso l’istituto Warburg).
42. Diario del viaggio fatto dal cardinal Pietro Aldobrandini nell’andare legato a Firenze per la celebrazione del sponsalizio della regina di Francia et in Francia per la pace, ms., Bibliothèque Nationale
de Paris, Mss. Its. 1323, c. 37v.
43. La lettera di Emilio de’ Cavalieri al granduca Ferdinando, Roma, 7 ottobre 1600, ms.,
Archivio di stato di Firenze, Mediceo del principato, f. 899, cc. 415r.-417v., è stata pubblicata per la
prima volta in A. Solerti, Laura Guidiccioni e Emilio de’ Cavalieri. I primi tentativi del Melodramma,
«Rivista musicale», ix, 1902, pp. 818-820. Proprio come cerniera tra le acquisizioni del passato
e il, relativo, consolidamento per il futuro, l’episodio è analizzato anche sotto questo aspetto
in S. Mamone, Firenze e Parigi, due capitali dello spettacolo per una regina: Maria de’ Medici (1987),
ricerca iconografica di S. M., fotografie di F. Venturi, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana, 19882,
pp. 81-98 (p. 83 per la lettera).
44. Buonarroti jr, Descrizione, cit., p. 36.
29
SARA MAMONE
Oltre che la diversità, e quasi contrarietà delle stesse macchine, e di loro aspetto; sì come della nugola dell’Aurora con quella della Notte, dell’apertura del Cielo con quella
della Terra, e del Mare con le selve, e d’altre con altre; discoverse maggiormente l’arte, e la ’nvenzione squisita. E tante, e sì fatte furono, che quale avesse veduto l’ascoso luogo dove elle locate erano, e si maneggiavano […] quivi altresì avria veramente
veduto, ciascuna apertura, o componimento picciolo, o grande di ferro, o legname a
maraviglia rendere oprare con agevolezza non più creduta, benché per loro quantità
ad usarli huomini moltissimi richiedessero, regolati in un certo modo da note, e terminazioni di musica, che ad ora ad ora delle macchine abbisognava.45
L’episodio pur non segnando ancora completamente il superamento dell’alternanza tra atti e intermezzi svaluta definitivamente la commedia recitata mentre
i temi degli intermezzi vengono a essere una sorta di catalogo delle possibilità
macchinistiche fino ad allora esperite. Ci troviamo quindi semmai di fronte
a un organismo le cui due componenti (esecuzione musicale ed esecuzione macchinistica) si trovano di fronte a problemi inediti di armonizzazione.
Per quel che qui ci riguarda (la complessa articolazione funzionale dell’intera
macchineria) possiamo osservare come ormai la strumentazione sia collaudata (i tentativi di superamento non saranno particolarmente felici) costituendo
anche un dato patrimoniale acquisito. A questo punto la macchineria diviene
elemento mitopoietico essa stessa, costringendo l’invenzione poetica a subordinarsi alla preesistenza di un capitale macchinistico da mettere a frutto.46 E
infatti la drammaturgia del Rapimento di Cefalo può anche essere letta come
la prescrizione di un montaggio di pezzi di bravura: come i virtuosi anche la
scenotecnica ha ormai il suo repertorio, le sue ‘arie di baule’.
Il i intermedio infatti mette in scena Il monte Elicona con il cavallo Pegaso (fig. 1)
che fa scaturire giochi d’acqua percuotendo la roccia con lo zoccolo; il soggetto
è ormai canonico, almeno dalla rappresentazione del 1565 in palazzo Vecchio
e, nella forma del monte che sorge dal sottopalco, presente anche negli allestimenti del 1586 e del 1589 nello stesso teatro degli Uffizi. Il palcoscenico esonda
nell’alzata verso la platea con una decorazione di «salvatichi gradi, e massosi, che
con arte rustica, e dissimulata, parevano aprire triplicata callaia alla sua salita».47
Collaudata anche la scomparsa del monte Elicona, con un meccanismo a caduta
che rende velocissimo l’assorbimento dell’ingegno nel sottopalco.
Il ii intermedio, la Scena marina con gli dei marini, tritoni e l’Orca è di tutta
evidenza una semplice variazione della scena marina con Arione e i delfini
45. Ivi, pp. 36-37.
46. Cfr. S. Mamone, La macchina o l’indifferenza del mito, in Id., Dèi, semidei, uomini, cit.,
pp. 193-209.
47. Buonarroti jr, Descrizione, cit., p. 23.
30
DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO
già elaborata e allestita con successo per il v intermedio de La Pellegrina (fig.
2). Pure sperimentata la sparizione del mare.
Il iii intermedio, Il carro della Notte e l’apparizione dei segni zodiacali, evidenzia i precedenti mostrando la messa a frutto del patrimonio macchinistico e
anche la reiterazione dei temi drammaturgici da questo dipendenti. Rupi, spelonche e rovine sono una variazione di quelle dell’Inferno nel iv intermedio
de La Pellegrina, il frondoso bosco attraversato da un carro d’oro brunito che
rappresenta La Notte tirato da due civette è sempre variazione del iv intermedio de La Pellegrina con il Carro della Maga (figg. 3-4). La risalita in un cielo
sempre più oscuro nel quale appaiono i segni dello Zodiaco ripropone il tema
dei pianeti precedentemente esibito nel i e nel vi intermedio de La Pellegrina.
L’apparizione dei Sette Pianeti risale comunque assai indietro nel tempo, essendo già presente nella pionieristica macchineria delle quattrocentesche sacre
rappresentazioni d’Oltrarno.48
iv intermedio Berecinzia. La dea della terra appare dalla metamorfosi di
un monticello sorto dal pavimento da cui escono venti odorosi (variazione
dell’intermedio infernale del 1589 oppure riuso delle due caverne rotanti del
ii intermedio [fig. 5], per non riandare ai monticelli dell’intermedio del 1565).
Discesa di nuvole e gara «con bel contrasto di macchine, e in giù e in su andanti e correntisi dietro»; qui non è necessario ricercare una precisa variazione nel
patrimonio delle sette nuvole create da Buontalenti per La Pellegrina. Interessante notare l’attenzione a un altro elemento materiale perfezionato nel corso
dell’esperienza apparatoria e cioè, tra le funzioni «non apparenti», quella della
problematica aereazione della sala che aveva visto nell’allestimento del 1589 la
creazione di sfiatatoi al soffitto celati da eleganti rosoni e che qui si potenzia
con l’apertura di finestroni posti ai lati del palcoscenico (probabilmente quelli
all’altezza del secondo piano del retropalco) da cui fuoriescono «Venti grandissimi e freschi» che «sfiatarono odorantissimi e sì gagliardi, che tutto il teatro
conforto non piccolo ne ricevette, che sì calcato vi era».49
Il v intermedio prevede l’ormai canonico Consesso degli dei con Giove, assiso in trono sull’aquila movente le ali, che ordina a Mercurio e Cupido la fine
degli amori di Aurora e Cefalo. Indi tutti gli dei risalgono su nuvole. Anche
qui è superfluo citare corrispondenze puntuali con i precedenti usi della macchineria delle nuvole essendo il soggetto praticamente ineludibile a partire
dall’allestimento dell’opera ante 1552 descritta dal Doni.
vi intermedio. Per l’epilogo il palcoscenico «si trasformò in un magnifico, e
gran Teatro di mezzo ovato di ordine dorico, che divisato per dorate colonne,
48. Rivedi nota 4.
49. Buonarroti jr, Descrizione, cit., p. 31.
31
SARA MAMONE
e nicchie con loro statue d’oro, e corniciamenti faceva eguale corrispondenza al
Teatro stesso».50 La mutazione straordinaria richiama vistosamente la non dissimile descrizione di De’ Rossi, relativa a un’apertura di scena precedente l’inizio
vero e proprio della rappresentazione nell’episodio dell’89, con un clamoroso esempio di manierismo metateatrale. Al calare del sipario (cioè ad apertura
della rappresentazione essendo il sipario a caduta) si era presentata «agli occhi
di ciascheduno, tutta la sala uno anfiteatro perfetto (perciocché la Prospettiva,
che era in faccia con la sua architettura corintia si congiugneva con l’Apparato,
e per essa l’Anfiteatro aveva ’l suo fine)».51 La descrizione del De’ Rossi è piuttosto confusa e non trova precisi riscontri nelle descrizioni consuntive dei cronisti presenti allo spettacolo, ma ai nostri fini non si può non notare come essa
corrisponda perfettamente (con un semplice cambio di stile architettonico: da
corinzio a dorico) alla conclusione del Rapimento di Cefalo. Davanti a questa architettura si apre in proscenio un’enorme botola e emerge Il carro trionfale della
Fama attorniato da sedici fanciulle rappresentanti le città del dominio granducale.52 Il virtuosismo tecnologico si accentua in un triplice movimento simultaneo: mentre il carro inizia la discesa nel sottopalco, dal medesimo emerge un
grandissimo giglio rosso e dorato (emblema della città di Firenze) che si congiunge con la macchina discendente rappresentante la corona regale di Maria in
una immagine compendiaria del nuovo stato della regina sposa. Saranno forse
proprio le difficoltà di questi arditi movimenti a generare gli inconvenienti di
funzionamento lamentati dai cronisti, segnando di fatto un arretramento dello sperimentalismo nell’episodio successivo del 1608 nel quale il macchinismo
scenotecnico si attesterà sulle basi consacrate nel 1589. Ma non può sfuggire la
‘citazione’ che collega idealmente l’epilogo del 1600 con il prologo del 1608
per Il giudizio di Paride53 di Michelangelo Buonarroti jr rappresentato nel teatro
granducale per le nozze di Cosimo II con Maria Maddalena d’Austria, scenografie di Giulio Parigi, spettatore attento Joseph Furttenbach.
Per la visualizzazione di questo spettacolo siamo aiutati dalla ricca serie di
incisioni di Remigio Cantagallina54 che affiancano la pubblicazione del testo
50. Ivi, p. 34.
51. De’ Rossi, Descrizione, cit., p. 16.
52. Ricordiamo che la figurazione delle fanciulle rappresentanti le città del dominio mediceo aveva già fatto bella mostra di sé nell’apparato di sala del secondo cortile di palazzo Medici
in occasione della rappresentazione de Il Commodo per le nozze di Cosimo e Eleonora di Toledo.
53. Cfr. Michelangelo Buonarroti jr, Il giudizio di Paride favola del signor Michelagnolo
Buonarroti. Rappresentata nelle felicissime nozze del serenissimo Cosimo Medici principe di Toscana e della
serenissima principessa Maria Maddalena arciduchessa di Austria, Firenze, Sermartelli, 1608.
54. Le incisioni si trovano a Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, nn. 9576395765; 95766-95768. Per una descrizione delle tavole: Il luogo teatrale, cit., pp. 120-121, schede
8.30-8.35.
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DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO
del Buonarroti e che costituiscono l’elemento portante anche del manoscritto annotato di Furttenbach.55 Possiamo quindi procedere alla rapida descrizione di questi intermezzi che confermano l’uso reiterato di una macchineria
collaudata che prevale nettamente sull’innovazione. A mo’ di ulteriore esempio restiamo proprio su questo i intermedio del Palazzo della Fama (fig. 6) il
cui meccanismo aiuta a comprendere anche il funzionamento delle mutazioni
del prologo e dell’epilogo del Rapimento di Cefalo: nel mezzo del palcoscenico
«un grandissimo Palagio, tutto fatto a specchi, in luogo di bozzi, con spaziosi
portici, ed altissima torre» in cima alla quale compare la Fama che mostra agli
sposi la lunga schiera dei loro progenitori. Gli sposi entrano nel palazzo, il palazzo sparisce dalla scena e «la fama, restata in aria, cominciò a salire all’insù,
e si nascose tra le nuvole, cantando».56
Nel ii intermedio Astrea scende sulla terra e riporta l’età dell’oro (fig. 7). La scena di «tutte nuvole» si giova senza dubbio della macchineria e della sequenza
dei due intermezzi gemelli di apertura (il i, L’Armonia delle sfere) e di chiusura (il vi, Gli dei donano ai mortali l’Armonia e il Ritmo) dell’allestimento dell’89
mutando semplicemente l’iconologia. E sarà prezioso a breve il raffronto tra la
spiegazione di Furttenbach, i dati forniti dal Diario di Seriacopi e la dettagliata descrizione delle feste commissionata a Camillo Rinuccini. In questa costante opera di riciclaggio57 non è azzardato pensare che lo sfondo di Firenze
in apertura di scena sia nientemeno che l’ammiratissimo sipario dello Zuccari (fig. 8) che copriva la scena de La cofanaria del 1565 (e che viene verosimilmente prestato per la prima scena de Le nozze degli dei del 1637 nel cortile di
palazzo Pitti per celebrare le nozze del granduca Ferdinando II con Vittoria
della Rovere [fig. 9]). Così come le insegne di Flora, il leone che tiene il giglio, i costumi di Arno e delle sue Ninfe, l’aquila volante simbolo della casa
d’Austria da cui proveniva la sposa, i sei globi rappresentanti l’insegna medicea fanno ormai parte di un assestato trovarobato.
Anche il iii intermedio, Il giardino di Calipso (fig. 10), sembra trarre profitto,
nella costruzione dei palazzi laterali, dalle grottesche del ii intermedio de La
55. Si rilegga a p. 17 l’avvertenza a queste pagine.
56. Questa e la citazione precedente sono in C. Rinuccini, Descrizione delle feste fatte nelle
reali nozze de’ serenissimi principi di Toscana don Cosimo de’ Medici, e Maria Maddalena arciduchessa
d’Austria, Firenze, Giunti, 1608, pp. 40-41. Su l’organizzazione dell’intero evento si veda ora
A.M. Testaverde, Michelangelo Buonarroti il Giovane e le didascalie sceniche per il ‘Giudizio di Paride’,
in Studi di storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone, a cura di S. Mazzoni, Firenze, Le Lettere,
2011, pp. 166-179 e relativa bibliografia. Quanto al nesso macchinistico tra il prologo e l’epilogo
del Rapimento di Cefalo e, a ritroso, il ii intermedio della Pellegrina: Mamone, Firenze e Parigi,
cit., p. 88.
57. Cfr. Mamone, Il risparmio e lo spreco, cit.
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SARA MAMONE
Pellegrina, La contesa tra le Muse e le Pieridi, oltre a corrispondere puntualmente
alla descrizione fatta da De’ Rossi in quella occasione: «divenne tutta quanta la
scena un vago giardino, che ricoperse in modo le case, che più non si vedeva
alcun segno d’esse».58 Per la descrizione completa di questa mutazione si legga
il resoconto ufficiale di Rinuccini.59 Se ne ritrova una riproduzione seriale, a
opera di Alfonso Parigi, nella seconda mutazione de La liberazione di Ruggero
dall’isola d’Alcina del 1625 a Poggio Imperiale (fig. 11). E anche nella tavola n.
21 del trattato Architectura recreationis (1640) del nostro Furttenbach (fig. 12).
Nel iv intermedio, con la scena di mare de La nave di Amerigo Vespucci (fig.
13), assistiamo a una ardimentosa eroicizzazione di un soggetto non mitologico
ma direttamente encomiastico nella celebrazione della gloria di un fiorentino
illustre. Anche se a soggetto clamorosamente mutato (ma, a ben guardare, si
tratta di un abile travestimento) entrano in scena le consolidatissime macchine: la nave di Amerigo è di tutta evidenza quella di Arione nel v intermedio
de La Pellegrina (fig. 2) mentre l’intero assetto riproduce le quinte rocciose
dello stesso intermedio della Pellegrina e il corpo centrale della scena altro non
è se non la sintesi della macchina ascendente della montagna de La contesa tra
le Muse e le Pieridi associata allo squarcio del cielo con la nuvola che regge il
consueto consesso degli dei.
Il v intermedio, La Fucina di Vulcano, mostra una rotazione completa della
macchineria della prospettiva con la salita dal sottopalco della fucina di Vulcano (tema che risale addirittura agli intermedi descritti dal Doni).60 L’incisione
di Cantagallina (fig. 14) mostra esplicitamente i tre livelli dell’apparato macchinistico con in basso la scena infernale, sul piano della scena i Ciclopi e in
aria il carro-nuvola di Marte trainato da cavalli bai e condotto dalla Vittoria
e dalla Gloria.61 La comparazione iconografica mostra chiaramente l’identità
tra questa macchina e quella che nel iv intermedio de La Pellegrina sosteneva
il Carro della Maga e di cui abbiamo testimonianza dal disegno buontalentiano (fig. 4), mentre l’incisione del medesimo intermedio (fig. 3), chiaramente compendiaria, mostra anche la visione dell’Inferno sorgente dal sottopalco
tramite una macchina travestita da un enorme Lucifero.
Il vi e ultimo intermedio, Il tempio della Pace, è un’apoteosi della macchineria, un concertato finale. Sono usati tutti i livelli dell’impianto macchinistico
del teatro, rappresentati nell’incisione (fig. 15) con la abituale sintesi compendiaria che chiarisce visivamente l’uso del «Paradiso» inaugurato nella ristrut-
58.
59.
60.
61.
De’ Rossi, Descrizione, cit., p. 37.
Cfr. la descrizione del giardino in Rinuccini, Descrizione, cit., pp. 43-44.
Cfr. nota 8.
Si veda la ricca descrizione sempre in Rinuccini, Descrizione, cit., pp. 48 ss.
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DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO
turazione dell’89. La scena si apre su un ricco tempio e, inalterata, verrà poi
riusata per il iii intermedio de La liberazione di Tirreno e Arnea (fig. 16) in occasione dei festeggiamenti per le nozze di Caterina de’ Medici con Ferdinando
Gonzaga62 (1617) e nella scena finale de La Flora o vero Il Natale de’ fiori sempre
di Andrea Salvadori (1628),63 dove fa la sua comparsa in cima alla fonte aerea
«l’alato caval pegaseo» (fig. 17) de Il rapimento di Cefalo. Il patrimonio delle sette
macchine-nuvole occupa l’intero cielo mentre i movimenti ascendenti (trono
della Pace) e discendenti (la Pace sulla nuvola) richiamano inequivocabilmente
l’assetto macchinistico del palcoscenico del Mediceo.64
3. Ci fermiamo a questo 1608, dopo il quale pare veramente di poter datare
la conclusione della fase sperimentale e l’avvio di quella serialità che riprodurrà sui palcoscenici di tutta l’Europa delle corti le invenzioni e le realizzazioni
macchinistiche fiorentine. Questo avverrà sia attraverso la ben nota disseminazione degli ingegneri fiorentini (Lotti e Baccio in Spagna, i Francini in Francia, Costantino de’ Servi in Inghilterra, Alessandro Pieroni e Baccio nell’area
imperiale) sia attraverso la formazione dei talenti stranieri presso l’accademia
di Giulio Parigi, in particolare Inigo Jones e Joseph Furttenbach.
Complessa è la storia della circolazione dei disegni e del materiale tecnico
necessari alla diffusione di un sapere che diventa sempre più richiesto come
strumento di aggiornamento e prestigio. A questo compito adempiranno nel
corso del Seicento i trattati di cui quello del Sabbatini è certamente il perno.
L’amplissima diffusione di quest’ultimo ha forse messo in ombra i suoi debiti
nei confronti della macchineria fiorentina, debiti che un primo esame del manoscritto di Furttenbach sembrano invece confermare. A questa altezza cronologica sono ormai risolte le problematiche tecniche e consolidate le tipologie
62. Cfr. A. Salvadori, Veglia della Liberation di Tirreno et Arnea, Autori del sangue Toscano. Il
manoscritto si trova a Firenze, Biblioteca nazionale centrale, ms., Palatino 251, cc. 134r.-144v.,
Raccolta di poesie musicali dei secoli XVI e XVII. Per l’opera completa dell’importante personaggio
si rinvia a D. Sarà, Andrea Salvadori e lo spettacolo fiorentino all’epoca della reggenza (1621-1628),
tesi di laurea in Storia del teatro e dello spettacolo, Università degli studi di Firenze, Facoltà di
lettere e filosofia, a.a. 1999-2000 (relatore: prof. Sara Mamone). A questo episodio si deve la celeberrima incisione di Jacques Callot che mostra l’interno del teatro (un esemplare è conservato
a Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 8015 st. sc.).
63. A. Salvadori, La Flora o vero Il Natal de’ Fiori. Favola d’Andrea Salvadori, rappresentata
in musica recitativa nel teatro del serenissimo gran duca per le reali nozze del serenissimo Odoardo Farnese
e della serenissima Margherita di Toscana […], Firenze, Cecconcelli, 1628 (cito dal frontespizio).
64. Rinuccini, Descrizione, cit., p. 52: «uno eccelso, e ricco tempio, tutto d’oro, di superbissima architettura, e pieno di statue, e altri ornamenti sacri, nel quale a un tempo comparirono, e dal Cielo la Pace in una nugola, e di sotto terra il suo trono».
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SARA MAMONE
che divengono addirittura elemento vincolante per la drammaturgia.65 Come
appare dall’azione di Michelangelo Buonarroti che per Il giudizio di Paride predispone «un piano ‘registico’ attento al coordinamento delle manovre sceniche
con le azioni degli interpreti»;66 il vero problema da risolvere è quello dell’armonia di tutte le componenti, in particolare la sincronia del movimento delle
macchine con le esecuzioni musicali e coreutiche. Problema per il quale l’unica soluzione suggerita da Buonarroti è quella di molte prove di palcoscenico:
non mi par da indugiare a esercitar le macchine, e le musiche in sul luogo perché, come ho detto, ogni magistero vuol lunga, e diligente pratica, altrimenti le cose vanno per mala via e ne abbiamo gli anni passati, veduto l’esempio e questo è un gran
viluppo, perché, essendosi fatte le invenzioni delli intermedi e le musiche ancora da
diversi, ciascuno ha atteso al suo proprio, so che se non si viene presto in cognizione
di quelle difficultà che si posson dar le macchine di questa con quella di invenzione,
e il simile le musiche, ci potremmo trovar tanto tardi al procurar il rimedio che le
difficoltà s’accrescessero.67
Pare di sentire da vicino gli insegnamenti sperimentali dell’amico Galileo e
quasi un’anticipazione di quello spirito dell’accademia del Cimento che di lì
a non molti anni farà proprio della sperimentazione il suo motto: «Provando
e riprovando».
Una coscienza registica più complessa si fa strada in questi anni, legata al
nuovo genere melodrammatico e riassunta per noi, oltre che dalle preoccupazioni del Buonarroti, dal prezioso trattato de Il corago68 che intorno agli anni
Trenta sistematizza le svariate necessità trovando in un’unica figura professionale («un mestiero») tutte le qualità necessarie alla sintesi.
65. Cfr. Mamone, La macchina o l’indifferenza del mito, cit.
66. Testaverde, Michelangelo Buonarroti il Giovane, cit., p. 169.
67. Lettera di Michelangelo Buonarroti a Curzio Picchena, Firenze, agosto 1608 (?),
Archivio di stato di Firenze, Mediceo del principato, f. 6068, cc. 387r.-388r., cit. in Testaverde,
Michelangelo Buonarroti il Giovane, cit., pp. 170-171.
68. Cfr. Il corago, o vero alcune osservazioni per metter bene in scena le composizioni drammatiche, a
cura di P. Fabbri e A. Pompilio, Firenze, Olschki, 1983. L’opera, anonima, viene attribuita con
ottime ragioni all’entourage rinucciniano.
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Fig. 1. Bernardo Buontalenti, Disegno per il prologo del Rapimento di Cefalo, 1600 (London,Victoria & Albert Museum, E 1187/1931).
Fig. 2. Epifanio d’Alfiano (da Bernardo Buontalenti), Anfitrite e la nave di Arione, v intermedio della Pellegrina (1589), 1592, acquaforte (Firenze, Biblioteca marucelliana, I, 400).
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SARA MAMONE
Fig. 3. Epifanio d’Alfiano (da Bernardo Buontalenti), L’Inferno, iv intermedio della Pellegrina (1589), 1592, acquaforte (Firenze, Biblioteca marucelliana, I, 399).
Fig. 4. Bernardo Buontalenti, L’Inferno, iv intermedio della Pellegrina, 1589, disegno a
penna, bistro, acquerello e tracce di matita nera (Paris, Cabinet des dessins du Louvre, 867).
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Fig. 5. Epifanio d’Alfiano (da Bernardo Buontalenti), La contesa tra le Muse e le Pieridi, ii
intermedio della Pellegrina (1589), 1592, acquaforte (Firenze, Biblioteca marucelliana, I,
400).
Fig. 6. Remigio Cantagallina (da Giulio Parigi), Palazzo della Fama, i intermedio del Giudizio di Paride, 1608, acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 95763).
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Fig. 7. Remigio Cantagallina (da Giulio Parigi), Astrea scende sulla terra e riporta l’età dell’oro,
ii intermedio del Giudizio di Paride, 1608, acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe
degli Uffizi, 95764).
Fig. 8. Federico Zuccari, Bozzetto preparatorio per il sipario della Cofanaria, 1565, disegno
a matita nera, acquerello e tempera bianca su carta tinta marroncina (Firenze, Gabinetto
disegni e stampe degli Uffizi, 11074 F).
Fig. 9. Stefano Della Bella (da Alfonso Parigi), Prima scena rapresentante Fiorenza, Le nozze
degli dei, 1637, acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 102509).
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DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO
Fig. 10. Giulio Parigi, Il giardino di Calipso, iii intermedio del Giudizio di Paride, 1608,
acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 95765).
Fig. 11.Alfonso Parigi, Isola d’Alcina, seconda mutazione della Liberazione di Ruggiero dall’isola
d’Alcina, 1625, acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 2304 st. sc.).
Fig. 12. Johann Jacob Campanus (incisore), Scena di commedia (da Joseph Furttenbach, Architectura recreationis, Ulm 1640,
tav. 21).
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SARA MAMONE
Fig. 13. Remigio Cantagallina (da Giulio Parigi), La nave di Amerigo Vespucci, iv intermedio
del Giudizio di Paride, 1608, acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi,
95766).
Fig. 14. Remigio Cantagallina (da Giulio Parigi), La Fucina di Vulcano, v intermedio del
Giudizio di Paride, 1608, acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi,
95767).
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Fig. 15. Giulio Parigi, Il tempio della Pace, vi intermedio
del Giudizio di Paride, 1608,
acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli
Uffizi, 95768).
Fig. 16. Jacques Callot (da
Giulio Parigi), Il regno d’Amore, iii intermedio della Veglia della liberatione di
Tirreno (1617), acquaforte
(Firenze, Gabinetto disegni
e stampe degli Uffizi, 8017
st. sc.).
Fig. 17. Alfonso Parigi, Il
fonte pegaseo col ballo dell’Aure, scena finale de La Flora,
1628, acquaforte (Firenze,
Gabinetto disegni e stampe
degli Uffizi, 2300 st. sc.).
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Anna Maria Testaverde
L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE
DEGLI UFFIZI (1586-1637)
La memoria visiva dei modelli realizzati nel 1975 per la mostra Il luogo teatrale a Firenze, diretta da Ludovico Zorzi, resta viva e condizionante nell’esegesi del cinquecentesco teatro degli Uffizi progettato per la corte medicea.1
Ritenuta già dai contemporanei espressione matura di una pratica scenica d’avanguardia altamente specializzata, quella duplice esperienza fiorentina di fine
secolo (1586, 1589) ha alimentato l’humus della spettacolarità di corte europea, ponendosi a modello per le riflessioni teoriche e le realizzazioni pratiche
di molti architetti, italiani e stranieri.2
1. Cfr. Il luogo teatrale a Firenze. Brunelleschi Vasari Buontalenti Parigi, catalogo della mostra a
cura di M. Fabbri, E. Garbero Zorzi e A.M. Petrioli Tofani, introd. di L. Zorzi [ordinatore] (Firenze, 31 maggio-31 ottobre 1975), Milano, Electa, 1975. I modelli furono nuovamente
esposti e commentati in Teatro e spettacolo nella Firenze dei Medici. Modelli dei luoghi teatrali, catalogo della mostra a cura di E. Garbero Zorzi e M. Sperenzi (Firenze, 1o aprile-9 settembre
2001), Firenze, Olschki, 2001. In partic. rinvio ad A.M. Testaverde, Il salone dei Cinquecento nel
palazzo della Signoria: l’‘aula regia’. Integrazioni e aggiornamenti (ivi, pp. 157-159); Id., Palazzo degli
Uffizi: il teatro mediceo. Integrazioni e aggiornamenti (ivi, pp. 196-198). Cfr. inoltre le riflessioni di
S. Mazzoni, Ludovico Zorzi. Profilo di uno studioso inquieto, «Drammaturgia», xi / n.s. 1, 2014,
pp. 9-137: 83-86.
2. La fortuna internazionale della tecnica scenica fiorentina è stata oggetto, presso l’Università degli studi di Firenze, di tesi e saggi condotti sotto la guida della prof. Sara Mamone.
Cfr. almeno, tra le numerose referenze scaturite da quella ‘officina’, S. Mamone, Firenze e Parigi
due capitali dello spettacolo per una regina. Maria de’ Medici (1987), Cinisello Balsamo (Mi), Silvana,
19882; A.M. Testaverde-S. Castelli, Le feste del Duca di Lerma nelle lettere degli ambasciatori
fiorentini. Influenze fiorentine, in Représentation, écriture et pouvoir en Espagne à l’époque de Philippe II
(1598-1621). Colloquio internazionale (Firenze, 14-15 settembre 1998), Firenze-Paris, AlineaPublications de la Sorbonne, 1999, pp. 49-68; C. Pagnini, Costantino de’ Servi, architetto-scenografo fiorentino alla corte d’Inghilterra (1611-1615), Firenze, Sef, 2006; S. Bardazzi, La furia iconoclasta dell’anno 1619. Le devastazioni nella cattedrale del castello di Praga nel resoconto in italiano di un
anonimo cronista, «eSamizdat», v, 2007, 1-2, pp. 459-467. Già in un mio precedente studio (cfr.
A.M. Testaverde, L’officina delle nuvole. Il teatro Mediceo del 1589 e gli ‘Intermedi’ del Buontalenti
nel ‘Memoriale’ di Girolamo Seriacopi, «Musica e teatro. Quaderni degli amici della Scala», vii,
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 45-69
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18360
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
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ANNA MARIA TESTAVERDE
L’episodio convocato, tra i più noti e meglio documentati della pratica scenotecnica di Antico regime, necessita tuttavia di una tempestiva revisione.
Oltre ad ampliare le informazioni documentarie non sarà inutile rivisitare le
teorie trattatistiche che ispirarono la tipologia di quel teatro; e la questione è
da contestualizzare nello strategico passaggio dal metamorfico apparato di taluni luoghi teatrali (si pensi al concetto di ‘sala d’apparato’, formulato da Elena
Povoledo)3 ai primi edifici teatrali contemporanei (1580-1585, teatro Olimpico di Vicenza di Andrea Palladio e Vincenzo Scamozzi; 1588-1590, teatro
scamozziano di Sabbioneta).4 Ancora. Ricostruire gli antecedenti scenotecnici
del teatro granducale degli Uffizi chiarirà l’entità del patrimonio spettacolare
ereditato da Bernardo Buontalenti ritenuto dalla storiografia artefice incontrastato del teatro di corte fiorentino, ma soprattutto depositario di ‘saperi’
maturati, fin dal suo esordio, anche al fianco di Giorgio Vasari.
In occasione della citata mostra del 1975 fu realizzata la prima ipotesi di
ricostruzione filologica della struttura temporanea ‘a uso di teatro antico’ impalcata nel 1565 dal Vasari nel salone dei Cinquecento in palazzo Vecchio in
occasione delle nozze di Francesco dei Medici con Giovanna d’Austria (fig.
1). Giusta tale ipotesi l’impostazione longitudinale del vano della platea e della
cavea allungata a forma di U avrebbe anticipato quella del futuro teatro degli
Uffizi ritenuta, da Zorzi, «la modellazione pedissequa dell’anfiteatro di Boboli». In questa ottica, proseguiva lo studioso, «l’asse Cesariano-Palladio, rotante
intorno alla cavea emiciclica (prodotto dell’iscrizione del circolo nel quadrato, e in un triangolo equilatero in esso, il cui vertice fissa il punto di fuga del
1991, 11-12) mi convinsi che un’indagine su Joseph Furttenbach, allievo dell’accademia degli
architetti Parigi e a lungo residente a Firenze, avrebbe arrecato apporti significativi per una
migliore conoscenza del teatro degli Uffizi. A tale fine sono state eseguite, sotto la mia guida,
le traduzioni dal tedesco di tutti i capitoli dedicati al teatro nei trattati del Furttenbach. Cfr.
S. De Gennaro, L’esperienza italiana nell’opera teorica e pratica di Joseph Furttenbach, tesi di laurea,
Università degli studi di Bergamo, a.a. 2003-2004 (relatore: prof. Anna Maria Testaverde). E v.,
in questo numero di «Drammaturgia», il saggio di Sara Mamone.
3. La studiosa riteneva che sia la struttura vasariana fiorentina del 1565 che quella progettata da Vasari a Venezia nel 1542 fossero «conformi ai modi tipici del teatro da sala […] con una disposizione longitudinale delle assise, lungo le pareti maggiori dell’ambiente». Cfr. E. Povoledo,
Vasari, Giorgio, in Enciclopedia dello spettacolo, Roma, Le Maschere, 1962, vol. ix, coll. 1466-471:
1467. Ipotesi ripresa in N. Pirrotta, Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi (1969), con un saggio
critico sulla scenografia di E. Povoledo, Torino, Einaudi, 19752, p. 415.
4. Al riguardo si vedano i fondamentali S. Mazzoni, O. Guaita, Il teatro di Sabbioneta,
Firenze, Olschki, 1985 e soprattutto S. Mazzoni, L’Olimpico di Vicenza: un teatro e la sua «perpetua memoria» (1998), Firenze, Le Lettere, 20102. Cfr. poi Id., «Oltre le pietre»: Vespasiano Gonzaga,
Vincenzo Scamozzi y el teatro de Sabbioneta, in Teatro clásico italiano y español. Atti delle giornate
di Sabbioneta (25-27 giugno 2009), a cura di M. del V. Ojeda Calvo e M. Presotto, València,
Publicacions de la Universitat de València, 2013, pp. 11-52.
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L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI
proscenio)», rimaneva estraneo «alla riflessione degli architetti fiorentini sullo
spazio scenico».5 Il teatro degli Uffizi sarebbe dunque la sintesi di esperienze
romanze pregresse portate a piena maturazione dal Buontalenti, del quale tuttavia ancora sfuggono i principii ispiratori della sua idea di ‘teatro all’antica’.
La questione si collega alla crux interpretativa del modello ipotizzato nel ’75 da
Zorzi e Cesare Lisi, i quali, si badi, evitarono di progettare un apparato ispirato all’andamento curvilineo della cavea classica. La scelta fu chiarita a suo
tempo in questi termini da Anna Maria Petrioli Tofani: «a causa dell’abitudine dei cronisti cinque e secenteschi di descrivere gli spettacoli ponendosi dal
punto di vista dei principi, il Mellini non ci ha lasciato purtroppo alcuna notizia circa la forma del lato della sala opposto a quello del palcoscenico», anche
se era presupponibile che «le due file di gradoni laterali dovessero a un certo
punto incurvarsi fino a formare una specie di anfiteatro».6 Ritengo invece che
la scarsa attenzione di Domenico Mellini, al pari di altri cronisti, per quella parte della sala sia motivata dalla curiosità per l’originalità tecnologica del
palcoscenico, da lui descritto con ampi dettagli, mentre il rapido riferimento
all’apparato «a uso di teatro antico»7 potrebbe significare la registrazione di una
distribuzione del pubblico ormai consueta. Del resto, le nuove informazioni
documentarie sulla costruzione del temporaneo teatro vasariano del ’65 hanno
ribadito l’esigenza di rileggere l’episodio nel contesto speculativo delle teorie
architettoniche vitruviane, un progetto condiviso anche da Stefano Mazzoni
nel suo studio sul teatro Olimpico di Vicenza.8
La cultura trattatistica dell’architetto aretino e le sue personali esperienze
di matrice vitruviana, compiute nell’ambiente veneto-padano,9 non furono da
5. L. Zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino, Einaudi, 1977, p. 120.
6. Il luogo teatrale a Firenze, cit., p. 96, scheda 7.8.
7. [D. Mellini], Descrizione dell’apparato della comedia et intermedii d’essa; recitata in Firenze il
giorno di S. Stefano l’anno 1565 nella gran sala del palazzo di sua eccellenza illustrissima nelle reali nozze
dell’illustrissimo et eccellentissimo signore il signor don Francesco Medici principe di Fiorenza, et di Siena,
et della regina Giovanna d’Austria sua consorte, Firenze, Giunti, 1566, p. 4.
8. I documenti sulla costruzione del teatro provvisorio vasariano sono stati editi da A.M.
Testaverde, Informazioni sul teatro vasariano del 1565 dai registri contabili, in Per Ludovico Zorzi, a
cura di S. Mamone, «Medioevo e Rinascimento», vi/n.s. iii, 1992, pp. 83-95. L’ipotesi vitruviana è stata poi condivisa, anche in occasione seminariale, da Mazzoni, L’Olimpico di Vicenza,
cit., p. 114. Devo agli anni di intenso lavoro con i colleghi fiorentini, con i quali ho trovato
piena rispondenza interpretativa, la decisione di tornare a ri-scrivere la storia di questo teatro
mediceo. Sulla teorizzazione vitruviana di Vasari segnalo la tesi di laurea, condotta sotto la guida di Stefano Mazzoni e Siro Ferrone, di G. Anastasio, Il teatro vasariano del 1565: nuove ipotesi
di ricostruzione, Università degli studi di Firenze, a.a. 1996-1997.
9. Cfr. A.M. Testaverde, Teorie e pratiche nei progetti teatrali di Giorgio Vasari, in Percorsi
vasariani tra le arti e le lettere. Atti del convegno di studi (Arezzo, 7-8 maggio 2003), a cura di M.
Spagnolo e P. Torriti, Montepulciano (Si), Le Balze, 2004, pp. 63-75. Cfr. anche M. Dezzi
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ANNA MARIA TESTAVERDE
lui dimenticate. La sua più nota attività fiorentina di architetto-scenografo si
distanziava ormai di un ventennio da quelle già maturate a Venezia dove era
stato chiamato fin dal 1541 dal suo concittadino Pietro Aretino. Qui, è noto,
aveva progettato per la Compagnia della Calza dei Sempiterni, in occasione
della messa in scena della Talanta (1542), un teatro provvisorio lavorando con
artisti che apprezzarono la sapiente qualità del suo intervento: «trovarono che
il Vasari non solo era là innanzi arrivato, ma aveva disegnato ogni cosa, e non
ci aveva se non a por mano a dipignere».10 L’esperienza fu condotta in collaborazione con l’esegeta vitruviano Tiziano Aspetti detto Minio,11 al quale i
Sempiterni, nel campo di Santo Stefano, nella medesima giornata, avevano
commissionato una sorta di theatrum templum con al centro un palco «in forma
teatrale».12 Sempre al Minio, con ogni probabilità, i Sempiterni affidarono, in
quel carnevale del ’42, la progettazione di una simbolica «machina del mondo»
equorea (ed è lecito pensare che Vasari abbia visto quell’apparato).13
Bardeschi, L’apparire e l’essere. Gli apparati del 1565 per le nozze di Francesco de’ Medici con Maria
Giovanna d’Austria: palazzo Vecchio, «Quaderni di teatro», iii, 1981, 12, pp. 173-200.
10. L’episodio è narrato nella Vita di Cristofano Gherardi, in G. Vasari, Le vite de’ più
eccellenti pittori, scultori ed architettori, in Le opere di Giorgio Vasari, con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, Firenze, Sansoni, 19062, to. vi, pp. 223-225 (p. 223 per la citazione). Sull’esperienza veneziana restano sempre validi gli studi di D. McTavish, Apparato dei
Sempiterni, Venezia, per la commedia di Pietro Aretino, ‘La Talanta’, in Giorgio Vasari. Principi, letterati
e artisti nelle carte di Giorgio Vasari, catalogo della mostra a cura di L. Corti et al. (Arezzo, 26
settembre-29 novembre 1981), Firenze, Edam, 1981, pp. 112-116; G. Scocchera, Il programma
e l’apparato. Contributi allo studio dell’allestimento della ‘Talanta’, in Antropologia e Transculturalismo.
Roma e Venezia nel Rinascimento, «Teatro e storia», x, 1995, 17, pp. 365-402; F. Mancini-M.T.
Muraro-E. Povoledo, I teatri del Veneto, i. to. i. Venezia, teatri effimeri e nobili imprenditori,
Venezia, Regione del Veneto, Giunta regionale-Corbo e Fiore, 1995, pp. 41-66. Una sintesi
delle notizie sullo spettacolo, tratte dalle vasariane vite degli artisti, si legge in T.A. Pallen,
Vasari on Theatre, Carbondale and Edwardsville, Southern Illinois University Press, 1999, pp.
92, 99-103. Sulla presenza a Venezia del Vasari e le sue relazioni artistiche in area veneta cfr.
The Ashgate Research Companion to Giorgio Vasari, a cura di D.J. Cast, Farnham, Ashgate, 2014.
11. «Il medesimo Tiziano [Minio], quando il Vasari fece il già detto apparato per li Signori
della Compagnia della Calza in Canareio, fece in quello alcune statue di terra e molti Termini».
L’informazione è contenuta nella Vita di Jacopo Sansovino in Vasari, Le vite de’ più eccellenti
pittori, scultori ed architettori, cit., to. vii, p. 516.
12. «Nella giornata prescritta, fu la Piazza di Santo Stefano adobbata […] con palchi, o
pogioli in giro, in forma di Teatro, e nel mezzo era innalzato un’eminente palco in forma
teatrale». L’informazione è tratta da B. Giustinian, Historie cronologiche della vera origine di tutti
gl’ordini equestri, e religioni cavalleresche […], Venezia, Combi e LaNoù, 1672, p. 114. Cfr. anche
Scocchera, Il programma e l’apparato, cit., p. 376, nn. 42-43.
13. «La Sempeterna, nel celebrar la sua maggior festa, rappresentò in Canal Grande la machina del mondo, nel mezzo del quale cavuo & regalmente addobbato d’oro & di seta, furono
100 electissime gentildonne, le quali ballando al suono di ben cento stromenti musici, erano
48
L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI
Vasari era giunto a Venezia dopo essere stato protagonista a Firenze di un
attivo iter di apparatore fin dal carnevale del 1534, presso la Compagnia del
Vangelista,14 al fianco del Bronzino, e poi, dal 1536, con Bastiano da Sangallo.15 Ed è economico ipotizzare, nel successivo ventennio toscano, alcuni suoi
significativi contributi, come architetto-scenografo al fianco di altri artisti, per
gli allestimenti teatrali nella sala del Papa, situata nel chiostro grande del convento di Santa Maria Novella, dove si riuniva l’accademia Fiorentina (1544, Il
furto di Francesco d’Ambra; 1550, La gelosia di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca). Si aggiunga che l’attività teatrale dell’accademia di Cosimo I de’
Medici era proseguita nel salone dei Cinquecento ancor prima delle ristrutturazioni vasariane (1547-1548, I bernardi di Francesco d’Ambra; 1550, La gioia
di Giovanni da Pistoia).16
Oltre all’operato teatrale vasariano restano poco conosciuti gli interventi,
nel medesimo salone dei Cinquecento, di figure di spicco come Baldassarre
Lanci da Urbino «architettore dell’illustrissimo di Fiorenza» e molto attivo come scenografo negli anni successivi.17 La lacunosa storia di quei decenni, qui
tirate dolcemente da palaschermi & altri legni per lo corso dell’acqua» (F. Sansovino, Venetia
citta nobilissima et singolare […], Venezia, Farri, 1581, p. 152). L’attribuzione al Minio è ribadita dal
già citato Scocchera (rivedi nota precedente) e da L. Padoan Urban, Le feste sull’acqua a Venezia
nel sec. XVI e il potere politico, in Il teatro italiano del Rinascimento, a cura di M. de Panizza Lorch,
Milano, Edizioni di Comunità, 1980, p. 493.
14. Cfr. A.M. Evangelista, L’attività spettacolare della compagnia di San Giovanni Evangelista
nel Cinquecento, «Medioevo e Rinascimento», xviii/n.s. xv, 2004, pp. 299-366: 326-327. La
scarsità di studi riguardanti gli scambi culturali sottesi all’attività teatrale dell’aretino è stata
rilevata anche da C. Conforti, Vasari architetto, Milano, Electa, 1993, pp. 68-69. La carenza di
documentazione grafica teatrale di sicura mano vasariana è stata dibattuta e motivata da G. De
Angelis D’Ossat, “Disegno” e “invenzione” nel pensiero e nelle architetture del Vasari, in Il Vasari storiografo e artista. Atti del congresso internazionale nel iv centenario della morte (Arezzo-Firenze,
2-8 settembre 1974), Firenze, Olschki, 1976, pp. 773-784; G. Marchini, Su i disegni d’architettura
del Vasari, ivi, pp. 101-108; R. William, Art, Theory and Culture in Sixteenth-Century Italy: from
Techne to Metatechne, Cambridge, Cambridge University Press, 1997.
15. Cfr. Il luogo teatrale a Firenze, cit., pp. 82-83, scheda 6.3.1.
16. Cfr. ivi, pp. 83-84, 94-95, schede 6.5.1.-6.5.6., 7.3.-7.5. Sull’uso della sala del Papa v.
J. Bryce, The Oral World of the Early Accademia Fiorentina, «Renaissance Studies», 1991, 1, pp.
77-103. Per una sintesi sulle accademie teatrali fiorentine: S. Mazzoni, Lo spettacolo delle accademie, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da R. Alonge e G. Davico Bonino, i.
La nascita del teatro moderno. Cinquecento-Seicento, Torino, Einaudi, 2000, pp. 869-904: 880-894
(con bibliografia).
17. Cfr. Il luogo teatrale a Firenze, cit., pp. 100-101, schede 7.15.-7.16.; Zorzi, Il teatro e la
città, cit., pp. 210-212. Sull’attività del Lanci nel 1565, per la mascherata della Genealogia degli dei,
v. ora A.M. Testaverde, Il ‘Libro delle figure delle maschere’. Note per i ricamatori della ‘Genealogia
degli dei’, in La mascherata della ‘Genealogia degli dei’ (Firenze, carnevale 1566). Le ricerche in corso. Atti
della giornata di studi (Firenze, 2 dicembre 2011), a cura di L. Degl’Innocenti, E. Martini, L.
49
ANNA MARIA TESTAVERDE
rivisitata anche da Sara Mamone,18 è illuminata da uno spettacolo illustrato
nel 1552 in un poco noto Dialogo dei Marmi (Lo svegliato) di Anton Francesco
Doni, forse organizzato proprio dall’accademia Fiorentina. La minuziosa descrizione di macchine sceniche per intermedi e i soggetti proposti in palcoscenico svelano la qualità tecnologica della scenotecnica fiorentina anteriore
alle più note messe in scena vasariane (e buontalentiane):
udi’ dire d’una comedia, la quale aveva avuto bellissimi intermedii. Il primo fu che
il palco s’alzò e sotto v’apparve una fucina di Vulcano; e al batter dei martelli s’udiva
(e non si vedeva altro che gli uomini nudi che l’infocato strale battevano) una mirabil musica, dopo la quale si richiuse il palco. Dicevano ancóra che al secondo atto,
essendo la scena sopra un perno che si voltava a poco a poco, che appena s’accorsero
le brigate che la si volgesse, vi si vedde un teatro pieno di popoli e nel luogo del palco una battaglia d’alcune barchette in acqua, che facevano stupire in quella gran sala
tutti gli udienti. Fu al terzo atto chiusa Venere e Marte sotto la rete con una musica
d’amori concertata con variati strumenti ascosti, che l’armonia cavava i cuori dei petti
per dolcezza alle persone. Al quarto atto dissero i galanti uomini che s’aperse il cielo
e si vidde tutti gli dei a convito splendidissimo e ricco e tanto ornato d’oro, argento,
vestimenti, ornamenti e gioie, che pareva impossibile essersi gli uomini imaginati
tanta pompa: nel qual convito s’udirono molte sorte di concerti di musiche allegre e
divine. Al quinto atto gli dei di cielo, di terra, di selve e di mare, con le ninfe loro,
fecero su la scena diverse e mirabili danze.19
Dunque, nel 1565 l’allestimento vasariano nel salone dei Cinquecento avrebbe offerto un’eccellente opportunità di applicazione di soluzioni già collaudate,
ma arricchite da sperimentazioni – proposte dal ‘protetto’ del principe Francesco, il Buontalenti – proiettate verso l’alienante spazialità del palcoscenico del
teatro degli Uffizi. Si pensi alla sistemazione dei «cieli spezzati» sul palcoscenico (così li avrebbe definiti Nicolò Sabbatini nel suo trattato),20 i buontalentiani
«tirari del Cielo», perfezionati per azionare il congegno della macchina-nuvola
Riccò, «Studi italiani», xxv, 2013, fasc. 1-2, pp. 63-74.
18. Cfr. pp. 19-21; e v. S. Mamone-A.M. Testaverde, Vincenzio Borghini e gli esordi di
una tradizione: le feste fiorentine del 1565 e i prodromi lionesi del 1548, in Fra lo «spedale» e il principe.
Vincenzio Borghini. Filologia e invenzione nella Firenze di Cosimo I. Atti del convegno (Firenze, 2122 marzo 2002), a cura di G. Bertoli, R. Drusi, Padova, Il Poligrafo, 2005, pp. 65-77.
19. In Opere di Pietro Aretino e di Anton Francesco Doni, a cura di C. Cordiè, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1976, to. ii, pp. 705-706. Il testo è commentato in Testaverde, Teorie e pratiche di
Giorgio Vasari, cit., p. 67. E v. qui, a pp. 20-21, quanto osserva Sara Mamone.
20. Per la definizione di ‘cielo spezzato’ e le modalità di realizzazione si vedano i capp. 4
(Come si deve fare il cielo della scena) e 37 (Modo di fare il cielo spezzato) in N. Sabbatini, Pratica di
fabricar scene e machine ne’ teatri (1638), con aggiunti documenti inediti e disegni originali a cura
di E. Povoledo, Roma, Bestetti, 1955, pp. 12-13, 101.
50
L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI
a discesa verticale, di memoria quattrocentesca,21 proposta con accrescimenti dimensionali e azzardate manovre ‘a vista’. La notevole mobilità d’azione
dei congegni, che richiedeva una solida struttura del palcoscenico, consentì
di moltiplicare e rendere ancora più complesse le «uscite di sotto il palco» suscitando l’ironia sprezzante di Giovanbattista Cini nei confronti del neofita
Buontalenti: «la calata del Cielo a Bernardo non riesce», con il rischio di effetti di «fantocciaggine».22
Il successivo progetto di teatro di corte, affidato al Buontalenti, dà avvio a
una storia che è stata ricostruita, nelle sue complesse varianti, nel contesto del
più noto progetto vasariano per la fabbrica degli Uffizi: un’avventura edificatoria contrassegnata da occasioni perdute e da interventi sconosciuti, segnali
di scelte progettuali dettate da intenti della committenza ancora non pienamente chiariti.
I rilievi e gli studi cartografici eseguiti per il progetto Grandi Uffizi,23 e le
interpretazioni sull’attività vasariana dovute a Claudia Conforti, rivelano una
edificazione del salone caratterizzata da ignote responsabilità progettuali.24 La
trascrizione del Registro de’ 13 magistrati della fabbrica, conservato presso l’Archivio di stato di Firenze, ha confermato la responsabilità di Vasari nel ruolo
di «Architectore»25 (il cantiere fu aperto, come puntualmente egli annota nel
suo Diario, il 23 marzo 1560),26 ma la complessa e farraginosa struttura buro-
21. Cfr. Testaverde, Informazioni sul teatro vasariano del 1565, cit., p. 92. Per la macchinanuvola e per gli ‘ingegni’ di memoria brunelleschiana impalcati nei festeggiamenti delle confraternite fiorentine: N. Newbigin, Feste d’Oltrarno. Plays in Churches in Fifteenth-Century Florence,
Firenze, Olschki, 1996, in partic. i documenti contenuti nel vol. ii, pp. 283-752; Id., Greasing the
Wheels of Heaven. Recycling, Innovation and the Question of ‘Brunelleschi’s’ Stage Machinery, «I Tatti
Studies. Essays in the Renaissance», iii, 2007, pp. 201-241. Sui rapporti tra le ‘macchine nuvole’ e l’arte coeva cfr. A. Buccheri, The Spectacle of Clouds, 1439-1656. Italian Art and Theatre,
Farnham, Ashgate, 2014.
22. La lettera del Cini al Borghini si legge nel Carteggio artistico inedito di D. Vinc. Borghini,
raccolto e ordinato da A. Lorenzoni, Firenze, B. Seeber, 1912, p. 46; e v. Testaverde,
Informazioni sul teatro vasariano del 1565, cit., p. 93.
23. Cfr. Cantiere Uffizi, a cura di R. Cecchi e A. Paolucci, Roma, Gangemi, 2007.
24. Cfr. almeno, anche per la bibliografia pregressa: C. Conforti, Giorgio Vasari, Milano,
Electa, 2010; Vasari, gli Uffizi e il Duca, catalogo della mostra a cura di C. Conforti, F. Funis, F.
De Luca (Firenze, 14 giugno-30 ottobre 2011), Firenze, Giunti, 2011. Cfr. inoltre L. Satkowski,
Giorgio Vasari Architect and Courtier, Princeton, Princeton University Press, 1993; Giorgio Vasari
and the Birth of the Museum, a cura di M. Wellington Gahtan, Farnham, Ashgate, 2014.
25. Deliberazioni e partiti della fabbrica de’ 13 magistrati, a cura di C. Conforti, F. Funis,
Roma, Gangemi, 2007, p. 16.
26. «Ricordo come a dì 23 di Marzo […] si cominciò la Fabrica de Magistrati alla Zecha in
fiorenza che havevo fatto modello et dal Duca mi fu fatta provisione di scudi centocinquanta» (Il
Libro delle Ricordanze di Giorgio Vasari, a cura di A. Del Vita, Arezzo, Casa Vasari, 1927, pp. 83-84).
51
ANNA MARIA TESTAVERDE
cratica e i contrasti e le interferenze dei Tredici Provveditori imposero di razionalizzare le responsabilità e i tempi di esecuzione, tanto che già nel giugno
1561, su indicazione dello stesso Vasari, il duca Cosimo nominò un responsabile amministrativo, suo diretto interlocutore, affidandogli il compito di Provveditore generale: il tecnico-ingegnere Bernardo Puccini. Questi, forte di una
solida esperienza nei cantieri bellici, aveva lavorato con il celebre ingegnere
di corte Giovan Battista Belluzzi detto il Sanmarino, progettista militare, che
ebbe un ruolo non secondario nella vittoria fiorentina contro Siena.27 Puccini
riorganizzò lo staff operativo del cantiere degli Uffizi, nominando quale «sotto architettore» Dionigi di Matteo Nigetti.28
Il pragmatico sostegno di Puccini alla decisione del principe di economizzare nella realizzazione della grandiosa impresa degli Uffizi fu determinante
per la progressiva emarginazione del Vasari nella conduzione del cantiere. E
sebbene tra il 1564 e il 1565 l’ormai vecchio architetto fosse riuscito a condurre a termine con successo la costruzione del corridoio di collegamento con
il palazzo della Signoria,29 nel 1569 fu estromesso dai lavori esecutivi a causa
delle sue perplessità circa la statica del futuro salone per le adunanze delle magistrature allogato sopra la sede dei Nove Conservatori.
Un rescritto del 18 luglio di quell’anno conferma che il duca aveva affidato
la «commissione» al Vasari:
Illustrissimo et Eccellentissimo Signor Principe
Giorgio Vasari architetto a questa fabbrica è per commissione (come dice) haveva dal
Illustrissimo Padre di quella, ci ha referito come e si facci il salone nuovamente ordinato sopra li Magistrati dalla banda di san Piero Scheraggio, che però si comincino
a fare i pilastri che vi vanno, et si faccino lavorare i cavalletti et quelli altri legnami,
acciò che si possa di mano in mano andar mettendo in opera secondo che la fabbrica
harà la possibilità de i denari.30
27. Cfr. D. Lamberini, Il principe difeso. Vita e opere di Bernardo Puccini, Firenze, Giuntina,
1990; Id., Il Sanmarino: Giovan Battista Belluzzi architetto militare e trattatista del Cinquecento,
Firenze, Olschki, 2007.
28. Cfr. Lamberini, Il principe difeso, cit., p. 152.
29. Sulla costruzione del corridoio di collegamento cfr. G. Cataldi, La fabbrica degli Uffizi
ed il corridoio vasariano, «Studi e documenti di architettura», 1976, 6, pp. 105-144; Il corridoio
vasariano agli Uffizi, a cura di C. Caneva, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana, 2002; F. Funis,
Scavalcando il fiume: la costruzione del corridoio vasariano, Firenze 1565, in Architettura e tecnologia:
acque, tecniche e cantieri nell’architettura rinascimentale e barocca, a cura di C. Conforti e A. Hopkins,
Roma, Nuova Argos, 2002, pp. 58-75; F. Funis, Il corridoio vasariano: idea, progetto e cantiere, in
Cantiere Uffizi, cit., pp. 377-391.
30. Archivio di stato di Firenze (d’ora in poi ASF), Magistrato di Nove, f. 3710, c. 173v.;
cit. in J. Lessman, Studien zu einer Baumonographie der Uffizien Giorgio Vasaris in Florenz, Bonn,
Rheinische Friedrich-Wilhelms Universität, 1975, p. 339, doc. 185.
52
L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI
Ma le difficoltà economiche e l’impazienza di procedere in tempi più rapidi
causarono la rottura dei rapporti operativi con il principe committente. Vasari,
si è accennato, era perplesso circa la stabilità del salone: «il qual considerando
alli tanti vani, et aperture che e vi son sotto, dice che quanto a lui pareva (come anco a noi parve) che il dar cottimo fussi pericoloso per molte ragioni che
lui allegava», per le «mura grosse di questo salone».31 Un problema già sollevato dall’architetto con l’amico Vincenzo Borghini denunciando che «i cottimi
e le scritte fanno rovinar le fabbriche».32
Il 17 agosto 1570 l’architetto aretino fu estromesso dal progetto: «Sua Altezza vuole che si dieno in cottimo a ogni modo, et quando ordina una cosa
vuol essere ubbidito», scriveva il segretario Lelio Torelli confermando al duca
la disponibilità del Puccini: «Bernardo Puccini nostro collega referì per ordine di Vostra Altezza come la mente sua era che il restante delle mura di questo salone si dessi in cottimo al mancho offerente».33
Dunque, fu proprio il progetto del salone, voluto da Cosimo in accordo con
il Vasari e decollato nell’estate 1569, la causa del clamoroso allontanamento del
suo progettista; e già l’anno seguente, lo ricorda Vasari stesso, «non si riscosse
più» dai Magistrati della Fabbrica.34
Se la data di nascita del futuro teatro degli Uffizi si ancora con certezza
all’agosto ’69, è difficile confermare che l’impianto strutturale della sala corrisponda a un progetto originario vasariano. L’affidamento dei lavori all’architetto-ingegnere Puccini (deceduto però nel 1578) potrebbe avere determinato
significative modifiche e lavori frettolosi. Comunque sia, resta inattendibile
l’ipotesi che sin dagli inizi si pensasse di costruire una sala teatrale all’interno degli Uffizi. Lo provano quei documenti archivistici che continueranno
a menzionare il «Salone dove si raguna il Consiglio» suggerendo così, almeno per alcuni anni, la condivisione di tale spazio con le magistrature.35 Se nel
1576 il Residente veneto Andrea Gussoni ricordava l’intenzione principesca
31. ASF, Magistrato di Nove, f. 3710, cc. 178v.-179r. (in Lamberini, Il principe difeso, cit., pp.
244-245).
32. ASF, Carteggio d’artisti, ii, c. 76; cit. in Lessmann, Studien zu einer Baumonographie der
Uffizien, cit., p. 333, doc. 170.
33. ASF, Magistrato di Nove, f. 3710, cc. 178v.-179r. (in Lamberini, Il principe difeso, cit., p.
245).
34. Il Libro delle Ricordanze di Giorgio Vasari, cit., p. 101.
35. Manca un’esatta ricostruzione dell’intero complesso architettonico. Prezioso per tale ricostruzione il Ristretto delle bellezze della città di Firenze di Giovanni de’ Bardi (già citato in Zorzi,
Il teatro e la città, cit., p. 218 n. 146). Varie sono le copie del testo del Bardi: a Firenze (Biblioteca
nazionale centrale, Palatino 917; Biblioteca riccardiana, ms. 2020) e a Siena (Biblioteca comunale degli Intronati, ms. A.vi.42). Il testo è ora edito: Giovanni de’ Bardi e il ‘Ristretto delle bellezze
della città di Firenze’ per Cristina di Lorena, a cura di E. Carrara, Pisa, ETS, 2014.
53
ANNA MARIA TESTAVERDE
di utilizzare la sala «per rappresentare commedie»,36 nel 1578 il cronista Lapini
nel suo Diario ne ribadiva un diversificato uso collettivo.37
Il progetto vasariano del salone, pur condiviso con Cosimo de’ Medici, non
conferma quindi l’uso di un’originaria destinazione teatrale stabile: forse l’estromissione dell’architetto dal cantiere, la morte del committente e l’avvicendarsi
dei granduchi e dei fidati architetti ‘scrissero’ una storia diversa. Soltanto negli
ultimi mesi del 1585 si confermava la trasformazione del «Salone dove si raguna
il Consiglio» per «farci una comedia».38 A tal fine si accelerò il completamento
delle aperture trabeate della loggia all’ultimo piano dell’edificio,39 si schermarono le invetriate lavorate da otto maestri veneziani e si iniziarono a sistemare
«3 chiavistelli con 4 anelli per chiavistello e 3 toppe serviti a 3 finestre in sul
corridoio che guardano nel salone».40 L’inaugurazione del teatro, è noto, ebbe
luogo il 16 febbraio 1586 con la rappresentazione della perduta commedia L’amico fido, di Giovanni dei Bardi, inserita nel calendario celebrativo delle nozze
di Virginia dei Medici con Cesare d’Este. Sebbene la descrizione di Bastiano
De’ Rossi41 non registri la presenza di Giovan Battista Guarini è assai probabile che l’amico Bardi avesse già previsto l’inserimento di tre guariniani cori in versi per gli intermedi che non sembrano tuttavia essere stati eseguiti.42
Una preferenza verso il Pastor fido d’altra parte sarebbe stata ribadita nel 158943
36. «Al palazzo di Piazza dove abita [il granduca] fa una giunta di più di cinquanta stanze
con una sala per rappresentare commedie, il pavimento della quale sarà più alto da un lato che
da un altro acciocché non sia impedita la veduta a quelli che sono di dietro» (cit. in Zorzi, Il
teatro e la città, cit., p. 107).
37. «A dì 29 di detto aprile, in martedì mattina a ore 13 ½ si cantò una Messa figurata
nella sala grande nuova sopra li Magistrati; e finita si dette principio a nuovo squittinio» (Diario
fiorentino di Agostino Lapini dal 252 al 1596, ora per la prima volta pubblicato da Gius. Odoardo
Corazzini, Firenze, Sansoni, 1900, p. 199).
38. ASF, Guardaroba medicea, f. 114, c. 48d.
39. Cfr. Verso i nuovi Uffizi: progetti e realizzazioni recenti, catalogo della mostra a cura di
M.A. Lolli Ghetti, A. Paolucci (Firenze, 12-19 aprile 1999), Firenze, Giunti, 1999, p. 14.
40. ASF, Guardaroba medicea, f. 114, c. 48d.
41. B. de’ Rossi, Descrizione del magnificentissimo apparato e de’ maravigliosi intermedi fatti per la
commedia rappresentata in Firenze nelle felicissime nozze degl’illustrissimi, ed eccellentissimi signori il signor
don Cesare d’Este, e la signora donna Virginia Medici, Firenze, Marescotti, 1586.
42. Cfr. V. Rossi, Battista Guarini ed il ‘Pastor fido’. Studio biografico-critico con documenti
inediti, Torino, Loescher, 1886, p. 79. D’altra parte questi inserti guariniani sono registrati in
uno schema progettuale delle feste fiorentine conservato a Venezia presso il museo Correr (fondo Cicogna 537). L’importanza del codice è già stata sottolineata da Mazzoni, L’Olimpico di
Vicenza, cit., p. 79 nota 41.
43. Nel febbraio del 1588 Luca Cortile, in una lettera indirizzata al duca Alfonso II d’Este
in Ferrara, ricorda che «Giovedì mattina mentre andavamo alla messa in occhio, Sua Altezza
[Alfonso II d’Este] entrò in ragionamento di far recitare la comedia e mostrò di havere animo
che si recitasse la Pastorale del Cavaliere Guarino, la quale mi disse che sperava di havere»
54
L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI
quando, dopo ripetute e illusorie speranze, la scelta finale privilegiò invece il
recupero di un testo (La Pellegrina di Girolamo Bargagli) con frettolose e opportune giunte encomiastiche.44 E giova ricordare lo strategico contributo del
Guarini alla rappresentazione inaugurale dell’Olimpico di Vicenza.45
Nonostante la mancanza di documenti iconografici, la prolissità descrittiva
del De’ Rossi testimonia la trasformazione del salone «a forma di Teatro, con
sei gradi, che la circondavano intorno intorno».46 In questa prima versione, simile a «un giardino de’ più vaghi», il Buontalenti avrebbe dato vita all’atmosfera di un anfiteatro classico.
Il confronto con l’anfiteatro classico torna anche nelle pagine che descrivono la nuova struttura commissionata per le nozze del 1589 tra il granduca
Ferdinando I e Cristina di Lorena. Nel 1600 Michelangelo Buonarroti il Giovane specifica che «la forma di essa [cavea] nell’opposta faccia alla scena»47 era
«in guisa di mezzo ovato» e nel 1608 la struttura era «a somiglianza del circo
de’ Romani con gradi attorno».48
Le due versioni del teatro di corte degli Uffizi, pur presupponendo una commistione tra l’idea di ‘teatro classico’ e la romanza sala d’apparato, erano dunque state previste dalla committenza non nella residenza privata dei principi,
ma in un edificio che poneva sotto il diretto controllo granducale le strutture
economiche e amministrative dello stato. La posizione urbanistica strategica
e la necessità di mantenere in loco i memorabili e complessi congegni scenici
motivarono poi la stabilità di uso teatrale del grande vano, sempre più spesso
definito «Salone della Commedia Grande».
Il modello progettato da Zorzi nel 1975 è restato a lungo un punto di riferimento ineludibile (fig. 2). I dubbi dello studioso circa la struttura del palcosceni-
(Archivio di stato di Modena [d’ora in avanti ASMO], Ambasciatori, Firenze, Luca Cortile, b. 28).
Questa e altre lettere sono parzialmente trascritte e commentate in I. Fenlon, Preparations for a
Princess: Florence 1588-89, in In cantu et in sermone. For Nino Pirrotta on his 80th birthday, a cura di
F. Della Seta-F. Piperno, Firenze, Olschki, 1989, pp. 259-281. Si vedano anche le missive del
Guarini indirizzate all’amico Bardi in Lettere del signor cavaliere Battista Guarini nobile ferrarese. Di
nuovo in questa seconda impressione di alcune altre accresciute e dall’autore stesso corrette, Venezia, Ciotti,
1594, pp. 74-77. Sul Pastor fido basti qui rinviare a L. Riccò, «Ben mille pastorali». L’itinerario
dell’Ingegneri da Tasso a Guarini e oltre, Roma, Bulzoni, 2004, passim.
44. Cfr. A.M. Testaverde, La scrittura scenica infinita: ‘La Pellegrina’ di Girolamo Bargagli, in
Drammaturgia a più mani, «Drammaturgia», i, 1994, 1, pp. 23-38.
45. Cfr. Mazzoni, L’Olimpico di Vicenza, cit., passim.
46. De’ Rossi, Descrizione, cit., p. 2.
47. M. Buonarroti Jr, Descrizione delle felicissime nozze della cristianissima maestà di madama
Maria Medici regina di Francia e di Navarra, Firenze, Marescotti, 1600, p. 22.
48. C. Rinuccini, Descrizione delle feste fatte nelle reali nozze de’ serenissimi principi di Toscana
don Cosimo de’ Medici, e Maria Maddalena arciduchessa d’Austria, Firenze, Giunti, 1608, p. 33.
55
ANNA MARIA TESTAVERDE
co (lasciato intenzionalmente neutro e privo di scenografie) e sull’impianto del
vano rimasero irrisolti e tuttavia in seguito l’ipotesi di ricostruzione zorziana
fu spesso pedissequamente ribadita.49 Altrettanto indiscussa rimase l’autorialità
del Buontalenti, senza addurre gli opportuni confronti con le esperienze tentate sui palcoscenici di Ferrara, Mantova, Urbino e Bologna.50 E sono ancora
insufficienti le riflessioni storiografiche sugli apporti in scena della contemporanea ingegneria meccanica e bellica,51 e certo non giova il silenzio della
documentazione giustificato da quella segretezza ideologico-politica che ha
sempre circondato i progressi tecnici.
Le incertezze di Ludovico Zorzi cercavano chiarimenti, in quegli anni ormai lontani, nelle copiose informazioni contenute nel Memoriale di Girolamo
Seriacopi, provveditore del Castello di Firenze e principale estensore di un
inedito brogliaccio di lavoro dei ‘manufattori’ poi edito nel 1991.52 Il Memo49. Alludo specialmente all’erronea ricostruzione proposta da James M. Saslow nel suo pur
premiato volume The Medici Wedding 1589: Florentine Festival as Theatrum Mundi, New HavenLondon, Yale University Press, 1996, pp. 78-83. Lo studioso propone un palcoscenico a coulisses,
ignorando sia le ipotesi formulate dalla scrivente (1991) che i documenti iconografici scoperti
da A.R. Blumenthal, Giulio Parigi’s Stage Designs: Florence and the Early Baroque Spectacle, New
York-London, Garland, 1986, pp. 129-130. Gli inediti disegni, che consentivano di formulare
ipotesi ben diverse, da me condivise, sono ora analizzati in A.M. Testaverde, Michelangelo
Buonarroti il Giovane e le didascalie sceniche per il ‘Giudizio di Paride’, in Studi di storia dello spettacolo.
Omaggio a Siro Ferrone, a cura di S. Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 166-179 e figg. 1, 3.
Le due diverse ipotesi di ricostruzione del teatro degli Uffizi sono opportunamente registrate in
S. Mazzoni, Atlante iconografico. Spazi e forme dello spettacolo in occidente dal mondo antico a Wagner
(2003), Corazzano (Pisa), Titivillus, 20084, tavv. 162 e 165.
50. Si veda ad esempio il bel saggio di L. Vallieri, Prospero Fontana pittore-scenografo a
Bologna (1543), «Drammaturgia», xi / n.s. 1, 2014, pp. 347-369, che conferma la necessità di
focalizzare gli studi su esperienze precedenti, in una fitta rete di sempre aggiornate relazioni.
51. Come ha sottolineato, tra gli altri, G. Adami, Scenografia e scenotecnica barocca tra
Ferrara e Parma (1625-1631), Roma, L’Erma di Bretschneider, 2003, pp. 25-38. Ma per una
riflessione filologica circa l’architettura militare e la scenotecnica buontalentiana v. C. Bino,
L'ordine meccanico. Tecnica e sapienza nel teatro degli Uffizi di Bernardo Buontalenti, tesi di dottorato in Storia dello spettacolo, Università degli studi di Firenze, xiii ciclo, 2000, tutor:
Sara Mamone e Stefano Mazzoni. Alla studiosa si deve inoltre una ipotesi di ricostruzione del teatro degli Uffizi del 1589, ispezionabile anche su YouTube (https://www.youtube.
com/watch?v=exsIHLxaeqg), che non si discosta dall’impostazione del modello progettato
da Zorzi.
52. Il registro fu scoperto da A. Warburg, I costumi teatrali per gli intermezzi del 1589: i disegni
di Bernardo Buontalenti e il ‘Libro di conti’ di Emilio de’ Cavalieri. Saggio storico-artistico, «Atti dell’accademia del r. Istituto musicale di Firenze», xxiii, 1895, pp. 103-146. Lo studio sistematico di
tale fonte fu poi avviato, sotto la guida di Ludovico Zorzi, da F. Berti, Studi su alcuni aspetti del
diario inedito di Girolamo Seriacopi e sui disegni buontalentiani per i costumi del 1589, in Il teatro dei
Medici, a cura di L. Z., «Quaderni di teatro», ii, 1980, 7, pp. 157-168; Id., I bozzetti per i costumi,
in La scena del principe, catalogo della mostra a cura di E. Garbero, A.M. Petrioli Tofani, L.
56
L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI
riale ha consentito di seguire in itinere le fasi costruttive della seconda versione del teatro di corte e di proporre una nuova ipotesi di ricostruzione (fig. 3):
una proposta critica che cercava di risolvere le incongruenze dovute spesso
alla mancanza di documentazione e a una eccessiva fiducia nelle descrizioni
dei relatori ufficiali, non di rado in contrasto con le osservazioni dei cronistispettatori presenti.
Di più. Le decisioni del granduca Ferdinando I dei Medici aprono nuovi
orizzonti di ricerca sulla ‘veridicità’ dell’evento dell’89 e sulle sue scelte personali originarie che, se realizzate, avrebbero scritto una differente storia dello
spettacolo fiorentino. Nel febbraio 1588 Ercole Cortile, ambasciatore estense a
Firenze dal 1575, in una lettera ad Alfonso II d’Este, confidava al suo signore
la volontà di Ferdinando di inviare presso la corte di Urbino il fidato Giovanni dei Bardi «a vedere quella [commedia] che si reciterà presto là, per veder
la maniera del recitare, sì anco l’apparato», per ricavarne eventuali modelli:
Si dice che il Gran Duca pensa a maritarsi presto, et si è data commissione di metter
all’ordine una commedia, come dicono qui Regia, et il Signor Giovanni da Vernia
anderà per odine del Gran Duca a Urbino a vedere quella che si reciterà presto là, per
veder la maniera del recitare, sì anco l’apparato, et il Fortuna che negozia qui quando
occorre per il Signor Duca d’Urbino disse che esso il signor Giovanni ha dato conto di questa sua gita, et non sa con che garbo vi voglia andare, non avendo servitù
col Signor Duca, et manco amicizia di que’ paesi, et parerà strano che vada di là di
questa maniera […] ha detto a me esso Signor Giovanni che l’apparato ha da essere
il più superbo che si sia fatto mai in nessuna parte, et che si starà al manco otto mesi
a metterlo in ordine.53
Gli esiti di quella ‘missione’ restano ancora poco noti e non sappiamo a quale
modello urbinate il granduca intendesse fare riferimento.54 La volontà di realizzare nell’arco di «otto mesi» un nuovo teatro di corte, con «il più superbo
apparato che si sia fatto mai in nessuna parte», accelerò lo smontamento dell’arZorzi [ordinatore] (Firenze, 1980), Firenze, Edizioni medicee, 1980, pp. 361-363. Infine, il
registro fu trascritto integralmente in Testaverde, L’officina delle nuvole, cit., pp. 176-249.
53. ASMO, Ambasciatori, Firenze, Ercole Cortile, b. 28 (lettera del 28 febbraio 1588, cit. in
Fenlon, Preparations for a Princess, cit., p. 266 n. 16).
54. Cfr. Bino, L'ordine meccanico, cit., p. 77. Sull’attività teatrale alla corte urbinate, rinvio a
F. Piperno, L’immagine del duca. Musica e spettacolo alla corte di Guidobaldo II duca d’Urbino, Firenze,
Olschki, 2001; Id., Spettacoli a Pesaro nel 1621 per nozze Medici-Della Rovere: sulla autonomia progettuale di una corte periferica, in «Lo stupor dell’invenzione». Firenze e la nascita dell’opera. Atti del
convegno internazionale di studi (Firenze, 5-6 ottobre 2000), a cura di P. Gargiulo, Firenze,
Olschki, 2001, pp. 87-103; P. Davidson, The Theatrum for the Entry of Claudia de’ Medici and
Federigo Ubaldo della Rovere into Urbino, 1621, in Court Festivals of the European Renaissance: Art,
Politics and Performance, a cura di R. Mulryne, Aldershot, Ashgate, 2002, pp. 311-334.
57
ANNA MARIA TESTAVERDE
redo buontalentiano della prima versione del teatro degli Uffizi. La vendita dei
materiali venne affidata alla Guardaroba granducale, in occasione dei festeggiamenti per le feste patronali di san Giovanni.55
In quei mesi il Cortile riferiva che il granduca «pensava di voler mutare
parecchie volte la prospettiva di scena». Ciò avrebbe imposto anzitutto il perfezionamento del palcoscenico e Ferdinando non era convinto di affidare il
lavoro al ‘mitico’ Buontalenti, avendo a sua disposizione un altro abile architetto, l’urbinate Francesco Paciotto.56 Due artisti rivali:
[il granduca] pensava di voler mutare parecchie volte la prospettiva di scena; et anco
l’apparato della sala, et che le succederebbe facilmente poiché aveva il Pacchiotto et
Bernardo delle Girandole, che fanno a gara a chi può far meglio, et che chi voleva esser
ben servito in simil cose, bisognava haver uomini che s’invidiassero l’un l’altro; perché
ciascuno procura di far conoscere più il suo valore; ma il Pacchiotto è il principale et si
mostra che nelle cose di Bernardo vi sono molti errori, come nella fabbrica di Livorno.57
Il Paciotto, allievo di Girolamo Genga, già al servizio di Cosimo I e di Ferdinando I come esperto tecnico-militare per Livorno, fu a Firenze fino all’aprile 1589, allontanandosi poco dopo alla volta di Mantova.58 Appartenente
a una famiglia al servizio dei Della Rovere (Felice Paciotto, il segretario di
Guidobaldo, fu un attivo drammaturgo di corte), Francesco vantava esperienze scenotecniche di alta qualità. Sebbene un suo intervento diretto nell’allestimento fiorentino del 1589 non sia attestato, il Medici ne apprezzava il talento,
la fama e le esperienze tecniche esperite alla corte urbinate. Le sue competenze scenotecniche e la sua probabile consulenza meriterebbero ulteriori indagini, anche per ritessere quell’ipotetico filo conduttore dei rapporti tra ‘tecnici
della scena’ che avrebbe poi portato alla pubblicazione del trattato di Nicolò
Sabbatini. Si ponga mente, ad esempio, a eloquente riscontro, al progetto (fig.
4), riferito al teatro del Sole allestito nel salone della corte di Pesaro, forse per
le nozze del 1621 tra Ubaldo della Rovere e Claudia dei Medici, assegnato
variabilmente alla mano del Sabbatini o a quella dell’Aleotti. Il riferimento
all’exemplum fiorentino è ormai ampiamente condiviso dagli studiosi di quel
55. Per il riuso dell’arredo del teatro nei festeggiamenti del 1588 si veda la Lettera all’illustrissimo eccellentissimo signor don Pietro Medici di Valerio Ruggieri sopra la festa fatta dal duca di Carroccio
nella festività di San Giovambatista, Firenze 1588.
56. Sul personaggio: N. Ragni, Francesco Paciotti, architetto urbinate (1521-1591), Urbino,
Accademia Raffaello, 2001; A. Coppa, Francesco Paciotto architetto militare, Milano, Unicopli,
2002.
57. Lettera di Ercole Cortile al duca Alfonso II d’Este, Firenze, 25 giugno 1588 (ASMO,
Ambasciatori, Firenze, Luca Cortile, b. 28, cit. in Fenlon, Preparations for a Princess, cit., p. 270 n. 29).
58. Cfr. Coppa, Francesco Paciotto architetto, cit., p. 103.
58
L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI
teatro i quali rinviano «alle soluzioni del Buontalenti per la sala medicea degli
Uffizi», soprattutto per l’andamento curvilineo dell’apparato.59
La decisione di assegnare all’esperto Buontalenti la nuova versione del teatro degli Uffizi risultò vincente. Le modalità dei suoi interventi per il nuovo
arredo del salone e soprattutto l’organizzazione tecnico-macchinistica, pensata per un più ampio palcoscenico, permisero di realizzare una struttura per
l’udienza più ridotta, a vantaggio della spazialità della scena. Lo prova il Memoriale del Seriacopi.
La soluzione storiografica di talune incongruenze presupponeva una partizione del teatro in tre sezioni (andito-foyer; cavea con gradoni; palcoscenico),
ma richiedeva soprattutto un ulteriore studio architettonico degli ambienti
circostanti il salone. Per quanto riguarda l’impianto semiellittico della cavea
e l’incerta collocazione dell’andito con soprastante balcone, è stato proficuo
comparare il progetto con una ‘idea’ di teatro formulata nel 1598 da Giorgio
Vasari il Giovane (fig. 5), un cortigiano che molto aveva meditato sui manoscritti e sui disegni del Puccini.60
Il foglio propone un originale impianto ottagonale pensato, come specifica
l’architetto, «imitando gli Antichi» e «facendo la presente pianta d’un gran Salone, o vero stanzon» per recitarvi «commedie, tragedie […] poi che anche le
giostre e simili tornei cavallereschi si possono fare».61 L’ipotesi vasariana (solo
proposta o effettivamente realizzata?) è una reinterpretazione dell’idea di anfiteatro ‘degli Antichi’ inscritta nel vano rettangolare di un salone. Per il lato di
accesso al teatro, Vasari jr proponeva sul lato breve del vano il congiungimento
delle due ali laterali della cavea mediante una struttura balconata sopraelevata («un ricetto») riservata al pubblico maschile: «haviamo fatto due scale acciò
gli uomini possono salire, e scendere, senza impedire le donne, e per non fare
confusione si sono fatti i gradi attorno anco per loro».62 Tale soluzione fa meglio comprendere l’ubicazione di quel «balcone de’ più degni» situato sopra il
portale di accesso al teatro degli Uffizi e destinato nel 1589 ai musici. Già nel
1600 (per le nozze di Maria dei Medici) il balcone-palco ospitava i più impor-
59. Cfr. F. Mariano, Lo spazio del teatro nelle Marche, in Il teatro nelle Marche: architettura,
scenografia e spettacolo, a cura di F. M. Scritti di F. Battistelli, F. M., A. Pellegrino, Jesi-Fiesole,
Banca delle Marche-Nardini, 1997, p. 64. La pianta è stata poi ampiamente discussa in Adami,
Scenografia e scenotecnica barocca, cit., pp. 74-75.
60. Cfr. Testaverde, L’officina delle nuvole, cit., p. 87. Per un ‘medaglione’ dell’architetto: L.
Olivato, Profilo di Giorgio Vasari il Giovane, «Rivista dell’Istituto nazionale d’archeologia e storia
dell’arte», n.s., xvii, 1970, pp. 181-229.
61. G. Vasari il Giovane, La città ideale. Piante di chiese (palazzi e ville) di Toscana e d’Italia, a
cura di V. Stefanelli, introd. di F. Borsi, Roma, Officina, 1970, pp. 153-154.
62. Ivi, p. 154.
59
ANNA MARIA TESTAVERDE
tanti dignitari, la Regina Madre e alcuni ambasciatori «steteno in su un palcho
sopra la porta della detta sala»).63 Nella medesima occasione, ma in posizione
distanziata, al piano alto della galleria, assistevano allo spettacolo il Nunzio apostolico con altri ambasciatori residenti affacciati «alle finestre della Galleria».64
La chiusura di questo «balcone», trasformato poi in palco segreto chiuso da
una grata, potrebbe essere stata realizzata nel 1610 quando la Guardaroba saldò
la fattura di «una gelosia fatta nel Salone della Comedia dove ha a stare el Gran
Duca a sentire la commedia; è de albero con la sua guancia e fondo trafforato, el suo sportello tessuto di regoli e accomodata e confitta dove ha stare».65
Il palco segreto viene nuovamente descritto in uno degli ultimi spettacoli allestiti negli anni prossimi alla chiusura del teatro quando, nel 1624, per la
Rappresentazione di Sant’Orsola, il relatore precisa la dislocazione del pubblico:
Madama S.a con la Principessa di Urbino con le sue filliuole et dame era a vedere sopra la porta di detta sala in luogo incognito e non visibile da nessuno; et il Cardinale
de’ Medici con il Cardinal Capponi erono a una finestra della galleria con lo strato
rosso a vedere, et l’ambasciatore di Modena et di Lucca et quel di Venezia stettono
all’altre finestre a vedere.66
La distribuzione degli spettatori chiarisce definitivamente la sinora fraintesa
organizzazione spaziale del teatro: nel secondo piano degli Uffizi, in galleria, si
aprivano tre finestre (prototipi dei futuri palchetti del ‘teatro all’italiana’) riservate a una parte degli ospiti illustri, mentre in ‘platea’, al centro della curvatura
della cavea, era allogato una sorta di ‘palco reale’, soprastante l’accesso al salone, raggiungibile da scale interne ancora visibili nelle primissime piante degli
Uffizi (secolo XVIII). E non sarà inutile pensare al teatro Farnese di Parma.
Tale assetto è ora confermato da una inedita preziosa pianta (fig. 6) conservata presso l’Archivio di stato di Modena tra le carte che descrivono una topica
diatriba circa le ‘precedenze’ e le dislocazioni gerarchiche dei diplomatici invitati
alla citata rappresentazione teatrale del 1624.67 Il disegno, seconda testimonianza iconografica dopo quella di Callot (fig. 7), accompagna un gruppo di lettere:
63. Così il diarista Tinghi (cito da A. Solerti, Musica, ballo e drammatica alla corte medicea dal
1600 al 1637. Notizie tratte da un ‘Diario’ con appendice di testi inediti e rari, Firenze 1905; rist. anast.
Bologna, Forni, 1969, p. 26).
64. Ibid.
65. ASF, Guardaroba medicea, f. 308, ins. 2, c. 160r.
66. Così ancora il Tinghi (in Solerti, Musica, ballo e drammatica alla corte medicea, cit., pp.
174-175).
67. Spetta alla musicologa K. Harness (Echoes of Women’s Voices: Music, Art, and Female
Patronage in Early Modern Florence, Chicago, University of Chicago Press, 2006, p. 15) il reperimento del documento, ma la studiosa non ne ha colto né l’importanza né la preziosa unicità.
60
L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI
Adì 7 ottobre 1624
Il Signor Conte Cesare Molza ambasciatore di Modona in Firenze fu invitato dal
Gran Duca per una […] del Signor Filippo Nicolini […]. Per il quale invito andò
l’ambasciatore e fu accompagnato dal Signor Cavalier Staffa cameriero del Gran
Duca, ritrovandovisi nel medesimo tempo li Signori ambasciatori lucchesi ordinario
e straordinario, che tolto in mezo l’ambasciatore di Modona se n’andarono in galeria,
dove dal signor Cavalier Staffa fu applicata la terza finestra che guarda nel teatro al
signor ambasciatore di Modona con quelli di Lucca. Allora il Signor ambasciatore di
Modona domandò al Signor Staffa per chi dovevano servire le altre due finestre, rispose la prima per li signori Cardinali Medici e Capponi e la seconda per Monsignor
Nuncio, e con lui il residente di Venezia.68
Il segretario mediceo Curzio Picchena ribadiva la forza della tradizione nella
sistemazione di invitati e pubblico:
Sappia dunque Vostra Altezza che quando si fanno feste nella sala grande, si sogliono
assegnare due finestre, che rispondono nella Galleria, una al Nuncio e l’altra alli due
ambasciatori per servirsene a loro piacimento e lasciarvi accostare chi a loro piacesse.
Il Nuncio per non star quivi solo ha menato seco talvolta qualche personaggio forestiero o un frate o un amico, sì come questa volta vi invitò il residente di Venezia,
senza che loro Altezze se ne siano impacciate punto. Quello non è luogo pubblico,
anche le finestre restano tanto alte che dal piano della sala difficilmente si scorgono
quelli che vi sono, onde si può dire che veggono e non sono veduti.69
In prossimità dello spettacolo furono nuovamente mutati ordine e precedenze:
ottobre 1624
Serenissimo padrone colendissimo
Intesi poi che a Palazzo vi era ordine di dare nella sala della rappresentatione all’ambasciatrice mia con carega di veluto il primo luogo e così l’esortai andarsene, com’ella
fece qual fu conforme l’intentione trattata […]. Aggiungo per qualificata consideratione che il signor Nuncio non si trovò mai nel tempo che si fece la rapresentatione
col residente a quelle finestre, ma se ne stato sempre con li cardinali, restando solo il
residente a quella finestra e produsse causa che il popolo considerò assai questa novità.70
L’affinità della sconosciuta pianta modenese del teatro degli Uffizi con una
cavea di forma poligonale (fig. 6) – assai simile al disegno-progetto del nipote
del Vasari (fig. 5) a suo tempo messo a opportuno confronto con l’incisione
del Callot (fig. 7) – sollecita nuove ipotesi ricostruttive. Al nuovo impianto
68. ASMO, Ambasciatori, Firenze, Cesare Molza, b. 53, ins. 18, cc. 35r.-v.
69. Ivi, c. 36r.
70. Ivi, c. 42r.
61
ANNA MARIA TESTAVERDE
della sala e alla sua accertata partizione sarà aggiunta la ricostruzione dell’assetto ‘misto’ del palcoscenico ancora organizzato con il sistema dei periaktoi, ma
con binari scorrevoli nel fondale.71 L’organizzazione delle scene ruotanti, già
studiata su disegni di Michelangelo Buonarroti il Giovane per l’allestimento
de Il giudizio di Paride del 1608,72 risponde poi ai modelli registrati nelle pagine trattatistiche dell’architetto tedesco Joseph Furttenbach.73
In quello scorcio di Seicento la cinquantennale storia del teatro degli Uffizi
stava ormai divenendo, a livello europeo, un modello tecnico ‘museale’ visitato
dagli ospiti cittadini;74 un exemplum da descrivere su pagina, certo, ma tecnologicamente superato dalle sperimentazioni di architetti non direttamente allievi
del Buontalenti. La ‘cristallizzazione’ del sistema macchinistico, divenuto ormai tecnologicamente obsoleto ed economicamente inaccettabile, ne decretò
il saltuario utilizzo e quindi un inevitabile disuso. In prossimità dell’ennesimo
evento spettacolare nuziale mediceo (1637, nozze di Ferdinando II con Vittoria della Rovere) l’allestimento delle Nozze degli dei fu trasferito nel cortile
della residenza dinastica di palazzo Pitti. La scelta venne allora imputata alla
gran calura estiva e alla pessima acustica dell’ormai desueto teatro degli Uffizi.75 L’ordine di smontare completamente il fastoso teatro di corte giunse il 10
dicembre 1636 quando il segretario Benedetto Guerrini ne dette incarico al
marchese di Sant’Agnolo del Castello di Firenze: «Il Serenissimo Padrone ha
comandato che io dica a V.S. Ill.ma che faccia disfare la sciena della Comedia
che sta nel salone Reale et con q.sto la reverischo, De’ Pitti, lì x di dicembre
1636».76 Il 14 dicembre si motivava lo smantellamento e la necessità di recuperare i materiali ancora utilizzabili per l’apparato nel cortile di Pitti:
Ill.mo Sig.re P.ne ill.mo
Il Serenissimo Gran Duca ha comandato che io scriva a V.S.A. Ill.ma che dia ordine
dalla Fortezza sia somministrato tutto quello faccia di bisogno per servitio della nuova festa da farsi nel cortile, secondo di mano in mano domanderà l’ingegniere Parigi
non solo di legnami, ferramenti et altro ma delle maestranze ancora et che tutto fassi
con ogni vantaggio facendo pagare dal Camarlengo delle Fortezze il danaro che an-
71. Cfr. Testaverde, L’officina delle nuvole, cit., pp. 98-101.
72. Cfr. Testaverde, Michelangelo Buonarroti il Giovane e le didascalie sceniche per il ‘Giudizio
di Paride’, cit., figg. 1 e 3.
73. Cfr. ancora Testaverde, L’officina delle nuvole, cit., passim (e v. qui il saggio di Sara
Mamone).
74. Cfr. ivi, p. 151.
75. Cfr. ivi, p. 152. Le motivazioni sono riferite nella relazione ufficiale, per la quale si veda:
[F. de’ Bardi], Descrizione delle feste fatte in Firenze per le reali nozze de serenissimi sposi Ferdinando II
gran duca di Toscana, e Vittoria principessa d’Urbino, Firenze, Zanobi Pignoni, 1637, p. 24.
76. ASF, Fabbriche medicee, f. 127, c. 209r.
62
L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI
derà bisognando e che i ferramenti e legnami della scena vecchia che si disfa, si salvino tutti i buoni per uso della presente festa et si tenga conto a chi si consegnano
e tutto fassi conforme al solito dell’altra volta che si è fatto simil festa e la reverisco.
De’ Pitti, lì 14 dicembre 1636
Di V.A. Ill.mo Devotissimo e Obbligatissimo
Benedetto Guerrini
-Il Provveditore Generale delle fortezze eseguisca quanto vi vien comandato da S.A.S.
in virtù di questo biglietto. Data in Firenze li 15 dicembre 1636.
Gio. Medici Generale.77
Si chiudeva così, nel dicembre 1636, una memorabile esperienza scenotecnica,
lasciando in disuso l’antico salone fino alla sua trasformazione ottocentesca in
area politica e museale.78 La residenza di Pitti apriva nuovi scenografici luoghi
teatrali per gli ospiti più illustri e riservava al pubblico familiare e d’invitati le
sale interne della maestosa Versailles fiorentina.
Appendice
ASMO, Ambasciatori, Firenze, Cesare Molza, b. 53, ins. 18.
c. 43r.
Disegno della pianta del teatro degli Uffizi
A scena
B scenetta per li signori deputati alla sopraintendenza alla representatione
C banchi per il popollo
D gradi pieni di dame
E gradi pieni di gentilomini
F Arciduchessa
G Arciduca
H ambasciatore dell’Imperatore
I don Louis Bracco ambasciatore cattolico
L Gran Duca
M ambasciatore di Spagna
N principe don Lorenzo
O principessa Margaritta
P principessa Anna
77. Ivi, c. 209v.
78. Cfr. R. Mangione, Documenti sul riuso del teatro Mediceo degli Uffizi (1740-1848), «Annali
del dipartimento di storia delle arti e dello spettacolo» della Università di Firenze, n.s., x, 2009,
pp. 187-245. Il saggio rielabora un importante lavoro compiuto, in ambito di tesi, presso l’Università di Firenze, sotto la guida del relatore, il prof. Stefano Mazzoni.
63
ANNA MARIA TESTAVERDE
Q principe Gio Carlo
R principe Francesco
S principe Mattias
T principe Leopoldo
V ambasciatore di Modena
X ambasciatori di Lucca, moglie dell’ambasciatore vecchio
1 donna Isabetta d’Instain prima dama dell’arciduchessa
2 signora Niccollina
3 signora marchesa Virginia Malaspina
4 sig.ra......
5 s.ra.....
∩ signor card. Medici
∩ signor card. Capponi
Nuntio
Residente di Venezia
Ambasciatore straordinario di Lucca
Ambasciatore di Modena
Ambasciatore ordinario di Lucca
Cancelli dentro quali stava la Gran Duchessa con la principessa d’Urbino.
c. 54v.
La domenica doppo desinare si stette discorrendo aspettandosi l’ora della rapresentatione che si principiò all’Ave Maria.
Nel qual teatro erano accomodati su gradi divisi con tavole [dallo] oltre da ducento cinquanta dame, la metà per parte contigue alla scena, poi i rimanente de’ gradi
pieni di gentiluomini, la maggior parte forestieri, per mezzo su le banche de gentiluomini mariti di quelle dame, poi altri della città, ma con spatio che stessero larghi
senza tomulto.
L’arciduchessa con tutti i Principi et dame di palazzo stavano inanzi della scena su
careghe per l’ordine infrascritto.
Serenissima signora Arciduchessa
Serenissimo signor Arciduca
Serenissimo Gran Duca
Eccellentissimo principe Savelli ambasciatore cesareo
Eccellentissimo duca di Pastrana ambasciatore cattolico
Eccellentissimo don Louis Bravo ambasciatore cattolico all’Arciduca
Eccellentissimo signor Principe Lorenzo
c. 55r.
Tutti i soprascritti sedevano per ordine del pari in careghe di valuto cremisino.
Innanzi di quelli sedevano del pari in seggiole più basse assai
Eccellentissima signora principessa Margarita
Eccellentissima signora principessa Anna figliuole della serenissima Arciduchessa
Eccellentissimo signor principe Gio Carlo
64
L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI
Eccellentissimo signor principe Francesco
Eccellentissimo signor principe Mattias
Eccellentissimo signor principe Leopoldo figliuoli della serenissima Arciduchessa
Ambasciatore di Modona
Ambasciatore di Lucca
Duchessa di Vernich, restò vuoto questo luogo perché non vi venne
Marchesa Virginia Malaspina
Donna Isabetta De Stain dama maggiore della Serenissima
Signora
Signora
Signora
Alle finestre della galleria stavano vedendo la rapresentatione li signor cardinali
Capponi et Medici et signor Nuntio, ambasciatore di Modena et di Lucca ordinario
et straordinario et residente di Venetia.
Madama la Gran Duchessa stava nascosta in certi canzelli dirimpetto alla scena, avendo con lei la signora Principessa d’Urbino.
Questa festa parve a’ principe e dame et a tutti li ispettatori troppo breve per la vaghezza sua e per l’esquisita qualità de’ musici, quale terminò doppo le tre ore di notte con universale applauso.
65
ANNA MARIA TESTAVERDE
Fig. 1. Ipotesi di ricostruzione dell’apparato teatrale realizzato da Giorgio Vasari nel 1565
nel salone dei Cinquecento in palazzo Vecchio a Firenze (Ludovico Zorzi-Cesare Lisi
1975. Provincia di Firenze).
66
L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI
Fig. 2. Ipotesi di ricostruzione del fiorentino teatro Mediceo degli Uffizi con l’apparato
buontalentiano del 1589: veduta della sala (Ludovico Zorzi-Cesare Lisi 1975. Provincia
di Firenze).
Fig. 3. Ipotesi di ricostruzione in pianta del teatro Mediceo degli Uffizi, versione 1589
(Annamaria Testaverde-Saverio Balli 1990. Da Testaverde 1991, p. 28, fig. 7).
67
ANNA MARIA TESTAVERDE
Fig. 4. Nicolò Sabbatini (?), Teatro del
Sole: sala temporanea allestita nel 1621
nel salone di corte di Pesaro, disegno
(Pesaro, Biblioteca oliveriana, ms. 387,
vol. x, c. 173).
Fig. 5. Giorgio Vasari il Giovane, Pianta di stanzone, 1598, disegno (Firenze, Gabinetto disegni
e stampe degli Uffizi, 4576 A).
68
L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI
Fig. 6. Pianta del teatro degli Uffizi
di Firenze, 1624, disegno (Modena, Archivio di stato, Ambasciatori,
Firenze, Cesare Molza, b. 53, ins. 18,
c. 43r.).
Fig. 7. Jacques Callot (da Giulio Parigi), Interno del teatro Mediceo degli
Uffizi: i intermedio della Veglia della
liberatione di Tirreno (1617), incisione
(Firenze, Gabinetto disegni e stampe
degli Uffizi, 8015 st. sc.).
69
Caterina Pagnini
ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’
(1604-1611)
1. Profilo di una regina: una storiografia avversa
Seconda dei sette figli di Federico II, re di Danimarca e Norvegia, e di Sophia di Mecklenburg-Güstrow, Anna (fig. 1) nasce nel 1574 nel castello reale
di Skanderborg situato nella regione dello Jutland centrale; insieme alla sorella
maggiore Elisabetta e al terzogenito Cristiano, futuro re di Danimarca, è personalmente istruita dalla madre, donna di carattere indipendente e combattivo, nonché amante della cultura e importante mecenate di artisti. Una figura
che rappresenterà per la giovane principessa danese un modello indimenticabile per il suo futuro di regina. Nel 1589, infatti, a diciassette anni, Anna viene
data in sposa al giovane re di Scozia e Irlanda, Giacomo VI Stuart; seguendo
le vicende dinastiche del suo consorte, da tempo designato ufficiosamente alla successione al trono d’Inghilterra da Elisabetta I, nel 1603 viene incoronata regina di Inghilterra, Scozia e Irlanda a fianco del marito, da allora in poi
Giacomo I di Inghilterra, Scozia e Irlanda (fig. 2).1
Sin dal regno di Elisabetta I il masque, genere spettacolare ‘ibrido’, inizia a
configurarsi come l’intrattenimento ‘per la corte’ e ‘della corte’ e riceverà la
sua definitiva codificazione in età giacobina. Gli studiosi di area anglofona si
sono concentrati prevalentemente sulla ricognizione metaforico-letteraria di
questa forma spettacolare intesa come instrumentum regni per la glorificazione
del sovrano e della sua politica, con particolare attenzione alla ormai consolidata prassi del masque del periodo carolino (1625-1642).2 Tutto questo sulla
1. Pubblico qui una prima stesura dei risultati scientifici, in parte conseguiti e in parte
in via di approfondimento documentario, bibliografico e iconografico, sulla figura di Anna
di Danimarca. Si tratta quindi di un work in progress attualmente mirato sulle fonti conservate
presso gli archivi italiani, in partic. l’Archivio di stato di Firenze (d’ora in poi ASF) e che poi si
focalizzerà sui fondi archivistici londinesi.
2. La produzione saggistica di area anglofona sul masque del periodo elisabettiano, giacobino
e carolino è estesissima; basti qui ricordare i lavori fondanti di E.K. Chambers, The Elizabethan
Stage, Oxford, Oxford University Press, 1923, 4 voll.; E. Welsford, The Court Masque. A
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 71-88
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18361
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
© 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License
(CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original
author and source are credited.
CATERINA PAGNINI
scia di una radicata storiografia anti-giacobina che, sviluppatasi a partire dalla
fine della dinastia regnante Stuart, con la decapitazione di Carlo I (30 gennaio
1649), ha svilito per secoli la figura di Giacomo I, sia dal punto di vista politico
che culturale. Un giudizio negativo che ha coinvolto non soltanto l’operato del
monarca ma tutto l’apparato delle sue corti, ufficiali e ‘residenziali’, con particolare accanimento nei confronti di quelle satellitari dei suoi favoriti, prima
Robert Carr, conte di Somerset e poi George Villiers, duca di Buckingham;
entrambi personaggi controversi che, con le loro alterne vicende politiche e
personali, hanno non poco contribuito al prolungato e ingiustificato discredito
nei confronti del regno di Giacomo I, solo recentemente rivalutato.3
Study in the Relationship between Poetry and the Revels, Cambridge, Cambridge University Press,
1927; A. Nicoll, Stuart Masques and Renaissance Stage, London, Harrap, 1937; G.E. Bentley,
The Jacobean and Caroline Stage, Oxford, Clarendon Press, 1941-1968, 7 voll.; D. Bergeron,
Twentieth Century Criticism of English Masques, Pageants and Entertainments: 1558-1642, San
Antonio, Trinity University Press, 1972; R. Strong, Art and Power: Renaissance Festivals, 14501650, Woodbridge, Boydell, 1984 (1a ed. 1973); S. Orgel, The Illusion of Power: Political Theatre
in the English Renaissance, Berkeley, University of California Press, 1975; D. Lindley, The Court
Masque, Manchester, Manchester University Press, 1984; J. Peacock, The Stuart Court Masque,
«Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», lvi, 1993, pp. 183-208. Tra i più recenti studi: The Politics of the Stuart Court Masques, a cura di D. Bevington e P. Holbrook, Cambridge,
Cambridge University Press, 1998; J. Astington, English Court Theatre 1558-1642, Cambridge,
Cambridge University Press, 1999; The Cambridge History British Theatre, i. Origins to 1660, a
cura di J. Milling e P. Thomson, Cambridge, Cambridge University Press, 2004; Localizing
Caroline Drama: Politics and Economics of the Early Modern English Stage, 1625-1642, a cura di A.
Zucker e A.B. Farmer, New York, Macmillan, 2006; D. Lewcock, Sir William Davenant, the
Court Masque and the English Seventeenth Century Scenic Stage, c1605-c1700, Amherst, Cambria
Press, 2008; K. Curran, Marriage, Performance and Politics at the Jacobean Court, Farnham,
Ashgate, 2009; B. Ravelhofer, The Early Stuart Masque: Dance, Costume and Music, Oxford,
Oxford University Press, 2009; G. Heaton, Writing and Reading Royal Entertainments, Oxford,
Oxford University Press, 2010; R. Dutton, The Oxford Handbook of Early Modern Theatre,
Oxford, Oxford University Press, 2011; L. Shohet, Reading Masques: The English Masque and
Public Culture in the Seventeenth Century, Oxford, Oxford University Press, 2011.
3. Della riabilitazione politica e culturale di Giacomo I e della sua corte si è ampiamente trattato in C. Pagnini, Costantino de’ Servi, architetto-scenografo fiorentino alla corte d’Inghilterra
(1611-1615), Firenze, Sef, 2006, pp. 19-52, cui si rimanda per ulteriori approfondimenti e per la
bibliografia. In questa sede vale la pena citare il volume di G.P.V. Akrigg, Jacobean Pageant or The
Court of King James I, New York, Atheneum, 1978, uno dei primi saggi scientifici che propone
una buona ricostruzione del regno del sovrano britannico, affiancandone i tratti politici alle
tendenze culturali, sociali e spettacolari. Inoltre si citano i più recenti W.B. Patterson, King
James VI and I and the Reunion of Christendom, Cambridge, Cambridge University Press, 1998; J.
Travers, James I: the Masque of Monarchy, London, The National Archives, 2003; A. Stewart,
The Cradle King: a Life of James VI and I, New York, St. Martin’s Press, 2004; James VI and I:
Ideas, Authority and Government, a cura di R.A. Houlbrooke, Aldershot, Ashgate, 2006; K.P.
Walton, Leanda de Isle. After Elizabeth: the Rise of James of Scotland and the Struggle for the Throne
72
ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’
Nelle maglie di questa consolidata tendenza storiografica per più aspetti deviata e deviante è stata inglobata anche la consorte del sovrano Stuart, di volta
in volta delineata come una figura inconsistente, capricciosa e superficiale ed
eccessivamente frivola e mondana per il suo cosiddetto ‘sproporzionato’ interesse nei confronti degli intrattenimenti (revels) di corte.4 Anche Roy Strong,
nel suo autorevole studio sulla vita del primogenito di Anna e Giacomo, il
principe Enrico Stuart, definisce la regina madre in termini poco lusinghieri, liquidando in poche righe il suo ruolo nella famiglia reale: «On the whole
of England, «The Journal of British Studies», xlvi, 2007, 1, pp. 170-171; J. Rickhard, Authorship
and Authority. The Writings of James VI and I, «English Historical Review», cxxvii, 2012, pp.
173-175.
4. La bibliografia su Anna di Danimarca è piuttosto scarna; la prima ‘pionieristica’ monografia sulla regina risale al 1970, un lavoro che, sebbene tracci un profilo biografico piuttosto dettagliato, si focalizza principalmente sui tratti familiari e sul contesto della corte, quasi
ignorando l’attività politica, culturale e spettacolare della regina (cfr. E.C. Williams, Anne of
Denmark. Wife of James VI of Scotland: James I of England, Harlow, Longmans, 1970). Il contributo fondamentale è quello dello studioso shakespeariano Leeds Barroll che nella sua ‘biografia
culturale’ dedicata alla regina inglese delinea un profilo politico e culturale finalmente adeguato (cfr. L. Barroll, Anna of Denmark, Queen of England. A Cultural Biography, Philadelphia,
University of Pennsylvania Press, 2001, preceduto dal contributo preparatorio Id., The Court of
the First Stuart Queen, in The Mental World of the Jacobean Court, a cura di L. Peck, Cambridge,
Cambridge University Press, 1991, pp. 191-208). Lo studio di Barroll ha aperto nella produzione scientifica anglofona una strada che è stata, in anni recenti, oggetto privilegiato per gli studi
di gender che, pur apportando notevoli contributi alla restituzione del personaggio, tendono a
spostare i diversi approfondimenti sempre in direzione della medesima prospettiva storiografica
neo-femminista: si veda lo studio di B. Kiefer Lewalski, Enacting Opposition: Anne of Denmark
and the Subversions of Masquing, in Id., Writing Women in Jacobean England, Cambridge, Harvard
University Press, 1993, pp. 15-43, e cfr. i più recenti C. McManus, Women on the Renaissance
Stage. Anna of Denmark and Female Masquing in the Stuart Court (1590-1619), Manchester,
Manchester University Press, 2002; C. Thomas, Politics and Culture – The Role of Queen Anna
of Denmark at the Jacobean Court, https://www.academia.edu/1023265/Politics_and_Culture_
the_Role_of_Queen_Anna_of_Denmark_at_the_ Jacobean_Court (ultimo accesso: 15 luglio
2015); oltre a Curran, Marriage, Performance, and Politics at the Jacobean Court, cit., che, pur essendo un saggio scientifico di ‘moderna’ concezione, non prende in considerazione la derivazione
fiorentina della cultura rinascimentale della corte di Giacomo, Anna e Enrico. Più inquadrati sul
versante politico della corte giacobina e sul ruolo strategico giocato dalla consorte di Giacomo
I i saggi di D. Stevenson, Scotland’s Last Royal Wedding: the Marriage of James VI and Anne of
Denmark, Edinburgh, Donald, 1996 e di L. Roper, Unmasking the Connections between Jacobean
Politics and Policy: the Circle of Anna of Denmark and the Beginning of the English Empire 1614-1618,
in High and Mighty Queens of Early Modern England, a cura di D. Barret-Graves, New York,
Macmillan, 2003, pp. 45-59. Fra gli studi non pubblicati è degna di menzione, perché focalizzata sull’analisi dei masques organizzati dalla regina Anna, la dissertazione dottorale di K.L.
Middaugh, The Golden Tree: The Court Masques of Queen Anna of Denmark, discussa nel 1994
alla Case Western Reserve University. Si veda inoltre Pagnini, Costantino de’ Servi, cit., passim.
73
CATERINA PAGNINI
Anna lived for pleasure, passing her time moving from one of the palaces assigned to her to the next […]. She deliberately avoided politics, devoting herself instead to dancing, court entertainments, and the designs and decoration
of her houses and gardens».5
Il giudizio è da imputarsi principalmente a due fattori; l’errata assunzione, nella maggior parte delle ricostruzioni storiche, del ruolo accentratore di
Giacomo I, emblema di un potere monarchico egemonico e di una corte centripeta e monolitica; la seconda e conseguente considerazione, che egli monopolizzasse tutti i settori dell’attività di corte e, da qui, che la regina Anna,
avendo un’influenza irrilevante nella vita e nella gestione della household reale,
non fosse un soggetto interessante per gli studi. L’indifferenza critica nei confronti della regina è stata ulteriormente rafforzata dalla tendenza della maggior
parte delle biografie giacobine a concentrarsi prevalentemente sul periodo successivo al 1614, ossia sugli ultimi anni di vita della reale consorte (morta nel
1619), quasi ignorando la prima decade del regno considerata esclusivamente
dal fuorviante punto di vista dell’anticipazione degli avvenimenti cruciali e
delle crisi politiche degli anni successivi.
2. Firenze e Londra: i rapporti politici e culturali fra i Medici e gli Stuart
Dall’analisi delle fonti documentarie e bibliografiche di matrice anglosassone finora reperite,6 viene invece a delinearsi un personaggio esemplare e poliedrico, molto distante dalla figura distaccata, passiva e frivola proposta da un
certo tipo di storiografia. In tal senso è fondamentale, per la corretta restituzione del ruolo strategico che la regina Anna ebbe nella prima fase del regno
degli Stuart, focalizzare l’attenzione sul rapporto politico e culturale intercorso
fra la corte inglese di Giacomo I e la corte fiorentina dei Medici, prima quella
del granduca Ferdinando I (dal 1603, anno della citata incoronazione di Giacomo I a re d’Inghilterra), poi quella di Cosimo II (dal 1609, morte del granduca). La base di partenza per questo processo di ‘riabilitazione’ storiografica
affonda le radici nella ricognizione dei fondi Mediceo del principato e Miscellanea
medicea dell’Archivio di stato di Firenze, in particolare delle filze che raccolgono le corrispondenze dei residenti fiorentini alla corte di Giacomo I: tutte
5. R. Strong, Henry Prince of Wales and England’s Lost Renaissance, New York, Thames &
Hudson, 1986, p. 16. «Anna visse esclusivamente per il divertimento, passando il tempo a spostarsi da un palazzo all’altro […]. Evitò deliberatamente gli affari politici, dedicandosi invece alla
danza, agli intrattenimenti di corte, alla ristrutturazione e alla decorazione delle sue residenze
e ai giardini» (mia la traduzione).
6. Cfr. nota 1.
74
ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’
fonti primarie prevalentemente inedite e non valutate al giusto da quella storiografia anglosassone che pur tende alla restituzione di questo personaggio
d’importanza non secondaria per la cultura e la storia europea del Seicento.7
Dalle lettere degli ambasciatori e dei residenti medicei alla corte londinese,
che cominciano a frequentare le sale dei palazzi reali fin dalla ascesa al trono
di Giacomo I, la regina Anna si delinea da subito come uno dei più importanti interlocutori dei visitatori stranieri, diplomatici o artisti; perfettamente calata nelle dinamiche politiche, molto attiva nella proposta spettacolare e nella
creazione di quel modello di corte rinascimentale tanto ambito dallo stesso re
ma soprattutto dalla regina stessa e dal primogenito Enrico.8
L’asse Londra-Firenze e viceversa è decisivo per delineare un quadro di
interazioni strategiche a livello storico, culturale e spettacolare che vede come protagonisti da una parte i granduchi medicei, Ferdinando I e Cosimo II
con le granduchesse Cristina e Maria Maddalena e dall’altra la casa reale degli Stuart, nella quale possiamo attribuire un ruolo predominante ad Anna e a
Enrico, oltre che alla principessa Elisabetta, futura sovrana di Boemia in seguito al matrimonio con il principe palatino del Reno Federico V.9 La fitta rete
di relazioni può essere circoscritta con profitto agli anni che vanno dal 1603
al 1614-1615, successivi alla morte del principe ereditario Enrico e che videro
la partenza di Elisabetta per la sua nuova patria; questo periodo non a caso in
parte coincide con la permanenza a Londra dell’architetto mediceo Costantino
7. Per il regesto completo delle filze del fondo Mediceo del principato che contengono le
corrispondenze dei residenti fiorentini a Londra cfr. C. Pagnini, «Begli Umori Capricciosi».
Fiorentini alla corte d’Inghilterra: l’attività del residente mediceo Ottaviano Lotti (1603-1614) e la vicenda
di Costantino de’ Servi, architetto, scenografo, pittore (1611-1615), tesi di laurea in Storia del teatro e
dello spettacolo, Università degli studi di Firenze, Facoltà di lettere e filosofia, a.a. 2001-2002
(relatore: prof. Sara Mamone), cui si rimanda anche per la trascrizione integrale delle lettere
(vol. ii).
8. Sulla numerosa presenza italiana a Londra si vedano i sempre attuali G.S. Gargano,
Scapigliatura italiana a Londra sotto Elisabetta e Giacomo, Firenze, Battistelli, 1923 e Relazioni di
ambasciatori veneti al Senato. Tratte dalle migliori edizioni disponibili e ordinate cronologicamente, i.
Inghilterra, a cura di L. Firpo, rist. anast. Torino, Bottega d’Erasmo, 1965 (registrate anche
in Calendar of State Papers and Manuscripts, relating to English Affairs, existing in the Archives and
Collections of Venice […], a cura di R. Brown et al., London, Longman-Roberts-Green, 18641947, voll. x-xv, 1603-1619). Per la migrazione di residenti, ambasciatori e artisti fiorentini nelle
più importanti corti d’Europa si veda anche S. Bardazzi, Sguardi fiorentini sull’Impero. Notizie
dei residenti fiorentini presso la corte cesarea a Praga e Vienna da Massimiliano II a Ferdinando II, tesi di
laurea in Storia del teatro e dello spettacolo, Università degli studi di Firenze, Facoltà di lettere
e filosofia, a.a. 2003-2004 (relatore: prof. Sara Mamone).
9. Sul matrimonio fra Elisabetta e Federico: Strong, Henry Prince of Wales, cit., pp. 73-79.
Sui festeggiamenti per le nozze cfr. Pagnini, Costantino de’ Servi, cit., pp. 239-263.
75
CATERINA PAGNINI
de’ Servi, al servizio di Anna e di Enrico dal 1611 al 1615.10 Di tale complessa
‘macchina’ di relazioni politico-culturali furono principali artefici i residenti, gli ambasciatori e gli artisti medicei che interagirono direttamente con la
regina Anna, con il principe Enrico, con la principessa Elisabetta e con i più
importanti funzionari della corte, fra cui Robert Cecil, I conte di Salisbury,
segretario di stato sia di Elisabetta I che di Giacomo I, e sir Thomas Chaloner, tutore di Enrico; fra questi solerti funzionari granducali vanno messi in
valore Alfonso Montecuccoli, primo dei residenti medicei alla corte Stuart in
missione diplomatica per conto di Ferdinando I in occasione dell’incoronazione del nuovo re; Andrea Cioli, una delle figure più importanti della segreteria medicea; e, fra i più politicamente risolutivi, Ottaviano Lotti inviato da
Cosimo II alla corte inglese per curare le negoziazioni in vista di un possibile
matrimonio fra il principe erede Enrico Stuart e la principessa Caterina de’
Medici, sorella del granduca.11
Non è un caso che uno dei primi ritratti storici di Anna, appena arrivata
in Inghilterra come regina consorte, venga delineato dalle fonti archivistiche
fiorentine, in un lungo dispaccio di Montecuccoli alla segreteria granducale
scritto da Winchester e datato 29 ottobre 1603; un documento che mostra la
regina in una luce diversa da quella tradizionale e che svela uno spirito curioso ed eclettico, una personalità desiderosa di contatti culturali, già proiettata
attivamente nella politica dello scambio dei doni, fondamentale per i rapporti
diplomatici dell’Europa delle corti:
Hoggi il giorno 29 ho havuto Udienza privata dalla Maestà della Regina e perché le
havevano già fatta condurre la cassa, venuta di Parigi segretamente […] ho trovata Sua
Maestà di tutto molto soddisfatta, e in particulare di alcune Immagini di Santi che
dice Sua Maestà che vi erano. È ben vero che alcune figurine si sono trovate rotte,
ma Sua Maestà mi dice che le farà accomodare facilmente; e con l’occasione di queste
santissime immagini ha liberamente Sua Maestà proceduto a dirmi e a confessarmi di
essere Cattolica e di non desiderare altro che l’esaltazione della Santa madre Chiesa
e che sia pregato Iddio che la conservi in questo buon proposito, e che non resta ne i
propositi che occorrono fare grandi offizi con il Re sopra di questo, ma che bisogna
10. Per l’esperienza londinese dell’architetto fiorentino: ivi, passim, in partic. pp. 153-310.
11. Per Ottaviano Lotti: ivi, in partic. pp. 103-152 e Id., Ottaviano Lotti residente mediceo
a Londra (1603-1614), «Medioevo e Rinascimento», xvii/n.s. xiv, 2003, pp. 323-408. Sulle
trattative per il matrimonio fra Enrico e Caterina: J.D. Mackie, Negotiations between King James
VI and I and Ferdinand I […], London-New York, Milford for St. Andrew University-Oxford
University Press, 1927; R. Strong, England and Italy: the Marriage of Henry Prince of Wales, in
For Veronica Wedgwood These: Studies in Seventeenth-Century History, a cura di R. Ollard e P.
Tudor-Craig, London, Collins, 1986, pp. 59-87; Id., Henry Prince of Wales, cit., pp. 42-80;
Pagnini, Costantino de’ Servi, cit., pp. 130-152.
76
ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’
che vadia molto circospetta. Io in questo, pigliando cuore di essortarla e confermarla in questi buoni pensieri, le donai le scatoline delle Immagini in nome di Madama
Serenissima con la scrittura che havevano fatta tradurre in Franzese e soggiunsi che
Sua Maestà non cessasse mai di raccomandarsi alla Beatissima Vergine, che si avvedrebbe che i suoi pensieri haverebbono felicissima fine e Sua Maestà disse di farlo
continuamente e il Presente le fu estremamente accetto […]. Soggiunse Sua Maestà
che desiderava che Madama le mandasse da Firenze una Dama che fusse buona per
acconciarle la testa e io le dissi che ne havrei avvisata l’Altezza Vostra.12
Sette anni più tardi il residente Lotti si intrattiene nella Galleria dei ritratti con la regina, ormai ambientatasi nelle sue residenze e con la household ben
organizzata, perfettamente a suo agio nelle questioni politiche e diplomatiche
più delicate (le trattative con le corti d’Europa per il matrimonio di Enrico),
verso le quali non esita ad assumere apertamente posizioni perentorie e in contrasto con la volontà del consorte:
Nel passeggiare Sua Maestà nella sua solita Galleria piena di ritratti, e fra i quali ella
metterà hora quelli dei Serenissimi Patroni, ella dando d’occhio al ritratto di Madama
Arabella parlò compassionevolmente della miseria di lei; e voltatasi poi a quello della
Regina di Spagna, me lo mostrò, e mostrò ancho quello della piccola Infanta. Onde io,
che vivo con ansietà di rendere humilissimo servitio presi arditamente occasione e dissi:
Io vedo quella Piccola Principessa Regina d’Inghilterra, se la poca età non l’impedisca; rispose Sua Maestà: Non so quello che sarà, ma l’età non può già guastare, perché
molto più tempo ha il Re mio marito di me che il Principe d’Inghilterra dell’Infanta
di Spagna. Non ha dubbio che Sua Maestà piega a quella banda, ma nel ragionare mostra più desiderio che speranza della conclusione. Io soggiunsi: Si dice per cosa certa
che il Marescial Lavardino viene anch’egli per trattare di dare Madama di Francia al
Principe d’Inghilterra; risentitamente rispose Sua Maestà: Perdio che ciò non sarà mai
e ne maledirei mio figliolo in eterno. Perché Madama, domandai io: Perché non mi
piace, rispos’ella, e perché io non voglio Figliole d’uno che ha haver quattro moglie.
Noi, soggiunse ella, tratteremo più facilmente con il Granduca vostro Signore, e io
che mi feci lontano dal quel pensiero, mostrai di cadere all’improvviso in una estrema allegrezza e dissi: Se ciò seguirà mai, faccio voto di visitare il Sepolcro Santissimo,
e seguitai: Veda Vostra Maestà quanto è benedetta da Iddio quella Serenissima Casa,
che gli Imperatori, tutti i Gran Re di Christianità, ogni Principe supremo brama di
congiungersi seco, veda per esempio il Governo delle due Regine di Francia di Casa
Medici, e quello della presente particolarmente, se vuole conoscere con perfetto amore
12. Alfonso Montecuccoli alla segreteria granducale, Winchester, 29 ottobre 1603, ASF,
Mediceo del principato, f. 4186, cc. n.n. Per la trascrizione integrale del doc. si veda Pagnini, «Begli
Umori Capricciosi», cit., vol. ii, doc. 11. Riguardo alla fede cattolica della regina, che Giacomo I
le permise di praticare a corte e di cui molto veniamo a sapere dalle corrispondenze dei residenti
medicei, cfr. l’appendice documentaria in Barroll, Anna of Denmark, cit., pp. 162-172.
77
CATERINA PAGNINI
di madre e di moglie, e questa bontà si deve cercare e lasciare ogn’altra cosa oltre che
si sa quanto quella felicissima Casa sia feconda di prole, e Vostra Maestrà potrà guadagnare una nuora e una servitrice, se mai si unisse a questa, di che io voglio ogni giorno
pregare Sua Maestà (e Vostra Maestà, soggiunsi io, può bene honorar me povero humilissimo servo per amore de’ miei Serenissimi Padroni, e per l’affetione che le Altezze
le portano può accennarmi qualcosa). All’hora che si comincerà a ragionare di dare
moglie al Serenissimo Principe e la Maestà Sua che accettò in buonissima parte tutto
quel che io dicevo, mi promesse di farlo, e io lo spero e godo estremamente per i miei
disegni d’esser arrivato a questo punto, perché Sua Maestà è liberissima nel parlare bisogna pertanto che io vada sempre procacciando occasione di rivedere la Maestà Sua.13
3. Gli Stuart sovrani di Inghilterra: una corte policentrica
Per comprendere la complessa realtà in cui Anna si inserisce al suo arrivo
in Inghilterra e che le permetterà di ritagliarsi un ruolo di primo piano nelle
vicende del regno, si consideri che la corte giacobina, specialmente quella del
primo decennio, non si fonda sulla sola personalità del sovrano, ma sulle diverse componenti sociali e politiche che ne definiscono il polimorfismo: i nobili
della corte, l’aristocrazia terriera, i mercanti delle più importanti città del regno,
le corporazioni di stampo tardo-medievale ma ancora influenti nella politica
londinese: tutti elementi interattivi e competitivi che, a dispetto della retorica
sull’autorità assoluta e accentrante del sovrano, sono alla base della società strutturandola come un organismo policentrico, multiforme e centrifugo (fig. 3).
Lo stato giacobino, è noto, è rappresentato da tre corti ‘fisiche’ cui si riferiscono diverse residenze: quella del re, Whitehall Palace a Londra (figg. 4-5)14
13. Ottaviano Lotti a Belisario Vinta, Londra, inserto del 26 gennaio 1610 [ma 1611], ASF,
Mediceo del principato, f. 4189, cc. n.n. Le trattative per il matrimonio di Enrico Stuart si leggono
in Pagnini, Costantino de’ Servi, cit., pp. 130-152.
14. Whitehall Palace, in origine York Place, di proprietà del cardinale Wolsey, fu acquisito
nel 1530 da Enrico VIII che lo fece ampliare. Giacomo I, al suo arrivo a Londra come nuovo
monarca, lo ristrutturò commissionando a Inigo Jones, fra il 1619 e il 1622, la realizzazione della
Banqueting House; e si sa che Carlo I affidò a Rubens la decorazione della volta del salone, culminante nell’Apoteosi di Giacomo I (cfr. R. Strong, Britannia Triumphans: Inigo Jones, Rubens and
Whitehall Palace, London, Thames & Hudson, 1980). Prima dell’incendio del 1698, che portò
alla sua quasi totale distruzione, Whitehall era il più grande palazzo reale europeo, quasi una
cittadella dentro la città di Londra, con più di millecinquecento stanze e una struttura piuttosto
irregolare dovuta ai numerosi interventi di ampliamento susseguitisi per volontà dei diversi
monarchi. Cfr. G.S. Dugdale, Whitehall through the Centuries, London, Phoenix House, 1950;
S. Thurley, Whitehall Palace. An Architectural History of the Royal Apartments, 1240-1698, New
Haven, Yale University Press, 1999; E. Sheppard, The Old Royal Palace of Whitehall (1902), rist.
anast. Charleston, Nabu Press, 2010.
78
ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’
oltre alle residenze di campagna di Royston e Theobalds; quella della regina,
prima Somerset House (fig. 6) (denominata successivamente Denmark House)15
e poi Greenwich Palace (fig. 7);16 infine quelle dell’erede al trono, a St. James,
Richmond e Woodstock.17 Con l’avvento della casa Stuart per la prima volta
dai tempi di Enrico VIII è prevista una residenza dedicata alla corte della regina, con ruoli e cariche espressamente creati per cortigiani maschi e femmine
e soprattutto, per quanto qui interessa, con una gestione separata della produzione spettacolare. La recente storiografia anglosassone di gender propende a
vedere in Anna e nella sua corte una sorta di ‘fronte’ femminista avverso, sia
politicamente che culturalmente, alla corte patriarcale di Giacomo I;18 senza
addentrarsi in tali problematiche, a nostro avviso storicamente estranee e decontestualizzate, è proficuo analizzare l’influenza di Anna sulla spettacolarità
giacobina e sulla codificazione del masque. È suo senz’altro il maggior impulso
dato alla struttura definitiva del masque come spettacolo rappresentativo della
corte giacobina e carolina: suoi sono i più importanti masques della prima decade del regno di Giacomo I, anni fondamentali per la genesi e il definitivo
sviluppo del ‘genere’.
15. Somerset House, sul lato sud dello Strand lungo il corso del Tamigi, era stata la residenza privata della principessa Elisabetta Tudor nei mesi precedenti alla sua incoronazione
(1558). Con la ascesa al trono di Giacomo la residenza fu assegnata alla regina consorte Anna
che la fece ampliare da Inigo Jones. Cfr. N. Webster, Somerset House: Past and Present, London,
Unwin, 1905; J. Newmann-A. Hornak, Somerset House: Splendour and Order, London, Scala
Books, 1990.
16. Greenwich Palace, nel Kent, a sud della Torre di Londra lungo il Tamigi, vide la nascita
di Enrico VIII e delle figlie Maria ed Elisabetta, future regine d’Inghilterra, che la elessero a
residenza privata anche durante gli anni dei rispettivi regni. Sotto Giacomo I il palazzo e il suo
parco furono assegnati alla consorte Anna. Tra il 1614 e il 1617 la regina commissionò a Inigo
Jones la completa ristrutturazione del palazzo e la costruzione, a sud, di un nuovo edificio; l’architetto, appena rientrato dal suo grand tour italiano e quindi ben consapevole dei principi architettonici del classicismo filtrati dai modelli romani, rinascimentali e palladiani, costruì quello
che oggi è l’unico edificio rimasto del complesso di Greenwich, la Queen’s House, ispirata alla
villa medicea di Poggio a Caiano; il nuovo pavillon venne portato a termine, dopo l’interruzione
dei lavori nel 1618 per la malattia e la morte della regina Anna (1619), solo dopo il 1629, quando
Carlo I assegnò la residenza alla consorte Henrietta Maria. Cfr. P. van der Merwe, The Queen’s
House: Greenwich, London, Scala, 2012.
17. Sulle residenze reali inglesi, in partic. su quelle della dinastia Stuart: N. Williams,
Royal Homes of Great Britain from Medieval to Modern Times, London, Lutteworth Press, 1971 e
J.E. Adair, The Royal Palaces of Britain, New York, Potter, 1981.
18. Cfr. McManus, Women on the Renaissance, cit.
79
CATERINA PAGNINI
4. Una regina in scena: i ‘Queen’s Masques’ (1604-1611)
Anna è la principale figura di riferimento per la spettacolarità della corte
giacobina, fondamentale mediatrice fra lo spettacolo dei dilettanti, i nobili che
agiscono in scena nei masques, e quello del teatro dei professionisti, a partire
dagli attori, coinvolti nelle parti recitate e danzate (specialmente nell’antimasque), dai poeti di corte, Samuel Daniel o Ben Jonson, con i quali la regina interagisce attivamente per lo sviluppo della trama del masque, e dallo scenografo,
Inigo Jones, cui la regina dispensa volentieri consigli e direttive sui costumi e
anche sulle entrate in scena.19 Fondamentale per lo sviluppo dell’interazione
fra il teatro dei professionisti e quello dei dilettanti è proprio l’introduzione
dell’antimasque presentato per la prima volta da Ben Jonson il 2 febbraio 1609
in occasione dell’allestimento di The Masque of Queens: una delle più fertili collaborazioni con Jones e un’evoluzione importantissima nella storia della spettacolarità inglese (figg. 8-9). Qui Jonson segue l’esplicita richiesta della regina
Anna che dimostra ancora una volta la sua vocazione teatrale, ben sapendo
che il successo di una forma spettacolare reiterata è affidato alla varietà della
forma stessa: «Her Majesty (best knowing, that a principal part of life, in these
Spectacles, lay in their variety) had commanded me to think on some Dance, or
Shew, that might precede hers, and have the place of a foil or false Masque».20
Ampliando lo schema base della rappresentazione con il prologo dell’antimasque,
Jonson trasforma lo spettacolo tradizionale in un doppio masque impiegando
due diverse compagnie di masquers, con prevalenza, nella prima, di esecutori professionisti; per il debutto della sua innovazione drammaturgica Jonson
sceglie di presentare in scena l’entrata danzante di un gruppo di streghe, personaggi grotteschi che hanno il compito di introdurre, per contrasto, con il
loro aspetto bizzarro, la gestualità enfatizzata e l’abbigliamento stravagante, la
magnificenza e il tono aulico del vero e proprio masque (l’episodio della House of Fame) che segue subito dopo: «Twelve Women, in the habit of Hags, or
Witches, sustaining the Persons of Ignorance, Suspicion, Credulity […] the Opposites to good Fame, should fill that part; not as a Masque, but a Spectacle of
strangeness, producing multiplicity of Gesture».21
19. Queste pratiche consuete sono documentate dai libretti di Daniel e di Jonson. Si vedano le introduzioni autoriali ai masques di Samuel Daniel e Ben Jonson in Court Masques: Jacobean
and Caroline Entertainments 1605-1640, a cura di D. Lindley, Oxford, Oxford University Press,
1995.
20. Ivi, p. 35. «Sua Maestà (ben sapendo che il successo di questi spettacoli sta nella varietà) mi comandò di pensare a qualche danza, o spettacolo, che potesse precedere il suo masque e
avesse la funzione di antagonista o falso-masque» (mia la traduzione).
21. Ibid. «Dodici donne, in costume da streghe, introducendo le personificazioni della
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ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’
Non c’è dubbio che sotto l’egida della reale consorte vengano prodotti i
masques dell’era giacobina che codificano definitivamente il genere, confermando l’indipendenza delle scelte della regina e la sua attività spettacolare
ben identificata e volutamente distinta da quella del re; come il figlio Enrico
ella ama le commedie che si rappresentano nei teatri pubblici, è protettrice di
compagnie di attori e si dedica alla danza che pratica con particolare talento
sia negli intrattenimenti privati che sulla scena di corte. L’ufficio dei Queen’s
Revels testimonia il ruolo attivo di una sovrana ‘rinascimentale’ che produce
spettacoli per se stessa e per le sue dame (Queen’s and Ladies’s masques). Perciò può essere affiancata all’esempio, di non molto precedente, di Margherita
Gonzaga, figlia di Guglielmo Gonzaga duca di Mantova e di Eleonora d’Austria e terza moglie di Alfonso II d’Este, duca di Ferrara. Margherita, dal suo
arrivo nella capitale estense, propone alla corte per più di un ventennio, dal
1571 al 1597, la tipologia del ‘ballo delle dame’ o ‘ballo della Duchessa’, un
appuntamento spettacolare di grande rilievo e risonanza, con vasto impiego
di mezzi allestitori.22
Dopo gli intensi anni trascorsi alla corte scozzese, durante i quali Anna
ebbe modo di farsi notare per il suo impegno politico e per le sue frequenti e
poco gradite ‘incursioni’ nelle decisioni del consorte reale,23 è in Inghilterra
che Anna può dedicarsi a soddisfare il suo interesse per lo spettacolo, inteso
come tramite metaforico-politico autocelebrativo, creando un polo di attrazione, se non opposto, diverso dalla corte del re e ‘seme’ forte della sua ideologia volutamente ‘alternativa’ al potere del sovrano.
Fin dal suo arrivo a Londra la regina imposta il calendario spettacolare inglese in modo che l’allestimento dei suoi spettacoli, i citati Queen’s Masques,
coincida con l’appuntamento più importante delle feste annuali: la notte
dell’Epifania (Twelfth Night) che dal 1604, anno della prima rappresentazione
di un masque di Anna, diventa l’evento rappresentativo più dispendioso.24 Da
Ignoranza, del Sospetto e della Credulità […], opposte alla buona Fama, eseguono il Prologo,
non come un masque, ma uno spettacolo bizzarro, con molteplicità di gesti» (traduzione mia). Su
The Masque of Queens: Pagnini, Costantino de’ Servi, cit., pp. 168-198.
22. Si vedano, ad esempio, il Gran ballo del carnevale del 1582, a soggetto pastorale, per otto
dame in ruoli di ninfe e pastori e il Ballo armato del 1594, per dodici dame, di cui sei in effigie di
guerriere. Cfr. M. Padovan, Il Ballo della Duchessa. Margherita Gonzaga coreografa e ballerina (15791597), in Le lombarde in musica…, Roma, Colombo, 2008, pp. 41-53 e Id., Il Cinquecento, in Storia
della danza italiana dalle origini ai nostri giorni, a cura di J. Sasportes, Torino, edt, 2011, pp. 48-52.
23. Il periodo di Anna come regina di Scozia è uno dei più significativi dal punto di vista
politico. La sua ricostruzione storiografica è servita non poco alla rivalutazione del personaggio storico per quanto riguarda la fase inglese. Cfr. Williams, Anne of Denmark, cit., pp. 1-68;
Barroll, Anna of Denmark, cit., pp. 14-35.
24. Cfr. Pagnini, Costantino de’ Servi, cit., pp. 168-198.
81
CATERINA PAGNINI
questa data, per sette anni, la regina mette in scena l’apoteosi della dinastia,
unificatrice dei tre regni e portatrice di pace e armonia; una strategia autocelebrativa alla quale prende attivamente parte in qualità di masquer: in scena come protagonista e valente esecutrice delle danze teatrali di corte, tra le
‘quinte’ come ispiratrice dell’allestimento, dei costumi e della drammaturgia. Gli eventi in programma sono i più attesi dalla corte e dai visitatori stranieri che si contendono la possibilità di essere ammessi agli spettacoli: The
Vision of the Twelve Goddesses, rappresentato nel palazzo di Hampton Court,
l’8 gennaio 1604, su libretto di Daniel e con scene di Jones;25 The Masque of
Blackness, messo in scena il 6 gennaio 1605 a Whitehall Palace, che sancisce
la prima delle successive e numerose collaborazioni fra Jonson, autore del libretto, e Jones per le scene e i costumi (figg. 10-11); The Masque of Beautie, il
10 gennaio 1608 allestito a Whitehall Palace, dove i due autori, per volontà
della regina, portano a termine il disegno drammaturgico e il messaggio politico del masque precedente (fig. 12); The Masque of Queens, rappresentato il
2 febbraio 1609 sempre a Whitehall, uno degli intrattenimenti di corte più
complessi ed elaborati, di cui Anna cura personalmente i dettagli dell’allestimento (figg. 8-9);26 Thetys Festival, portato in scena a Whitehall nel giugno
del 1610, su libretto di Daniel e scenografie di Jones, offerto dalla regina per
la ‘Creazione’ del primogenito a principe di Galles (fig. 13); l’ultimo Queen’s
Masque, Love Freed from Ignorance and Folly, allestito ancora a Whitehall il 3
febbraio del 1611, di nuovo con la collaudata collaborazione di Jonson e Jones, di ispirazione neoplatonica.27
Dopo la morte del principe Enrico, scomparso nel 1612 all’età di diciotto
anni molto probabilmente per una febbre tifoide,28 Anna smette di produrre
spettacoli e si ritira nelle sue residenze private con le dame più fidate del suo
seguito (fig. 14); intanto alla corte di Giacomo, scomparso l’erede al trono,
25. Già dalla sua prima esperienza sulla scena regale Anna svelò la propria ‘ideologia’
spettacolare indicando a Inigo Jones la fonte dei costumi di scena nel guardaroba della defunta
regina Elisabetta. Cfr. S. Daniel, The Vision of the Twelve Goddesses, con una introd. di E. Law,
London, Quaritch, 1880, p. 13 (ora in https://archive.org/details/visiontwelvegod00danigoog,
ultimo accesso: 15 luglio 2015).
26. Abbiamo già visto (cfr. supra) come per questo masque Ben Jonson inserisca per la prima
volta l’antimasque.
27. Per l’anno 1611 la data dell’Epifania fu riservata alla rappresentazione del masque
Oberon The Fairy Prince, uno spettacolo programmatico voluto da Giacomo I per celebrare il
primogenito, nuovo principe di Galles.
28. La morte del principe ereditario, sul quale la nazione aveva riposto le più fervide
speranze di un regno illuminato, getta l’Inghilterra e la corte di Giacomo I nel più grande
sconforto, che viene puntualmente riferito dai residenti medicei alla segreteria granducale. Cfr.
Strong, Henry Prince of Wales, cit., pp. 220-226; Pagnini, Costantino de’ Servi, cit., pp. 149-151.
82
ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’
cominciano a prendere campo i favoriti del re, prima Robert Carr e poi George Villiers.29
Negli anni seguenti, tuttavia, vengono ancora allestiti diversi intrattenimenti nei palazzi della sovrana, non più partecipante allo spettacolo ma piuttosto attiva in un ruolo di mediazione e di patrocinio: fra le produzioni a
Greenwich House si ricorda Cupid’s Banishment (4 maggio 1617), attribuito
a Robert White, interpretato dalle giovani allieve, pupille della regina, della
scuola di Deptford. Il prologo dedicatorio indirizzato alla contessa di Bedford
sancisce la definitiva uscita della regina dalle ‘scene’ dell’organizzazione spettacolare, anche a causa delle sempre più gravi condizioni di salute. Morì a soli
quarantaquattro anni, Anna. Era il 2 marzo del 1619.30
29. Su questa fase politica successiva alla morte del principe Enrico si vedano: Williams,
Anne of Denmark, cit., pp. 133-142, 166-176; Akrigg, Jacobean Pageant, cit., pp. 190-226; S.J.
Houston, James I, New York, Longman, 1995, pp. 42-55; Pagnini, Costantino de’ Servi, cit.,
pp. 264-310.
30. Sugli ultimi anni di vita della regina Anna cfr. Williams, Anne of Denmark, cit., pp.
192-205.
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CATERINA PAGNINI
Fig. 1. John de Critz il Vecchio, Anne of Denmark, 1605, dipinto (London, National Portrait
Gallery, NPG 6918).
Fig. 2. Anonimo, King James I of England and
VI of Scotland and Anne of Denmark, s.d., incisione (London, National Portrait Gallery,
NPG D25686).
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ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’
Fig. 3.Willem van de Passe, King James I and His Royal Progeny, 1625-1630, incisione (London, National Portrait Gallery, NPG 9808).
Fig. 4. Wenceslaus Hollar, Palatium Regis prope Londinum ‘vulgo’ White-hall, 1647 ca., incisione (London, Metropolitan Archives).
Fig. 5. Pianta del Palazzo di Whitehall nel 1680, 1807, stampa (London, British Library,
Cartographic, Port. 11 65).
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CATERINA PAGNINI
Fig. 6. Wenceslaus Hollar (da), Old Somerset House, 1670 ca., stampa (da «The Mirror of
Literature, Amusement, and Instruction», xiii, 1829, 365, p. 241).
Fig. 7. Inigo Jones, Progetto per la Queen’s House a Greenwich, 1615 ca., disegno (London, RIBA 30693).
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ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’
Fig. 8. Inigo Jones, Queen Anne as Bel-Anna
Queen of the Sea for ‘The Masque of Queens’,
1609, disegno (Devonshire, Chatsworth
House Collection).
Fig. 9. Inigo Jones, Headdress for Queen
Anne for ‘The Masque of Queens’, 1609,
disegno (Devonshire, Chatsworth House
Collection).
Fig. 10. Inigo Jones, Queen Anne as the
Daughter of Niger for ‘The Masque of
Blackness’, 1605, disegno (Devonshire,
Chatsworth House Collection).
Fig. 11. Inigo Jones, Costume of a Torchbearer for ‘The Masque of Blackness’, 1605,
disegno (Devonshire, Chatsworth House
Collection).
87
CATERINA PAGNINI
Fig. 12. Inigo Jones, Lady Masquer
for ‘The Masque of Beautie’, 1608,
disegno (Devonshire, Chatsworth
House Collection).
Fig. 13. Inigo Jones, Queen Anne as ‘Thetys for
Thetys Festival,’ 1610, disegno (Devonshire,
Chatsworth House Collection).
Fig. 14. Marcus Gheeraerts il Giovane, Anne
of Denmark, 1612, dipinto (London, The
National Portrait Gallery, NPG 4656).
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Françoise Siguret
LA LUMIÈRE ET LE TEMPS SUR LA SCÈNE BAROQUE :
POETIQUE & PRATIQUE*1
I. Le Temps
Voilà des années que je m’intéresse au problème de l’articulation de la lumière et du temps au théâtre, sur la scène renaissante et baroque.
Il faut revenir à ce point de départ qui est la redécouverte d’Aristote par les
humanistes ; la Poétique va ouvrir de longs débats chez les doctrinaires au sujet de la recommandation d’Aristote qui suggère d’inscrire la tragédie, « pour
autant que cela soit possible, dans une révolution de soleil » (i.e. pour nous une révolution de la terre autour du soleil). Ce concept deviendra en France, au XVIIe
siècle, la règle sacro-sainte des « vingt-quatre heures ». De là, deux remarques :
Première remarque : Aristote exprimait la durée en termes de lumière, selon la vision cyclique d’un temps qui n’appartenait qu’aux dieux, offrant aux
hommes pour repère le lever du soleil ; l’effacement des mythes et l’entrée des
hommes dans l’Histoire, ouvrira un temps linéaire qui se fera par décompte
et défilement d’heures dans la division abstraite du jour et de la nuit. Or le
théâtre antique se jouait à ciel ouvert ; c’est dire que toute l’action se déroulait
de jour et la tragédie (ou plutôt les trois tragédies et la pièce satyrique proposées au concours dramatique) commençaient à l’aube pour s’achever au couchant, soit 8 à 10 heures de spectacle : tout ce qui s’était passé de nuit dans la
fable, était assumé par le langage des acteurs ou l’intervention d’un messager
ou d’un personnage qui narrait les faits que les autres n’avaient pas vus et dont
il disaient avoir été témoins. Dans le cadre d’un temps obligé, contraint, l’elocutio
ou « traduction de la pensée par des mots » qui porte le discours dramatique, doit
révéler au spectateur, de façon directe ou métaphorique, les énoncés relatifs à
Comunicazione fatta a Firenze (teatro della Pergola) il 3 aprile 2014 nel quadro del
Convegno internazionale di studi del Dottorato di ricerca interuniversitario ‘Pegaso’ in Storia
delle arti e in Storia dello spettacolo. Ringrazio Siro Ferrone, Renzo Guardenti, Sara Mamone
e Marzia Pieri che mi hanno invitato.
*
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 89-96
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18362
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
© 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License
(CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original
author and source are credited.
FRANÇOISE SIGURET
tout le temps (et donc le lieu) qui échappent au présent de la représentation.
Seconde remarque : tout ce qui appartient au mélodrame, à la pastorale et aux
arts de cour ( feste teatrali) : ballets, opéras, tournois, et autres défilés de chars
qui empruntent des sujets mythologiques, tout cela se trouve voué au temps
cyclique, plus ou moins divisé en âges infinis, empruntés à Hésiode dans sa
Théogonie : Or / Argent / Bronze et Fer qui ne disent rien d’une durée réelle
et ne sont que des images suggérant les étapes décadentes de l’humanité dans
le temps. À ces âges infinis du macrocosme correspondent les quatre âges indéterminés de la vie humaine : enfance, jeunesse, maturité, vieillesse, rapportés au retour des saisons, du printemps de l’enfance à l’hiver de la vieillesse.
Contenue entre deux levers de soleil, cette révolution apparente du soleil
semblait, aux yeux d’Aristote, emprisonner une action dont les bornes suffisaient à l’attention du public pour le temps où il se trouvait assis au théâtre. Il
insiste sur les limites de la perception : de même que l’œil ne peut saisir dans son
champ de vision qu’une certaine éntendue qui fasse sens, de même la fable doit
recevoir une étendue telle que la mémoire la puisse saisir (Chap. 7, §1450-51).
Aristote précise bien que cette limite donne une idée raisonnable de la mesure.
Arrivée à l’âge de Descartes l’expression « dans une révolution du soleil » est
sans doute une idée raisonnable mais qui doit s’énoncer rationnellement : la
règle dite des vingt-quatre heures sera aux yeux des théoriciens français, au début du XVIIe siècle, une règle d’or obligée parce qu’elle forçait à une certaine
vraisemblance de l’action qui interdisait que l’on vît au théâtre un roi nourrisson au premier acte devenu un vieillard barbu au cinquième. Ingegneri (1608)
avait aussi clairement soutenu cette argumentation. Mais nous sommes passés
d’un temps-lumière à un temps-chrono, celui de la clepsydre du tribunal dont
Aristote se moquait.
Au début du XVIIe siècle français, une génération de jeunes poètes dramatiques, désirant un théâtre ouvert comme l’étaient ceux d’Italie, d’Espagne et
d’Angleterre, ne voulaient rien entendre à cela et prirent pour arbitre Chapelain, expert en la matière ; dans une célèbre et longue lettre de 1630, Chapelain chercha à convaincre ces jeunes “libertaires” en leur montrant que l’œil
fini ne pouvait embrasser qu’un nombre restreint de choses dans un temps
donné pour les conduire à l’esprit, c’est-à-dire au jugement. Les limites aristotéliciennes constituaient donc une sorte de parcours parfait et symbolique
du processus dramatique, emprisonnant l’action humaine, née et échue à
l’aube, dans le cercle exemplaire parcouru par la lumière-temps ; l’aventure
du berger Endymion en constitue une image canonique. Et l’on comprend
que la pastorale s’en soit emparée. La tragédie moderne qui s’ouvre in medias
res et s’achève par une mort violente, est centrée au contraire sur un moment
de crise, c’est-à-dire de rupture de l’Histoire, et dès lors vingt-quatre heures
suffisent à l’action.
90
LA LUMIÈRE ET LE TEMPS SUR LA SCÈNE BAROQUE
Rappelons pourtant que jusqu’à la fin du XVIIe siècle le temps n’est pourtant pas compté, dans les spectacles baroques (le feste teatrali), selon le déroulement de l’horloge qui règle la tragédie, mais plutôt à l’antique, selon les
quatre temps (un temps qui est aussi un rythme) qui présidaient aux quatre âges
du monde, aux quatre âges de l’homme, aux quatre saisons de l’univers et de
l’année. Dans l’année liturgique qui ordonnait la vie de tous, le retour des
quatre temps et leurs vigiles (Noël, Pâques…) marquaient de fait l’entrée dans les
quatre saisons. Les 24 heures du jour étaient, elles aussi, divisées en quatre parties : de 6 heures du matin à midi, de midi à 6 heures du soir, pour le jour, de
6 heures du soir à minuit et de minuit à 6 heures du matin, pour la nuit, et
d’ailleurs les mots nous en ont laissé la trace : mezzo/giorno, mezza/notte, mi/di,
mi/nuit. Par exemple, quand le narrateur de La Calandria rapporte à son correspondant que la représentation a commencé « a un hora de notte » il est pour
nous, 7 heures du soir.
C’est sur ce découpage archaïque, mais familier, de quatre temps et donc
de quatre vigiles que fut composé, en 1608, le divertissement allégorique de
Francesco Cini intitulé Notte d’amore, pour les noces de Côme de Médicis et
Marie-Madeleine d’Autriche ; autrement dit, chaque tableau désigné comme
vigile donc comme avant-coureur du suivant, est entraîné par la Nécessité, du
début de la nuit à l’aube, dans la poursuite inéluctable d’un temps cosmique,
accéléré pour les besoins du spectacle. Ce mot de vigile appartient donc à la représentation cosmique de la scène. Les spectateurs, appelés veglianti1 parce qu’ils
participent à la veillée festive de la supposée nuit d’amour des époux princiers,
sont entraînés eux aussi par le retour rythmique des ballets suivant chaque acte
de la fable “cosmique”.
Prenons pour exemple la seconde vigile de notre Endymion, qui se déroule de
9 heures du soir à minuit. Le décor est un “beau jardin”. Arrive la Lune avec
son cortège « d’étoiles blondes », puis Endymion. Le narrateur de la fête les
décrit rapidement : « La Lune chasseresse, toute argentée, avec le croissant sur la tête.
Endymion, vêtu en berger, avec un habit riche et bizarre, et sur la tête, un astrolabe. »
(Ne pas oublier cet étrange détail, encore qu’au cours des mêmes fêtes, le quatrième intermède du Jugement de Paris soit intitulé Le Navire d’Amerigo Vespucci,
référant aux mêmes navigations).
Puis descend un cortège d’étoiles blondes et autres créatures célestes. Cette
scène de l’Endymion est le clou du spectacle, au sommet de la nuit. Après quelques
1. Le mot français veilleur est réservé maintenant aux veilleurs de nuit, chargés de surveillance
de bâtiments et d’usines ; il ne correspond plus à cet aspect festif des veillées anciennes des campagnes, réunions de voisins isolés où l’on chantait et dansait : de là est demeuré longtemps dans
les parlers locaux le mot de veilleux.
91
FRANÇOISE SIGURET
vers, les divinités descendent de la scène pour danser dans le théâtre avec les
veglianti. Se fondent alors le temps cosmique et le temps humain. L’instant de
passage de la terre au ciel, après le bal, est toujours signalé par la chute du rideau et la vue éphémère d’une perspective.
Ce divertissement qu’animaient de nombreuses figures allégoriques : la Nuit,
les Étoiles, les Heures, les Songes, les Cupidons, le Silence, l’Oubli… et probablement quelques machines qui marquaient une lumière/temps comme le
char de la Lune ou de l’Aurore, ce divertissement aurait pu sombrer lui-même
dans l’oubli, n’eût été Benserade promu poète des Ballets de la cour de France,
qui en fit le fameux Ballet de la Nuit, dansé pour le Carnaval, dans la salle du
Petit-Bourbon le 23 février 1653, dans une scénographie de Torelli. Ce spectacle resté célèbre par son immense déploiement à partir du modèle florentin,
avec sa trentaine d’Entrées, raffinées ou grotesques, ses dizaines de danseurs, la
beauté des lumières et des costumes, les imbrications de théâtre dans le théâtre,
comprenait, entre autres, l’épisode d’Endymion à l’ouverture de la troisième
partie « de minuit jusques à 3 heures avant le jour ». Mais la suprême merveille de
la soirée fut l’Entrée du Roi, à la fin du Ballet, après le passage de l’Aurore.
Le jeune Louis, Apollon de quinze ans, « représentant le soleil levant », portait
un éblouissant costume d’or et de pierreries ; un soleil était peint ou brodé sur
son juste au corps et s’affichait comme sa figure emblématique. Ses escarpins,
ses genoux, étaient ornés de soleils ; les poignets, les épaulières, le colletin de
cette armure apollinienne n’étaient que flamboiements de rayons ; sa tête enfin,
couronnée de rayons sur ses cheveux blonds, semblait porter majestueusement
le dernier plumet de la Nuit. L’air grave du visage royal laissait entendre que
cette magnifique soirée fut bien comme la dernière veillée d’armes du chevalier. Le roi, en septembre, avait atteint sa majorité et, après les désordres de la
Fronde et le retour de Mazarin le 3 février, cette apothéose intronisait le jeune
souverain et le discours du livret qui devait être lu en son nom, présentait déjà
l’« Astre des Rois » comme « Maître de l’Univers ».
II. La Lumière
À la Renaissance, en Italie, le théâtre, loin d’être offert à ciel ouvert, va se
trouver enfermé au fond d’une grande salle de palais, ce qui impose la résolution pratique d’un problème poétique : il faut éclairer l’espace de la scène qui
n’est en somme qu’une caverne. La scène et la salle ne font qu’une, sous un
même ciel de plafond, parfois étoilé, qui rappelle encore l’amphithéâtre antique.
Sont alors installées des rangées de lustres montées sur poulies afin qu’on puisse
les descendre pour les allumer, les moucher, les recharger, avec les problèmes
connus d’éblouissements, de gêne, de coulures brûlantes, de fumée noire et
92
LA LUMIÈRE ET LE TEMPS SUR LA SCÈNE BAROQUE
de mauvaises odeurs si les bougies sont de suif… On ajoute à cela, derrière la
rampe du bord de scène, une rangée de lampions avec ou sans réflecteur ; ceuxci éclairent sans être vus et sans gêner. Il y a donc une condition nécessaire mais
pas forcément suffisante de cette combinaison de lustres et lampions qu’évoque
le Corago en termes de lumiere et lume(i), quand il parle d’alluminare ou d’illuminare la scène. Privé de cela, le théâtre tout entier n’est qu’un chaos bruissant
de voix confuses, faute d’être rapportées à des corps distincts, un chaos voué
aux « instincts animaux » d’un public qui ne profite que trop de la confusion !
Tenons pour preuve les précautions de Serlio dans la disposition des hommes
et des femmes, jeunes et vieilles, sur les gradins de la salle, pour ne rien dire
des anecdotes salaces du populaire Hôtel de Bourgogne, seul et très médiocre
théâtre de Paris où les spectateurs étaient debout au parterre. Ainsi la lumière
jaillissant du Chaos comme au premier jour de la Création, affine les êtres (en
rapportant corps et voix à des êtres distincts), les mœurs (la civilité l’emporte
sur la grossièreté) et les âmes (la grâce du spectacle et son urbanitas font obstacle aux ténèbres de l’esprit et les redressent même par effet de catharsis). Cette
lumière-là est donc primordiale et comme l’éternelle lumière de Dieu ou des
dieux, qui offre à un public les conditions mêmes de la représentation. Elle est
la luce de ce microcosme théâtral. Calderón disait dans son Gran teatro del mundo : « Senza luce, non c’è festa ».
Serlio ajoutera à cette lumière essentielle toutes sortes de lampions accrochés
partout, dans les rues du décor, derrière des bassins colorés, ou sur le toit des
palais, doublées ou non de miroirs. Ces lumières-là qui sont des lumi, peuvent
avoir toute sorte de noms dans les premiers écrits ou traités qui s’intéressent
au problème que pose la lumière dans ce qui est appelé la « poésie représentative » : fiaccole, frugnoli, fuochi, torze, lampade et toute la famille des chandelles
(candelle), variations dictées par le support portant ces éclairages (du flambeau
au lampion), la matière qui les composent (cire, huile, résine) et l’usage qu’on
en fait. Quand il a été possible de circuler librement dans le décor sur le plan
incliné continu de la scène, la lumière fut disposée derrière les périactes ou le
long des portants, tout autour des nuées, et des chars célestes.
Avec Buontalenti et les fêtes de 1589, l’illumination sera devenue une technique parfaitement au point, capable même de produire des variations de l’intensité lumineuse. Mais au fil du temps, le public exigeant toujours davantage,
ce furent les effets spéciaux des éclairs, de l’arc-en-ciel, et des gloires finales, et
l’intrusion des machines-lumière (chars du soleil et de la lune). Qui plus est, les
décors eux-mêmes, stucchés de faux marbres pouvaient aussi être peints voire
entièrement dorés, comme le palais du fondale d’Atys, et bien d’autres palais
d’Apollon ; enfin des perles de verroterie colorée à l’imitation des pierres précieuses, et de petits miroirs, fixés sur les costumes ou dans les coiffures, accrochaient et reflétaient la lumière par éclats éphémères : toutes ces lumières-là,
93
FRANÇOISE SIGURET
secondaires, appartiennent aux merveilles du décor, et pour tout dire à la magnificence du prince, mais n’ont pas d’absolue nécessité. Et pourtant, si l’éclairage primordial soumet le spectateur à l’évidence du visible sans laquelle il
n’est point de fête, c’est bien cet éclairage secondaire qui provoquera, en ce
même spectateur, l’effet de stupor qu’achèvera l’hypotypose parfaite du tableau
final de la gloire du prince, tant de fois rapportée dans les relations de spectacles. Cet effet de suprême delectatio et admiratio, au-delà desquelles l’œil relaie nécessairement la parole interdite, conduit le public à l’éternel ravissement
des fêtes princières.
Ainsi comme on parle en linguistique de la double articulation du langage
en termes de signifiant et signifié, je parlerai d’une double articulation de la lumière. L’une durable, obligée, fixe et visible, englobe la scène et la salle : ce sont
les lumiere dont de nombreuses gravures nous ont laissé l’image ; elles constituent un ornement de l’architecture et vont de pair avec elle. L’autre lumière,
celle des lumi, est au contraire, éphémère et aléatoire, d’ailleurs toujours cachée
derrière les éléments des décors et des machines, ou se voit reflétée et démultipliée dans les éclats des chevelures et les soies, taffetas et satins des costumes ;
elle appartient au décor.
Cette double articulation dont le spectateur n’a pas conscience mais qui va
justement le piéger, permet de saisir à la fois le réel (ce que l’on voit) et la représentation du réel (ce qui fait sens comme chose vue) de façon d’autant plus
troublante que le support dramatique scénique est complexe.
Qu’en est-il en France ? il y eut, ici et là, dès le seizième siècle, dans les milieux humanistes et/ou italianisants, un “théâtre âu chateau” mais dont on sait
peu de chose quant aux représentations théâtrales ; celles des collèges, mieux
connues, firent bientôt la réputation des Jésuites. Mais il n’y eut longtemps,
dans toutes les villes du royaume, pour réunir un public tant royal que populaire, que les grands Mystères médiévaux, réalisés à ciel ouvert dans un théâtre
en rond, et récités dans ou devant des mansions ou sortes de loges aménagées
sommairement, selon les scènes qu’elles acceuillaient. À Paris, les Confrères de
la Passion, responsables de l’organisation de ces jeux, souvent dotés de “mises
en scènes” spectaculaires, durent se transporter sur la scène plate de l’Hôtel de
Bourgogne après l’interdiction légale des mystères en 1548. Par indigence, ils
n’ont rien fait pour que le théâtre en salle s’améliorât : ils installèrent le décor
à compartiments, hérité des mansions, et ne connurent jamais, en matière de
lumière, que des lampions fumeux.
Il nous a donc fallu importer deux reines florentines puis un cardinal-nonce-ministre pour que cet art de la scène prenne son splendide essor.
C’est en effet, avec l’Entrée de Catherine de Médicis et Henri II à Lyon, le
27 septembre 1548, qu’un public français découvrit la scène à l’italienne avec
La Calandria de Bibbiena qui avait été jouée à Urbino en 1513, à Rome en
94
LA LUMIÈRE ET LE TEMPS SUR LA SCÈNE BAROQUE
1514 et 1515, avec une scénographie de Peruzzi et le décor de l’Urbs romaine,
à Mantoue en 1521, avec une salle à l’antique décorée des Triomphes de César
de Giulio Romano. À Lyon, le « magnifique cardinal de Ferrare, primat des
Gaules et archevêque de Lyon » (Brantôme), Hyppolite d’Este, avait fait aménager une salle à grand frais et invita une troupe florentine et son décorateur
pour la représentation de cette œuvre célèbre. Le décor perspectif, tel que l’on
n’en avait jamais vu, représentait Florence pour flatter la reine, et cela émerveilla le public français qui se crut à Florence, étant assis à Lyon. Mais ce qui
l’émerveilla plus encore fut la traversée de la scène par l’Aurore sur un char
tiré par deux coqs de carton superbement emplumés et qui chantaient en se
répondant, tandis que le char s’élevait. Puis arrivaient Apollon et les Quatre
Âges de l’humanité pour introduire quatre intermèdes, et la comédie s’achevait
par l’entrée de la Nuit sur son char tiré par deux hiboux. Pittoresques et spectaculaires, ces chars de l’Aurore et de la Nuit étaient importants dramatiquement puisqu’ils marquaient avec la naissance et la tombée du jour, le début et
la fin de la comédie, à une époque où, comme je le disais au commencement,
les humanistes commentaient la Poétique d’Aristote.
Enfin, presque un siècle après La Calandria, en 1635, s’ouvrit à Paris un
théâtre public nouveau, pas encore vraiment à l’italienne, appelé le Marais ; il
comportait deux scènes, une grande dessous, avec un plancher incliné, et une
autre scène, plus petite, au-dessus. Pour la représentation de la Médée de Corneille, le décor utilisait des coulisses perspectives, peignant un palais à l’antique, et au dénouement de la tragédie, surgissait, sur la petite scène masquée
de nuées, le char de Médée tirée dans le ciel par deux dragons. Toutefois, après
cette tentative baroque, le théâtre tragique, héroïque, de Corneille fut un théâtre
de la virtù romaine, rapporté en vers sonores et martelés : la tragédie française
était un théâtre de la parole, avec des effets élocutoires que renforçait une déclamation pompeuse et cadencée. Pourtant, à la demande de Mazarin, Corneille retourna à la tragédie “à machines” et composa une Andromède jouée en
1650, avec une mise en scène de Torelli. Si d’ordinaire l’action spectaculaire
conduisait aux machines, ici ce furent les machines dispendieuses de l’Orfeo de
Rossi, chanté, trois ans plus tôt, dans le théâtre du Palais-Cardinal, qui dictèrent l’invention ; le poète écrivait dans l’Argument de l’œuvre que c’était « un
drame fait pour les yeux. »
Le théâtre de son rival, Racine, dans la seconde moitié du XVIIe siècle, fut
au contraire, un théâtre dont seules la rhétorique et la poésie suggèrent toutes
les nuances des passions humaines et de leurs fantasmes, un théâtre de l’hypotypose qui exaspère la vision de l’esprit, les yeux du “dedans”, non ceux du
“dehors” fascinés par les machines de la scénographie. Par exemple, quand le
jeune Néron, dans Britannicus, évoque l’enlèvement nocturne de Junie à la lumière des flambeaux, cela est sans doute infiniment plus efficace pour toucher
95
FRANÇOISE SIGURET
l’âme du spectateur que la vision de Zeus descendant des cintres dans une machine éclatante conduite par un aigle, pour ravir une nymphe qui danse dans
un pré avec ses compagnes ! Dans la tragédie classique, le support discursif
doit compenser le spectacle constitué par les éléments du décor qui trompent
l’œil captif et surpris : toute la construction de la scène et l’implantation des
châssis par l’artifice illusoire de la perspective, la peinture desdits châssis, et les
effets des machines ne sont bien que des trompe-l’œil. Dans les deux cas, la
lumière primordiale demeure comme condition impérieuse d’une mimesis, mais
ce qui change c’est la représentation de la lumière comme condition circonstantielle, particulière, d’une sémiosis, le donné à voir étant finalement un donné
à entendre. Chez Racine l’œil écoute, comme disait Claudel et l’image se creuse
dans le texte, au rythme régulier, envoûtant de la déclamation de l’alexandrin ;
dans le spectacle des machines, l’œil est sidéré et l’image se fige dans un éclat ;
c’est un théâtre de la merveille. Seul le mouvement, le changement fera sens,
ficelé par un livret assez mince et une musique expressive. Chez Racine, c’est
le sens qui nous laisse méditer sur les passions de l’homme dans l’Histoire : à
cela la piètre ordonnance de la luce suffit.
Enfin, ajoutons que dans la fable mythologique du spectacle baroque, nous
sommes instruits du sens par l’Allégorie, cet autre discours adressé au public, porté
par des figures et la multiplicité imprévue, désordonnée des lumi, dans une sorte
de mouvement perpétuel des créatures et des choses entre le Ciel et la Terre,
où finalement le temps humain n’est rien, ni l’Histoire. Si le cycle des jours et
des nuits, des mois, des saisons, des années, si les Heures et les minutes mêmes
envahissent la scène, de façon invraisemblable, ce n’est pas pour contraindre
une action qui ne se raconte que par les forces mouvantes des dieux, et des Allégories, mais c’est, d’une part, pour montrer la grandeur et l’immortalité du
prince (Cosimo/cosmo est le même mot), et d’autre part, pour faire tourner
et montrer la machine du monde dans sa moindre précision et s’assurer de son
mouvement perpétuel. Ainsi l’on voit au musée des sciences de Florence de
formidables machines rondes à manivelles, entre les astrolabes et les lunettes,
de Vespucci à Galilée, offertes comme des théâtres prêts à s’ébranler.
Les deux gloires médicéennes retournent alors de l’Histoire au mythe,
entre les songes d’Endymion de Cini et ceux du Guerchin : au XVIIe siècle,
la science, la poésie, la peinture, le spectacle sont autant de machines à rêver
et à explorer le monde et la nuit, comme pour se rassurer : « Eppur si muove ! »
À l’époque où l’on redécouvrira l’héliocentrisme, la rationalisation de la pensée ramènera le soleil, premier moteur de la fable du monde, dans l’espace de
la fable théâtrale. Dans le microcosme humain, l’Histoire n’aura de sens qu’à
partir de ce soleil souverain et le mouvement perpétuel de la terre autour de
lui. Le temps n’est qu’un accident de la lumière.
96
Paologiovanni Maione
«IL POSSESSO DELLA SCENA»:
GENTE DI TEATRO IN MUSICA TRA SEI E SETTECENTO
Il parnaso degli artisti dediti all’arte canora è affollato da sedicenti creature
prive di magistero e professionalità, secondo una disparata documentazione seisettecentesca i virtuosi di voce sono sprovvedute creature che proditoriamente
calcano le sacre tavole.1 Sbandate e smarrite sembrano aggirarsi in uno spazio
che violentano, con la loro vituperosa presenza, con il solo fine di raggirare
un pubblico ‘distratto’. Al centro dell’ignominiosa accusa sono, naturalmente, le esponenti del gentil sesso che fomentano un’inarrestabile immaginazione tesa a screditare l’Arte a vantaggio di interessi tutt’altro che leciti messi in
pratica dalle belle ‘sirene’ dal discutibile canto.2 Al di là dell’idolatria per un
1. Sulla figura del cantate si vedano, tra l’altro, gli scritti di S. Durante, Il cantante, in Storia
dell’opera italiana, a cura di L. Bianconi e G. Pestelli, iv. Il sistema produttivo e le sue competenze,
Torino, EDT, 1987, pp. 347-415 e J. Rosselli, Il cantante d’opera. Storia di una professione (16001990) (1988-1989), trad. it. a cura di P. Russo, Bologna, il Mulino, 1993, corredati di ricca e
utile bibliografia. Le donne dedite allo spettacolo erano assiduamente oggetto di fiere critiche
come può evincersi dalla ricca documentazione presente in F. Taviani, La Commedia dell’Arte e
la società barocca. La fascinazione del teatro, Roma, Bulzoni, 1969 (rist. anast. ivi, 1991).
2. Una disamina sui costumi e la professionalità delle cantanti in età moderna, in area napoletana, si delinea attraverso le pagine di B. Croce, I teatri di Napoli. Secolo XV-XVIII, Napoli,
Luigi Pierro, 1891, passim (l’opera è stata più volte ristampata, con aggiunte e modifiche, presso
la casa editrice Laterza di Bari; della quarta ediz. si è avuta una ristampa a cura di G. Galasso
presso Milano, Adelphi, 1992); U. Prota-Giurleo, Breve storia del teatro di corte e della musica a
Napoli nei secoli XVII-XVIII, in F. De Filippis e U. P.-G., Il teatro di corte del palazzo reale di Napoli,
Napoli, L’arte tipografica, 1952, pp. 17-146; F. Cotticelli e P. Maione, «Onesto divertimento,
ed allegria de’ popoli». Materiali per una storia dello spettacolo a Napoli nel primo Settecento, Milano,
Ricordi, 1996, pp. 179-192; P. Maione, Giulia de Caro «seu Ciulla» da commediante a cantarina.
Osservazioni sulla condizione degli «Armonici» nella seconda metà del Seicento, «Rivista italiana di
musicologia», xxxii, 1997, 1, pp. 61-80; Id. e F. Seller, Vita teatrale a Napoli tra Sette e Ottocento
attraverso le fonti giuridiche, in Salfi librettista, a cura di F.P. Russo, Vibo Valentia, Monteleone,
2001, pp. 83-95; P. Maione e F. Seller, I virtuosi sulle scene giuridiche a Napoli nella seconda metà del
Settecento, in Fonti d’archivio per la storia della musica e dello spettacolo a Napoli tra XVI e XVIII secolo,
a cura di P. M., Napoli, Editoriale Scientifica, 2001, pp. 477-486; Id., «Mena vita onestissima»: le
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 97-108
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18363
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
© 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License
(CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original
author and source are credited.
PAOLOGIOVANNI MAIONE
esclusivo gruppo di ammirate cantatrici dall’inarrivabile perfezione belcantistica – un olimpo serialmente abitato da adamantine muse non sempre dalle
specchiate virtù morali –3 il mondo della scena armonica è popolato da orecchianti alla ricerca di favori e agiatezze da ottenere con poco sudore. La lunga
ombra del meretricio le investe inesorabilmente e la leggerezza dei costumi è
il marchio che suggella questo esercito di inadeguate canterine: sono questi i
requisiti che comunque rendono ‘sorelle’ tutte coloro che intraprendono l’insidioso percorso della scena.4 Le virtù luciferine sembrano trionfare su quelle
artistiche e la stessa letteratura per la scena si ostina ad accreditare un mondo affollato da vacillanti artiste, il noviziato delle commedianti si esaurisce in
pochi precetti tra cui quello musicale sembra arrestarsi dinanzi a una generica
propensione all’arte canora.
La librettistica settecentesca racchiude preziose istruzioni per quell’esercito di fanciulle abbagliate dagli agi teatrali, le qualità performative hanno poco valore al cospetto di un ‘personale’ vivace e spiritoso. Eppure la fanciulla
disegnata da Trinchera ne La simpatia del sangue mostra una crepa nell’abusata
visione se con modestia ostenta una certa preparazione destinata più che alla scena teatrale a quella del mondo; Nina alle osservazioni di Checchino sui
costumi del tempo risponde con grande sapienza:
Checchino […] oggi per le femine
il ballo è uno elemento necessario,
per far cascare al vischio
cotesti mattarelli Ganimedi,
che stimano virtù torcere i piedi.
Nina Checchino mio, chest’è la dota nosta,
e mperzò da che nasce ogne ciantella,
vo’ lo Masto d’abballo, e de Cappella.
Checchino E che saprai tu ancora solfeggiare?
Nina Saccio, quanto me vasta, pe no spasso.5
cantarine alla conquista della scena, in Dibattito sul teatro. Voci, opinioni, interpretazioni, a cura di C.
Dente, Pisa, ETS, 2006, pp. 123-134; P. Maione, Giulia de Caro: from whore to impresario. On
cantarine and Theatre in Naples in the second half of the Seventeenth Century, in Online-Tagungsbericht
zum Symposium: Das Eigene und das Fremde - Beziehungen zwischen verschiedenen Musikkulturen,
Universität Innsbruck, Österreich, a cura di K. Drexel e R. Lepuschitz, 2013 (http://www.uibk.
ac.at/musikwissenschaft/forschung/publikationen/daseigene/maione.pdf. Ultimo accesso: 20
dicembre 2015); P. Maione, Gli impieghi delle virtuose tra alcova e palcoscenico, in corso di stampa.
3. Si veda ad esempio B. Croce, Un prelato e una cantante del secolo decimottavo. Enea Silvio
Piccolomini e Vittoria Tesi. Lettere d’amore, Bari, G. Laterza & F., 1946.
4. Cfr. S. Di Giacomo, La prostituzione in Napoli nei secoli XV, XVI e XVII, s.l., Del Delfino,
1968.
5. P. Trinchera e L. Leo, La simpatia del sangue, Napoli, A spese di Nicola di Biase, 1737, iii 7.
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GENTE DI TEATRO IN MUSICA TRA SEI E SETTECENTO
Le doti esibite da Nina in un’arietta esemplificativa del suo ‘modesto’ talento
inducono Checchino ad avviare un altro dialogo esemplare in materia di avviamento al palcoscenico:
Checchino Perché tu non t’adatti a recitare?
Nina Recetà? arrassosia!
Lo rrecetà è arredutto a na meserea
Pecché na Cantarinola
Ave da sta soggetta a ccierte ffuorfece,
Che non sanno la storta, e la deritta,
E metteno lo piecco a ttutte quante.
Io recetare? leva, passa nnante.
Checchino Alle chiacchiare badi?
[…]
Ch’il cantar sul Teatro è gran fortuna.
Nina Pecché?
Checchino Perché così fra gl’Ascoltanti
Le femine ragunano gl’Amanti;
Vedi quante tapine
Si sono poste in salto, e in signoria
Solo per dire un’aria in su la Scena,
Vedi quante figliole, uscite appena,
Pelano Cicisbei… oh fossi io donna,
Che averei l’abiltà,
Di spogliar tutta intiera una Città.
Nina T’aggio creddeto a chesto, e se io avesse
No po’ de scola toja, potria fa assaje,
Ma io songo na locca.
Checchino
Non importa,
Nina mia, il Teatro è una gran scuola:
Tu sei bella figliola,
Non mancheranno chi portarti avanti,
Chi sbatterti le mani,
Chi dirti viva, e bravo,
Bravo tre volte, bravo cento volte,
Oh cara… oh figlia, e all’ora
Affacciar ti potrai dentro le Scene,
Per vedere l’applauso da chi viene.
Nina Già mme ne faje venire lo golio.
Checchino Recita, che sarà la tua fortuna,
Innamorar farai mille merlotti.6
6. Ibid.
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PAOLOGIOVANNI MAIONE
La sorte del cavalcar la scena per ‘raccogliere’ privilegi da cavalieri in preda a tempeste ormonali occulta il magistero di molte che probabilmente dissimulano l’arte per pudore o per assecondare la visione dei più. Tra le stelle
del firmamento canoro a subire infamie sull’inadeguatezza tecnica spicca nella
seconda metà del Seicento l’intraprendente «Commediante Cantarinola Armonica, Puttana» Giulia de Caro che solo grazie alle pagine musicali destinatele trova il giusto riscatto.7 La riabilitazione della bistrattata artista è possibile
grazie a quel repertorio dichiaratamente affrontato sulle scene, luogo in cui
era impossibile millantare o mentire. Ciulla dalla formazione assai complessa
che si consuma tra il Largo di Castello, in un clima coloratamente oleografico
e foscamente inquietante, e la città eterna, in un misterioso tirocinio, è dedita
sia alla pratica di attrice che a quella di canterina. L’esperienza da commediante
è da ascriversi a un ruolo marginale all’interno di una gerarchia professionale: la de Caro esercita il lavoro di commediante al Largo di Castello, attirando con la sua arte avventori per i medici ciarlatani. Dunque il suo ruolo di
commediante sembra esaurirsi in un’esperienza irrilevante, non comparendo,
almeno per il momento, al seguito di compagnie di professionisti. È poi la ricerca di un’ufficialità professionale che la spinge a compiere il salto di qualità
nel mondo del belcanto. I lunghi viaggi intrapresi per Roma portano a formulare l’ipotesi di un pellegrinaggio verso un addottrinamento nell’arte del
canto; l’Urbe santa è la fucina di una schiera di cantanti provette e la de Caro
compie il suo percorso di virtuosa presso questo laboratorio canoro. L’esibita
competenza tra scene dissimili comporta un’esperienza performativa decisamente variegata e non del tutto eccezionale.8
La tecnica vocale di molti è forgiata nel corso di un apprendimento ancora
dai risvolti misteriosi ma segnato, da quanto si sa, da un itinerario formativo
scrupoloso; un ruolo non secondario, ha negli ambienti settecenteschi della
commedia per musica, il maestro di cappella Giovanni dell’Anno che lega a
sé diversi interpreti con contratti che prevedono una sua partecipazione negli
utili dei propri discenti anche se non è da escludere un suo coinvolgimento
7. Per Giulia de Caro si rinvia a A. Broccoli, Del Fuidoro e del Muscettola, «La Lega del
Bene» i, 1886, 10 (pp. 4-7), 11 (pp. 7-8), 12 (pp. 6-8), 13 (pp. 5-6), 14 (p. 8), 15 (pp. 5-6);
Croce, I teatri di Napoli, cit., pp. 167-180; U. Prota-Giurleo, I teatri di Napoli nel ’600. La
commedia e le maschere, Napoli, Fiorentino, 1962, pp. 293-303; Di Giacomo, La prostituzione in
Napoli, cit., pp. 147-153; Maione, Giulia de Caro «seu Ciulla», cit.; Id., Giulia de Caro: from whore
to impresario, cit.; Id., Giulia de Caro «Famosissima Armonica» e ‘Il bordello sostenuto’ del signor don
Antonio Muscettola, Napoli, Luciano, 1997.
8. A tal proposito si veda F. Cotticelli e P. Maione, «Abilitarsi negli impieghi maggiori»: il viaggio dei comici fra repertori e piazze, in Europäische Musiker in Venedig, Rom und Neapel
(1650-1750), a cura di A.-M. Goulet e G. zur Nieden, «Analecta Musicologica», 2015, 52, pp.
326-346.
100
GENTE DI TEATRO IN MUSICA TRA SEI E SETTECENTO
attivo nell’arruolamento degli allievi presso le sale cittadine.9 La bottega canora di dell’Anno mostra sempre più le sue ingerenze con le imprese teatrali che
vanno dall’assumersi in prima persona le responsabilità dei suoi protetti – è il
caso di Andrea Masnò per il quale si obbliga a restituire l’onorario «in caso di
mancanza» –10 sino alla preparazione dei ruoli che interpreteranno impartendo loro lezioni – è questo il caso, ampiamente documentato, di Teresa Palma
dalla quale percepisce il cinquanta per cento dei suoi proventi.11
La convenzione intercorsa tra il virtuoso Nicola de Simone e l’adepta Maria
Antonia da Ponte, che usufruisce gratuitamente di lezioni per quattro anni,
prevede per la cantante l’obbligo di devolvere al maestro gli eventuali onorari che percepirà nel lasso del quadriennio dalle pubbliche rappresentazioni.12
Allo stesso criterio remunerativo si ispira il patto a cui pervengono Rosa Rogas e Paula Fernandez per Giuseppa Fernandez sempre con dell’Anno: al fine
9. Informazioni su dell’Anno si desumono da Cotticelli e Maione, «Onesto divertimento,
ed allegria de’ popoli», cit., p. 188; Id., Le carte degli antichi banchi e il panorama musicale e teatrale della
Napoli di primo Settecento: 1732-1733, «Studi pergolesiani. Pergolesi Studies», 2006, 5, p. 50, con
cd-rom allegato (Spoglio delle polizze bancarie di interesse teatrale e musicale reperite nei giornali di cassa
dell’Archivio del Banco di Napoli per gli anni 1732-1734), passim.
10. Cfr. Cotticelli e Maione, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», cit., p. 188.
11. Si veda Spoglio delle polizze bancarie di interesse teatrale e musicale reperite nei giornali di
cassa dell’Archivio del Banco di Napoli per gli anni 1726-1737, progetto e cura di F. Cotticelli e P.
Maione, «Studi pergolesiani. Pergolesi Studies», 2015, 9, cd-rom: Archivio storico del Banco di
Napoli, Banco di San Giacomo, giornale copiapolizze, matricola 779, partita estinta il 28 febbraio
1731 («A Francesco Fischetti duc. venti.1.5; E per esso a Carlo, e Teresa Palma Padre, e Figlia, et
essi sono à compimento de duc. Cento, che l’altri per detto complimento l’ave ricevuti in più, e
diverse volte, et essi duc. Cento sono metà delli duc. 200= li spettano per aver favorito in recitare nel Teatro nuovo nelle passate quattro opere fatte in detto Teatro dal mese d’Aprile 1730=
per tutto l’ultimo del passato Carnevale del Corrente anno 1731=, che l’altri duc. 100= per
detto compimento spettano pagarsi a Giovanni dell’Anno, come appare dall’istromento rogato
per mano di Notar Francesco Antonio d’Atri di Napoli, benche detto dell’Anno ne hà ricevuti
d’essi duc. 11.25= per mano di Carmine Perillo, con dichiarazione che detta Teresa resta intieramente sodisfatta si per detta Causa, come anche per l’abiti, scarpe, calzette, ed altro occorso
in detta recita di dette quattro opere; […] E detto pagamento lo fà in nome, e parte di Giovanni
Fischetti Impressario di detto Teatro») e ivi, matricola 1031, partita estinta il 27 marzo 1732
(«A Pietro Antonio Torres d. diecisette 2.10 e per esso all’appaldatore del Teatro Nuovo sopra
Montecalvario a complimento di d. 120 […] e [per esso] a Carlo e Teresa di Palma e sono a conto
dell’onorario che […] si deve a detta Teresa per la quarta recita delle quattro opere dalla medema
appresentate [sic] nel Teatro Nuovo di questa città terminata nel scorso Carnevale corrente anno
1732 […] e per essi a Giovanni dell’Anno maestro di Cappella e sono a complimento del terzo
che a lui spetta del’onorario di essa sudetta Teresa della quarta opera da essa rappresentata nel
Teatro Nuovo nel Carnevale del corrente anno 1732 intitolata lo Castello Saccheiato […] e con
detto pagamento resta detto Giovanni intieramente sodisfatto così di detta quarta opera come
del altre tre rappresentate da essa in detto Teatro»).
12. Cfr. Cotticelli e Maione, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», cit., p. 188.
101
PAOLOGIOVANNI MAIONE
di proseguire le lezioni «per darsi poi alle recite de Teatri tanto in questa città
di Napoli quanto fuori»,13 si promette «la mettà di tutto il lucro […] di quello
pervenirà da venti opere diverse, che doverà detta Giuseppa recitare», con una
particolare assistenza alla prima recita.14 Comunque coloro che decidevano di
votarsi alla commedia sapevano che
Nce vuol’autre che mutrea, e bona voce.
[…]
Nce vo’ talento, pratica,
Grazia ne’ gesti, portamento proprio
Nel maneggiar gli affetti: ove bisogna
Usar caricatura, ed isfugirla
Ove raffredda; e finalmente agire
Coi movimenti degli occhi, e del volto.15
La girandola di competenze elencata ne La commediante rivela la sopraffina conoscenza detenuta dai cantanti del tempo, talvolta provenienti da esperienze
acquisite in altre ‘botteghe’. Al teatro della Pace di Napoli nella stagione 17451746 compare nel ruolo di prima donna Anna Cavalluccio che nella stagione successiva sarà in forze al Fiorentini nella «Compagnia de’ Comici» diretta
dal capocomico Domenico Antonio di Fiore che all’improvvisa alterna alcuni
‘Componimenti Drammatici per Musica’; la prima donna si esibisce con una
troupe in cui gli altri comici si cimentano nel genere musicale mostrando così
la labile linea di demarcazione tra i due ambiti spettacolari.16 Probabilmente
anche Laura Monti – dalle eclettiche competenze come segnalato dal contratto stilato nel 1727 con l’impresario del teatro dei Fiorentini in cui si richiede
all’artista di «Recitare in musica, e fare la parte da servetta […], e […] fare tutti quelli stravestimenti, che respettivamente necessiteranno […], et ogn’altro,
così d’huomo, come da donna, e così di scherma, come di ballo, e sonare» –17
13. Ibid.
14. Ibid.
15. Anonimo e N. Conforto, La commediante, Napoli, Carlo Cirillo, 1754, i 3.
16. Per la presenza della cantante nella compagnia cfr. il sito http://www.operabuffa.turchini.it dove sono riportati i libretti in cui compare tra le interpreti: http://www.operabuffa.
turchini.it/operabuffa/libretti/Giancocozza-0.jsp e http://www.operabuffa.turchini.it/operabuffa/libretti/FraLoSdegno-0.jsp (ultimo accesso: 15 dicembre 2015). Su di Fiore si veda: F.
Cotticelli, Neapolitan Theatres and Artists of the Early 18th Century: Domenico Antonio Di Fiore, in
Theater am Hof und für das Volk. Beiträge zur vergleichenden Theater-und Kulturgeschichte. Festschrift
für Otto G. Schindler, a cura di B. Marschall, Vienna, Böhlau, 2002 («Maske und Kothurn»,
48. Jahrgang, Heft 1-4), pp. 391-397.
17. La testimonianza si legge nell’incartamento conservato all’Archivio di stato di Napoli,
Affari diversi della Segreteria dei Viceré, fascio 1778, executado 16 ottobre 1727.
102
GENTE DI TEATRO IN MUSICA TRA SEI E SETTECENTO
poi passata da questa giovanile specializzazione nei ruoli di ‘servetta’ – carriera coronata dall’incursione sulle tavole regie nell’indelebile figura della Serpina pergolesiana de La serva padrona di Gennaro Antonio Federico – a quella
di ‘primo uomo’ –18 che sicuramente richiese una rimodulazione della propria
vocalità e una riformulazione delle proprie attitudini sceniche –, propone un’ignota nascita al mestiere: nel ’27 dichiarava di avere una lunga consuetudine
con la pratica teatrale e dai repertori risulta presente in appena tre produzioni
tra il ’22, in cui apparve come Schiavottella ne’ Li zite ngalera, e l’anno della
sua dichiarazione sulla militanza scenica,19 per cui bisogna ipotizzare la comparsa non documentata sia in compagnie armoniche – ma a tutt’oggi non trapela un simile coinvolgimento – che in quel misterioso mondo dell’Arte assai
avaro di testimonianze palesi. Di maestranze duttili e ‘conversioni’ alle dissimili pratiche teatrali è costellato questo primo scorcio del Settecento, ballerine rivelatesi cantanti – si rammentano almeno Antonia Novara che appare
inizialmente sotto l’egida di Tersicore (di sicuro nel 1734)20 per poi votarsi a
Euterpe come si deduce dai libretti del ’38 quando al Nuovo appare ne Lo secretista e ne La Rosa e poi al Fiorentini nel ’42-’43,21 e Girolama Lori anch’essa danzatrice conclamata nel 173522 ma prima ‘sirena’ al Fiorentini dal 1731 al
1733 e nel ’32 al Nuovo –23 e commedianti in bilico tra canto e prosa mostrano uno spaccato alquanto insolito.
Esemplare, in questo panorama di contaminazioni e migrazioni, appare la
«compañía de Trufaldines» organizzata a Venezia dall’ambasciatore spagnolo
Pedro Cebrián y Agustín conte di Fuenclara per volontà di Carlo di Borbone da poco insediatosi sul trono delle due Sicilie:24 nell’agosto del 1735 inizia
un’articolata trattativa tra il ministro Montealegre e il diplomatico in stanza
nella Serenissima per provvedere ai desiderata del giovane monarca per il quale
in tempi strettissimi viene allestita una ‘musicalissima’ «Com.a de Histriones»
18. Cfr. A. Palomba e L. Leo, La fedeltà odiata, Napoli, a spese di Domenico Langiano,
1744, in cui compare nei panni di Rinaldo.
19. Cfr. C. Sartori, I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800, Cuneo, Bertola & Locatelli,
1990-1992, 5 voll., nn. 25412, 5480, 6713.
20. Cfr. Cotticelli e Maione, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», cit., pp. 182 e
222 nota 122.
21. Si veda Croce, I teatri di Napoli, cit., p. 365, nonché Sartori, I libretti, cit., nn. 21417,
20134, 2784, 19791.
22. Cfr. Cotticelli e Maione, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», cit., p. 222 nota
122.
23. Si veda ivi, pp. 379-381 e 388.
24. L’articolata trattativa è documentata all’interno del fondo Ministero degli affari esteri custodito presso l’Archivio di stato di Napoli, fascio 2215, il primo incartamento è datato Napoli,
16 agosto 1735.
103
PAOLOGIOVANNI MAIONE
diretta dal grande Arlecchino Gabriele Costantini che nella vorticosa contrattazione reclama che il «Rey […] les ha de dar la iluminaz.n y musica». D’altronde già si concordava sulla presenza «enla Comp.a delos Comicos […] otras
personas que hazen su parte en los entremeses de Musica» per cui l’orchestra
avrebbe soddisfatto non solo le esigenze sceniche delle «comedie e opera» ma
anche quelle degli artisti destinati a esibirsi negli intermezzi.25 La troupe, come si apprende da una prima lista, è così composta:
La compagnia, che Esebisce Gabriele Constantini per Servizio di S. M. Re delle
Sicilie si è come Segue.
P.ma Donna la Sig.a Cattarina Cattoli
2.a Donna la Sig.a Madalena Vidini
3.a Donna la Sig.a _ _ _
P.mo Amoroso il Sig.r Zorlini
2.° Amoroso il Sig.r Gandini
3.° Amoroso Il Sig.r _ _ _
P.mo Vecchio Il Sig.r Antonio Fioretti
P.mo Zanne Il Sig. Andrea Neleca
2.° Vecchio Il Sig.r Giuseppe Monti
2.° Zanne Il Sig.r Gabriele Constantini
Per Intermezzi
La Consorte del Sud.to Sig.r Gandini
Il Sig.r Andrea Nelva
Ballarino
Il Sig.r Antonio Constantini.26
Nel 1732 a Livorno coinvolti ne Il trionfo di Galba o Il Nerone detronato,27
«divertimento teatrale per musica», sono la primadonna Cattoli come Poppea,
Antonio Fioretti nel ruolo di Nerone, Giuseppe Monti in quello dell’Ombra
e Andrea Nelva nella parte di Tiridate; quest’ultimo appare anche impiegato,
l’anno precedente, a Lodi come Astolfo ne Il Coralbo («Drama per musica» di
Francesco Spanò detto Silvio su musica di anonimo)28 e nel ’35 a Milano ne
Il Porsignacco.29 Sorprendente invece è la vita scenica di Teresa Gandini30 – annotata come «Consorte del Sud.to Sig.r Gandini» – la quale risulta scritturata
25. Cfr. ivi, incartamento 169, Napoli, 20 settembre 1735.
26. Cfr. ivi, incartamento 174, Napoli, 4 ottobre 1735.
27. Cfr. Sartori, I libretti, cit., n. 23988.
28. Cfr. ivi, n. 6646.
29. Cfr. ivi, n. 15910.
30. Sull’artista si veda la scheda contenuta nell’aggiornatissimo portale dell’Archivio
Multimediale degli Attori Italiani all’indirizzo amati.fupress.net - http://amati.fupress.net/
S100?idattore=1896 (ultimo accesso: 15 agosto 2015).
104
GENTE DI TEATRO IN MUSICA TRA SEI E SETTECENTO
nel ’33 a Livorno dove veste i panni di Pollastrella negli Intermezzi musicali tra
Pollastrella e Parpagnacco,31 nel 1734-1735 a Milano in quelli di Dulcinea in un
anonimo Intermezzo musicale32 e di Grilletta ne Il Porsignacco,33 per poi vestire
nel 1738, a Napoli, come primo uomo, le vesti di Riccardo nell’Inganno per
inganno («Commedia per musica» di Gennaro Antonio Federico e musica di
Nicola Logroscino)34 e di Lelio ne L’Odoardo («Commedia per musica» tratta
da La finta sorella di Bernardo Saddumene intonata da Niccolò Jommelli)35 e
ancora di Ortensio nel ’39 ne L’Ortensio («Commedia per musica» di Federico musicata da Giovan Gualberto Brunetti),36 e nel ’44 di Leandro ne Il Leandro («Commedia per musica» di Antonio Villani composta da Logroscino).37
L’eclettica artista si voterà poi definitivamente alla scena della commedia incontrando sulla sua strada anche Goldoni prima di partire, forse proprio in
polemica con l’avvocato veneziano, per la corte di Dresda.38
La padronanza scenica enunciata dal proscenio del Fiorentini ne La comediante fa tesoro di un’antica pratica attoriale che aveva trovato già in Perrucci il suo
maggiore cantore, le regole dell’Arte rappresentativa non sfuggono ad un’attenta
disamina di tutti quei requisiti ‘corporei’ destinati al magistero rappresentativo
in cui l’individuo doveva avere la consapevolezza e il controllo del suo ‘agire’.39
La professione dei commedianti è retta da una ferrea tecnica per soddisfare
alle richieste dell’esigente mercato dello spettacolo, la domanda esige personale altamente specializzato munito di doti disparate: gestualità, mimica, vocalità, fisicità concorrono alla realizzazione di personaggi compositi dove canto
danza musica, associati ai requisiti performativi, contraddistinguono un prodotto eclettico e raffinato.
Gli artisti assecondano le temperie performative disegnate da Perrucci al
tramonto del XVII secolo con vigile attenzione osservando le regole dell’‘arte’
31. Cfr. Sartori, I libretti, cit., n. 13435.
32. Cfr. ivi, n. 13462.
33. Cfr. ivi, n. 15910.
34. Cfr. ivi, n. 13182.
35. Cfr. ivi, n. 16896.
36. Cfr. ivi, n. 17567.
37. Cfr. ivi, n. 14166.
38. Cfr. S. Ferrone, La Commedia dell’Arte. Attrici e attori italiani in Europa (XVI-XVIII
secolo), Torino, Einaudi, 2014, pp. 220, 345.
39. Per il trattato si veda A. Perrucci, Dell’arte rappresentativa premeditata, ed all’improvviso.
Giovevole non solo a chi si diletta di rappresentare, ma a’ predicatori, oratori, accademici e curiosi. Parti
due […], Napoli, M.L. Mutio, 1699, ma si veda ora Id., A Treatise on Acting, From Memory and
by Improvisation - Dell’arte rappresentativa premeditata, ed all’improvviso (Napoli 1699), edizione bilingue a cura di F. Cotticelli, T. F. Heck e A. Goodrich Heck, Lanham, Md. & London,
Scarecrow Press Inc., 2008.
105
PAOLOGIOVANNI MAIONE
nei minimi dettagli, nulla sfugge ai poeti ‘pratici’ pronti a secondare le efficaci norme dettate dall’autorevole abate la cui vita è trascorsa tra tutte le scene possibili in un viaggio che si conclude con la summa teorica;40 dissimulano
una conoscenza raffinata tutta racchiusa in un’esperienza che si manifesta nelle pieghe testuali, la mimica e la gestualità suggerite dal succedersi dei versi
rivela implicite didascalie per corpi eloquenti finalizzate a un ‘diletto’ onnicomprensivo che «con la pronuncia, gesti, ed azzioni»41 esprima «i sentimenti
dell’animo a chi ascolta, con modo, e garbo, avendo gran forza di persuadere
l’espressione al vivo».42
«La pronunciazione è una eloquenza del corpo […] divisa in due parti, che
sono la voce ed il gesto, delle quali una per l’orecchio, l’altra per l’occhio movono gli affetti dell’animo, e vi penetrano»43 raccomanda il ‘dottor Andrea’
che con sicuro piglio aggiunge che «il gestire accompagnando la voce, come
è proprio dell’oratore, così è anche del rappresentante, che poco in ciò dall’oratore differisce, ed essendo il gestire un muto parlare, alle volte più esprime
un atto muto ed un gesto che la parola istessa».44
Le occorrenze, per coloro che calcano il teatro del mondo ma soprattutto
per quelli che approntano il loro apparire, devono tener conto di quei principi
impliciti che rendono efficace il ‘mostrarsi’ con ‘sprezzatura’ per cui «il volto
si muta con gli affetti, a cui obbediranno gli occhi, le palpebre, le guance, le
ciglia, e la bocca; la maggior espressione però la faranno gli occhi. Le ciglia
sono viziose allora che stanno sempre immobili, e viziose quando troppo si
muovono, sicché la mediocrità l’è necessaria; incurvarle ed increspar la fronte
si fa negli atti di meraviglia, ma con modo che non ecceda i termini, perché
allora o è cosa da stolto, o da buffone; ristrette significano mestizia, dilatate
allegrezza, rimesse vergogna, ed il sopraciglio del decemviro Capuano dimostrava la sua severità e superbia»45 mentre «i gesti con tutte due le mani si fanno,
o quando s’inalzano al Cielo per adorarlo, o quando s’abbassano per supplica-
40. Su Andrea Perrucci si veda F.C. Greco, Teatro napoletano del ’700. Intellettuali e città
tra scrittura e pratica della scena, Napoli, Pironti, 1981; Id., Ideologia e pratica della scena nel primo
Settecento napoletano, «Studi pergolesiani. Pergolesi Studies», 1986, 1, pp. 33-72 (cfr. anche Id.,
La scrittura teatrale: dalla letteratura alla scena, «Critica letteraria», xiv, 1986, 51, fasc. ii, pp. 225274). Di grande suggestione è anche Id., Drammaturgia e scena a Napoli da Belvedere a Federico,
«Studi pergolesiani. Pergolesi Studies», 1999, 3, pp. 117-155. Si veda inoltre l’Introduzione di F.
Cotticelli a Perrucci, A Treatise on Acting, cit., pp. xii-xx e la bibliografia alle pp. 205-209.
41. Ivi, Parte i, Al lettore, p. 3.
42. Ibid.
43. Ivi, Parte i, Regola ix, p. 51.
44. Ivi, Parte i, Regola xi, p. 57.
45. Ivi, p. 58.
106
GENTE DI TEATRO IN MUSICA TRA SEI E SETTECENTO
re; quando si gestisce nel mezo si dimostra, e quando si distendono s’invoca»46
e «s’accompagni il gestire col verisimile, e nelle dimostrazioni, volendo dire
questi occhi, questa testa, etc. l’accenni, e non l’affetti toccandoli, ma con un
semplice moto di dita. Volendo dire “son ligato”, “son stretto”, “son cieco”,
medesimamente procuri d’accennarlo come di passaggio, perché l’affettazione deve come il fistolo e la rabbia sfuggirsi. Così dimostrando cielo, inferno,
mare, terra, alberi, e che so io, gli dia il gesto proporzionato».47
L’attenzione al dato performativo non sfugge neanche a colui che sarà messo, con malevolenza, all’indice da una genia di ‘riformatori’ della scena musicale; Metastasio con disappunto assiste alla degenerazione della scena – di cui
è accusato! – quando osserva con disprezzo le maestranze canore ormai poco
aduse all’arte attoriale:
I nostri eccellenti cantori vergognandosi d’assomigliarsi agli uomini, de’ quali prendono il nome, anelano unicamente di gareggiar con le calandre, coi zufoli e coi violini: e quando riesce loro di aver conseguito un sì grande oggetto, solleticano per
pochi momenti più con la meraviglia che col piacere l’orecchio e non il core degli
spettatori, obbligati poi ad evitare la noia di tutto il resto dello spettacolo con la disattenzione, coi cicalecci e con l’ingiurioso strepito meritato.48
«Deh non perdete, caro fratello, il calor naturale nel deplorar la decadenza de’
nostri teatri. Già è tale che o debbono finire o correggersi. Attori che suonano, invece di rappresentar cantando, non possono lungamente sussistere sulla scena. I buffi ed i ballerini che s’ingegnano oggidì di recitare ridurranno
in polvere cotesti rosignuoli inanimati, come già visibilmente succede».49 E
nell’elogiare una compagnia di comici, che ‘incanta’, pregusta «il piacere peccaminoso della vendetta contro i nostri rosignoli eroici che, vergognandosi di
recitare, sono spolverizzati dai buffi e da’ ballerini».50
In effetti negli anni in cui fioriva il magistero metastasiano c’era un nugolo di cantanti che fondava la propria perizia anche sulle doti performative; un
caso assai vicino a Metastasio è quello della Marianna Benti Bulgarelli – la sua
maniacalità sull’uso dello spazio scenico si deduce dall’epistolario del poeta ce46.
47.
48.
1954, 5
1764.
49.
1764.
50.
1764.
Ivi, p. 60.
Ivi, p. 61.
In Tutte le opere di Pietro Metastasio, a cura di B. Brunelli, Milano, Mondadori, 1943voll., lettera n. 1375, missiva inviata a Napoli a Giuseppe Santoro, Vienna, 26 marzo
Ivi, lettera n. 1360, missiva inviata a Roma a Leopoldo Trapassi, Vienna, 30 gennaio
Ivi, lettera n. 1387, missiva inviata a Roma a Leopoldo Trapassi, Vienna, 28 maggio
107
PAOLOGIOVANNI MAIONE
sareo.51 Ma esemplificativo di tale urgenza scenica appare il ritratto fornito da
Arteaga della primadonna Vittoria Tesi annoverata tra i più ‘celebrati cantori’:52
La prima fu Vittoria Tesi Fiorentina discepola del Redi, e del Campeggi, la quale ad
una inflessione di voce sommamente patetica, ad una intonazion perfettissima, ad
una pronunzia chiara, netta, e vivacemente sonora, ad un portamento di persona simile a quello della Giunone d’Omero seppe unire possesso grande della scena, azione mirabile, espressione sorprendente de’ diversi caratteri doti, che la resero la prima
Attrice del secolo.53
La scrittura vocale si plasma alle esigenze della ‘scena’ e diviene gesto ‘sonoro’ per una genia di artisti dalle molteplici potenzialità rette da una disciplina
solida e rigorosa in cui la scrittura poetico-musicale fa tesoro delle predisposizioni dei singoli per allestire pagine efficaci. Gli spettatori riconoscono gli
svariati codici usati con fantasmagorica abilità e entrano nel gioco ordito dagli
uomini della scena partecipando e godendo, così, dell’«onesto divertimento».
51. Per la Benti Bulgarelli si rinvia a R. Candiani, Pietro Metastasio da poeta di teatro a ‘virtuoso di poesia’, Roma, Aracne, 1998, ad indicem e Id., La cantante e il librettista: il sodalizio artistico
del Metastasio con Marianna Benti Bulgarelli, in Il canto di Metastasio, a cura di M.G. Miggiani,
Bologna, Forni, 2004, 2 to., to. ii, pp. 671-699.
52. Per la Tesi oltre Croce, Un prelato e una cantante del secolo decimottavo, cit., si rinvia ad A.
Ademollo, Le cantanti italiane celebri del secolo decimottavo: Vittoria Tesi, «Nuova antologia», xii,
1889, 3, pp. 308-327.
53. S. Arteaga, Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente,
Venezia, Carlo Palese, 1785, to. ii, p. 43.
108
Anna Scannapieco
I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO.
PRIMI APPUNTI
Alla Signora Angela Cicuzzi Comica, Ballerina,
e che si diletta ancora del Canto
Bene a te si conven d’Angelo il nome,
S’anco d’Angelo hai tu forme, e virtudi.
E se per belle vie fatiche, e sudi,
Merti cinte d’alloro aver le chiome.
[…]
Tu nell’arte di Roscio hai chiaro il vanto;
Tu leggiadretto il piè movi nel ballo:
Tu canora la voce isciogli al canto.
1. Correva il 1782, quando Francesco Bartoli, con questi versi sgangherati,
adempiva il suo ufficio plutarcheo anche nei riguardi di Angela Cicuzzi, nome a noi altrimenti oscuro, fra i moltissimi, altrettanto oscuri, che animarono
l’affollata fauna spettacolare settecentesca. L’afflato poetico suggellava, nel caso
specifico, la compilazione di una voce in cui il «Plutarco dei comici italiani»1
aveva già rimarcato – in prosa – come il nuovo Angelo delle scene veniva riscuotendo l’entusiastico plauso delle platee per la sua «molta inclinazione allo
studio dell’Arte Comica ed anche a quello del Ballo, e […] Canto».2 Al trittico
1. Così nella definizione di A. D’Ancona, Viaggiatori e avventurieri, Firenze, Sansoni, 1911,
rist. con prefaz. di E. Bonora, ivi, 1974, p. 109.
2. F. Bartoli, Notizie istoriche de’ comici italiani che fiorirono intorno all’anno MDL. fino a’
giorni presenti, Padova, Conzatti, 1782, to. i, p. 171 (rist. anast. Bologna, Forni, 1978). Angela era
figlia di Regina Cicuzzi (poi Mantovani e poi Marchesini) che, sempre a detta del Bartoli (ivi,
to. ii, p. 25), si formò nella celebre compagnia di Gabriello Costantini, su cui cfr. da ultimo F.
Doménech Rico, La Compañía de los Trufaldines y el primer teatro de los Caños del Peral, Madrid,
Universidad Complutense de Madrid, 2005, pp. 184-204 e passim; e in questa stessa sede editoriale v. lo scritto di P. Maione, «Il possesso della scena»: gente di teatro in musica tra Sei e Settecento.
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 109-128
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18364
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
© 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License
(CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original
author and source are credited.
ANNA SCANNAPIECO
di mescidate virtù performative, peraltro, doveva probabilmente aggiungersi
l’ulteriore risorsa di un trasformismo acrobatico, come suggerisce una fortuita scheggia documentaria rimasta racchiusa nelle memorie del Galeati, che in
data 20 gennaio 1790 veniva descrivendo l’offerta spettacolare della compagnia
allora attiva nel bolognese teatro Marsigli-Rossi. Qui, la primadonna – la nostra Angela – «vi faceva nove personaggi differenti, cantava, ballava, parlava in
spagnuolo, francese, tedesco, veneziano, latino e bolognese».3
Dunque, psaltria, musica e perita ludi scaenici: Angela Cicuzzi avrebbe ben
potuto rappresentare quel prototipo di faemina scaenica fomentatrice di insana
libidine, scortum per eccellenza, il cui ritratto, nei primi decenni del Seicento,
era stato disegnato dallo sguardo acuto di un gesuita spagnolo.4 Eppure no: comediante, canterinola, armonica, ma non puttana,5 la Cicuzzi. Siamo pur sempre
al traguardar del secolo dei lumi, e un’attrice così versatile, «un buon ingegno»
che – secondo l’accorto elogium del Bartoli – «si applica volentieri alla lettura
de’ libri onesti», poteva sorprendere gli spettatori del tempo soprattutto con la
«bontà dei suoi costumi che – concludeva il biografo – possono servir di mo-
3. Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna, D.M. Galeati, Diario e memorie
varie di Bologna dall’anno 1550 al 1796, ms., B. 91, vol. xii, cc. 22-31 (il passo in questione è cit.
in G. Cosentino, Il teatro Marsigli-Rossi, Bologna, Tipografia A. Garagnani e figli, 1900, pp.
180-182). Il Galeati qui descrive le recite tenute, a partire dal 6 gennaio 1790, dalla compagnia di Giovanni Marchesini e Gregorio Cicuzzi, in cui Angela agiva come prima donna. La
rappresentazione di cui si discorre a testo era Il centauro d’abisso, protettore di Adelaide principessa
di Belpoggio, condannata a morte dal fratello, assistito da Proserpina, e avvocato in propria causa con
Arlecchino condannato alla galera per spia. Analogo trasformismo performativo la Cicuzzi doveva
esercitare in un’altra rappresentazione, La principessa Amalia figlia del gran re Zoroastro, tradita
da Pantalone scellerato regicida, precipitato nel mare da Brighella sicario crudele, e pescata semiviva da
Arlecchino pescator fortunato e poi lacchè.
4. Si tratta, com’è noto, di Pedro Hurtado de Mendoza e del suo De Comœdiis quando
sint scandalum (sez. xxviii.3 delle Scolasticae et morales disputationes, 1631). Questo il passo di
riferimento: «Accedit faeminis periculum aliud minime levius, saepe illae sunt apprime pulchrae, elegantes corporis habitu et vestium, dicaces, salaces, psaltriae, musicae: peritae ludi
sceanici, quae omnia ita in libidinem abripiunt spectatores, ut a multis adamentur in sane,
qui eas auro et argento oppugnant, qui in earum victum, vestes et supellectiles profusus faciunt sumptus»; la sezione iniziava richiamando la definizione di scorta (‘sgualdrine’) che già san
Giovanni Grisostomo aveva dato delle donne di teatro ( faeminae scaenicae). Traggo le citazioni
da F. Taviani, La Commedia dell’Arte e la società barocca. La fascinazione del teatro, Roma, Bulzoni,
1969, pp. 86-87 (rist. anast. ivi 1991).
5. «Comediante Canterinola Armonica Puttana» è la definizione elargita nei suoi Giornali
di Napoli da Vincenzo D’Onofrio (alias Innocenzo Fuidoro) alla straordinaria personalità di
Giulia de Caro, su cui, dopo il capitolo dedicatole da Croce nei Teatri di Napoli (con particolare
riferimento alla prima ediz: Napoli, Luigi Pierro, 1891), si veda ora il fondamentale contributo
di P. Maione, Giulia de Caro «Famosissima Armonica» e ‘Il bordello sostenuto’ del signor don Antonio
Muscettola, Napoli, Luciano, 1997.
110
I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO
dello all’onesto contegno delle fanciulle sue pari, che hanno per la via del Teatro incamminati i loro passi».
Se lasciava cader le spoglie meretricie, come quelle di una griffe ormai fuori
mercato, Angela Cicuzzi tuttavia continuava a interpretare la cifra stilistica più
distintiva della tradizione attorica dell’Arte: quell’impasto di diversi linguaggi performativi in cui, dal miliare contributo di Nino Pirrotta (1955) alla recentissima ‘summa’ di Siro Ferrone (2014), è stato riconosciuto uno dei fattori
genetici della Commedia dell’Arte.6
Uno dei fattori genetici e – si può aggiungere subito – uno dei connotati più
duraturi, anche se reso alquanto indistinto, segnatamente nella sua fenomenologia settecentesca, da quello che fu il progredire settoriale delle competenze
professionali nella realtà dei processi in atto;7 e reso pressoché irriconoscibile
dalla lunga egemonia, nella successiva ricognizione storico-critica, di una prospettiva troppo incline ad assolutizzare gli elementi di discontinuità e, di conseguenza, ad annichilire quelli di continuità. Solo il rinnovarsi dell’approccio
ermeneutico e un uso più consapevole delle fonti stanno inducendo a riconoscere come in realtà, anche nel Settecento, la labilità dei confini professionali
aveva facilitato l’eclettismo di cantanti-attori o attori-cantanti capaci di passare
da un genere all’altro, assecondando una memoria per così dire ‘genetica’ del
mestiere; o a documentare come, proprio nel Settecento, avesse avuto rinnovato luogo una straordinaria convivenza di generi pronti ad aiutarsi vicendevolmente, in un processo di contaminazioni gravido di futuro.8
In tale prospettiva, prestare ascolto alla testimonianza offerta dall’exemplum
di un’Angela Cicuzzi, e cercare di sondare la versatilità professionale delle comiche sulla scena italiana settecentesca, potrebbe riservare qualche sorpresa.
6. Cfr. N. Pirrotta, Commedia dell’arte e opera (1955), in Id., Scelte poetiche di musicisti.
Teatro, poesia e musica da Willaert a Malipiero, Venezia, Marsilio, 1987, pp. 147-171; S. Ferrone,
La Commedia dell’Arte. Attrici e attori italiani in Europa (XVI-XVIII secolo), Torino, Einaudi, 2014
(in partic. pp. 110-126). Per quanto riguarda l’arco temporale intermedio, mi limito a segnalare
il progetto, promosso da Gerardo Guccini e dal gruppo di lavoro del centro teatrale «la Soffitta»
su L’arte dei Comici. Invenzioni e pratiche di un teatro multimediale (Bologna, 26 gennaio-16 maggio
2004), i cui riscontri editoriali si leggono nel numero 10 di «Culture teatrali» (primavera 2004).
7. Sul tema, d’obbligo il riferimento a S. Durante, Il cantante, in Storia dell’opera italiana,
a cura di L. Bianconi e G. Pestelli, iv. Il sistema produttivo e le sue competenze, Torino, EDT,
1987, pp. 347-415.
8. Cfr. P. Fabbri, I comici all’opera: le competenze musicali dell’attore, «Culture teatrali», 2004,
10, pp. 47-54; F. Cotticelli-P. Maione, Le carte degli antichi banchi e il panorama musicale e teatrale
della Napoli di primo Settecento: 1732-1733, «Studi pergolesiani. Pergolesi Studies», 2006, 5, pp.
21-54 (dei medesimi autori si veda anche «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli». Materiali per
una storia dello spettacolo a Napoli nel primo Settecento, Milano, Ricordi, 1996, in partic. il cap. iv).
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ANNA SCANNAPIECO
2. Ma quali sono i ‘numeri’ reali delle comiche nel Settecento italiano?
Davvero innumeri, davvero acrobate, ballerine, cantanti, impresarie, oltre che naturalmente attrici, le comiche del Settecento italiano? Non tutte, ça va sans dire;
ma un più che significativo drappello sì. La recensione che qui propongo – e
che intende essere solo preambolo e stimolo a più sistematiche indagini – consente di affermarlo con un buon grado di fondatezza.
Cominciamo ad allineare qualche dato puramente quantitativo (numeri letterali, se non proprio veri), enucleato a partire dalla prima – e per tanti versi
ancora unica – ‘anagrafe’ dei comici settecenteschi, le Notizie istoriche di Francesco Bartoli, e perfezionato in base al riscontro di altre fonti.9
a. Del novero complessivo degli attori, la componente femminile ricopre circa
il 35%: un dato significativo di per sé, se volessimo divertirci a rapportarlo
alla sedicente evoluzione dei tempi moderni e alle ‘scene’ più significative
dell’Italia d’oggi (per esempio quella dell’attuale Parlamento, dove la rappresentanza femminile risulta lievitata al 30%, ma appena il 16% vi riveste
le cosiddette key positions). Il dato è naturalmente ancora più significativo se
rapportato al mercato teatrale dell’epoca, in cui l’organico delle compagnie
– sostanzialmente per l’intero arco del secolo – era strutturalmente sbilanciato sulla componente maschile in forza della presenza delle maschere, secondo una relazione che si attestava almeno sul raddoppiamento numerico
degli attori rispetto alle attrici.
b. Di questo 35%, per oltre un terzo (42 su 134)10 è possibile appurare l’espressione di una professionalità multipla: si tratta cioè di comiche che nel corso
9. Per la demografia attorica settecentesca, le Notizie di Bartoli costituiscono una fonte
eccezionale, dato che proprio ad attori/attrici di quel secolo è dedicata la grande maggioranza
delle voci: senza peraltro dimenticare la necessità di esercitare una doverosa critica delle fonti
anche nei confronti di questo pilastro della storiografia teatrale, per cui mi sia permesso rinviare a A. Scannapieco, Noterelle gozziane (in margine al teatro di Antonio Sacco e di Carlo Gozzi).
Aggiuntavi qualche schermaglia, «Studi goldoniani», xi n.s. 3, 2014, pp. 101-123; non sempre, oltretutto, il Bartoli dà notizia, per le singole attrici registrate, della varietà delle loro prestazioni
performative. Impossibile enumerare tutti gli strumenti integrativi: a titolo d’esempio, oltre ai
classici repertori di Colomberti e Rasi, o alla formidabile enciclopedia in progress dell’Archivio
Multimediale degli Attori Italiani (http://amati.fupress.net), si considerino la storiografia teatrale di singoli centri cittadini (dal Croce dei teatri napoletani al Ricci di quelli bolognesi al
Brunelli di quelli padovani), o di singoli teatri (come quella del teatro Regio di Torino, coordinata da Alberto Basso, o sul San Benedetto di Venezia, ad opera di Francesco Passadore e Franco
Rossi), gli scritti autobiografici e i carteggi di eminenti protagonisti della civiltà teatrale (e non)
settecentesca (da Goldoni a Gozzi a Casanova), i diari privati (dal bolognese Galeati al padovano
Gennari) e i repertori musicali come quello sui libretti di Claudio Sartori.
10. Le attrici lemmatizzate da Bartoli sono in realtà centoventitré (escludendo le due figlie
di Carlo Veronesi, Anna e Camilla, perché entrambe attive solo in Francia); sulla base di altre
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I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO
della loro carriera intrecciarono alla prestazione attorica anche quella canora e/o quella coreutica, quando non addirittura assunsero funzioni capocomicali, circostanza quest’ultima che – come vedremo – assume un rilevo
storico-critico eccezionale, travalicando i pur estesi confini della storia del
teatro e dello spettacolo e sollecitando, per dirla in breve, nuovi interrogativi sull’identità giuridica e l’effettivo potere contrattuale delle donne in
epoca di Ancien régime.
c. A quantificare in uno schema di massima la varia fenomenologia di tale
versatilità professionale muliebre, si possono enucleare le seguenti categorie e la relativa incidenza ‘demografica’:
i. Comiche ‘tersicoree’. 15, di cui 5 anche canterinole (segnalate con asterisco),
e tra quest’ultime una anche impresaria (indicata con doppio asterisco):
*
Gaetana Bassi, *Marianna Bassi, *Angela Cicuzzi, **Elisabetta D’Afflisio
Moreri, Maria Donati, *Luigia Lapy Belloni,11 Maddalena Raffi Marliani, Teodora Raffi Medebach,12 Teodora Ricci Bartoli, Angiola Ricci
Cesari, Marianna Ricci Rotti, Adriana Sacco Lombardi Zanoni, Chiara
Benedetti Simonetti, Teresa Zanoni, Marianna Zanotti Barilli.
ii. Comiche canterinole. 24, di cui 6 anche ‘tersicoree’ e 4 anche impresarie:
Agnese Amurat,13 Anna Barbieri Colombini, Antonia Bianchi Zanarini,
Rosa Brunelli Zanarini Baccelli, Chiara Cardosi,14 Rosa Costa, Antonia
D’Arbes Grandi, Marta Davia, Giovanna Farussi Casanova,15 Giuseppa Fineschi, Rosa Foggi,16 Teresa Gandini,17 Giulia Gritti Pizzamiglio,
fonti ho aggiunto gli undici nomi di Agnese Amurat, Anna Baccherini, Marta Colleoni, Teresa
Consoli, Antonia Ferramonti, Rosa Lombardi, Matilde Maiani, Rosa Pontremoli, Angiola
Ricci, Caterina Ricci e Marianna Ricci.
11. Le poche attestazioni canore di questa attrice-ballerina sono documentate dal solo
Sartori (C. Sartori, I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800, Cuneo, Bertola & Locatelli,
1990-1992, 5 voll., n. 8489 e n. 22996).
12. Non da Bartoli, ma da fonte goldoniana ci son note le virtù ‘tersicoree’ della Medebach.
13. È nome, non registrato dal Bartoli, ma di fonte goldoniana (Mémoires e Memorie italiane), da accogliere con più di una riserva, dal momento che nulla sappiamo della sua professione
propriamente attorica, e pochissimo di quella canora.
14. Delle prestazioni canore della Cardosi, attrice molto affermata sulle scene del secondo
Settecento, abbiamo solo un fuggevole cenno in Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. i, p. 154.
15. Bartoli non menziona le sue prestazioni canore, limitandosi a segnalare che «recitò da
prima Donna con molta intelligenza» (ivi, p. 160).
16. Servetta fiorentina formatasi nella compagnia Roffi, di cui è documentata una presenza
anche al Fiorentini di Napoli (1788, comp. Giovanni Grassi: cfr. Croce, I teatri di Napoli, cit.,
pp. 630-631); il suo impegno musicale, non menzionato da Bartoli, può essere molto vagamente
desunto solo in base a documentazione Sartori (n. 18576).
17. Anche in questo caso, ben più significativo, Bartoli non dà alcuna notizia dell’attività
musicale dell’attrice. Si veda di séguito a testo.
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ANNA SCANNAPIECO
Anna Lampredi, Caterina Manzoni, Margherita Valentini. Si vedano
inoltre, nel gruppo i., Gaetana Bassi, Marianna Bassi, Angela Cicuzzi,
Elisabetta D’Afflisio Moreri, Luigia Lapy Belloni; e nel gruppo iii., Elisabetta D’Afflisio Moreri, Maria Grandi, Anna Moretti, Faustina Tesi.
iii. Comiche ‘impresar ie’. 12, di cui 8 solo tali: Antonia A lbani, Maddalena Battaglia, Caterina Berti, Rosa Camerani, Giustina Campioni Cavalieri, Marta Colleoni, Teresa Consoli, Regina
Cicuzzi Mantovani Marchesini,18 Maria Grandi; 3 anche canterinole: Maria Grandi, Anna Moretti, Faustina Tesi; una infine impresaria canterinola e “tersicorea”: Elisabetta D’Afflisio Moreri.
Ancorché forse superfluo, sarà preliminarmente da sottolineare la relatività
dei dati e delle percentuali, nonché l’inevitabile margine di arbitrarietà implicito nel costringere in comparti nettamente perimetrati quella che dovette
essere una fluidità performativa solo occasionalmente documentata; a tacere
della disomogeneità delle testimonianze superstiti, che lasciano trapelare il diverso ordine di grandezza o di continuità con cui concretamente si espresse la
versatilità professionale delle nostre comiche.
Siamo probabilmente di fronte alla punta di un iceberg che resta irrimediabilmente sommerso, e dunque imperscrutabile. Tuttavia, pur con ogni cautela,
si possono interrogare i dati affluiti alla superficie, lasciare che dialoghino – o
forse litighino – con il già noto.
Propongo dunque alcune considerazioni di massima per ciascuna delle categorie enucleate in precedenza.
3. Il consistente manipolo delle comiche ‘tersicoree’ lascia innanzitutto intravedere le radici dell’addestramento professionale di alcune delle massime
protagoniste della scena attorica poi ‘riformata’, e cioè Teodora Raffi Medebach e Maddalena Raffi Marliani, entrambe formatesi e a lungo attive come
ballerine di corda nella stimata compagnia del – rispettivamente – padre e fratello Gasparo, entrambe non solo dotate di virtù acrobatiche ma capaci anche
di «danzare a terra con somma grazia», come riconoscerà lo stesso Goldoni;19
18. Bartoli segnala la sua attività capocomicale solo all’interno della voce dedicata alla
figlia, Angela Cicuzzi.
19. C. Goldoni, Memorie italiane. Prefazioni e polemiche III, a cura di R. Turchi, Venezia,
Marsilio, 2008, p. 288; l’espressione è in realtà riferita alla sola Teodora, ma lo stesso Goldoni
dice di Maddalena che «era una copia fedele della Teodora» (ibid.). All’apprendistato della Raffi
Marliani come ballerina di corda dedica molte pagine la stilizzazione romanzesca che dell’attrice realizzò Pietro Chiari nella sua Commediante in fortuna (1755; se ne veda la moderna ediz. per
le cure di V.G.A. Tavazzi, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2012).
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I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO
radici che per certo saranno state metabolizzate e messe a frutto nello stile
rappresentativo delle due attrici, e probabilmente anche nella drammaturgia
dei due principali poeti di compagnia che scrissero per loro, Carlo Goldoni e
Pietro Chiari.20
In secondo luogo, è facile riconoscere un tratto distintivo della formazione presumibilmente abituale, e il relativo itinerario professionale, previsti per
le donne attive nelle grandi compagnie della tradizione dell’Arte: cioè l’avvio
precoce dell’attività lavorativa, nella forma che doveva essere più congrua alla prima età puberale, quella appunto della danza. Non a caso come ballerine esordiscono, ancora ragazzine, molte delle attrici della compagnia Sacco.
La precoce messa a frutto della forza lavoro femminile può essere osservabile anche in contesti diversi, come dimostra il caso di quattro figlie di Emilia
Gambacciani Ricci, attrice di solida formazione ed esperienza:21 Angiola, Marianna, Teodora e Caterina erano figlie d’arte, ma non esordirono nella professione della madre perché esercitò maggior peso quella del padre Antonio,
ballerino che le addestrò nel proprio mestiere, rendendole immediatamente
‘spendibili’ sul mercato: appena quattordicenne, ad esempio, figura nel corpo di ballo del San Benedetto – il più prestigioso teatro musicale veneziano
dell’epoca – la futura musa di Carlo Gozzi, Teodora Ricci Bartoli, e vi rima20. Tanto per rimanere a un livello di superficie, basti considerare come sul profilo della
Marliani Goldoni ideò il personaggio della ballerina Olivetta nella Figlia obbediente (1752), o
come alla Medebach protagonista eponima della Pastorella fedele (1754) Chiari riservasse, nella
scena 4 dell’atto ii, un salto acrobatico «dalla montagna nel fiume» (su cui, a quasi trent’anni di
distanza, ancora si intrattiene compiaciuta la memoria di Bartoli).
21. Fu infatti attiva nella compagnia Sacco e poi in quella Medebach. Di origine pisana, e
appartenente – come da testimonianza del Bartoli – «ad una civilissima Famiglia», venne fatta
oggetto di un ritratto infamante da Carlo Gozzi, in un brogliaccio che documenta la preistoria
testuale delle Memorie inutili, e che merita in parte citare: «L’Emilia fu bella femmina, e cattiva
Comica. […] fece ammaestrare le sue cinque figlie. Quattre furono Ballerine, e una Cantatrice
[Maddalena, che non cito a testo perché la sua professione esclusiva fu appunto quella della
cantante]. Soprattutto ha fatto loro capire il mestiere di spogliare delle sostanze gl’appassionati,
l’arte di non curar la vergogna; la massima filosofica di non avere amicizia per nessuno mostrando d’averne moltissima per tutti, e la fortezza di considerare i tradimenti gloriose imprese
da donne di spirito. I ricordi della vecchia Ava Clarice [madre di Emilia], e l’esempio materno
furono scola efficace, e il sangue viziato a’ puttanesimi delle Madri, passa assolutamente per eredità nelle vene delle figliuole» (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Gozzi, 11.1/6, c. 62r.,
cit. in F. Soldini, Rapporti tra Carlo Gozzi e gli attori nella corrispondenza e nelle carte autobiografiche.
Un episodio significativo: Teodora Ricci nelle pagine inedite delle ‘Memorie inutili’, in Carlo Gozzi entre
dramaturgie de l’auteur et dramaturgie de l’acteur: un carrefour artistique européen. Atti del convegno
(Parigi, 23-25 novembre 2006), a cura di A. Fabiano, «Problemi di critica goldoniana», xiii,
2006 [ma 2007], p. 61). Bartoli invece, che di Teodora Ricci – com’è noto – fu marito, riferì
che ella «fu onestamente educata, e sotto gl’insegnamenti dell’Ava sua materna imparò a leggere,
ed a scrivere».
115
ANNA SCANNAPIECO
ne per tre anni consecutivi, prima di scoprire e di temprare le proprie inclinazioni attoriche.22
Non per tre anni, ma per oltre un decennio, sulle scene del medesimo «nobilissimo» teatro, esercita la sua ormai consolidata professione di ballerina Maria Donati,23 figlia di gente del mestiere più che figlia d’arte (il padre era un
«apparatore»), e la esercita agendo in coreografie di artisti di grido (da Charles Lepicq a Gasparo Angiolini, da Jean Favier a Giuseppe Canziani). Nel suo
caso, la trasformazione in commediante – sollecitata dalle virtù maieutiche di
un mattatore delle scene del secondo Settecento, il «Comico impareggiabile»
Giuseppe Maiani24 – avviene solo al dischiudersi degli anni Ottanta, suscitando grandi aspettative, e si incardina per circa un quindicennio nell’attività di
primarie compagnie (Lapy e Pellandi).25
22. Le prestazioni propriamente attoriche della primogenita (Angiola) furono in realtà limitate all’età più giovane, allorché, come riferisce il Bartoli «recitò da fanciulletta molti
Prologhi, e piccole parti nelle Commedie del Chiari», per poi abbracciare esclusivamente la
professione coreutica; Caterina, «di molta abilità nell’arte del Ballo», morì ad appena vent’anni;
Marianna invece, dopo essersi formata giovanetta, come Angiola, nella compagnia Medebach,
figura in vari corpi di ballo di opere rappresentate a Venezia negli anni Sessanta, ma è probabile
che agisse, soprattutto a séguito dell’ingaggio della sorella Teodora (1771), anche nella compagnia Sacco, dato che nel 1779 sposò Giovanni Battista Rotti, il Pantalone, dal ’69, della troupe.
Per quanto riguarda Teodora, terzogenita, classe 1749, il marito ricorda solo che «cresciuta in
età, fece vedersi nelle Danze dell’Opere Musicali in compagnia della sua sorella Caterina [classe
1753], e custodita dalla predetta sua Ava [Clarice: cfr. n. 21] ne’ viaggi intrapresi per varie Città
di Lombardia, e della Toscana». Dal repertorio del veneziano teatro di san Benedetto, sappiamo
invece che figurò anche nel corpo di ballo di questo teatro, e nelle seguenti stagioni: carnevale
1763-1764, carnevale 1764-1765, ascensione 1765, carnevale 1765-1766 (cfr. F. Passadore-F.
Rossi, Il teatro San Benedetto di Venezia. Cronologia degli spettacoli 1755-1810, Venezia, Fondazione
Levi, 2003). Sarebbero passati altri tre anni prima che Teodora intraprendesse la professione
attorica ottenendo un ingaggio presso la compagnia di Pietro Rossi (1769), dove fu istruita
nell’arte e presa in sposa da Francesco Bartoli.
23. In base al repertorio di Passadore-Rossi, Il teatro San Benedetto di Venezia, cit., sappiamo che la Donati figura nel corpo di ballo del San Benedetto nelle seguenti stagioni (quando
rilevante, segue tra parentesi il nome del coreografo): ascensione 1767, carnevale 1767-1768, autunno 1768, carnevale 1768-1769, ascensione 1769, estate 1769 (Lepicq), ascensione 1771 (idem),
autunno 1771, carnevale 1771-1772, carnevale 1772-1773 (Angiolini), carnevale 1774-1775
(Favier), estate 1776 (Canziani), carnevale 1777-1778 (Canziani), carnevale 1778-1779 (Favier).
24. Figlio di Francesco, uno dei pilastri della compagnia del San Luca ai tempi di Goldoni,
in cui venne formandosi Giuseppe stesso, insieme alla sorella Matilde: oltre al vivo ritratto che
ce ne ha lasciato Bartoli, mi sia permesso rinviare alle osservazioni dedicategli nel Commento a
C. Goldoni, La buona madre, a cura di A. Scannapieco, Venezia, Marsilio, 2001, p. 279; ma si
vedano soprattutto quelle elaborate da Marzia Pieri nell’ediz. di C. Goldoni, Artemisia, a cura
di M. Pieri, Venezia, Marsilio, 2015, in partic. pp. 51-56.
25. Merita stralciare qualcuna delle più significative note dalla voce dedicatale dal
Bartoli: «Oggi [1782] si è veduta comparire sulle Comiche Scene con inaspettata, e pro-
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I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO
I casi delle sorelle Ricci e di Maria Donati sembrano suggerire come, anche in anni di ascendente fortuna dell’arte coreutica, l’approdo alla professione
attorica potesse per le donne rappresentare una tappa più alta, o comunque –
a vario titolo – più gratificante, della loro realizzazione artistica (e in tal senso
esse sembrano raccontare il recto della caricaturale parabola di Felicita, l’allieva
della goldoniana Scuola di ballo [1759] che appena può getta alle ortiche ogni
ambizione tersicorea e si fa commediante);26 ma, in tutti i casi, propongono
con evidenza – credo – il dato di una professionalità attorica che si nutre di
altre abilità performative: pregresse sì, ma evidentemente non obliterabili nel
successivo evolvere della carriera.
D’altronde, di attrici che portavano in scena le loro risorse coreutiche, e le
accompagnavano altresì con quelle canore, ci racconta non solo Angela Cicuzzi, l’exemplum da cui abbiamo preso le mosse: infatti, tra le sue ‘consorelle’, merita una menzione almeno Marianna Bassi, esperta di recitazione ballo
e canto, «tre pregi [che] adoperati tutti anche in una sola sera sopra il Teatro,
destavano la meraviglia, e gli applausi negli Uditori». La quale Marianna, appena ventenne, «quando […] incominciarono i suoi meriti ad essere portati
dalla Fama per ogni dove», morì (1769). «Non era bellissima – ricorda ancora
Bartoli –, ma aveva grazie non poche, e potevasi dir di lei: “Nobil d’aspetto,
e di beltà modesta, / Modi, e maniere, avea soavi, e piane”».27 «Fort jolie» l’aveva invece giudicata Giacomo Casanova, che «avec plaisir» l’aveva vista danzare in un teatro di Augusta, ancora tredicenne, e che nei giorni successivi era
facilmente trapassato dal tenerla «sur ses genoux […] en innocente» al farne
digiosa comparsa, effetto d’alcune utili instruzioni avute da Giuseppe Majani. […] è assai
ben vista dal Pubblico per il suo bel modo d’esprimere le parti appassionate, e per la grazia
con cui ella rappresenta altri caratteri, e sostenuti, e piacevoli ancora. […] Se a così rapidi,
e felici principj devono corrispondere in egual modo gli avanzamenti, noi potremo in questa giovane Attrice sperar di veder risorta la fama delle Comiche valorose, o mancate alla
Professione, o vicine alla lor decadenza. Lo studio indefesso della Donati, la sua instancabile
volontà d’affaticarsi, e le varie doti dalla Natura impartitele, ci fanno un certo pronostico,
che non siano per riuscir vane le nostre, e le sue ben collocate speranze» (Bartoli, Notizie
istoriche, cit., to. i, p. 198). Dal punto di vista della sua effettiva carriera, sappiamo che fu ingaggiata dalla compagnia Lapy (in cui appunto agiva ancora il «Maianino», il maieuta della
Donati) a partire dall’anno comico 1780-1781, e militò poi in quella Pellandi dal 1786-1787
al 1792-1793 (cfr. O. Giardi, I comici dell’arte perduta. Le compagnie comiche italiane alla fine
del secolo XVIII, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 175, 225, 227); le grandi aspettative degli esordi
dovettero peraltro andare deluse, dato che nel 1790 figurava ancora come seconda donna
(cfr. B. Brunelli, I teatri di Padova. Dalle origini fino alla fine del secolo XIX, Padova, Angelo
Draghi, 1921, p. 252).
26. Si vedano in particolare la scena 1 dell’atto iii e la scena 6 dell’atto v (C. Goldoni, La
scuola di ballo, a cura di A. Nari, Venezia, Marsilio, 2014, pp. 105-109 e 142).
27. Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. i, p. 112.
117
ANNA SCANNAPIECO
conoscenza biblica, in uno spettacolo-bacchanale che non mancò di eccitare gli
stessi genitori della «petite».28
4. Quella delle comiche canterinole è, forse non a caso, la categoria più rappresentata, e anche più facilmente oggetto di fraintendimenti quando non di
rimozioni storico-critiche.
A tal proposito, non si può non considerare come la resistenza inerziale
di alcuni clichés storiografici (pur dovuti a emeriti maestri, da Croce e Della
Corte sino a Folena) abbia trasformato alcune notevoli occasioni di riconsiderazione documentaria e critica in occasioni sostanzialmente mancate. Penso
in particolare alla produzione goldoniana per i comici del San Samuele, di recente riproposta nell’ambito dell’Edizione nazionale con volumi di indubbio
pregio, e al cui riguardo abbiamo tuttavia sentito ancora evocare come cifra
genetica e limite strutturale «il ricorso non a cantanti professionisti, bensì ad
attori abituati a esibirsi quasi esclusivamente nella commedia all’improvviso,
[…] privi di spiccate doti canore», o a «professionisti dello spettacolo, capaci di stare in scena con disinvoltura, dotati di spiccate doti comunicative, abili nell’affrontare spavaldamente i repertori più vari ma privi di un’istruzione musicale».29
Come se a nulla ancora valessero alcune fondamentali acquisizioni di merito e di metodo: a cominciare dai contributi di Franco Piperno, inflessibile
nel contrastare la vulgata dei «buffi» come «esecutori raccogliticci e privi di
scuola»,30 o dalla maturata consapevolezza che la grandezza artistica dei cantanti poteva accompagnarsi a una mediocre alfabetizzazione musicale31 (o anche a un completo analfabetismo, tutt’oggi non privo di clamorosi riscontri:
si pensi a un Pavarotti, che non leggeva la musica, e imparava le parti solo con
l’aiuto di un maestro che gliele infilava nella memoria).32
O come se a nulla potessero valere talune ricognizioni documentarie che,
pur ineludibili, sono state affatto trascurate, con tutte le conseguenze interpre28. Cfr. J. Casanova de Seingalt, Histoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original suivi
de textes inédits, édition présentée et établie par F. Lacassin, Paris, R. Laffont, 2009, vol. ii, pp.
721-727 (le citazioni a testo alle pp. 721-722, 723, 727).
29. Le citazioni sono tratte rispettivamente da G.G. Stiffoni, Introduzione a C. Goldoni,
Intermezzi e farsette per musica, a cura di A. Vencato, Venezia, Marsilio, 2008, p. 20 e A. Vencato,
Introduzione a C. Goldoni, Drammi musicali per i comici del San Samuele, a cura di A. V., Venezia,
Marsilio, 2009, pp. 59-60 (i corsivi sono miei).
30. Cfr. in partic. F. Piperno, Buffe e buffi (considerazioni sulla professionalità degli interpreti di
scene buffe ed intermezzi), «Rivista italiana di musicologia», xviii, 1982, 2, pp. 240-284 (la citazione a p. 241).
31. Cfr. Durante, Il cantante, cit., p. 369 n.
32. Sono debitrice all’amico e maestro Eduardo Rescigno di questa suggestione (come di
molte altre).
118
I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO
tative del caso. Si consideri, per limitarsi all’esempio più macroscopico, che una
delle interpreti degli intermezzi goldoniani per il San Samuele (citata peraltro
dallo stesso autore, e in termini non di sprezzante sufficienza, come d’ordinario in casi consimili)33 era stata Rosa Costa, un’attrice, come ci informa il
Bartoli, «che possedeva ancora l’abilità di cantare» e che aveva fatto il suo apprendistato con «lo strepitoso Argante» (così nella definizione di Goldoni), e
cioè Antonio Franceschini, direttore della compagnia comica più accreditata
nella Venezia degli anni Trenta.34 Ebbene, la Rosa Costa che viene ingaggiata dalla compagnia Imer per subentrare alla Passalacqua (su cui torneremo a
breve) è probabilmente la medesima artista che a partire dall’anno successivo
avrebbe avviato a Napoli una fortunata carriera di soprano: nel 1737, già divenuta «virtuosa di camera del duca di Montemari», interpreta al Fiorentini il
protagonista eponimo del Flaminio di Federico-Pergolesi; e l’anno successivo,
«nel Grande Real Teatro di San Carlo», è Partenope nel «bellissimo prologo»
ideato dal Carasale in occasione dei festeggiamenti per le nozze e il compleanno di Carlo di Borbone, a corredare l’allestimento dell’Artaserse di MetastasioVinci (del prologo, e non dell’opera, diede ammirata descrizione la «Gazzetta
di Napoli»).35 Nel giro di un lustro (1737-1742), bilanciandosi tra repertorio
33. «Presero [i comici del San Samuele, nel 1736] la Rosina Costa, giovane, non bella, ma
spiritosa, che sapeva un poco di musica, ed aveva una voce angelica e un’abilità sorprendente»
(Goldoni, Memorie italiane, cit., p. 256).
34. Cfr. ivi, p. 234. Il Franceschini fu celebre innamorato e direttore della compagnia del
San Luca; Bartoli indica in termini molto generici l’appartenenza della Costa alla sua compagnia, e sembra basarla sostanzialmente su un’unica fonte (espressamente citata), e cioè la celebre stampa padovana della tragicommedia (con vari inserti musicali) La clemenza nella vendetta
(1736), nel cui elenco di personaggi-interpreti, la Costa figura nella triplice veste di «Cingara
Indovina, che canta», «Madama della Sol Re Virtuosa di Camera della Reg.[ina]» ed «Eurilla
Figlia del mag. Sacerdote», secondo le mansioni di una «terza donna» (a séguito di Vittoria Miti
e Marta Bastona Focari; la servetta era Felice Bonomi) che giostrava in ruoli minori le sue virtù
soprattutto canore. Anche in considerazione dei sommovimenti che si sarebbero prodotti di lì a
poco nella compagnia del San Luca, con la partenza di Franceschini per Dresda, è ragionevole
ipotizzare che la Costa abbia accettato, nell’autunno di quello stesso anno, l’ingaggio presso il
San Samuele. Le considerazioni che fanno séguito a testo, e che conservano un carattere inevitabilmente ipotetico, sono basate sull’identificazione operata da Claudio Sartori tra la Rosa
Costa interprete della Clemenza nella vendetta e quella interprete di tutte le altre opere cui si farà
riferimento (cfr. Sartori, I libretti, cit., vi. Indici, to. ii, pp. 210-211).
35. «[21 gennaio 1738] «Ieri, [...], degnossi la maestà sua all’imbrunir dell’aria di passare
al R. teatro per ascoltarvi il nuovo dramma L’Artaserse, […], nella qual congiuntura il direttore
capitano D. Angelo Caresale, per contrassegno della sua venerazione, sul bel cominciamento dell’opera fece rappresentare un bellissimo prologo da cinque personaggi, che, figurando
la Notte, Venere, Amore, Partenope e il Sebeto, cantavan le laudi del re e della sposa reale.
Compariva intanto un bosco con campagna e colline e a destra miravasi Partenope vestita in R.
foggia, assisa sopra un’aureo seggio sopra scalini in atto di dormire e intorno ad essa varie ninfe
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ANNA SCANNAPIECO
serio e repertorio buffo, la Costa sarà presente in ben diciotto allestimenti da
Napoli a Venezia (passando per alcuni centri toscani), e in svariati anni successivi continuerà la sua carriera in paesi di area germanica.36
Un caso, insomma, che sembra acclarare, nel Settecento inoltrato, il profilo
esemplare del cantante modello quale era stato delineato, nei primi decenni del
secolo precedente, dal Corago: «Sopra tutto per esser buon recitante cantando
bisognerebbe esser anche buono recitante parlando, onde aviamo veduto che
alcuni che hanno avuto particolar grazia in recitare hanno fatto meraviglie
quando insieme hanno saputo cantare».37 Esempio macroscopico – e tuttavia
mai, a quanto mi consta, rilevato – quello della Rosa Costa, e che non deve
per questo indurre a facili quanto inutili generalizzazioni; ma che senz’altro
può legittimamente invitare a riconoscere come, anche in pieno Settecento,
avesse vigore la pluralità performativa dei comici e come, in taluni casi, desse
anche dormendo agiate sopra vari sassi. A sinistra osservavasi il Sebeto che, ancor dormendo,
appoggiato era alla sua urna da cui chiare e limpide acque scorrevano e, intorno a lui, anche
sorpresi da sonno, vari pastori faceanli corona. In aria a sinistra vedevasi la notte in un carro a
quattro ruote tirato da due neri cavalli, vestita ella di azzurro sparso di stelle d’oro, coronata di
fiori di papavero; a destra scorgeasi un altro carro da due colombe tirato, entro cui locata era
Venere, coronata di rose e di mirto, e sulla cui testa splendea una lucidissima stella. Fra tutti
però ammiravasi il carro d’amore, tirato da quattro cavalli bianchi, in cui era esso Amore con
ali bianche, turcasso ed arco e con facella accesa in mano e nel tempo stesso scorgevasi spuntare
nell’orizzonte la lucente Luna, il di cui globo scorgevasi ingombrato dall’effigie della maestà di
Maria Amalia, sposa reale del nostro sovrano; il tutto per festeggiare il fortunatissimo e festevol giorno del compleanno di sua maestà ed alludere al real maritaggio contratto dalla maestà
sua con la R. sposa Maria Amalia Walburga nostra signora. Nel fine del qual prologo tra li
viva del coro e strepitoso sparo di mortaretti e cannoni, furono da sopra il cielo del teatro da
volanti amorini sparsi per tutta l’udienza copiosi sonetti allusivi ad un giorno cotanto felice»
(A. Magaudda-D. Costantini, Musica e spettacolo nel Regno di Napoli attraverso lo spoglio della
«Gazzetta» [1675-1768], Roma, ISMEZ, 2009, pp. 162-163 e 186; a p. 538 dell’Appendice in pdf
contenuta nell’allegato cd-rom si legge il passo citato della «Gazzetta di Napoli». Cfr. anche
Croce, I teatri di Napoli, cit., pp. 338-339).
36. Tuttti i dati sono desunti dal repertorio di Sartori. Pur avendo, verosimilmente, interpretato i tre intermezzi goldoniani del 1736 (Monsieur Petiton, La bottega da caffè, L’amanate cabala),
la Costa non è degna neanche di una menzione nel citato contributo di Gian Giacomo Stiffoni
(cfr. supra, nota 29).
37. Il corago, o vero alcune osservazioni per mettere bene in scena le composizioni drammatiche (inizio sec. XVII), a cura di P. Fabbri e A. Pompilio, Firenze, Olschki, 1983, p. 91. Merita citare
anche la considerazione immediatamente successiva: «Intorno a che alcuni muovono questione
se si deve eleggere un musico non cattivo che sia perfetto recitante o pure un musico eccellente
ma di poco o nessun talento di recitare, nel che si è toccato con mano che sì come ad alcuni
pochi molto intendenti di musica sono più piaciuti l’eccellenti cantatori quantunque freddi nel
recitamento, così al co[mun]e del teatro sodisfazione maggiore hanno dato i perfetti istrioni con
mediocre voce e perizia musicale» (ibid.).
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I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO
luogo alla specializzazione di una competenza tra le altre, resa possibile proprio dalla genetica versatilità della formazione attorica.38
D’altronde, l’ampia estensione della categoria delle comiche canterine consente di individuare molteplici fenomenologie della loro carriera. Si possono,
ad esempio, riscontrare tragitti professionali esattamente inversi a quello di una
Rosa Costa. Al riguardo, i due casi più significativi chiamano in causa attrici
rimaste – a vario titolo – celebri solo per i loro trascorsi goldoniani: Elisabetta
D’Afflisio Moreri e Teresa Gandini.
Il prolungato esercizio di quest’ultima sulla scena musicale (tra il 1733 e il
1744) – rimosso dal Bartoli e per sommi capi riesumato dal Rasi – è stato puntualmente richiamato di recente da Paologiovanni Maione, e quindi si offre
alle nostre valutazioni senza il bisogno di ulteriori indugi documentari;39 pare tuttavia utile affiancare la notizia che quando la Gandini approda a Napoli
e, a partire dal ’38, si esibisce en travesti negli spettacoli musicali dei Fiorentini (duettando peraltro con la prima donna Rosa Costa),40 risulta anche attiva
nel teatrino di corte, animato dalla celebre compañía de los Trufaldines diretta
dall’Arlecchino di Spagna Gabriello Costantini.41 E forse non è un caso che il
medesimo 1744, in cui Carlo di Borbone decreta «que se despida la compagnia
de Trufaldines»,42 sarà anche l’ultimo anno in cui la Gandini risulta impegnata
sulla scena musicale, e non solo di Napoli. Da questo momento in poi, infatti,
la carriera della comica – probabilmente sovrastata dagli interessi del suo «legittimo procuratore»,43 cioè il collerico e violento marito Francesco (che non
38. Un altro caso singolare, in direzione inversa, sembra costituito da Marta Davia che, formatasi nella celebre compagnia del ciarlatano Bonafede Vitali (detto l’Anonimo), si distinse poi
a lungo, in qualità di prima donna a vicenda con Marta Bastona Focari, nella compagnia del San
Luca; poco prima di ritirarsi dalla carriera, fu interprete di spicco nelle prime veneziane, 1751 e
1752, di due drammi giocosi goldoniani, Il conte Caramella e Le pescatrici, affiancando una star del
calibro di Serafina Penni (anche in questo caso, il relativo volume dell’Edizione nazionale non
ha fornito nuove indicazioni, se non la designazione erronea di «Francesca» in luogo di «Marta»:
cfr. M. Bizzarini, Introduzione a C. Goldoni, Drammi comici per musica, ii. 1751-1753, a cura di
A. Vencato, Venezia, Marsilio, 2011, p. 18).
39. Cfr. qui il saggio di Maione, pp. 97-108.
40. Al Fiorentini le due artiste calcano assieme la scena sia nell’Odoardo (inverno 1738: la
Costa nel ruolo di Lavinia e la Gandini in quello di Lelio), sia nell’Ortensio (carnevale 1739: la
Gandini nel ruolo del protagonista eponimo, la Costa in quello di Lavia).
41. Cfr. Croce, I teatri di Napoli, cit., p. 405. Il dato, di grandissimo rilievo, è sinora sfuggito agli studiosi, probabilmente perché nel documento citato da Croce si parla di una «Teresa
Gantini» (e non «Gandini») e soprattutto del suo marito «Francesco» (e non come si è sempre
pensato «Pietro»: per cui cfr. infra a testo e note 42-43). Su Costantini e la compañía de los
Trufaldines, si veda la n. 2.
42. Cfr. Croce, I teatri di Napoli, cit., p. 412.
43. Si rinviene ad esempio la sottoscrizione «Francesco Gandini come legittimo procuratore di Teresa mia moglie» in un documento del 28 novembre 1750, relativo alla compagnia
121
ANNA SCANNAPIECO
ha niente a che fare con Pietro, il celebrato Brighella trasformista con cui viene sempre confuso)44 – risulterà incanalata nella professione attorica, e specie
dopo l’approdo a Venezia: qui infatti viene ingaggiata al San Luca, tempio del
teatro comico cittadino, e vi consegue presto il titolo di prima donna. Ha come
partner una star del calibro di Antonio Vitalba, ed è tenuta a concertarsi con
altri gloriosi esponenti della tradizione dell’Arte, dal Pantalone Rubini all’Arlecchino Cattoli: lo fa, come ricorda il Bartoli, «con immensa bravura […] in
tutto ciò che all’Arte Comica per dovere si aspetta», una bravura ovviamente
memore del duraturo e versatile esercizio sulle scene napoletane. Una cognizione così matura e sperimentata dei segreti dell’Arte (in cui – a detta sempre
del Bartoli – si distingueva anche la «brillante energia infinitamente lodevole» dispiegata nell’interpretazione delle «cose studiate»),45 che sarebbe stata per
certo messa a frutto da un Carlo Goldoni, se tra i due non si fosse interposta
la brutalità dispotica del «legittimo procuratore» della Gandini, troppo preoccupato che la visibilità della moglie – e il capitale che recava in seno – potesse essere scalfito dalla rivoluzione delle convenzioni rappresentative avviata
dal nuovo poeta di compagnia. Sicché il capitale in questione fu dirottato a
Dresda e la compagnia del San Luca si trovò privata della «miglior femmina
di questo mondo».46
Per tanti versi, ancora più istruttivo il caso di Elisabetta D’Afflisio Moreri. Per riuscire oggi a scorgere il suo profilo artistico dovremmo impegnarci
a scoperchiare la pietra tombale sotto cui la seppellì il risentimento di un suo
amante corbellato, Carlo Goldoni. Stizzito ancora in tarda età, ne immortalò
il fisico rinsecchito, l’incarnato «pâle et jaunâtre», malamente coperto dal belletto, la «phisionomie grimaciere»… e, naturalmente, la mediocrità artistica.47
Il romanzetto teatrale della Passalacqua, che adesca il poeta di compagnia per
del San Luca: cfr. Venezia, Biblioteca di Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42.f.8/1, Scritture
e Lettere dall’anno 1733 sino 1764 attinenti alli accordi con li Sig.ri Comici per dover recitare nel Teatro di
San Salvador, c. 26.
44. Avevo già segnalato il dato in Noterelle gozziane, cit., p. 102 n., ma devo rinviare ancora
ad altra sede la sua distesa documentazione.
45. Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. i, p. 252.
46. «Come mai la prima donna, ch’era la miglior femmina di questo mondo ha avuto
cuore di abbandonarci così?», chiede il Florindo Francesco Falchi nell’Introduzione per la prima
sera dell’autunno dell’anno 1755, volendo acclimatare il pubblico alla difficile situazione in cui
versa la compagnia all’indomani della ‘fuga’ dei Gandini; e Celio gli risponde: «Che potea fare
la poverina? Ella ha dovuto accondiscendere al marito suo» (C. Goldoni, Introduzioni, Prologhi,
Ringraziamenti. Prefazioni e polemiche II, a cura di R. Turchi, Venezia, Marsilio, 2011, p. 125).
47. C. Goldoni, Mémoires, p. i, chap. 38, in Id., Tutte le opere, a cura di G. Ortolani,
Milano, Mondadori, 1935, vol. i, p. 172 (dove si rimarca anche la «voix fausse» e la «maniere
monotonne»).
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I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO
goderne i favori, e nel frattempo si sollazza con il primo uomo della troupe
(il ben più seducente Antonio Vitalba), continua – comprensibilmente – a incantare tutti (lo stesso Luigi Rasi ne trasse materia per uno dei suoi più sapidi
monologhi);48 un po’ meno quel Don Giovanni Tenorio in cui il poeta corbellato volle fare le sue vendette, lasciandoci di fatto una delle sue prove più infelici. Se tuttavia si prova a leggere lo stesso Goldoni in controluce, si riesce a
ravvisare qualche elemento di più attendibile storicizzazione. Circa un decennio prima dei Mémoires, dalla prefazione al tomo xiv dell’edizione Pasquali, a
proposito della nostra Elisabetta aveva potuto infatti scrivere:
faceva di tutto passabilmente, e niente perfettamente. Cantava, ballava, recitava in serio
e in giocoso, tirava di spada, giocava la bandiera, parlava vari linguaggi, era passabile
nella parte di Servetta, e suppliva passabilmente negl’Intermezzi.49
Facendo la debita tara alla stilizzazione rancorosa (che risuona sensibilmente nella marca iterativa e nel trasparente fonosimbolismo della sibilante
doppia), si intravede il profilo compiuto di quella ‘multimedialità’ ch’era cifra distintiva della drammaturgia dell’Arte.50 Figlia, anche professionalmente, del napoletano Alessandro D’Afflisio, «innamorato di merito», prima di
essere ingaggiata dalla compagnia Imer per la duplice mansione di servetta
e interprete degli intermezzi, Elisabetta aveva maturato una non irrilevante
esperienza sui teatri musicali, e non solo su quelli ‘meticciati’ della commedia pe’ mmuseca, ma anche su quelli ‘blasonati’ dei drammi seri, figurando in
compagnia di illustri virtuosi (da Giacoma Ferrari a Pietro Baratti).51 E se per
il «bonheur» del poeta di compagnia («pas de rancune», beninteso)52 la Passa48. Cfr. L. Rasi, Il libro dei monologhi, Milano, Hoepli, 1891, pp. 113-128.
49. Goldoni, Memorie italiane, cit., p. 246 (il corsivo è mio); per la datazione (1776-1777)
del to. xiv dell’ediz. Pasquali cfr. A. Scannapieco, Scrittoio, scena, torchio: per una mappa della
produzione goldoniana, «Problemi di critica goldoniana», vii, 2000, pp. 216-217.
50. Profilo non a caso trascritto ‘in chiaro’ nella voce dedicata da Bartoli all’attrice, derivata sicuramente dalla pagina goldoniana: «Esercitavasi nel Ballo con molta grazia; aveva qualche
intelligenza della Musica, e fece talvolta spiccare in essa la sua abilità, cantando in Musicali
Operette, ed Intermezzi. Giocava assai bene la Bandiera, e sapeva colla spada schermire a meraviglia» (Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. i, p. 1).
51. Dal repertorio di Sartori si evince che la D’Afflisio aveva fatto parte del cast de La
forza d’ammore, «commedia pe museca», al teatro Nuovo di Napoli nel 1732 (n. 10829); l’anno
successivo è registrata la sua presenza a Corfù, nell’allestimento del Geronte tiranno di Siracusa (n.
11576); per altri due drammi seri – Eurene (n. 9394a) e Semiramide riconosciuta (n. 21542) – la ritroviamo a Brescia nel carnevale 1735. E nell’autunno di questo stesso anno esordirà sulle scene
del San Samuele, come nuovo ingaggio della compagnia Imer.
52. «Pour mon bonheur, la Passalacqua avoit été renvoyée: je n’avois pas de rancune; mais
je me portois mieux quand je ne la voyois pas» (Goldoni, Mémoires, cit., p. i, chap. 40, p. 184).
123
ANNA SCANNAPIECO
lacqua era stata poi «renvoyée» dal San Samuele, in compenso, già nel 1741,
sarebbe stata assunta dal ben più prestigioso San Luca, come parte fissa e non
semplicemente stipendiata, con un contratto della durata di otto anni.53 Qui
si sarebbe fatta apprezzare anche nell’interpretazione di ruoli tragici,54 e per
certo la sua reputazione dovette rendersi ascendente e ben consolidata, dato
che venne poi proposta alla corte di Napoli come «prima donna» in una «compagnia di Comici Lombardi, compagnia senza paragone», a sostituire quella del
celebre Arlecchino Costantini. Il progetto non andò in porto per il maturato
disinteresse della corte verso tale tipo di intrattenimento,55 e della presenza
dell’attrice sulle scene meridionali c’è rimasto solo il ricordo di una spettacolare quanto drammatica caduta nell’esecuzione di un volo al Santa Cecilia di Palermo; evento che se a noi oggi rimarca un’altra risorsa abituale della
‘multimedialità’ dell’Arte – quella del virtuosismo acrobatico –, è stato per
solito assunto solo a simbolico, tragico suggello della carriera dell’attrice. In
realtà, l’ultimo documento archivistico a noi noto della sua vicenda artistica,
ce la restituisce in un’altra veste ancora, quella del tutto inattesa di direttrice
di compagnia in area lombarda.56
Come servetta acrobata – e ugualmente vittima di una precipitosa caduta,
al San Samuele, per un guasto nell’attrezzeria – aveva d’altronde esordito uno
dei più rilevanti capocomici del secondo Settecento, Faustina Tesi, la «Ristori
dell’epoca», nella definizione tutt’altro che demenziale di un Luigi Rasi. Del
marito, a cui doveva quei rudimenti nell’arte comica che con «perspicace talento» e «instancabile applicazione»57 aveva messo presto a massimo frutto, si
era rapidamente disfatta: mal tollerava l’incuria di un compagno che si ridu-
53. Cfr. Venezia, Biblioteca di Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42.f.8/1, Scritture e
Lettere, cit., cc. 5-6: il contratto è sottoscritto in data 8 ottobre 1741 e prevede la durata di otto
anni (dal 1742 al 1749). Per la differenza tra parti fisse e stipendiati, cfr. A. Scannapieco, Carlo
Goldoni direttore e ‘salariato’ dei suoi comici, «Studi goldoniani», ix n.s. 1, 2012, pp. 27-37.
54. Valga in tal senso una testimonianza del Bartoli: «Essendo l’anno 1744. in Venezia a
recitare nel Teatro S. Luca al servizio de’ Nobili Uomini Signori Fratelli Vendramini ebbe da
Bartolommeo Vitturi Cittadino Veneziano una Tragedia intitolata: Berenice Regina d’Armenia, la
quale fu posta in Scena; ed Elisabetta vi sostenne egregiamente il carattere eroico di quella gran
Donna» (Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. i, pp. 1-2).
55. Cfr. Croce, I teatri di Napoli, cit., p. 422 (da cui anche la citazione a testo).
56. Si tratta di una supplica presentata da «Elisabetta da Flisio detta la Passalacqua», in data
10 dicembre 1748, per avere in gestione il teatro di Parma nel carnevale successivo; nella relativa autorizzazione si fa espresso riferimento alla «compagnia di detta Donna» (il documento,
conservato presso l’Archivio di stato di Milano e senz’altro bisognoso di ulteriori verifiche, è
citato in L. Rasi, I Comici italiani. Biografia, Bibliografia, Iconografia, Firenze, Fratelli Bocca, 1897,
vol. i, p. 10).
57. Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. ii, p. 247.
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I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO
ceva a guitto di provincia. Già prima donna, aveva deciso di studiare musica, e per oltre un lustro – tra 1764 e 1771 – era riuscita a spendersi in questa
nuova veste, giungendo finanche a fregiarsi del titolo di «virtuosa del duca di
Brunswich [Brunswick-Wolfenbüttel]».58 Era poi tornata al teatro di parola, subito accolta dalle primarie compagnie: ma né la Medebach, né la Paganini, né
la Rossi riuscirono a contenere il suo «inquieto spirito intollerante, e focoso».59
La «Megera» – così nel sintetico epiteto di Antonio Piazza, gentiluomo come
sempre – «sapea conciliarsi sì bene l’odio di tutti, che veniva universalmente
chiamata la Furia del teatro comico», ma, a detta del medesimo, era solo una
«donna di merito, che avea la disgrazia di farsi odiare da tutto il mondo».60
Merito e inflessibile rigore, nell’esercizio e nella concezione stessa della professione, che la «costrinsero» – così, significativamente, il Bartoli – a formare
una compagnia propria che, dal 1776 e sino alla morte (1781), condusse «con
decoro, avendo occupate buonissime Piazze, come Bologna, Parma, Trieste,
Milano, Brescia e Mantova, con altre di minor conto».61 Per salvare le convenienze – di vario tipo – si era messa a fianco un giovane amante (Cristoforo
Merli, modesto primo innamorato), ma si guardò bene dal vincolo coniugale,
e mantenne sempre, chiara e inequivocabile, la direzione della compagnia:62
58. Tale figura negli allestimenti cremonesi della Sposa fedele e degli Uccellatori (entrambi del
1769: n. 22446 e n. 24190 del Sartori, cui si rinvia anche per tutti gli altri elementi richiamati
sinteticamente a testo).
59. Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. ii, p. 248.
60. A. Piazza, L’attrice (Il teatro, ovvero fatti di una veneziana che lo fanno conoscere, 1777-1778),
a cura di R. Turchi, Napoli, Guida, 1984 (le citazioni, rispettivamente, alle pp. 56, 51 e 54).
61. Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. ii, pp. 248-249.
62. Direzione esercitata – ricordava sempre Bartoli – con «quell’alterezza subitanea, ed
improvvisa, che la faceva essere fastidiosa co’ compagni, e poco rispettosa con il pubblico istesso». Una preziosa tessera documentaria dell’inflessibilità nella conduzione della troupe è stato
rintracciata nell’archivio parmense da Paola Cirani: dopo che la sua compagnia era stata ingaggiata per i teatri di Parma e Colorno (dov’era la residenza estiva della corte) per la stagione
autunnale del 1776, la Tesi licenzia su due piedi il secondo amoroso, Luigi Delicati, e giunge a
fare istanza presso il sovrano affinché l’attore abbia proibito l’accesso nel territorio parmense per
tutto il periodo di soggiorno della compagnia, istanza che Don Ferdinando accoglie senz’altro
(P. Cirani, Musica e spettacolo a Colorno tra XVI e XIX secolo, Parma, Zara, 1995, pp. 72-73). Sulle
ragioni profonde che animavano i «collerici trasporti» della Tesi, sempre Bartoli ha tracciato
considerazioni non facilmente liquidabili come effetti della retorica dell’elogium: «questi suoi
collerici trasporti hanno però l’origine da un buonissimo sentimento, e da quel zelo, per cui
vorrebbe che ognuno operasse con estrema cura nell’esecuzione de’ proprj doveri, se si parla
de’ Compagni suoi, o de’ personaggi che ella stipendia; e se del Pubblico si ragiona, un eguale
amore della sua professione la fa trascendere in orgogliose dimostrazioni, a motivo di qualche
non curanza ch’ella veda trovarsi negli uditori per lei, sentendosi alzar la voce in tempo ch’ella
recita, e distraerle così quella lode che fervidamente ambisce di poter guadagnarsi» (Bartoli,
Notizie istoriche, cit., to. ii, pp. 249-250).
125
ANNA SCANNAPIECO
sicché lo stesso Bartoli, nel piano editoriale del suo opus, la qualifica – unica
insieme a Maddalena Battaglia – «Direttrice della sua Compagnia».
Siamo già – insensibilmente, e non a caso – trapassati nella categoria delle
comiche impresarie, ma varrà la pena ricordare almeno un’altra tipologia riscontrabile nell’affollata schiera delle comiche canterinole: quella ben testimoniata dal
caso (non unico) di Antonia D’Arbes Grandi, in cui arte attorica e arte canora
andarono intrecciate lungo tutta la carriera artistica. Figlia d’arte per eccellenza, Antonia era tuttavia stata avviata dal padre, il celeberrimo Pantalone Cesare D’Arbes, all’educazione musicale e canora, e il matrimonio con Tommaso
Grandi – un eccellente primattore, con pronunciate risorse ‘multimediali’ (era
o sarebbe stato anche ballerino, cantante e autore drammatico) – aveva spinto
la sua formazione ad ampliarsi sul versante recitativo, per poi presumibilmente
lasciarla a sua volta influire su quella del marito: sicché per entrambi può essere
tenuto nel conto di traguardo, almeno simbolico, l’allestimento del Pygmalion,
il rivoluzionario melologo di Rousseau, dapprima a Milano nell’originale francese (1775) e poi a Venezia nella traduzione dell’abate Perini (1777).63
5. Per quanto sia, forse, il capitolo più fruttuoso, alle comiche impresarie
non potremo che dedicare i ristretti margini di una conclusione, la più provvisoria possibile – un finale aperto per destino e convenienza.
Valga innanzitutto la considerazione di un dato meramente numerico e
nominale: solo due – come si è già accennato – sono le comiche a cui Bartoli,
nell’elenco delle voci allegato al manifesto promozionale dell’opera, attribuisce il titolo di «Direttrice della sua Compagnia»; le controparti maschili, invece, sono trentuno, distinte in antichi (otto), moderni (dieci), viventi (undici),
viventi ma alienati dall’arte (due); agli uomini, inoltre, la qualifica associata è
sempre e solo quella di Capo Comico. Il dato numerico viene in realtà corretto
nella redazione concreta delle singole voci, dal momento che, come s’è visto, le
Notizie istoriche consentono, per via diretta o meno,64 di individuare mansioni
63. Cfr. i n. 18680 e n. 18701 del repertorio del Sartori. Com’è noto, con la scène lyrique
del Pygmalion (composto nel 1762, andato per la prima volta in scena a Lione nel 1770, poi nel
1772, con prodigiosa affluenza di pubblico, all’Opéra di Parigi, e infine, 1775, alla Comédie
Française), Rousseau aveva inaugurato un nuovo genere rappresentativo, il melologo, cioè un
testo poetico declamato da uno o più attori sulla base di un accompagnamento musicale cui si
alternano brani orchestrali; sulla sua fortuna italiana, cfr. G. Morelli-E. Surian, ‘Pigmalione’
a Venezia, in Venezia e il melodramma nel Settecento. Atti del convegno internazionale di studio
(Venezia, 24-26 settembre 1973), a cura di M.T. Muraro, Firenze, Olschki, 1981, vol. ii, pp.
147-167. Per molti versi analogo a quello di Antonia D’Arbes Grandi è il caso di Giulia Gritti
Pizzamiglio.
64. Nel repertorio di Bartoli non c’è riferimento all’attività impresariale di Regina
Cicuzzi ed Elisabetta D’Afflisio Moreri; non sono proprio menzionate, inoltre, le comiche-
126
I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO
capocomicali in ben dodici attrici settecentesche, di cui solo una non vivente:
il che ci porterebbe al paradosso – non è beninteso mia intenzione accreditarlo – di un numero di capocomiche coeve a Bartoli maggiore del corrispettivo
maschile. È evidente che, in molti casi, si tratta di entità non comparabili: alcune attrici possono assumere funzioni capocomicali in brevi segmenti della
loro carriera, o in mercati periferici, o perché subentrano alla morte del titolare della ‘ditta’ in quanto mogli divenute vedove: ma, per quanto ridimensionato e ridotto alle sue reali proporzioni, il dato non può continuare a essere
eloquente se rapportato a un contesto storico-giuridico in cui aveva pieno vigore di legge il deficit di capacità, radicato nell’identità di genere, che escludeva le donne dalla sfera pubblica e dall’esercizio di officia e munera, e in cui
lo statuto di ‘proprietario’ entrava in collisione con quello di minus habens.65 E
forse l’acribia storiografica di Bartoli, al di là delle sue stesse intenzioni, registra i connotati di un fenomeno emergente,66 che si rispecchia già nella scelta lessicale – e sia pur usata con estrema parsimonia – del titolo di direttrici, in
luogo di quello di capocomiche: la differente denominazione rendeva omaggio
al principio della distinzione della gerarchia dei generi e dei ruoli, ma anche
all’affermarsi di nuove identità, giuridiche (di fatto) non meno che artistiche.67
impresarie Marta Colleoni e Teresa Consoli, su cui si intrattiene invece a lungo Colomberti
(e, di riflesso, Rasi).
65. Valga per tutte la testimonianza del repertorio giuridico tardosettecentesco dell’avvocato padovano Marco Ferro: «Gli uomini, per la prerogativa del loro sesso, e per la forza del
loro temperamento, sono naturalmente capaci di ogni sorte d’impieghi e di obbligazioni; al
contrario le femine, a motivo della debolezza del loro sesso, e della loro naturale delicatezza,
sono escluse da molti ufficii, e dichiarate incapaci di certe obbligazioni» (M. Ferro, Dizionario
del diritto comune, e veneto, che contiene le leggi civili, canoniche e criminali, Venezia, Fenzo, 1778-1781,
10 to.; la citazione è tratta dal to. v [1779], s.v. femmina). Sulla problematica in oggetto, anche per
ulteriori indicazioni bibliografiche, cfr. S. Feci, Pesci fuor d’acqua. Donne a Roma in età moderna:
diritti e patrimoni, Roma, Viella, 2004.
66. Fenomeno che peraltro non aveva mancato di avere anticipazioni nel secolo precedente, come attesta almeno il caso di una Giulia de Caro (1646-1697), al cui riguardo ha però
osservato Siro Ferrone: «Non è da escludere che la fama di teatrante malavitosa le derivasse non
solo dalle azioni commesse ma anche dalla pratica manageriale: donne cantanti e attrici si erano
viste oramai da tempo, ma non così sfrontate da pretendere di occupare addirittura il ruolo di
‘impresarie’ e non solo in Napoli ma anche tra Napoli e Venezia. Fu un’eccezione, Giulia De
Caro» (Ferrone, La Commedia dell’Arte, cit., p. 59).
67. L’identità giuridica, almeno sotto il profilo formale, avrebbe notoriamente dovuto attendere tempi molto lunghi; ma è tutta da meditare la circostanza per cui la trattatistica italiana
di fine Ottocento riconoscesse, proprio in materia teatrale, una virtuosa ‘legislazione di fatto’
che avrebbe dovuto incidere sulla ridefinizione normativa della giurisprudenza in materia: «Il
principio della libertà nelle industrie e nei commerci, che vedemmo applicarsi indistintamente anche nelle materie teatrali, doveva eliminare dalle nostre leggi una disposizione che vieti
d’affidare alle donne la direzione di compagnie teatrali; ed abbiamo anzi in pratica l’esempio di
127
ANNA SCANNAPIECO
distinte attrici, quali la signora Ristori, la signora Sadowschi, la Duse ed altre, che diressero per
molto tempo le loro compagnie drammatiche, mostrando col fatto come sieno poco fondate le
pretese ragioni di convenienza e le apprensioni di pericoli che determinarono altre legislazioni
a contrarie misure» (E. Rosmini, Legislazione e giurisprudenza dei teatri, terza ediz. riveduta e
corretta dall’autore, Milano, Hoepli, 1893, p. 32, corsivo originale; si veda anche la sez. ii del
cap. v, p. ii, dedicata alle Scritture delle donne maritate, dove l’autore, obtorto collo, è costretto a riconoscere il vincolo dell’autorizzazione maritale nella misura in cui l’impegno professionale della
donna confligga con i suoi, assolutamente prioritari, «doveri di moglie e di madre»; mentre è
riconosciuta «piena capacità e libertà di obbligarsi alle nubili e alle vedove» [ivi, rispettivamente
alle pp. 395 e 393]).
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Franco Perrelli
IL MULO DI LESSING
1. «Ed ora, per questa volta, basta con la Mérope!». Così conclude Lessing il
capitolo l del primo volume della Drammaturgia d’Amburgo (1767-1769), rendendosi ben conto che l’analisi serrata e incrociata della Merope di Scipione
Maffei (1713) e della Mérope di Voltaire (1736-1738) aveva occupato decine di
pagine delle sue cronache (a partire dal capitolo xxxvi): «un settimo» – è stato calcolato dal Robertson –1 di un’opera che, non senza ironia, l’autore aveva
immaginato che i suoi lettori potessero desiderare «varia, divertente e allegra
come può essere soltanto una rivista di teatro».2
Lessing si era soffermato tanto su due indubbi e discussi successi teatrali del
XVIII secolo: la Merope italiana era stata rappresentata a Modena nel giugno
del 1713 da Elena Balletti e Luigi Riccoboni, con precisi intenti di riforma e
regolarizzazione scenica, non estranei a certi ideali dell’Arcadia; quella francese, nel febbraio del 1743 da les Comédiens du Roi, protagonista Mlle Dumesnil. Il confronto fra i due testi, la contrapposizione fra stile italiano e stile
francese, se non addirittura fra Verona e Parigi, avevano sollevato sonore polemiche e, per di più, sul lavoro di Voltaire s’era posato il sospetto del plagio
in relazione alla Merope del Maffei (un’ipotesi cui Lessing avrebbe dato peraltro ampio credito). Tuttavia, ciò che interessava prioritariamente l’autore della Drammaturgia d’Amburgo era sciogliere nodi teorici strategici sia relativi alla
tragedia di Euripide sia alla Poetica di Aristotele.
Maffei, dopo tutto, si era impegnato, con Merope, a restare nell’ambito di
un aristotelismo che non fosse soffocato, alla francese, da regole vincolanti,
bensì sostenuto dai principi di verità e di natura, con un accento particolare «sul diletto e il piacere che accompagnano la rappresentazione scenica del-
1. J.G. Robertson, Lessing, Maffei and Calepio, «The Modern Language Review», xiii,
1918, 4, pp. 482-483.
2. G.E. Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, a cura di P. Chiarini, Roma, Bulzoni, 1975, pp.
234, 231 (rip. facsimile dell’ediz. Bari, Laterza, 1956).
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 129-139
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18365
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
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FRANCO PERRELLI
la tragedia». Era qualcosa che, in parte, confliggeva con l’intento riformatore
lessinghiano sì «di dilettare il proprio pubblico, ma […] innanzitutto […] di
spronarlo ad esercitare le proprie capacità di critica nei confronti di quanto
rappresentato sulla scena».3
L’attenzione lessinghiana per la Merope finiva per essere quindi tutt’altro che
circoscritta e celava nientemeno che l’obiettivo d’individuare propriamente «ciò
che dovrebbe e non dovrebbe esserci in una tragedia».4 Dopo tutto, se la Merope
di Maffei costituiva, per generale riconoscimento ed effervescenza polemica,
un modello di rinascita del tragico nel XVIII secolo (tanto da essere copiata
da Voltaire), la questione da trattare superava ogni proposito di mera erudizione e aveva anche a che fare con l’essenza e il destino del dramma moderno.
2. L’analisi di Lessing prendeva spunto, in prima battuta, dalla rappresentazione amburghese della tragedia di Voltaire, il 7 luglio 1767, e metteva subito
in evidenza che il testo di Mérope, in Francia, aveva riscosso un successo così
fanatico da avere imposto «l’artificio in luogo della naturalezza»5 ed elogi tanto esagerati da aver fatto ritenere addirittura sopportabile la perdita di un antico Cresfonte, tragedia greca di analogo argomento, della quale si possiedono
solo frammenti: «meglio, esso non è più perduto: Voltaire ce lo ha restituito»,
ironizza il critico tedesco.6
Nel capitolo xxxvii, Lessing, soffermandosi per l’appunto sulle fonti dichiarate (sulla scorta della non sempre impeccabile erudizione del tempo) dallo stesso Maffei, per la sua tragedia nella Lettera dedicatoria del 10 giugno 1713 al duca
Rinaldo I di Modena – dopo aver menzionato Pausania, Apollodoro e Igino
–, sottolinea che anche «Aristotele, nella sua Poetica, ricorda un Cresfonte in cui
Merope riconosce il proprio figlio [Egisto o anche Telefonte] nel momento in
cui sta per ucciderlo, credendolo l’assassino del figlio medesimo. […] È vero» –
aggiunge Lessing – «che Aristotele nomina questo Cresfonte senza citare l’autore,
ma poiché troviamo ricordato un Cresfonte di Euripide in Cicerone e in molti
altri scrittori antichi, egli non poteva che riferirsi all’opera di questo poeta».7
Stabilito ciò e data la circostanza che Aristotele (come Lessing ricorderà
anche in seguito) definisce, nonostante qualche riserva, Euripide «tragicissi-
3. P. Scotton, La poetica della ‘Merope’ nella ‘Drammaturgia’ amburghese di Lessing. Pubblico e
catarsi, in «Mai non mi diero i Dei senza un egual disastro una ventura»: la ‘Merope’ di Scipione Maffei
nel terzo centenario (1713-2013), a cura di E. Zucchi, Milano-Udine, Mimesis, 2015, pp. 152 ss.,
158-159.
4. Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 231.
5. Ivi, p. 177.
6. Ivi, p. 175.
7. Ivi, pp. 178-179.
130
IL MULO DI LESSING
mo fra tutti i poeti tragici»,8 il passo relativo al Cresfonte – a detta anche di vari
commentatori – avrebbe attribuito a questo tipo di tragedia a lieto fine (appunto come la Merope di Maffei) la peculiarità di porsi come un vero e proprio
modello poiché la stessa Poetica sancisce che, in una tragedia, è «meglio se chi
agisce non fa e viene a sapere dopo aver agito; la situazione non è ripugnante e
il riconoscimento ha un effetto di sorpresa. La situazione migliore è però […]
come quando nel Cresfonte Merope sta per uccidere suo figlio, e non lo uccide
perché lo riconosce, o come nell’Ifigenia la sorella sta per uccidere il fratello, o
nell’Elle il figlio riconosce la madre quando sta per consegnarla».9
Il passo aristotelico scatena in Lessing una puntuta discussione che si dirama dall’apparente contraddizione che la Poetica, oltre alla peripezia a lieto fine,
sancisce pure che «una buona trama tragica non deve avere uno scioglimento
lieto, ma funesto».10 In questo caso e di norma, Lessing s’impegna a risolvere
le difficoltà teoriche, interpretando Aristotele in una chiave laica e invitando,
nello specifico, critici e drammaturghi a considerare flessibilmente le sfaccettature di una fabula scenica: «se essa non vi concede altro che o la migliore
peripezia, o la migliore trattazione della catastrofe, cercate quale elemento
dell’alternativa vi offra vantaggi maggiori, e scegliete».11
È un fatto però che il Cresfonte di Euripide intriga non poco Lessing,
tanto da spingerlo a una sorta d’ipotetica ricostruzione di questa tragedia
perduta, fermo che il tema di Merope, a suo avviso, in base alla relativizzazione del citato passo della Poetica, «non può essere considerato senz’altro
una perfetta favola tragica» (quantomeno con la benedizione dell’autorità
di Aristotele), perché le lodi del filosofo «non si riferiscono all’intera favola, ma solo a una singola parte della stessa».12 Era quindi un’iperbole insostenibile quanto scritto da Voltaire, nella Lettre à M. Maffei, nella quale – in
cortocircuito con un riferimento plutarcheo – si sosteneva che Aristotele,
nella Poetica, aveva esaltato il coup de théâtre euripideo del riconoscimento di
Merope e di suo figlio come «il momento più interessante di tutta la scena
greca», smentita peraltro da altri mirabili (e sempre relativi) casi di riconoscimento in un autore come Euripide, «che ha fatto uso frequentissimo della
peripezia a finale tragico».13
8. Ivi, p. 188. E cfr. Aristotele, Poetica, a cura di G. Paduano, Roma-Bari, Laterza, 20119,
1453a 29-30.
9. Ivi, 1454a 4-9.
10. Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 180.
11. Ivi, pp. 185-186.
12. Ivi, p. 186.
13. Ivi, pp. 187-188.
131
FRANCO PERRELLI
3. I pochi frammenti del Cresfonte euripideo non c’illuminano sulla struttura di questo dramma e, per Lessing, un ulteriore problema sorge addirittura
con il titolo, che rimanda a un protagonista che dovrebbe essere defunto da
tempo quando il figlio (Epito o Telefonte, a seconda dell’attribuzione del nome) rientra in possesso del suo regno: «Ora, si è mai sentito che una tragedia
s’intitoli dal nome di un personaggio che non vi compare affatto?».14 Tuttavia,
se Maffei ha tratto la sua materia – come afferma – dalla Favola 184 ovvero
dalla «miniera» o «repertorio di argomenti tragici» di Igino, non è escluso che
si possa tentare di farci un’idea della tragedia perduta di Euripide, sebbene quel
ricco materiale vada trattato con cautela, presentandosi piuttosto indifferentemente sia derivato dalla tradizione sia dalla materia tragica.15
Per quanto riguarda Maffei, Lessing gli dà atto che non intendesse ricostruire
il Cresfonte, anzi, allontanandosi dal «preteso impianto euripideo», che puntasse
su un’unica situazione particolarmente commovente, affrontando il tema della
madre che amava il proprio figlio tanto da volerne vendicare l’assassinio con
le proprie mani. Così aveva messo in assoluto rilievo nella tragedia «l’amore
materno in generale» ovvero una «passione piena di purezza e virtù, escludendo ogni altro affetto».16 Per Lessing è comunque assai verosimile che Euripide
si rivelasse superiore nel trattamento della leggenda di Merope sia rispetto a
Maffei sia rispetto a Voltaire. Infatti, sull’ipotetica traccia di Igino, il servo cui
il figlio di Merope era stato affidato, le avrebbe annunciato la sua scomparsa:
poco prima ella aveva udito, appunto, che era arrivato uno straniero, il quale si vantava di averlo ucciso, e che questo straniero riposava placidamente sotto il suo tetto.
Ella afferra la prima cosa che le capita fra le mani, corre piena d’ira verso la stanza di
lui, il vecchio le si precipita appresso: e il riconoscimento avviene proprio nell’istante
in cui il delitto avrebbe dovuto compiersi. Tutto ciò era molto semplice e naturale,
molto umano e commovente!
Insomma, con logica e tecnica drammatica più serrata, Euripide sarebbe stato
certo in grado di far fremere gli ateniesi
per Egisto, senza poter provare un sentimento d’orrore per Merope. Essi tremavano
per lei stessa, che una scusabile precipitazione minacciava di trasformare nell’assassina del proprio figlio. Al contrario, Maffei e Voltaire mi fanno tremare soltanto per
la sorte di Egisto, giacché io sono così indignato con la loro Merope, che quasi vorrei concederle di portar a compimento il suo gesto. E così fosse! Se ella può prender
14. Ivi, pp. 187 ss. (189 per la citazione).
15. Ivi, pp. 189-190.
16. Ivi, p. 192.
132
IL MULO DI LESSING
tempo per la vendetta, avrebbe potuto prenderlo anche per condurre delle indagini.
[…] Non vorrei sbagliarmi di grosso, ma ad Atene l’avrebbero fischiata.17
Lessing – sempre appoggiandosi a Igino – ha motivo di ritenere che, in Euripide, Egisto, pur cauto a svelarsi alla madre per i più imponderabili motivi
drammatici, a differenza di quello moderno (che capita a Messene sconosciuto
a sé stesso e per caso), fosse perfettamente consapevole della propria identità e
nutrisse un preciso intento di vendetta. Gli elementi di oscurità e di casualità
con cui Maffei ha trattato l’azione del personaggio hanno conferito a tutta la
sua tragedia «un carattere confuso, ambiguo e romanzesco». Lessing ipotizza
invece che, nel testo di Euripide, lo spettatore apprendesse
da Egisto stesso la sua vera identità; e più egli era certo che Merope si apprestava a uccidere il proprio figlio, tanto più grande doveva essere il terrore che lo afferrava, tanto
più dolorosa la pietà alla quale egli si preparava, nel caso che il proposito di Merope
non venisse frustrato a tempo. In Maffei e Voltaire, al contrario, noi congetturiamo
soltanto che il presunto assassino sia il figlio stesso, e il nostro terrore si raccoglie tutto nel preciso istante in cui è destinato a dissolversi.18
Secondo Lessing, Euripide, quindi – con una tecnica superiore e aliena
dall’effimero coup de théâtre dell’agnizione patetica all’acme delle opere di Maffei e di Voltaire –, avrebbe trattato in chiaro l’identità di Egisto, traendo da ciò
un effetto di terrore e soprattutto di pietà più protratto e assai più intenso attorno al personaggio di Merope.
4. Lessing approda così ai cruciali capitoli xlviii e xlix, nei quali s’impegna in una definizione più puntuale dell’eccellenza di quello che Aristotele
aveva incoronato come il «più tragico di tutti i poeti tragici».19
Preliminarmente, Lessing ci offre un’ampia citazione del «migliore dei critici francesi», Denis Diderot, tratta da Sulla poesia drammatica del 1758.20 Nel
capitolo xi di quest’opera, relativo a «cosa sostiene e rafforza l’Interesse» in
teatro, Diderot fissa un piccolo (e dichiarato) paradosso sul dramma: «tutto deve essere chiaro per lo spettatore. Confidente di ogni personaggio, informato di ciò che è avvenuto e di ciò che avviene, ci sono cento momenti in cui
non si ha niente di meglio da fare che informarlo con precisione di ciò che
accadrà». Pertanto:
17.
18.
19.
20.
Ivi, pp. 220-221.
Ivi, pp. 222-223.
Ivi, pp. 226, 229.
Cfr. ivi, pp. 224-225.
133
FRANCO PERRELLI
Sono così lontano dal pensare con la maggior parte di coloro che hanno scritto di
arte drammatica, che si debba nascondere allo spettatore lo scioglimento, che non
penserei di accollarmi un’impresa molto al di sopra delle mie forze, se mi mettessi a
scrivere un dramma in cui lo scioglimento fosse annunciato dalla prima scena, e dove attingessi l’interesse più vivo proprio da questa circostanza.
Di conseguenza, «per una occasione in cui è opportuno nascondere allo spettatore un avvenimento importante prima che accada, ce ne sono molti altri in cui l’interesse chiede il contrario. […] Non piangerò che un istante
colui che sarà colpito e abbattuto in un momento. Ma» – si domanda Diderot – «come mi sento, se il colpo si fa attendere, se vedo il temporale formarsi sulla testa mia o di un altro, e restarvi a lungo sospeso?». Insomma, «tutti i
personaggi si ignorino, se volete, ma lo spettatore li deve conoscere tutti». Un
dramma in cui «tutto ciò che concerne i personaggi è noto» può porsi all’origine «delle emozioni più vive» e il modello «geniale» di tale dramma sta in
Euripide, «il poeta greco, che rimandò fino all’ultima scena il riconoscimento
di Oreste e di Ifigenia».
A questo punto, Diderot chiede: «Perché certi monologhi hanno così grande effetto? Perché mi informano dei segreti disegni d’un personaggio, e questa
confidenza mi coglie in un istante di timore o di speranza». Per Diderot, tutto
deve essere chiaro sin dal principio per lo spettatore e vanno evitati i colpi di
scena: «Che lo spettatore sia al corrente di tutto, e i personaggi si ignorino se è
possibile; che, soddisfatto di ciò che è presente, io possa augurarmi vivamente
ciò che seguirà; che un personaggio me ne faccia desiderare un altro; un episodio mi affretti verso il seguente; che le scene siano rapide; non contengano
che cose essenziali all’azione, e io sarò interessato». Concludendo: «L’ignoranza e la perplessità eccitano la curiosità dello spettatore, e la mantengono viva;
ma sono le cose note e sempre attese che lo turbano e lo agitano. Questo è un
espediente sicuro per tener sempre presente la catastrofe».21
Anche per Lessing la sorpresa resta affidata alle reazioni degli interpreti sulla
scena, non a quella degli spettatori, il cui interesse va orientato non su cosa, ma
su come la tragedia si sviluppi. Questi spettatori devono vivere nell’illusione
scenica perché possano attingere una vera catarsi. Infatti, scopo essenziale del
poeta tragico, che ha per mira di suscitare pietà, è essenzialmente quello di
non distruggere il principio dell’«illusione scenica».22 Per Lessing, la posizione di Diderot, che presuppone alla base dell’autentica dinamica drammatica
una forte componente diegetica, elettivamente affidata alla forma narrativa
21. D. Diderot, Teatro e scritti sul teatro, a cura di M. Grilli, Firenze, La Nuova Italia, 1980,
pp. 268 ss.
22. Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 201.
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IL MULO DI LESSING
del monologo, dà effettiva sostanza all’eccellenza di Euripide su Maffei e su
Voltaire, autori nei quali «Egisto è un enigma per sé e per il pubblico». In
Euripide, per contro, gli spettatori avrebbero conosciuto Egisto sin dal principio e si sarebbe così creata una giusta tensione drammatica, dove Maffei e
Voltaire non sono in grado di realizzare altro che una tragedia fatta di «una
“serie di piccoli artifici”, i quali riescono a provocare soltanto una sorpresa
di breve durata».23
Del resto, «Euripide era così sicuro del fatto suo, che quasi sempre indicava in precedenza al pubblico la meta a cui voleva condurlo. Anzi» – aggiunge Lessing –, «sarei molto incline a prendere, da questo punto di vista,
le difese dei suoi prologhi, che oggi dispiacciono tanto ai moderni critici», 24
e qui viene richiamato un famoso trattato classicista del 1657, la Pratique
du théâtre dell’Abbé d’Aubignac, 25 che, nel primo capitolo della parte iii, si
esprime duramente contro l’uso del prologo fatto da Euripide (a differenza
di Eschilo e Sofocle, che «hanno sempre trattato benissimo il loro soggetto nel corso dello sviluppo drammatico»), specie quando mette in gioco un
dio onnisciente che
spiega non solo il passato, ma anche il futuro, non accontentandosi d’istruire lo spettatore dell’antefatto, necessario all’intelligenza del dramma, ma mettendo al corrente
dello scioglimento e della catastrofe completa, di modo che tutti gli avvenimenti siano
previsti: si tratta di una pecca assai rilevante assolutamente opposta a questa attesa o
sospensione [attente ou suspension] che deve sempre regnare in teatro, distruggendo tutte
le attrattive di un dramma, che consistono quasi sempre nella sorpresa e nella novità.
Per Lessing, all’opposto, non solo andavano benissimo i prologhi, ma persino
le rivelatrici liste dei personaggi con il doppio nome, che era proprio quanto
Maffei (assieme agli argomenti riassuntivi), per parte sua, riteneva distruttivo
della sorpresa drammatica.26 L’autore tragico, per il critico tedesco, non deve
inseguire effetti effimeri ed epidermici, ma avere di mira una catarsi che incida
profondamente e non casualmente sullo spettatore in quanto educazione alla
compassione e alla «trasformazione delle passioni in disposizioni virtuose».27
Per Lessing, la tragedia è essenzialmente socratica e, in un’accezione euripidea, si esprime nel «conoscere l’uomo e noi stessi; essere attenti ai nostri sen23. Ivi, p. 225.
24. Ivi, pp. 225-226.
25. Abbé d’Aubignac, La pratique du théâtre, Amsterdam, Bernard, 17152, pp. 146-147. Mia
la traduzione.
26. Cfr. P. Trivero, Tragiche donne: tipologie femminili nel teatro italiano del Settecento,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000, pp. 14-15.
27. In F. Perrelli, Poetiche e teorie del teatro, Roma, Carocci, 2015, p. 135.
135
FRANCO PERRELLI
timenti; indagare e amare la natura per le vie più piane e più brevi; giudicare
ogni cosa secondo la sua destinazione».28
5. L’uso spregiudicato dell’elemento diegetico, considerato da critici prestigiosi una vera e propria minaccia per l’efficacia drammatica, diventava per
Lessing una qualità: Euripide sapeva che, con questo espediente, poteva «raggiungere una perfezione molto più alta». Infatti, «si riprometteva di ottenere
la commozione, che desiderava suscitare, non tanto da quello che sarebbe accaduto, quanto dal modo [in cui] l’avvenimento si sarebbe verificato».
Un dio onnisciente, che neanche partecipa all’azione, ma si rivolge al pubblico «mescolando in tal modo il genere drammatico con quello narrativo» è
poi davvero – nei termini di una rappresentazione teatrale – così inconcepibile?
E finalmente – chiede Lessing –, che significa la mescolanza dei generi? I trattati di
precettistica letteraria li distinguano pure con la maggior esattezza possibile; ma se
un genio, per raggiungere più alti scopi, mescola in una sola opera alcuni di essi, dimentichiamo il trattato e indaghiamo, piuttosto, se questi più alti scopi sono stati raggiunti. Cosa mi importa se un lavoro di Euripide non è né tutto racconto né tutto
azione drammatica? Chiamiamolo un ibrido: a me basta che questo ibrido mi diletti
e istruisca più di tutte le regolarissime produzioni dei vostri impeccabili Racine, o
come altrimenti si chiamano. Il mulo, pur essendo un incrocio fra il cavallo e l’asino,
non è forse uno dei più utili animali da soma?…29
Quella di Euripide – per Lessing – non è (come credono i suoi detrattori) un’«arte drammatica ancora nella culla», bensì qualcosa di maturo e neanche troppo eccentrico rispetto a certe norme: «È chiaro, infatti, che tutte
le tragedie, dei cui prologhi [i critici] tanto si scandalizzano» – Jone, Ecuba
– «sarebbero perfette e perfettamente comprensibili anche senza di essi»; il
punto è che Euripide non è affatto interessato all’incertezza e all’aspettativa del pubblico e, quando «Aristotele definisce Euripide il più tragico dei
poeti tragici, non ha in mente il fatto che la maggior parte delle sue opere
si conclude con una catastrofe». Aristotele non pensava, infatti, a tragedie
piene d’orrori e a Euripide riconosceva la qualità d’«indicare in precedenza
agli spettatori l’infelicità che si stava per abbattere sui suoi personaggi, per
ispirare agli spettatori stessi pietà anche quando i personaggi meno pensavano di meritarla».30
28. Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 229.
29. Ivi, pp. 226-227.
30. Ivi, pp. 227 ss.
136
IL MULO DI LESSING
6. Non si creda che la lunga discussione sulla Merope e soprattutto il serrato
confronto di Lessing con Euripide e un Aristotele liberato dai ceppi del regolismo classicista,31 con un’esplicita apertura alla diegesi nel dramma, si limitino in
prospettiva a creare solo più o meno fantasmatiche rifrazioni in Alfieri,32 restando circoscritti al pur cruciale ambito estetico del XVIII secolo. L’irradiazione
prospettica anzi, pur non apparendo così immediata, è assai ampia e rilevante.
Dopo la corposa (e commerciale) fase del teatro ottocentesco di matrice
scribiana, che, nel 1909, Adolphe Thalasso descriveva come la stagione in cui,
superando «il movimento dalla vita», s’impone una superficiale «vita dal movimento», vale a dire una transizione imponente, fra il 1815 e il 1880, dalla commedia di carattere a quella d’intreccio, integrata da vezzi melodrammatici,33
giunti nell’area della crisi del dramma moderno tracciata da Peter Szondi, potremmo schematizzare che si diramano due strade. Una sofoclea, essenzialmente
riconducibile a Ibsen, ma un’altra fangosa, una «mulattiera» (se ci si consente di
riprendere i termini di Walter Benjamin) in direzione del dramma dell’ultimo
Strindberg e della «drammaturgia non-aristotelica» di Brecht,34 che si configura nella sostanza euripidea, proprio in forza dell’analisi di Lessing.
La linea ibseniana della tragedia moderna, fondata sul riaffiorare del passato
in vista della catastrofe, è stata assai presto riconosciuta come sofoclea (e si può
ipotizzare con l’avallo dello stesso autore). Infatti, già Henrik Jæger, nel 1888,
in un’importante monografia sul drammaturgo norvegese (scritta a stretto contatto con lui), aveva individuato la «formula» del suo dramma in un «metodo
analitico», che presentava analogie con la tragedia di Sofocle, rielaborata modernamente da Schiller, venendo a costituire un’opera che
si avvia da quello che sarebbe il punto conclusivo di un dramma comune. Tutte le
ultime opere di Ibsen non sono altro che delle grandi catastrofi finali. La situazione
è pienamente definita prima che il dramma cominci; tutti i momenti critici sono alle
spalle e scopo del dramma è solo illuminare la situazione data fino alle conseguenze più remote. […] [Ibsen] ha scoperto il potere del dramma analitico di rendere un
quadro naturalista in una forma drammatica.
Il drammaturgo norvegese aveva in tal modo surclassato le potenzialità della
«peculiare forma artistica dell’epoca moderna», il grande romanzo ottocente31. Cfr. ivi, p. 412.
32. Cfr. Trivero, Tragiche donne, cit., p. 35; G.P. Marchi, Voltaire, Lessing e Alfieri di fronte
alla ‘Merope’ di Scipione Maffei, «Studi italo-tedeschi», xxiii, 2002, p. 145.
33. Cfr. A. Thalasso, Il ‘Teatro libero’ di Antoine, a cura di G. Liotta, Bologna, PressCoper Service, 1989, pp. 6 ss.
34. Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1955), Torino,
Einaudi, 19725, pp. 129-130.
137
FRANCO PERRELLI
sco: «Mentre il dramma ordinario» – osserva Jæger – «non può che offrire un
cenno delle condizioni psicologiche, il dramma analitico è in grado di rendere
un ricco e dettagliato ritratto dell’anima; può anche consentire ai personaggi
di divulgare i loro pensieri più segreti, e questo senza ricorrere al monologo
o ad altri improbabili stratagemmi».35
La competizione fra romanzo e dramma, per un autore (a differenza di Ibsen)
impegnato sui più vari fronti della scrittura (e non solo) come Strindberg, viene
consumata nella contaminazione pressoché genetica dei generi. In una lettera del
6 maggio 1907, indirizzata al suo traduttore tedesco Emil Schering, nel segno
creativo dei suoi sperimentali drammi da camera, Strindberg affermava infatti:
il segreto di tutti i miei racconti, novelle, favole è che sono dei drammi. Infatti,
quando i teatri mi furono interdetti per lunghi periodi, pensai di scrivere i miei
drammi in forma epica – a uso futuro. […] Ora sono convinto che con una concezione più libera e più nuova del dramma si possono anche prendere in considerazione i racconti esattamente come sono! Sarebbe una novità! – Le scene mutano, ma
non è altro che l’ubiquità di Shakespeare, le riflessioni dell’autore diventano monologhi. Ma si potrebbe anche inserire un nuovo personaggio (corrispondente al coro
dei greci) e potrebbe essere – il Suggeritore, semivisibile, che legge le descrizioni
(paesaggi, ecc.) e racconta o riflette, mentre la scena cambia. […] Tutte le forme
non sono oggi consentite?36
È storicamente assodato che August Strindberg fu un assiduo lettore sia di
Euripide sia di Lessing37 e, sebbene non si possano definire nel caso specifico del
documento riportato dei nessi immediati, non ci sentiremmo di negare ch’esso
sia il frutto teorico, oltre che dei fermenti avanguardistici del principio del XX
secolo, anche dello sdoganamento lessinghiano della «mescolanza dei generi».
Chi ha invece recepito, ai fini dell’elaborazione della sua teoria del teatro
epico, diretti impulsi sia da Diderot sia da Lessing (per non menzionare lo
stesso Strindberg) è Bertolt Brecht.38 Walter Benjamin ha sottolineato come
nel teatro brechtiano la posizione rilassata e critica del pubblico combaci con
quella del lettore di un romanzo, del tutto opposta a quella che abbiamo consuetamente di uno spettatore di teatro ovvero «un uomo che segue un succedersi di eventi, profondamente teso in tutte le sue fibre».
35. H. Jæger, Henrik Ibsen 1828-1888. A Critical Biography (1888), New York, Blom, 19722,
pp. 267 ss. Traduzione mia.
36. A. Strindberg, Vita attraverso le lettere, a cura di F. Perrelli, Ancona-Milano, Costa &
Nolan, 1999, pp. 358-359.
37. Cfr. F. Perrelli, Strindberg: la scrittura e la scena, Firenze, Le Lettere, 2009, pp. 45-46, 87.
38. Cfr. R. Critchfield, The Mixing of Old and New Wisdom: On Lessing’s Nathan der Weise
and Brecht’s Der kaukasische Kreidekreis, «Lessing Yearbook», xiv, 1982, pp. 161-162.
138
IL MULO DI LESSING
Un principio essenziale che dovrà poi strutturare il teatro epico sarà
l’«estrema trasparenza» del «congegno artistico»; d’altra parte, Brecht mira a
privare i contenuti drammatici «del loro carattere di sorpresa ad effetto», comportandosi «nei confronti della trama come il maestro di ballo nei confronti dell’allieva; la prima cosa da fare è snodarle le articolazioni fino al limite
estremo», con una fondamentale sostituzione dello stupore all’immedesimazione.39
Insomma, mutatis mutandis, quello che d’Aubignac rimproverava a Euripide.
Del resto, Paolo Chiarini ha definito il teatro epico (con espressione lessinghiana) «un ibrido, un “innaturale” connubio di elementi eterogenei», sottolineando come Brecht rigetti «la classica distinzione fra narrazione e dramma
elaborata da Goethe e Schiller nel loro carteggio del 1797» (ed ereditata, tra
l’altro, da Lukács), appoggiandosi esattamente al Lessing che difende Euripide
nei passi della Drammaturgia d’Amburgo su cui ci siamo soffermati.
Una parte consistente della «rivoluzione copernicana» rappresentata dalla
teoria di Brecht sta così in quel passaggio del Breviario di estetica teatrale del 1948,
nel quale il drammaturgo contesta proprio «la distinzione fatta da Schiller fra
il rapsodo, che ha da trattare il suo soggetto del tutto passato, e il mimo che
deve trattarlo come del tutto presente»; l’interprete deve sapere sin dal principio quale sarà il fine della rappresentazione, serbando «una serena libertà» e
dimostrando di saperne molto di più del suo stesso personaggio, straniando
quindi e facendo saltare ogni presupposto di finzione illusiva, privilegiando
soprattutto «la connessione degli avvenimenti».40
È vero che Lessing e Brecht condividono il principio che il dramma non
debba avere solo una componente di diletto, ma individuarsi in special modo
per «il suo valore conoscitivo e la conseguente necessità che […] istruisca lo
spettatore»,41 tuttavia il paradosso critico che affiora a conclusione del nostro
discorso è che l’apertura in senso illuministico della Poetica e, segnatamente,
la lettura lessinghiana di Euripide, che attinge il rimescolamento del «genere
drammatico con quello narrativo» o – come scrive Chiarini42 secondo Brecht
– il ripudio delle «“zone di rispetto” che la retorica ha assegnato ai diversi livelli di stile», finisce con il dare sostanza a esiti intenzionalmente antiaristotelici. E, in fondo, il grande sovvertitore, dietro le quinte, si rivela, una volta di
più, Euripide, di fronte al quale – aveva a suo modo ragione Nietzsche – bisogna sempre stare in guardia.
39. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., pp. 127 ss.
40. P. Chiarini, Brecht, Lukács e il realismo, Roma-Bari, Laterza, 1970, pp. 89 ss.; B. Brecht,
Scritti teatrali, Torino, Einaudi, 19743, p. 135.
41. Scotton, La poetica della ‘Merope’ nella ‘Drammaturgia’ amburghese di Lessing, cit., p. 162.
42. Chiarini, Brecht, Lukács e il realismo, cit., p. 91.
139
Alessandro Tinterri
SILVIO D’AMICO E LA NASCITA DEL BURCARDO
Di padre in figlio era il titolo originariamente pensato per questa nota sulle
origini del Burcardo, anche se qui si tratta più del padre che del figlio. Padre
e figlio, Silvio e Alessandro d’Amico, condividevano la grande passione per il
teatro e un interesse non erudito per la sua storia. La passione in Silvio d’Amico era alimentata da una frequentazione dei teatri, che travalicava il dovere
professionale, in suo figlio Sandro si traduceva in un piacere non meno intenso
e gratuito, affrancato dall’obbligo professionale. Entrambi si adoperarono per
il teatro e la sua storia, al fine di dotare di strumenti adeguati la storiografia
teatrale, una disciplina tardivamente accolta nell’Università italiana.
Sicuramente agli occhi di Silvio d’Amico doveva apparire un curioso paradosso, non meno inaccettabile del ritardo nell’introduzione della regia nel
nostro teatro, il fatto che proprio l’Italia, culla, con la Grecia antica, del teatro occidentale, non potesse vantare un’adeguata considerazione del teatro in
ambito accademico e storiografico. E a colmare questa lacuna si adoperò con
energia non inferiore a quella impiegata nella battaglia per l’affermazione anche
in Italia di un teatro di regia. Se a questo scopo fu da lui concepita l’Accademia
nazionale d’arte drammatica e, adatto alla bisogna, quello strumento didattico
che è la sua Storia del teatro drammatico,1 ripetutamente aggiornata dal figlio Sandro, per un più vasto progetto storiografico fondò l’Enciclopedia dello spettacolo.2
Entrambi poi, padre e figlio, furono all’origine di due istituzioni preposte
alla conservazione e allo studio del nostro passato teatrale: il Burcardo di Roma e il Museo biblioteca dell’attore di Genova. Se più nota è la parte avuta
1. Cfr. S. d’Amico, Storia del teatro drammatico, Milano-Roma, Rizzoli & C., 1939-1940,
4 voll.
2. Roma, Le Maschere, 1954-1968, 11 voll. (rist. Roma, Unedi-Unione editoriale, 1975).
Alessandro d’Amico fu redattore capo dell’EdS dal 1954 (vol. i) al 1957 (vol. iv). Si vedano da
ultimo, anche per la bibliografia, le pagine di Stefano Mazzoni (Ludovico Zorzi. Profilo di uno
studioso inquieto) e di Francesca Simoncini (Il ‘sistema’ AMAtI fra tradizione e multimedialità), in
«Drammaturgia», xi / n.s. 1, 2014, rispettivamente pp. 74-75 e nota 376, 317-318.
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 141-150
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18366
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
© 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License
(CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original
author and source are credited.
ALESSANDRO TINTERRI
da Alessandro d’Amico nella creazione dell’ente genovese,3 meno risaputo, e
perciò meritevole di approfondimento, il ruolo di Silvio d’Amico nella nascita
della Raccolta teatrale della S.I.A.E.
Ma, prima di inoltrarci a esaminare l’apporto di Silvio d’Amico, occorre
soffermarci, sia pur brevemente, su un’altra figura fondamentale di studioso
amante del teatro: Luigi Rasi.
La Biblioteca e raccolta teatrale della S.I.A.E., comunemente denominata
per brevità il Burcardo, prendeva il nome dall’antico palazzetto in via del Sudario, a due passi dal teatro Argentina a Roma, una suggestiva costruzione, un
ibrido architettonico, misto di tardo gotico tedesco e motivi rinascimentali,
fatto erigere nella seconda metà del Quattrocento dal prelato alsaziano Johannes Burckardt, impiegato presso la corte pontificia.
Significativa per molti aspetti è la storia della formazione di questa importante raccolta teatrale, il cui nucleo costitutivo è rappresentato dalla collezione di Luigi Rasi, figura chiave nella storia del collezionismo teatrale. Attore
di origini e cultura borghesi, Rasi era nato a Ravenna il 20 giugno 1852. Dopo il liceo, le difficoltà economiche della famiglia lo costrinsero a rinunciare
all’università per cercarsi un impiego, presto abbandonato per entrare in arte
nel 1872, con il ruolo di secondo amoroso e secondo brillante, nella compagnia di Fanny Sadowsky, diretta da Cesare Rossi. Ma già sul finire del 1873
doveva lasciare il teatro per il servizio militare, che fece a Lecce sino al 1877.
Durante tutti questi anni e anche in seguito, parallelamente all’attività artistica, che poté riprendere nel 1878, continuò a coltivare gli studi classici (simile
in questo a un’altra singolare figura di attore, Cesare Dondini). Tuttavia, nel
1881, incaricato della direzione della R. scuola di recitazione a Firenze, abbandonò le scene per dedicarsi all’insegnamento e tornare a recitare solo saltuariamente, affiancando, tra gli altri, Tommaso Salvini nel Saul di Alfieri e
nell’Otello di Shakespeare, e per un certo periodo Eleonora Duse, alla quale
dedicò un suo studio.4
Oltre a ciò, Rasi si fece appassionato collezionista di stampe, libri e documenti, tutti concernenti il teatro e la sua storia, conducendo per anni ricerche
3. Su Alessandro d’Amico, con il quale ho avuto la ventura e il privilegio di lavorare per oltre venticinque anni, mi sia consentito rinviare a un mio precedente contributo, Alessandro d’Amico o dell’ascolto, http://drammaturgia.fupress.net/recensioni/recensione1.php?id=4490 (data di
pubblicazione sul web: 13 aprile 2010); sul ruolo da lui avuto nella creazione del Museo biblioteca dell’attore di Genova rimando al mio intervento La sua parte di storia, «Ariel», n.s., i, 2011,
1, pp. 59-64 (numero monografico dedicato a Alessandro d’Amico e Luigi Squarzina due maestri).
4. Cfr. L. Rasi, La Duse, Firenze, Bemporad & figlio, 1901 (ed. mod., con una postfazione
di M. Schino, Roma, Bulzoni, 1986). Per le altre notizie si veda il numero monografico della
rivista «Ariel», vi, 1991, 1, dedicato a Luigi Rasi e la Scuola di recitazione di Firenze.
142
SILVIO D’AMICO E LA NASCITA DEL BURCARDO
negli archivi, compulsando cataloghi antiquari, intrattenendo carteggi. Due
furono i frutti di tale passione e di tanta mole di lavoro: I Comici italiani5 e la
collezione teatrale all’origine del Burcardo.
Se si considerano la genesi di questa collezione e la sue motivazioni, colpisce
la lucidità del progetto culturale illustrato da Rasi in una conferenza dal titolo Della costituzione di un museo dell’arte drammatica.6 Insoddisfatto dell’esistente
e volendo por mano a un catalogo il più possibile esaustivo dei comici italiani
dal tempo della Commedia dell’Arte, si diede alacremente da fare e, mentre da
un lato nella scuola di via Laura formava nuove generazioni di attori, dall’altro
si adoperava per ricostruire la memoria di quelli passati:
E allora per tutto un decennio fu uno scorrere inquieto, vertiginoso di cataloghi di
ogni specie e di ogni paese, un accumularsi di litografie, di incisioni, di disegni originali, di tele, di opere a stampa: una ridda gaia e fantastica di Arlecchini e Pantaloni,
e Brighelli e Dottori, che mi rafforzavano nella mia fede, e mi erano pungolo sempre nuovo e gradito a continuare nella vita aspra, per poter finalmente attingere la
vetta sperata e sospirata.7
L’agognata «vetta» era ai suoi occhi il contributo al «risveglio» degli studi storici sul teatro di prosa italiano, attraverso la revisione e l’aggiornamento
delle Notizie istoriche de’ comici italiani, storico dizionario di Francesco Bartoli,
stampato a Padova nel 1781-1782. Nel rinnovato interesse degli studiosi, soprattutto intorno alla Commedia dell’Arte, Rasi aveva visto, infatti, una conferma di quell’eccellenza dei comici italiani che costituiscono il filo rosso della
nostra tradizione teatrale, il cui primato si può idealmente estendere «fino al
giorno in cui la grande trinità Adelaide Ristori, Tommaso Salvini, Ernesto
Rossi, imperò sovrana in tutto il mondo, alla quale dopo trenta e più anni di
gloria è succeduta nel trono Eleonora Duse».8
La consapevolezza di una tradizione storica e insieme la coscienza della
natura effimera dell’arte dell’attore convinsero Rasi ad accarezzare «l’idea del
Museo dell’arte drammatica italiana»,9 alla quale, nel 1903, cioè nel momento
in cui pronunciava la conferenza, diceva di pensare ormai da vent’anni:
5. Cfr. L. Rasi, I Comici italiani. Biografia, Bibliografia, Iconografia, Firenze, Bocca-Lumachi,
1897-1905, 2 voll.
6. Della costituzione di un museo dell’arte drammatica. Conferenza del prof. Luigi Rasi, in Atti
del congresso internazionale di scienze storiche (Roma, 1-9 aprile 1903), viii. Atti della sezione IV:
Storia dell’arte musicale e drammatica, Roma, Tipografia della R. accademia dei Lincei, 1905, pp.
139-155.
7. Ivi, p. 140.
8. Ivi, p. 141.
9. Ivi, p. 139.
143
ALESSANDRO TINTERRI
Se dell’arte del comico, che è fra le più nobili e le più grandi di tutte le arti, come
quella che in un attimo dà le sensazioni più profonde a una moltitudine pendente
estatica dalle labbra o dal gesto di un uomo o di una donna, non rimane più traccia,
fuorché nella fredda, pallida notizia tramandataci oralmente da’ contemporanei, che
va poi attenuandosi, alterandosi, trasformandosi nel suo passar di bocca in bocca, di
generazione in generazione, perché non serberem noi raccolte in un tempio sacrato
alla storia di quell’arte le memorie di coloro, davanti a’ quali e noi e i nostri avi palpitammo, e palpiteranno i nostri nipoti tornando a vivere con essi, rievocando nella
nostra mente le grandi ore godute per virtù del loro genio, o ricostruendo nella nostra fantasia quelle godute da’ nostri antichi? Se la indifferenza di essi trascinò con
l’ala inesorabile del tempo gran parte di quelle memorie nell’oblio, moltissime ancor
ne rimangono ad attestar la grandezza nostra nel regno del teatro.10
Orgoglioso del patrimonio che era riuscito a raccogliere e consapevole
del suo valore, nel 1912 Rasi diede alla stampe il Catalogo generale della raccolta
drammatica italiana di Luigi Rasi, un volume di 630 pagine, stampato a Firenze
in centocinquanta esemplari.11 In mancanza di maggiori garanzie materiali, il
suo intento era di conservare a futura memoria almeno la traccia dell’impresa di un uomo solo che nutriva qualche legittima preoccupazione sulla sorte
della sua collezione:
Sia la Raccolta teatrale, che son venuto formando con tanto amore e in così lungo
tempo, collocata in Italia o all’Estero; o sia, com’è accaduto pur troppo a quasi tutte le raccolte di chi non ebbe intento di speculazione (Taylor, Filippi, Sapin, Vitu,
Sarcey informino, e primo di tutti il Soleinne), venduta alla spicciolata, ho creduto
opportuno per la storia del nostro teatro comico e un po’ anche per mia soddisfazione darne fuori un catalogo relativamente completo in un esiguo numero di esemplari
(150), che fosse per gli studiosi, per le biblioteche e i professionisti librai un indispensabile ferro del mestiere.12
Seguiva il catalogo ragionato dell’intera raccolta, catalogata per tipologie e
suddivisa in due grandi sezioni: l’una comprendente l’iconografia, l’altra dedicata a biografia e bibliografia. L’iconografia era a sua volta suddivisa in due
gruppi: riproduzioni (ritratti; maschere, buffoni, scene; manifesti illustrati;
fotografie; plastica) e originali (ritratti; maschere, buffoni, scene; plastica). La
seconda sezione, biografia e bibliografia, era articolata in tre gruppi: opere a
stampa (libri, opuscoli; programmi, elenchi; poesie, epigrafi; fogli volanti in
10. Ivi, pp. 148-149.
11. Cfr. Catalogo generale della raccolta drammatica italiana di Luigi Rasi, Firenze, L’arte della
stampa-Successori Landi, 1912.
12. Ivi, p. ix.
144
SILVIO D’AMICO E LA NASCITA DEL BURCARDO
seta), opere manoscritte (lettere; scritture; autografi diversi; manoscritti) e oggetti vari.
Nel 1911 Aldo Ravà, che a Venezia si stava adoperando alla creazione di
un museo teatrale presso la casa di Goldoni, aveva incontrato Rasi a Firenze e
ne aveva ottenuto l’adesione al progetto veneziano, ma la morte colse Rasi a
Milano il 9 novembre 1918, prima del concretizzarsi dell’impresa.
Già nel dare l’annuncio della morte Silvio d’Amico s’interrogava sul destino della collezione Rasi, dal momento che il neocostituito Museo teatrale alla
Scala non aveva potuto, per mancanza di fondi, assicurarsene l’acquisizione. Da
allora il critico romano prese a seguirne passo dopo passo le vicende, a partire
dalla notizia dell’avvio della trattativa per il suo acquisto da parte della Società degli autori, all’epoca avente sede ancora a Milano,13 sino alla sua definitiva
collocazione nel palazzetto romano. Nella sua impresa Rasi era stato mosso
dalla volontà di innalzare gli statuti professionali della categoria degli attori, nel
momento in cui gli autori, spesso a loro contrapposti nella difesa dei rispettivi
interessi di categoria, si riunivano e si rafforzavano, anche grazie alla tenace
azione di Marco Praga, sotto l’egida di una propria società di rappresentanza.
Per un curioso caso della storia, la sorte avrebbe affidato proprio alla Società
degli autori le cure della collezione che intendeva celebrare l’arte dell’attore.
Il destino della collezione Rasi s’intrecciava con la battaglia di D’Amico
per la riforma del teatro italiano e il dibattito prese talvolta i toni della contrapposizione fra Milano e Roma. D’Amico si fece via via sostenitore di diverse soluzioni e in primo luogo espresse la speranza di una collezione Rasi
annessa a una Scuola di recitazione di santa Cecilia riformata e appoggiata a
sua volta a un teatro Argentina, che costituisse il cuore pulsante dell’attività
drammatica della capitale.
Passò qualche altro anno e la S.I.A.E., che nel frattempo aveva acquisito la
collezione Rasi dietro pagamento della somma concordata di 100.000 lire, si
era trasferita da Milano a Roma, mentre le casse del materiale continuavano
a sostare in un magazzino. Nel 1928, poco prima di morire, la vedova Teresa
Sormanni Rasi incaricò Renato Simoni di far pervenire alla S.I.A.E. la somma di 50.000 lire perché nell’erigendo museo venisse allestita una sala inti-
13. S. d’Amico, Per il museo teatrale di Luigi Rasi, «L’idea nazionale», 20 marzo 1919: «Dal
momento che, nonostante le ciarle strombazzate su tutti i giornali circa il prossimo interessamento dello Stato al Teatro d’arte in Roma, alla riforma della Scuola di Recitazione in Roma,
alla creazione d’un Teatro in Musica in Roma, ecc. ecc., il competente Ministero non si è
nemmeno sognato di assicurare a Roma questo Museo, non resta che fare il possibile perché
almeno esso rimanga a disposizione degli studiosi a Milano. Che almeno i mecenati e i ricchi di
buon gusto siano meno sordi del Governo e corrispondano all’appello per la creazione di questo
nuovo e necessario istituto nazionale: il Museo del Teatro Italiano».
145
ALESSANDRO TINTERRI
tolata al marito. Iniziava allora a profilarsi la soluzione del Burcardo e Silvio
d’Amico non mancò di manifestare le proprie perplessità: «Per ora, il Museo
è modesto, e non offre grandi attrattive se non a un’esigua minoranza di studiosi: i quali accorreranno soprattutto alla sua biblioteca […]. Ma il palazzetto
del Burcardo, gioiello d’architettura, è quanto di più disadatto possa pensarsi
per una biblioteca».14 L’obiezione di D’Amico non era priva di fondamento e
mirava a rilanciare la proposta di una collocazione del museo nell’attiguo teatro Argentina. Si trattava di una soluzione lungimirante che puntava a istituire uno stretto legame tra il teatro operante e la sua storia.
A favorire questa crescita Silvio d’Amico si adoperò in prima persona, dimostrando un reale interesse alla sostanza del progetto e non una visione puramente strumentale, destinata a venir meno con l’affievolirsi delle prospettive
da lui caldeggiate. Quando nel 1932 si arrivò finalmente all’inaugurazione,
negli articoli con cui salutò l’evento Silvio d’Amico dimostrò di avervi riflettuto a lungo, sino ad avere ben ponderate e precise idee, com’era suo costume,
sull’argomento in questione: «una Biblioteca teatrale l’aspettano tutti: storici
e critici, autori e buongustai, registi e scenografi. Ma una biblioteca fornita
a dovere; ossia inizialmente provvista di tutto l’essenziale, dai sussidi archeologici ai manuali di messinscena futurista; e metodicamente aggiornata, dalla
passione di qualcuno, magari di uno solo, ma che ami queste cose».15 Quanto
al Museo, il critico sosteneva essere un lusso la sterile esposizione di cimeli destinati a suscitare l’ammirazione, più o meno feticistica, del visitatore, mentre
si diceva convinto della bontà di un progetto dai contenuti didattici e, dunque, ben provvisto di autografi e contratti, manifesti e locandine, maschere e
costumi, ma, soprattutto materiali iconografici, cioè, stampe, bozzetti, figurini, fotografie:
L’importante si è che il Museo non venga costituito a caso, raccogliendo cioè quello che càpita dalla buona ventura, dalle offerte di questo o di quello, dall’amicizia di
X o dalla benevolenza di Y. Il Museo va costituito seguendo un piano preordinato;
col proposito di documentare, in tutt’i suoi aspetti, quello che fu la scena italiana nel
passato, e insieme di trasmettere ai posteri i documenti di quello ch’è oggi. Soltanto
14. S. d’Amico, Il dono della vedova Rasi agli «Autori». La sede del Museo Rasi, «La tribuna»,
14 ottobre 1928, ora in Id., Cronache 1914/1955, a cura di A. d’Amico e L. Vito, introd. di G.
Pedullà, Palermo, Novecento, 2001-2005, vol. iii (1928-1933), to. i (1928-1929), p. 165.
15. Due gli articoli apparsi nel 1932 a firma Silvio d’Amico sotto lo stesso titolo Per un
Museo del teatro italiano, il primo sulla «Tribuna» del 14 luglio, il secondo, più ampio e illustrato, dal quale citiamo, nel numero di luglio della rivista «Scenario» (i, 1932, 6, pp. 1-8: 1), da
lui fondata e diretta, insieme con Nicola De Pirro. Sui primi anni di vita di «Scenario» v. ora
M. Schino, La parola regia, in Studi di storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone, a cura di S.
Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 491-527.
146
SILVIO D’AMICO E LA NASCITA DEL BURCARDO
così il singolo “pezzo”, anche in sé mediocre, acquista il suo valore dal posto che occupa: come anello d’una catena, come momento d’un’evoluzione.16
E qui D’Amico avanzava la sua proposta di un Museo in cui prevalesse la parte visiva, intonata al gusto del tempo, cioè «consacrata specialmente alla messinscena»:
Ma per questo, secondo noi, bisognerebbe non contentarsi delle belle stampe, vecchie o nuove, riproducenti le fastose o raffinate composizioni con cui, dal Seicento
al Settecento fino a ieri, i nostri scenografi hanno fatto quello che tutti sanno.
Occorrerebbe di più: mettere cioè per la prima volta in atto, sotto gli occhi del visitatore, con una serie di plastici (per l’Antichità e Medioevo) e di teatrini (per l’Età
moderna), tutta la storia dell’architettura teatrale, della scenotecnica, della scenografia,
della messinscena. Cominciare con la riproduzione d’un teatro della Magna Grecia
(che, se non sbagliamo, era Italia), e d’una sua messinscena tragica; poi quella d’un teatro romano, con una commedia; poi due o tre sacre rappresentazioni del Medioevo
di vario tipo (in chiesa, all’aperto, ecc.); poi spettacoli del Rinascimento (commedia
erudita, drammi pastorali); e teatri del Sei e Settecento; e scene di Commedie dell’Arte, e di Melodrammi; e teatro ottocentesco, dal Romanticismo al Naturalismo; e saggi
del secolo nostro. Per il quale ultimo si potrà certo largamente ricorrere al legittimo
orgoglio degli scenografi e registi d’oggidì.17
D’Amico pensava, dunque, a un’istituzione destinata a crescere e durare nel
tempo, in grado d’incrementare metodicamente il proprio patrimonio: «s’accrescerà con gli anni l’importanza dei manifesti teatrali: la cui collezione, purtroppo non rigorosamente sistematica, vorremmo che fosse sistematicamente
continuata, giorno per giorno, almeno d’ora in poi, a uso di quelli che studieranno domani il Teatro della nostra età».18
Del resto, già al momento in cui il Burcardo venne inaugurato dal presidente della S.I.A.E. Roberto Forges Davanzati, il 12 luglio 1932, la biblioteca
aveva registrato un primo significativo arricchimento con l’acquisizione dei
libri del critico Cesare Levi, cui, di lì a poco, grazie ai buoni uffici di Silvio
d’Amico, venne ad aggiungersi il fondo Edoardo Boutet.
Le trattative tra la S.I.A.E. e la vedova, Anita Wiel Boutet, durarono dall’agosto 1930 (data in cui il ministro Emilio Bodrero scrisse a Forges Davanzati
per caldeggiare l’acquisto dell’archivio da parte della S.I.A.E.)19 alla fine del
16. D’Amico, Per un Museo, cit., pp. 2-3.
17. Ivi, p. 8.
18. Ivi, p. 7.
19. La lettera (allegata a una missiva di Anita Wiel Boutet del 25 dicembre 1930) è conservata presso il Museo biblioteca dell’attore di Genova, Fondo Silvio d’Amico, Corrispondenza con
Enti, S.I.A.E., Collezione Boutet, faldone 70, fasc. 18, ed è datata 1° agosto 1930.
147
ALESSANDRO TINTERRI
1933, quando, per il tramite di Silvio d’Amico, l’archivio Boutet venne acquistato dalla S.I.A.E. per la somma di 12.000 lire.
L’acquisizione era carica di significato, data la personalità di Boutet,20 critico
drammatico animato da una volontà moralizzatrice della scena italiana, testimoniata in Quidam,21 romanzo didascalico sulla missione dell’attrice, e da uno
spirito riformatore che nel 1905 cercò di tradurre nell’esperienza pratica della direzione della Stabile romana all’Argentina. Nel 1908 confidò la delusione seguita a quell’esperienza in una conferenza dal titolo trasparente, La mia follia.22 Una
figura, la sua, per certi versi affine a Rasi e cara a Silvio d’Amico, che si trovò a
occupare la cattedra di letteratura drammatica al conservatorio di Santa Cecilia,
già ricoperta da Boutet, sicché non stupisce la sua parte attiva nell’operazione.
Porta la data 10 maggio 1928 la perizia dattiloscritta, redatta da D’Amico
per conto del Ministero della Pubblica istruzione sull’archivio Boutet, su cui
vale la pena soffermarsi non solo per una ricostruzione indiziaria del fondo, ma
anche per l’interpretazione che ne dà D’Amico, prima valutazione sul piano
storiografico delle carte di Boutet e della realtà che vi è riflessa:
Si tratta – avverte D’Amico – d’un copioso epistolario, d’oltre tremila fra lettere (che
sono la massima parte), cartoline, biglietti e anche telegrammi: tutta la corrispondenza
che Edoardo Boutet ebbe, come amico, critico, consigliere, incitatore, e (parte importante) come direttore del primo tentativo d’un teatro moderno in Italia, la Stabile
Romana, con tutti si può dire gli scrittori e attori del tempo suo.23
A questa premessa segue un elenco dettagliato dei corrispondenti, tra i quali
spiccano, anche per la consistenza dell’epistolario, i nomi di Camillo e Giannino Antona-Traversi (rispettivamente 44 e 69 fra lettere e cartoline), Roberto Bracco (106), D’Annunzio (31), Sabatino Lopez (21), Marco Praga (41); fra
gli attori: Cesare Dondini (27), la Duse (46), Tina Di Lorenzo (53), Ermete
Novelli (21), Giacinta Pezzana (26), Adelaide Ristori (58). Tra le cose notevoli l’estensore segnala «i documenti di un’inchiesta fatta da L.[eone] Fortis,
A.[lberto?] Franchetti ed E. Boutet nella Scuola di Recitazione di Firenze: interessante la lunga relazione del Rossi [Cesare?] e la vibrante difesa della scuola
stesa dal suo direttore Luigi Rasi».24
20. Cfr. A. Barbina, Edoardo Boutet. Il romanzo della scena, Roma, Bulzoni, 2005.
21. Torino-Roma, Casa editrice nazionale Roux e Viarengo, 1904.
22. Roma, M. Carra e C., 1908.
23. S. d’Amico, Relazione a S.E. il sottosegretario di stato per l’Istruzione sulla collezione d’autografi teatrali di proprietà della vedova di Edoardo Boutet, Roma, 10 maggio 1928, Museo biblioteca
dell’attore di Genova, Fondo Silvio d’Amico, Corrispondenza Anita Wiel Boutet, faldone 63, fasc.
7, 10 cc. dattiloscritte, c. 1.
24. Ivi, c. 3.
148
SILVIO D’AMICO E LA NASCITA DEL BURCARDO
Alla domanda centrale sul valore documentario dell’intera collezione il
critico rispondeva non contenere elementi tali da sovvertire le acquisizioni
storiografiche correnti, però evidenziava potersene ricavare tutta una serie di
notizie minori, esprimendo in tal modo un’intuizione sul significato e il valore del documento, cui la storiografia moderna, dalle «Annales» in poi, ci ha
abituati. Vediamo, dunque, le valutazioni di D’Amico, almeno le più significative. Dalle lettere di D’Annunzio
si rivela che, per il suo Aligi, il poeta prima che a Ruggeri aveva pensato a Tumiati,
vi si leggono apprezzamenti che stupiranno qualcuno sullo “stile erroneamente usato” nella prima interpretazione della “Figlia di Jorio” diretta da Talli, quella che siamo usi a considerare come l’interpretazione autentica; si segue il nascere della “Città
morta” e della “Nave”.25
Nelle lettere del conte di San Martino, invece,
si intravede qualche retroscena della “Stabile”, e dei suoi dirigenti; e anche Falena
svela qual cosetta circa la cosiddetta “camorra romana” all’Argentina. Gallina annuncia una sua novità, che è “Serenissima”; ne espone, ne chiarisce e ne commenta l’idea
informativa, senza che sia alcuna traccia di quel “Nobiluomo Vidal”, poi creato e introdottovi, in sei ore, da Benini. Di Gandolin, c’è l’autografo del famoso monologo
“La macchina per volare” […]. E.[rcole] L.[uigi] Morselli ringrazia Boutet del premio,
conferito all’“Orione” dalla Commissione permanente del Ministero dell’Istruzione,
per merito principale di Boutet contro l’opposizione di vecchie talpe […]. Nel 1911
Pirandello invia a Boutet il suo primo drammetto [Il dovere del medico], spiegandone la
situazione e la forma […]. Nelle lettere di Rovetta assistiamo alla nascita e alle vicende,
di varie sue commedie (“Romanticismo”, “Papà eccellenza”, “La moglie di Molière”),
e si ascolta anche qualche suo giudizio (contro Fortis, Praga, la Duse…). Nelle lettere di Caramba (L.[uigi] Sapelli) si trovan notizie curiose sui prezzi delle messe in
scena dell’anteguerra, cento costumi per un sontuoso “Cyrano” a cento lire l’uno!26
Liquidata in poche righe la corrispondenza con gli autori stranieri la rassegna prosegue, varia e dettagliata, con l’esame delle lettere degli attori, dotate
di una particolare attrattiva per l’autore del Tramonto del grande attore:27
Tutta la mentalità del vecchio comico italiano è in quella con cui Luigi Biagi, confutando l’opuscolo “La mia follia” di Boutet, spiega al suo autore le ragioni perché
lui, letterato, non poteva avere successo nella direzione d’un teatro. […] Le lettere
25. Ivi, c. 4.
26. Ivi, cc. 5-6.
27. Milano, Mondadori, 1929.
149
ALESSANDRO TINTERRI
della Duse contengono sue impressioni varie; un giudizio su Dumas figlio e uno su
Ibsen; una affermazione sulla “inferiorità del teatro di fronte alla letteratura pura”;
ecc. Una volta ella chiede informazioni sulle qualità d’un giovane attore di nome
Ruggero Ruggeri. – Le lettere di Garavaglia documentano gli iniziali entusiasmi
dell’attore per il sogno di quella Stabile Romana, del cui crollo egli fu poi, forse, una
delle cause principali. […] Piene di vivace colore certe lettere di [Ermete] Novelli,
di ritorno da giri artistici e finanziari; in un’altra egli risponde a una critica di Gino
Monaldi; importante, perché tipica, è quella dove fa la sua recisa professione di fede
nel teatro “a mattatore”; e preziosi due manoscritti contenenti ricordi e giudizi sulla
Ristori, e una autobiografia, scritta a lapis, in sette pagine. […] Ma forse la parte di
maggior valore di tutta la raccolta è costituita dalle 58 fra lettere, biglietti e autografi vari di Adelaide Ristori: sono note autobiografiche, ricordi d’infanzia, aneddoti
sui suoi costumi teatrali e cimeli; un giudizio sulla Duse; uno su Scarpetta; consigli
a novizi e a dilettanti; aforismi e detti sull’arte drammatica in genere, dichiarazioni
sull’arte propria, ecc. ecc.28
Riconosciamo nella minuziosa perizia un aspetto della personalità di Silvio
d’Amico, la passione del critico, intrecciata con la vocazione di storico, che
prefigura l’autore della Storia del teatro drammatico e il fondatore dell’Enciclopedia dello spettacolo. Una figura d’intellettuale dai tratti peculiari nel panorama
della società teatrale italiana del Novecento.
La partecipazione di Silvio d’Amico alle sorti della neonata raccolta teatrale
non si esaurì nell’opera di ricupero dell’archivio Boutet. Lo attesta il promemoria che egli fece pervenire a Dino Alfieri, all’epoca presidente della S.I.A.E.,
per l’arricchimento delle collezioni destinate al Burcardo.29 Vi si menzionano,
tra gli altri, i fondi Ristori, Rossi e Salvini e, riguardo a quest’ultimo, vi si
dice che parte della preziosa raccolta andò distrutta in un incendio (le perdite
maggiori dovettero riguardare il settore della corrispondenza).30
Molti anni più tardi Alessandro d’Amico riannoderà il filo interrotto, partendo dai fondi Salvini e Ristori per creare a Genova il Museo biblioteca
dell’attore:31 di padre in figlio.
28. Museo biblioteca dell’attore di Genova, Fondo Silvio d’Amico, Corrispondenza Anita
Wiel Boutet, faldone 63, fasc. 7, cc. 6-8.
29. Il promemoria, intitolato Continuazione delle raccolte, si compone di 7 cc. dattiloscritte
ed è allegato alla lettera di Dino Alfieri a Silvio d’Amico, Roma, datata 9 marzo 1935 (Museo
biblioteca dell’attore di Genova, Fondo Silvio d’Amico, Corrispondenza con Enti, S.I.A.E., faldone 70, fasc. 16).
30. A giudicare dall’esiguità di quella presente nel fondo pervenuto in seguito al Museo
biblioteca dell’attore di Genova.
31. Si riveda nota 3.
150
DOCUMENTI E TESTIMONIANZE
Teresa Megale
ELEONORA DUSE.
NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI DI UN LUNGO
PERCORSO TEATRALE
Diciotto autografi di Eleonora Duse, di cui uno mutilo, sono altrettante
scintille documentarie che illuminano la presenza della ‘divina’ nella straripante collezione di manoscritti della sezione Lucchesi Palli della Biblioteca
nazionale di Napoli. Pulsano questi scritti di intelligenza scenica, di tenacia e
di risolutezza, di ritmi vitali e di trasparenze improvvise, e mandano non pochi bagliori della febbrile attività teatrale che occupava integralmente la vita
dell’insuperata interprete e capocomica, su cui a lungo si è esercitata la moderna teatrologia, al punto da costituirne quasi una sua specifica diramazione.1
In tempi e in luoghi diversi, di non sempre facile identificazione, l’attrice affida alle lettere, con lo stile inconfondibile di una solida scrittrice che
lascia spazio «alle pause, ai silenzi espressivi […] secondo una chiara poetica
1. Dopo gli studi di Gerardo Guerrieri, confluiti nel volume postumo Eleonora Duse. Nove
saggi, a cura di L. Vito, Roma, Bulzoni, 1993, il mondo dusiano è stato fin qui largamente sondato, con dovizia di prospettive e di angolazioni critiche. A prescindere dai contributi
singoli, a dar conto della ricchezza dell’argomento bastino qui C. Molinari, L’attrice divina.
Eleonora Duse nel teatro italiano fra i due secoli (1985), Roma, Bulzoni, 19872; M. Schino, Il teatro
di Eleonora Duse, Bologna, il Mulino, 1992 e Roma, Bulzoni, 2008 (ediz. riveduta e ampliata); P. Bertolone, I copioni di Eleonora Duse. ‘Adriana Lecouvreur’, ‘Francesca da Rimini’, ‘Monna
Vanna’, ‘Spettri’, Pisa, Giardini, 2001; F. Perrelli, Echi nordici di grandi attori italiani, Firenze, Le
Lettere, 2004; M. Schino, Racconti del Grande Attore. Tra la Rachel e la Duse, Città di Castello,
Edimond, 2004; F. Simoncini, ‘Rosmersholm’ di Ibsen per Eleonora Duse, Pisa, ETS, 2005; D.
Orecchia, La prima Duse. Nascita di un’attrice moderna (1879-1886), Roma, Artemide, 2007; F.
Simoncini, Eleonora Duse capocomica, Firenze, Le Lettere, 2011. A questi studi monografici si aggiungano almeno i saggi confluiti nel numero di «Ariel», vi, 1989, 1-2, negli Atti del convegno
internazionale Voci e anime, corpi e scritture (Venezia, 1-4 ottobre 2008), a cura di M.I. Biggi e P.
Puppa, Roma, Bulzoni, 2009 e nei cataloghi delle mostre Divina Eleonora. Eleonora Duse nella
vita e nell’arte, a cura di F. Bandini e P. Bertolone, coordinamento di M.I. Biggi (Venezia, 30
settembre 2001-6 gennaio 2002), Venezia, Fondazione Giorgio Cini-Marsilio, 2001; Eleonora
Duse. Viaggio intorno al mondo, a cura di M.I. Biggi (Firenze, 14 marzo-17 aprile 2011), Milano,
Skira, 2010.
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 151-167
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18368
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
© 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License
(CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original
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TERESA MEGALE
decadentista»,2 uno svariare di argomenti, di desideri e di promesse, misti a
profferte di calda amicizia e a richieste assertive, in un intreccio di progettualità teatrale perseguita ma mai pienamente soddisfatta.
Gli inediti trattengono, imbrigliati nella carta, impliciti fili argomentativi di difficile ricostruzione a una prima lettura, da dragare pazientemente per
coglierne i nessi e valorizzarne i significati. Destinatari sono il drammaturgo
Achille Torelli, cui appartiene la parte più cospicua del mannello che impegna un arco cronologico compreso fra il 1883 e il 1921; il critico e autore di
drammi Domenico Lanza, al quale l’attrice indirizza nel novembre del 1908
due telegrammi dalla Germania intorno a un progetto di messinscena torinese di Ibsen; il direttore della «Rivista teatrale italiana d’arte lirica e drammatica», prima in Italia di tale genere, Gaspare di Martino, che nel 1910 le
raccomanda un’attrice anziana, Maria Rosa Guidantoni, e con il quale, qualche anno dopo, nel 1914, interloquisce intorno alla possibilità di avviare la romana Casa-libreria delle attrici; il conte Enrico di San Martino Valperga e la
fidata cameriera, Nina, ai quali la Duse si rivolge una sola volta in momenti e
per scopi diversi. Ciascun documento è manoscritto con il personalissimo inchiostro viola, marchio dello scrittoio dusiano, eccezion fatta per uno dei due
diretti a Di Martino e per l’unico diretto a Nina, vergati a lapis. Quello indirizzato alla sua complice di faccende teatrali oltre che solutrice di quotidiane
incombenze, diretto riflesso dell’intimità consuetudinaria tra le due donne, è
scritto con una grafia larga e frettolosa e contiene disposizioni ordinarie, perché destinato, in realtà, a durare il tempo della loro esecuzione.
Un indice ideale delle menzionate lettere e biglietti e telegrammi comprenderebbe un numero ridotto, ma pur sempre vario e significativo, di nomi tra
quelli noti e quelli ignoti, tra quelli di primo e di secondo piano rispetto alla
biografia artistica della Duse (oltre ai già citati, la sarta Bossi, gli agguerriti impresari Achille e Giovannino Chiarella, Tina di Lorenzo, Giuseppe Giacosa,
la filantropa duchessa Teresa Filangieri Fieschi Ravaschieri, Adelaide Ristori, l’antiquario Rondi, Cesare Rossi, Ermete Zacconi) e un altrettanto ridotto numero di titoli (Borkman di Ibsen, Fedora di Sardou, Fragilità, La duchessa
don Giovanni, La moglie, La madre e Scrollina di Torelli), ma sufficienti ad aprire uno squarcio sul variabile repertorio dell’attrice inquieta, a caccia costante
di personaggi dalla vibratile, moderna sensibilità. Ogni documento, tuttavia,
permette un affondo nel suo mondo teatrale e contribuisce a ricostruirne un
frammento. A partire dalla prima lettera spedita a Torelli, giornalista, com-
2. V. Branca, Vocazione letteraria di Eleonora Duse, in Divina Eleonora. Eleonora Duse nella vita
e nell’arte, cit., pp. 111-122: 112.
152
ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI
mediografo e primo bibliotecario della Lucchesi Palli,3 il 1° ottobre 1883, che
lascia presagire una relazione più antica, risalente al suo giovanile periodo napoletano4 e consolidata dal debutto nel 1881 di Scrollina5 con l’interprete promossa finalmente a prima donna, l’attrice chiede al drammaturgo, consacrato
tale nel 1867 dal precoce successo de I mariti, di poter recitare Fragilità e i suoi
lavori ‘italiani’, al posto dell’«opprimente» (doc. 1) principessa Fedora Romanov. Uno sfogo calcolato da parte dell’interprete, apertamente insoddisfatta
del repertorio ottocentesco francese, che suona come richiesta di uno sforzo
creativo da parte dell’autore. Pochi giorni dopo, l’attrice che non aveva fatto
mistero al suo corrispondente dei suoi bisogni drammaturgici, itera la richiesta del testo, mentre prende una saggia distanza da La madre, messa pure in
prova da Cesare Rossi, nella quale scorge, con il fiuto selettivo che solo il palcoscenico dà, «scene potenti di pensiero e di passione e pregio (o torto maggiore) non di teatralità» (doc. 2). Dopo qualche anno, agli inizi del 1889, la
confidenza con Torelli è tale da farle confessare di aver nutrito qualche timore
nei confronti della Duchessa don Giovanni, personaggio metateatrale dell’omonimo atto unico, che il drammaturgo partenopeo costruisce attribuendo
alla protagonista i tratti del maggior carattere dello pseudo Tirso. «Oggi non
più. Le vado incontro poiché credo d’intenderla» (doc. 5), confessa una Duse
che sfoggia volontariamente una disinibita dose di maturità scenica e personale proprio verso quel personaggio. Le prove per allestire il lavoro non sa-
3. «Torelli aveva tutti i doni che una natura prodiga può elargire a un suo protetto. Bel
giovane, dai capelli corvini, dagli occhi intelligenti, mobili e scintillanti, a volte velati di malinconia, la figura prestante, il tratto disinvolto e signorile, un temperamento animoso, dinamico,
nervoso» (S. Gaetani, Napoli ieri e oggi. Passeggiate e ricordi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965, p.
116). Sul prolifico autore, nonché direttore della Biblioteca teatrale e archivio musicale Lucchesi
Palli alla sua apertura pubblica, dal 1897 fino al 1902, v. il catalogo della mostra bio-bibliografica Achille Torelli nei documenti della Biblioteca nazionale, Roma, Istituto poligrafico e zecca dello
Stato, 1995.
4. Sulle relazioni di tale periodo, che incisero sensibilmente sulla formazione della sua
personalità e sulla sua espressività artistica, cfr. T. Megale, Passioni napoletane di Eleonora Duse,
in Voci e anime, corpi e scritture, cit., pp. 49-63.
5. Fu Pierina Giagnoni Ajudi la prima interprete di Scrollina, da lei tenuta a battesimo
all’Arena del Sole di Bologna il 14 luglio 1881 nel ruolo del titolo con la compagnia di Luigi
Monti. Subito dopo, il 19 agosto dello stesso anno, la interpretò e la rilanciò la Duse all’Arena
nazionale di Firenze con la Drammatica compagnia della città di Torino e in seguito, il 15 dicembre 1929, Marta Abba (già Scrollina un anno prima, nella compagnia diretta da Pirandello,
al teatro Manzoni di Milano, il 25 aprile; cfr. A. d’Amico-A. Tinterri, Pirandello capocomico.
La compagnia del Teatro d’Arte di Roma, 1925-1928, Palermo, Sellerio, 1987, pp. 290-292) con la
propria formazione. Il successo del testo, in una carriera drammaturgica diseguale, fatta di fulminee affermazioni e di ripetuti arresti, fu tale da spingere Torelli a monumentalizzarlo al punto
da chiamare ‘Scrollina’ la villa che si fece costruire a Capodimonte.
153
TERESA MEGALE
ranno poi preventivamente tante, se afferma, risoluta, con la consueta lucidità
scenica che la contraddistingue, che l’allestimento «in otto o 10 giorni andrà»
(doc. 6). In realtà, si interporrà la richiesta di uno spettacolo di beneficienza
richiestole dall’attivissima duchessa Filangieri Fieschi Ravaschieri (doc. 9), nota per una monumentale Storia della carità napoletana in quattro volumi,6 per la
quale, ripetendosi l’adagio tassiano del «nulla si niega», si acconcia a rinverdire un’opera in versi di Giacosa (con molta probabilità La sirena, da lei recitata
al teatro Valle di Roma il 22 ottobre 1883 con Arturo Diotti e Flavio Andò);
poi altri, successivi, imprevisti avrebbero impedito, a quanto sembra, la messa
in scena. Che nell’aristocratico salotto della filantropa partenopea la Duse intendesse davvero recitare La sirena è deducibile da quanto scrive nell’inedito
e dalla circostanza di dover ottemperare a nuove prove «per me e per due attori della compagnia che reciteranno con me» allo scopo di «riaffiatare il piccolo poema». Ma, nonostante le molte attese deluse, gli intoppi, i rimandi,7 il
legame amicale con il drammaturgo partenopeo è sincero e duraturo, tanto
che l’attrice vi ricorre spesso e volentieri, mandandogli richieste di incontri,
inviandogli saluti e auguri, raccomandandogli con franchezza di essere disinibito con gli affari teatrali e di guadagnarne «quattrini» (docc. 6, 8), aprendosi
talvolta a considerazioni improvvise sulla vita, rinnovandogli, tramite l’invio
di una foto di Scrollina (doc. 12), probabilmente uno scatto di Ugo Bettini,8 il
suo affetto nell’anno, delicatissimo, del ritorno sulle scene. La missiva, contenente il ricordo dell’antico personaggio torelliano tenuto da lei in repertorio
dal 1881 al 1886,9 precede di poco la morte dell’autore, avvenuta il 31 gennaio 1922, che sul suo capezzale avrebbe avuto un ennesimo, affettuoso scritto
dell’attrice: «Sono con voi presente, e sempre memore, sempre amica, seppure
lontana».10 E la vicinanza confidenziale fra la Duse e Torelli bene affiora nel
6. L’opera della nobile filantropa, che spesso finanziava la sua attività benefica tramite il
teatro, fu pubblicata a Napoli, presso lo stabilimento tipografico di Francesco Giannini, senza
alcuna data e successivamente presso lo stabilimento tipografico di Antonio Morano della stessa
città, negli anni 1875-1879.
7. Saranno forse questi impedimenti a spingere Achille Torelli a inviare il manoscritto della
Duchessa don Giovanni anche a Virginia Reiter. Il 6 agosto 1896 l’attrice gli scrive da Modena di
averlo ricevuto e di volerlo leggere. Cfr. Biblioteca nazionale di Napoli (d’ora in poi BNN), ms.
L[ucchesi] P[alli] [d’ora in poi L.P.] vii, 22.
8. V. la foto della Duse nel ritratto della contessa Teresa (Scrollina) conservata presso la
Fondazione Giorgio Cini di Venezia e riprodotta in Divina Eleonora. Eleonora Duse nella vita e
nell’arte, cit., p. 32, fig. 9.
9. Per la puntuale ricostruzione del repertorio della Duse si rimanda alla voce curata da
Francesca Simoncini per l’Archivio Multimediale degli Attori Italiani (AMAtI) all’indirizzo:
http://amati.fupress.net.
10. Trascrive questo appunto Rosaria Savio in una nota del suo Indice bio-bibliografico, in
Achille Torelli nei documenti della Biblioteca nazionale, cit., p. 42 e n.
154
ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI
lessico scelto dall’attrice in ognuna delle sue lettere: l’esortazione «aizzate in
collo» (doc. 2), di chiara marca partenopea, assunta come propria, il ripetuto
«statevi bene» (docc. 6, 9) sono spie di una speciale intesa fra i due, di un’amicizia teatrale profonda, al pari delle prove per le quali l’attrice – in linea con
la consuetudine del tempo – richiede la presenza dell’autore.
La duchessa don Giovanni di Torelli prevedeva un ruolo di prima donna
tendente alla seconda, che più di tutti si addiceva alla Duse.11 Pubblicato nel
1888 presso l’editore Carlo Barbini di Milano, l’atto unico con il titolo mutato in La vittima fu poi portato in scena nella città meneghina da Flavio Andò, il primo attore, antico compagno d’arte della Duse, cui forse lei stessa lo
aveva fatto leggere, il 18 gennaio 1897, riportando un clamoroso insuccesso,
al punto tale che l’interprete ironizzò con il suo autore: «La tua Vittima ieri
sera è quasi caduta».12
I superstiti telegrammi inviati a Lanza (docc. 14-15) si riferiscono, invece,
alle trattative per l’inaugurazione nel dicembre 1908 del politeama Chiarella
di Torino, la vasta sala teatrale situata dietro la sinagoga nel quartiere di San
Salvario, ora distrutta, nella quale la Duse avrebbe dovuto dare il John Gabriel
Borkman di Ibsen. Affiorano le esitazioni e i dubbi fondati dell’attrice-capocomica circa la riuscita dello spettacolo ibseniano in un teatro da duemila posti,
e la sua capacità manageriale di vagliare i rischi della proposta prontamente,
nonostante sia impegnata in una delle sue molteplici tournées all’estero,13 e di
esprimerli lucidamente al giornalista intermediario dei Chiarella.
Mentre rimane enigmatica, perché priva di dati storicamente circostanziabili, la lettera inviata da Eleonora Duse al conte di San Martino, residente a
11. La protagonista del titolo, Debora Di Lara, figlia di una cantante e di un conte, rifiutata
dalla madre, è divenuta cantante per vivere. Ammaliatrice e seduttrice, è riuscita a inserirsi nella
famiglia altolocata del padre come dama di compagnia della zia, la contessa Editta, di cui ama
il figlio, Mario. Ma quando costui viene obbligato dalla madre a sposare la principessa Tecla,
Debora accetta le nozze con il duca Livio, costruite anche queste su misura dalla potente zia. Si
tratta di un matrimonio senz’amore, che spingerà Debora a mutare il suo nome in Duchessa don
Giovanni, per «ritornare una volta tanto sulle scene a provar l’ebbrezza dell’arte e degli applausi»
e per sedurre quanti uomini le capitino a tiro. A lei Torelli fa dire «il peggio in amore è sempre
il vecchio… Una bellezza non posseduta è come una strofa non iscritta; il poeta segue cupidamente un’idea che gli sfugge; ma quando l’afferra, l’incanto è rotto…» (A. Torelli, La duchessa
don Giovanni. Dramma in un atto, Milano, C. Barbini, 1888). Mario, che ha lasciato Tecla, vive
passando da un amore a un altro ed è proprio Debora a spiegare alla zia che suo figlio è un don
Giovanni impenitente, che potrebbe fermarsi solo dinanzi a una Cleopatra, e che lei lo lascia al
suo destino. Quando Livio scopre che Debora attende un figlio da Mario, si suicida. L’atto unico
è dedicato alla contessa Teresa Statella Guevara.
12. Lettera di Flavio Andò ad Achille Torelli, Milano, 19 gennaio 1897, BNN, ms. L.P. 84.
13. Sulle tournées dell’attrice cfr. il catalogo della mostra Eleonora Duse. Viaggio intorno al
mondo, cit.
155
TERESA MEGALE
Parigi (doc. 18), tutt’altro tenore ha quella vergata per la sua cameriera-trovarobe (doc. 13). Qui, ordinativi alla sarta di camicie di seta bianche e di cravatte dello stesso colore, richieste di biancheria intima (camicie da notte e calze,
sempre bianche), acquisti di sculture raffiguranti madonne rinascimentali e di
mensole, risuonano della frenesia implacabile della messa in scena (La signora
dalle camelie, probabilmente, per l’insistito ricorso al bianco dei costumi e Gioconda per l’impiego di un calco scultoreo dal Verrocchio o fors’anche Francesca
da Rimini, per la presenza di una madonna almeno nella scena del v atto)14 e
della ricerca affannosa di elementi congruenti con una precisa scrittura scenica, che governa e assilla la mente dell’attrice. Come gli altri, o forse più degli
altri, il documento, fresco e vivace, introduce nel pieno della fabbrile officina dusiana e apre uno squarcio sulla meticolosa cura necessaria per ogni fase
della scrittura scenica.
Altrettanto interessanti per la progettualità che le sottende le due missive a
Di Martino (docc. 16-17). In una risponde in modo franco al corrispondente
che, si è accennato, sollecita il suo aiuto per Maria Rosa Guidantoni,15 nell’altra, che riguarda certamente il disegno ambizioso della creazione della Libreria
delle attrici a Roma, lo sollecita ad appoggiare il suo disegno, non nascondendogli le incertezze e le difficoltà del suo varo, sul quale lei comunque proietta
molte attese («questo inizio si tramuterà, si esprimerà da sé e per sé, evolvendosi sempre, ingrandendo se stesso, diventando una cosa esistente fra le fugaci
cose di nostra vita, assumendo nuova forma, nuova espressione»). Inaugurata il
27 maggio 1914, a breve distanza temporale dalle parole inviate a Di Martino
da una Duse che si giustifica per usare la matita («Scusi questo scrivere a matita. Ma scrivere mi è di fatica grande, e a matita m’è più facile farlo»), la Casalibreria sorta in via Pietralata, sulla Nomentana e dotata di un’ampia bibliote-
14. Per un riscontro figurativo delle scene v. Molinari, L’attrice divina, cit., figg. 49-50
(Gioconda, v). In particolare, mentre la fig. 50 fotografa la Duse accanto alla celebre Dama
col mazzolino, capolavoro dell’artista fiorentino, la fig. 49 riproduce un’immagine, tratta da
«L’illustrazione italiana», in cui l’ambiente scenico è sovraccaricato di busti, statue, rilievi, su
piedistalli, tavoli e pareti. Per Francesca da Rimini cfr. ivi, fig. 87.
15. Tali le sintetiche, efficaci notizie di Alberto Manzi a riguardo di Maria Rosa Guidantoni
pubblicate nella corrispondente ‘voce’ apparsa nell’Enciclopedia italiana, edita a Roma dall’Istituto dell’enciclopedia italiana Treccani, vol. xviii, 1933, p. 250: «Attrice, nata a Rimini verso il
1840, morta nei primi anni del Novecento. Da bimba recitò coi filodrammatici; studiò ballo e
canto, e come cantante ebbe veri successi. Nel 1860 si scritturò con G. Peracchi; nel 1863-64 fu
con Ernesto Rossi; mediocrissima ‘amorosa’, fu ottima nella tragedia, specie in Oreste e nell’Amleto: grande prima attrice madre e caratterista. Compose una rivista e in essa cantò e danzò;
scrisse commediole, monologhi; commemorò Guerrazzi, tenne conferenze; raccolse in qualche
opuscolo alcune delle sue molte poesie». Dalla lettera della Duse si comprende che l’attrice era
ancora viva nel giugno del 1910.
156
ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI
ca16 per la formazione delle interpreti, chiuse appena un anno dopo, nel 1915,
dinanzi ai fragori della prima guerra mondiale. La missiva all’amico la coglie
mentre tesse i suoi rapporti, come sempre consapevole e prospettica, generosa
e determinata. Un’istantanea di grande efficacia, pur nel suo impianto rapsodico, quasi il sigillo di una vita interamente dedicata al teatro.
Appendice
Gli autografi sono trascritti con criteri conservativi, in ordine cronologico, nel pieno rispetto della punteggiatura, fedele al ritmo, in taluni casi quasi recitato, impresso
dall’autrice alle parole, e dell’impostazione, anche grafica, degli originali. Tra parentesi quadre le proposte di datazione per alcuni documenti. Ad eccezione del documento 5, per il quale è stato possibile risalire alle circostanze temporali della stesura,
resta del tutto arbitraria, per quanti sforzi si siano fatti, la collocazione affidata agli
inediti privi di data e di luogo. Si riproducono prima le dodici lettere ad Achille
Torelli (docc. 1-12), a seguire quella alla cameriera Nina (doc. 13), i due telegrammi
a Domenico Lanza (docc. 14-15), le due missive a Gaspare di Martino (docc. 16-17)
e, infine, quella al conte Enrico di San Martino Valperga (doc. 18).
Nel licenziare gli inediti ringrazio Gennaro Alifuoco e Patrizia Mottolese della sezione Lucchesi Palli della Biblioteca nazionale di Napoli insieme con Maria Beatrice
Cozzi Scarpetta.
Doc. 1
Eleonora Duse ad Achille Torelli
Roma, 1° ottobre 1883
BNN, ms. L.P. Ba xiv (120
mm. 175 x 110, 2 cc.
16. Sull’ambizioso progetto culturale della Libreria delle attrici si rimanda alle acute riflessioni di L. Mariani, Il ‘femminismo’ di Eleonora Duse, in Id., Il tempo delle attrici. Emancipazionismo
e teatro in Italia fra Ottocento e Novecento, Bologna, Mongolfiera, 1991, pp. 135-163, in partic. pp.
154-159; Id., Amicizie e ‘possesso di sé’ nel teatro, la Duse e le giovani attrici, in Voci e anime, corpi e
scritture, cit., pp. 355-372. Sull’argomento si veda M.I. Biggi, La ‘Libreria delle attrici’, in Donne e
teatro. Atti del convegno (Venezia, 6 ottobre 2003), a cura di D. Perocco, Venezia, Università Ca’
Foscari-Cartotecnica veneziana, 2004, pp. 105-124. Tra il 1918 e il 1919 la Duse si preoccupò di
tutelare il suo patrimonio librario, altamente rappresentativo del patrimonio artistico, e inviò a
Cambridge i volumi, ritrovati nel 2007 da Anna Sica. Su questo ritrovamento cfr. A. Sica, The
Eleonora Duse Collection in Cambridge, «Arco-Journal», 12 luglio 2008, pp. 1-15 e il volume, scritto
a quattro mani, Id.-A. Wilson, The Murray Edwards Duse Collection, Milano, Mimesis, 2012.
157
TERESA MEGALE
Grazie della lettera e del manoscritto. L’ho ricevuto stamane. Sono ansiosa di leggerlo e lo leggerò mercoledì notte dopo Fedora.
Ho bisogno di occupare e bene del vostro lavoro e non leggerlo fra una prova e l’altra di questa opprimente Fedora. / Lasciate dunque che la reciti e dopo tutta per voi.
Mi permettete di rappresentare Fragilità? Sono stanca di parti pazze ho bisogno d’un
ambiente buono, nostro, italiano, ho bisogno di molti vostri lavori.
Vi scriverò presto.
Intanto una stretta affettuosa e saluti
E. Duse Checchi
Doc. 2
Eleonora Duse ad Achille Torelli
Roma, 8 ottobre 1883
BNN, ms. L.P. Ba xiv (118
mm. 177 x 114, 2 cc.
Roma 8 ottobre 1883
Dunque – ho letto Madre e ho dato a Rossi il copione per averne le parti. La metteremo subito in prova. Vi sono scene potenti di pensiero e di passione e pregio (o
torto maggiore) non di teatralità. Voglio vederla in /scena e studiarla prima di promettervi di riuscire nella mia parte.
Se tardate mandarmi Fragilità non faro [sic] più tempo perché a Roma e me ne
dispiacerebbe.
Credete a me – non correggete i vostri lavori. non /togliete nulla ad essi, non farete
– limandoli – che limare la loro bellezza.
Come va la vostra salute? Io benone. Il successo è un ricostituente.
Dunque – per le prove di Madre sarebbe bene che ci foste – aizzate in collo e venitevene a Roma.
Eccovi una mano buona e affettuosa di voi devotamente
E. Duse Checchi
Doc. 3
Eleonora Duse ad Achille Torelli
Roma, 28 ottobre 1883
Lettera mutila
BNN, ms. L.P. Ba xiv (121
mm. 177 x 114, 1 c.
158
ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI
Roma 28 ottobre 83
Ho promesso a me stessa di rimettere in scena tutto il vostro repertorio quello almeno che riguarda la parte femminina – si capisce!
Ora voi pure dovete aiutarmi e anche sapere attendere e dare tempo al tempo.
La Moglie – mi va […]
Doc. 4
Eleonora Duse ad Achille Torelli
s.l., s.d.
BNN, ms. L.P. Ba xiv (117
mm. 170 x 220, 1 c.
Caro Torelli
molte e molte grazie del cortese saluto. Vi ricambio affettuosamente saluto e auguri. Spero nulla di grave vi tormenta, e sarete presto ristabilito. Spero vedervi prima
della mia partenza.
Molte buone cose
E. Duse
Doc. 5
Eleonora Duse ad Achille Torelli
[Napoli, 18 gennaio 1889]
Carta intestata: un cartiglio con la scritta: «Beati qui lugent quoniam ipsi consolabuntur»
BNN, ms. L.P. Ba xiv (119
mm. 212 x 130, 2 cc.
Venerdì
Egregio e carissimo amico. Non vi è si è visto più al Sannazaro.
Perché
Avete diffidato di me?
Un tempo, ebbi paura della vostra Duchessa Don Giovanni, oggi non più. Le vado
incontro poiché credo d’intenderla.
Le parti sono quasi copiate e lo [sic] metteremo in prova ai primi di Febbraio.
Per esecuzione, e concerto, eseguiremo la vostra volontà. Voi dirigerete le prove.
Vi va? Passate da casa mia, avrò piacere, tanto, di vedervi e parlarvi.
Saluti
E. Duse
159
TERESA MEGALE
Doc. 6
Eleonora Duse ad Achille Torelli
[Napoli], 19 gennaio 1889
BNN, ms. L.P. Ba iii (38
mm. 202 x 130, 2 cc.
Amico buono. Se ieri vi ho detto che prendo in braccio la vostra Duchessa, non c’è
nessuna ragione perché oggi io dovessi cambiare idea.
Per conciliare però un possibile contratto con Rossi, ditemi voi, come volete fare?
Volete dare a Rossi la precedenza?
Fatelo, se vi conviene. Vi assicuro non mi duole che lo facciate. L’importante è che la
comedia [sic] vada bene e che vi frutti anche dei quattrini. Sono… oggetti considerevoli i quattrini. Calcolate che fino al 1° febbraio, io non posso, proprio non posso,
incominciare le prove… ma una volta avviate in otto o 10 giorni andrà.
Combinate con Rossi come più vi conviene.
Ecco tutto.
Vi ringrazio della vostra buona lettera.
Avete ragione. Chi resiste a vivere solo riesce a vivere buono. Non siete il solo che è
stanco e stonato della vita d’urtoni che si vive ogni giorno, / ma… ‘ogni giorno passa
un giorno’, e qualunque sia la via, e la vita vissuta, la strada che se ne fa ogni giorno
conduce alla quiete. C’è chi sa meritarsela.
Ave!
Statevi bene.
Eleonora
Doc. 7
Eleonora Duse ad Achille Torelli
[Napoli], s.d.
BNN, ms. L.P. Ba iii (37
mm. 155 x 115, 1 c. e una busta
Caro Torelli.
Ho salito le scale per trovarvi – niente,
pas de chance –
Fate una corsa all’Hôtel Vesuve.
Parto domani
e vorrei tanto vedervi.
Eleonora Duse
160
ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI
Doc. 8
Eleonora Duse ad Achille Torelli
s.l., s.d.
BNN, ms. L.P. Ba xiv (123
mm. 90 x 112, 1 c.
Carissimo Torelli e gentilissimo amico.
Ho ricevuto e v’ho scritto grazie, di cuore per il piano del vostro bello e forte dramma.
Ma voi mi pressate di porlo in scena in un momento in cui proprio non posso occuparmene, per tante varie ragioni, che sarebbe / troppo lungo spiegarvi.
Restiamo dunque così: 1° che io vi sono riconoscente e devota. 2° che vi ringrazio e che
quando potrò metterò in scena. 3° che se l’attesa vi nuoce io vi prego di fare l’interesse
vostro, affidandolo se credete, ad altri artisti. Fra voi e me sono inutili i complimenti.
Vogliatemi bene
E. Duse
Doc. 9
Eleonora Duse ad Achille Torelli
[Napoli], 1° febbraio 1889
BNN, ms. L.P. Ba xiv (122
mm. 203 x 130, 2 cc.
1° Febbraio 89.
Carissimo Torelli
La Duchessa Ravaschieri ha cortesemente ed insistentemente domandato ch’io prenda parte a una recita di beneficenza che ella stessa organizia [sic].
Ora per far questo è stato scelto una commedia in un atto, e in versi, di G. Giacosa,
che io ho recitato solo una sera, 4 anni or sono [sic].
Ci è dunque necessario / per me e per due attori della compagnia che reciteranno
con me di riaffiatare il piccolo poema.
Rimangono, dunque, necessariamente rimandate le prove della Duchessa vostra.
Perdonatemene il ritardo, ma per beneficenza, e alla Duchessa Ravaschieri, a tante
intercessioni “nulla si niega”.
Se però, / credete intanto di affrettarne l’esecuzione nella Compagnia ove è il Zaccone
che ve l’ha chiesta, non danneggiatevi, e provvedete, con giudizio, in modo che ne
abbia utile Zaccone, e l’autore, da lui pregato!
- abbiate pazienza, pel ritardo, e vogliatemi bene!
e statevi bene!
E. Duse
161
TERESA MEGALE
Doc. 10
Eleonora Duse ad Achille Torelli
s.l., s.d.
BNN, ms. L.P. Ba viiibis (12
mm. 85 x 113, 1 c.
Caro Torelli
Mandatemi il copione. Se la comedia [sic] la trovo adatta alla Compagnia, e al mio
piccolo io, allora continueremo.
Saluti tanti!
E. Duse
Doc. 11
Eleonora Duse ad Achille Torelli
[Roma], 23 marzo 1899
Carta intestata: «Rome-Grand Hotel». Il logo in alto a sinistra reca la scritta: «Tout
chemin mene a Rome».
Destinatario: «Egr. Achille Torelli Ministero dell’Istruzione (Piazza Minerva?) Roma».
BNN, ms. L.P. 132
mm. 210 x 134, 2 cc. e una busta
Due giorni di ritardo a rispondere alla vostra lettera, ma caro Torelli, ho avuto una
leggera influenza che mi tiene ancora a letto, e non ho potuto scrivere. Però oggi sto
meglio, ma ogni mio progetto di lavoro è in ritardo, e non so se ora troverò un’ora libera.
E al mio ritorno da Sicilia / si potrebbe?
Sapete attendere?
Dite per me, vi prego, tutta la mia devozione ad Adelaide Ristori.
A voi affettuosamente
E. Duse
23 marzo 1899
Doc. 12
Eleonora Duse ad Achille Torelli
s.l., dicembre 1921
162
ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI
BNN, ms. L.P. 131
mm. 215 x 130, 2 cc.
Decembre [sic] 21
Prima di ripartire, amo ripetervi “Grazie” per ogni parola che ho riudita da voi.
Ho ritrovato, per caso, questo ritratto di “Scrollina” e pregovi accoglierlo.
Esso vi ricordi la parola della mia immutata devozione – sempre.
Eleonora Duse
Natale 21
Doc. 13
Eleonora Duse a Nina
s.l., s.d.
BNN, ms. L.P. 322
mm. 315 x 210, 1 c.
Cara Nina,
va subito dalla Bossi, portale questo camice di seta e dille di farmene con la più grande sollecitudine, per domani sera uno eguale in seta bianca.
Dille che scelga la migliore qualità di seta bianca che ha.
Poi va dal Rondi, quello dei gessi di ieri.
Digli che ti dia subito quella Madonna grande del “Verrocchio” / che contrattai ieri.
È una madonna grande e si chiama – ricordati – : “Madonna del Verrocchio”.
La fai incartare bene, te la metti in vettura con te e la consegni all’uomo.
Gli dirai anche (al Rondi) che ieri scelsi anche / una piccola mensola di gesso con due
griffoni, del prezzo di cinque lire, e non la trovai nei pacchi.
Raccomanda alla Signora Bossi la massima sollecitudine.
Mandami una camicia bianca da notte, dell’ultimo atto della Comedia [sic].
“Ne ho due”, una fine, e una di qualità inferiore, mandale tutte due.
Se hai biancheria, dovresti avere una camicia da notte, mandala.
Se hai delle calze leggere bianche mandale.
Ordina alla Bossi altre due cravatte bianche da uomo uguali a quelle che son andate
perse per non averle appuntate e lasciate nella carta velina.
Spicciati.
E.D.
163
TERESA MEGALE
Doc. 14
Eleonora Duse a Domenico Lanza
Frankfurt, 28 novembre 1908
Telegramma destinato a «Domenico Lanza Stampa Torino»
BNN, ms. L.P. 386
mm. 225 x 245, 1 c.
Ricevo lettera ringrazio infinitamente sono incerta e inquieta per Politeama ambiente forse troppo vasto per Ibsen. Per tale lavoro l’ambiente è cosa molto importante
pregovi calcolare bene e ripetermi con ponderazione vostra opinione in ogni modo
preferisco rimanere strettamente al programma Ibsen e preferisco dare una sola recita
con Borkmann [sic] tanto più che non potrò andare oltre il 21 prego farmi telegrafare dai Chiarella risposta conforme a questa proposta sarò domani Wiesbaden Nassau
Hotel sono tanto felice potere ancora una volta esservi grata e dirvi grazie e au revoir.
Eleonora Duse.
Doc. 15
Eleonora Duse a Domenico Lanza
Wiesbaden, 30 novembre 1908
Telegramma destinato a «Domenico Lanza Torino Stampa»
BNN, ms. L.P. 387
mm. 225 x 240, 1 c.
Rinnovo ringraziamenti telegrafo io stessa Chiarella che prenderò decisione dopo
aver visto teatro lavorare per Ibsen mi sta a cuore e temo arrischiarlo per una sola sera en [sic] ambiente non adatto riconoscente a voi deciderò con voi cosa fare al mio
arrivo Torino buon saluto e buon augurio.
Eleonora Duse
Doc. 16
Eleonora Duse a Gaspare di Martino
Firenze, 12 giugno 1910 [data del timbro postale]
Destinatario: «Gaspare di Martino, Via Corrieri a S[an]ta Brigida, 14, Napoli»
BNN, ms. L.P. 801
mm. 214 x 153, 1 c. e una busta
164
ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI
Egregio Signore,
molto in ritardo arriva la sua raccomandazione a me diretta, in lettera aperta in favore di M[aria] R[osa] Guidantoni.
La Signora M[aria] R[osa] Guidantoni fu – ed è, da anni – soccorsa da me… ahimè,
nei limiti del possibile.
Non so dirle dunque quanto la sua iniziativa mi abbia sorpreso.
Non posso dare nessun’altra / risposta alla sua lettera aperta, poiché veramente credo
che a certi dolori e a certi conforti meglio conviene il silenzio.
La prego dunque non rendere questa mia di pubblica ragione.
Coi migliori saluti.
E. Duse
Doc. 17
Eleonora Duse a Gaspare di Martino
Roma, aprile 1914
Lettera scritta fronte retro, a matita, su fogli sciolti.
BNN, ms. L.P. 802
mm. 215 x 130, 4 cc.
Roma. Aprile 914
… Certo; difficoltà,
errore,
e incertezza di tutto.
Così è questo cominciamento,
così è per ogni cosa di vita; ma niente è immutabile.
Ogni giorno già apporta nuove correnti, nuove esperienze, qualche forza amica che
ieri era ignota, oggi è per noi, e qualche resistenza, sarà, forse, col tempo, tramutata, o lontana.
Questo iniziare, ora, non sarà né un sistema, né un programma da seguire fissato e
inamovibile, ma sarà solo preparare un domani, un ambiente, un’attività ben diretta, un’energia non dispersa… infine, un riconoscere la necessità di / fare noi stessi
per noi stessi.
Certo, bisognerà pazientare, attendere molto, riunirci se pur a poco a poco, ma non
“per vagar fra nuvole e sogni”, né per avere catene al piede.
Abbiamo degli amici, e dei nemici; è giusto, è bello che sia così, abbiamo il tempo
per noi, per vagliare gli uni e gli altri, e noi stessi prima di tutti.
Cominciamo come si può
e
dove si può, e
andiamo oltre.
165
TERESA MEGALE
Le dissi che speravo in uno stato d’animo e questo Ella ha già creato con la sua parola
nobile e bella, il resto… muterà, si completerà, come sempre succede, strada facendo.
A poco a poco, / questo inizio si tramuterà, si esprimerà da sé e per sé, evolvendosi
sempre, ingrandendo se stesso, diventando una cosa esistente fra le fugaci cose di nostra vita, assumendo nuova forma, nuova espressione.
Questo ridico a Lei, con tutta fede, quasi che io senta necessità di ridirle questa fede,
dopo aver ricevuto la sua lettera che […] copiai tristamente.
Spero che l’incomprensione non sarà turbata né da rifiuti né da malintesi, penosi
entrambi.
Esiste solo, per ora, una circostanza che renderebbe forse propizio il ritardo di qualche giorno, cioè aspettare la prima settimana di Giugno per avere a Roma Tina di
Lorenzo, che fu fra le prime adesioni, e preziosa. /
Infine! Si vedrà!
Per ora, eccole la mia preghiera e il mio augurio: che niente turbi la fusione dei primi mezzi, e dei primi elementi indispensabili.
Sono certa che, per ora, qualsiasi eliminazione sarebbe già creare un disaccordo.
Se ella dunque acconsente di avere la sua calda parola di Luce, la prego sia alcuna anche parola di bontà verso gli eventi, senza guardare intorno, senza illudersi, Ella pure a sua volta, che io possa, io, che pur intravedo un libero mare per tutti noi, che io
possa però, ora, / nelle condizioni attuali, navigare contro corrente.
Gli ambienti esistono, le forze contrarie esistono, non le ho create io, per certo, ma
le ho trovate organizzate e viventi, e come bene viventi, da anni e anni, fra noi, con
noi, per noi, in favore e contro di noi.
Io, non posso dunque che andare più oltre senza assumermi di fare, io, dell’ordine,
fra le cose discordi.
Dicemmo, parlando, qui a Roma, / che per preparare l’ambiente a questo inizio, occorre “carta ed inchiostro” e poiché in questo momento, la mia buona sorte me lo
consente, nei mezzi che mi sono possibili, ecco, che di cuore offro la “carta e l’inchiostro” ma la parola è l’anima della cosa, e questa la doni Lei!
Le dico grazie, con tutta confiance.
Eleonora Duse
Saluti
alla gentile Signora Di Martino. /
P.S. Scusi questo scrivere a matita. Ma scrivere mi è di fatica grande, e a matita m’è
più facile farlo.
Doc. 18
Eleonora Duse al Conte di San Martino
Parigi, s.d. [dopo il 1915]
Destinatario: «Paris, Conte di San Martino Rue Copernic 39»
166
ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI
Intestazione e monogramma: «Hotel Continental Paris»
BNN, ms. L.P. 539
mm. 205 x 135, 2 cc. e una busta
Stasera, alle 4.
Le scrivo grazie per ogni cortese parola.
Vorrei poterle fissare un giorno… ma avrei dovuto partire ieri.
Stasera, / e veramente propizio sarebbe per me poter partire domani.
Per ciò, la prego, attendere fino a domani una mia risposta che sarà la decisione, se
potrò rimanere, / e parlarle, o partire, e pregarla farmi sapere a Firenze il movente
della sua lettera.
Con tutta stima
E. Duse
167
CO2. INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI
A cura di Anna Menichetti
Il teatro alla Scala di Milano ha inaugurato le manifestazioni di EXPO 2015,
dopo la Turandot di Puccini e il bellissimo finale scritto da Luciano Berio in
apertura il 1° maggio, con l’opera in prima esecuzione di Giorgio Battistelli1
1. Nato ad Albano Laziale nel 1953, Giorgio Battistelli ha studiato composizione al conservatorio dell’Aquila dove si è diplomato nel 1978, frequentando contemporaneamente i seminari
di Karlheinz Stockhausen e Mauricio Kagel a Colonia. Tra il 1978 e il 1979 ha seguito i corsi
sul teatro musicale contemporaneo di Jean Pierre Drouet e Gaston Sylvestre. Dal 1981, anno
di Experimentum Mundi, ha inizio un’intensa attività di scrittura di opere per il teatro musicale.
Le sue composizioni sono state rappresentate presso il Festival d’Automne al Centre Pompidou
di Parigi, i festival di Salisburgo e di Lucerna, la Biennale e la Gasteig di Monaco, la Biennale
di Berlino, l’accademia nazionale di Santa Cecilia, in teatri quali La Scala di Milano, l’Opera
di Roma, il teatro Comunale di Firenze, nei teatri dell’opera di Anversa, Strasburgo, Ginevra,
Brema, Mannheim, Almeida di Londra, e inoltre a Hong Kong, Adelaide, Brisbane, Melbourne,
Sydney, Wellington, Taipei, Tokyo, New York, Washington, Singapore, La Paz, Pechino. La
sua musica è stata eseguita da direttori come Riccardo Muti, Antonio Pappano, Lorin Maazel,
Daniele Gatti, Daniel Harding, Ádám Fischer, Jukka-Pekka Saraste, Myung-Whun Chung,
Susanna Mälkki, Zoltán Peskó. Ha collaborato con i registi Robert Carsen, Luca Ronconi,
Georges Lavaudant, Mario Martone, Michael Londsdale, David Pountney, Daniele Abbado,
con Fura dels Baus e Studio Azzurro, e con interpreti come Toni Servillo, Bruno Ganz, Ian Mc
Diarmid, Philippe Leroy, Moni Ovadia, Vladimir Luxuria. Insignito del titolo di Chevalier de
l’Ordre des Arts et des Lettres dal Ministero della cultura francese e di commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, è stato compositore in residenza all’Opera di Anversa,
alla Deutsche Opera am Rhein di Düsseldorf e al teatro San Carlo di Napoli. Ha un’ampia esperienza di direzione artistica maturata presso l’Orchestra della Toscana (dove è tornato dal 2011),
la Biennale di Venezia, la Società aquilana dei concerti, l’accademia Filarmonica romana, la fondazione Arena di Verona, il Cantiere d’arte di Montepulciano; attualmente è direttore artistico
per l’opera contemporanea e la musica sinfonica al teatro dell’Opera di Roma. Nell’ultimo anno
si segnalano le prime dei lavori sinfonici commissionati dall’Orchestra sinfonica nazionale della
Rai (Tail Up, diretto da Susanna Mälkki), dall’Orchestra sinfonica di Münster (Pacha Mama),
dalla Saint Paul Chamber Orchestra (Mystery Play), dall’Orchestra Haydn di Trento e Bolzano
(Sciliar). In campo teatrale il 2012 ha visto la prima de Il Duca d’Alba per il teatro dell’Opera di
Anversa, completamento di un lavoro incompiuto di Gaetano Donizetti, e dell’oratorio per il
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 169-184
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18369
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
© 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License
(CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original
author and source are credited.
ANNA MENICHETTI
dal titolo CO2 che prende spunto dal libro di Al Gore, Una scomoda verità. Il
30 marzo 2015 abbiamo incontrato il Maestro nella sua casa di Roma per conoscere da vicino il nuovo lavoro e avere alcune anticipazioni. Battistelli – di
recente nomina alla direzione artistica per l’opera contemporanea e la musica
sinfonica al teatro dell’Opera di Roma (in codirezione con Alessio Vlad) – ci
ha illustrato in dettaglio i complessi meccanismi, la nascita, la progettazione
e l’allestimento dell’attesissima prima di CO2 , parlando anche di sé: delle sue
attività e del suo modo di vivere la propria arte.
*
Maestro, quali sono le origini di questa sua nuova opera, come nasce l’idea?
Il progetto nasce nel 2007, quando l’allora sovrintendente del teatro alla
Scala, Stéphane Lissner, mi telefonò dicendo che aveva piacere di parlarmi di
una commissione data dal teatro. Decidemmo di vederci la settimana seguente,
lui venne a Roma e ci incontrammo. Io da un po’ di tempo avevo in mente di
scrivere un soggetto che non fosse di consueto tipo narrativo, ma che avesse il
carattere di una narrazione più comparativa, o legata a simboli che non fossero
troppo vincolanti, troppo ristretti a un ambito ideologico di storia familiare o
di storie psicologiche; una narratività diciamo non circoscritta a una cultura
precisa e che non fosse legata alla cultura europea né orientale, né americana,
ma davvero globale. Un soggetto che doveva toccare ed essere presente nella cultura di tutto il pianeta: dall’Australia alla Svezia. Stavo leggendo in quel
periodo un testo particolarissimo, che non è un testo narrativo ma un testo
parascientifico: Una scomoda verità di Al Gore. È un libro in cui sono riportate
ricerche, riflessioni, intuizioni, preoccupazioni – temi che Al Gore ha approfondito e perseguito continuamente in questi anni – sullo scioglimento dei
ghiacciai, il surriscaldamento del globo e tutte le varie e drammatiche conseguenze. Al Gore ha dato vita a una fondazione importante rivolta a queste
problematiche con la collaborazione di giovani scienziati che fanno un serio
lavoro di monitoraggio in diversi punti del pianeta. Ne ha fatto una ragione
di vita. E quindi parlai a Lissner di questo progetto e gli chiesi cosa ne pensasse. Non mi fece neanche finire: quando vide il libro e il soggetto, a metà della
mia presentazione e della mia proposta, si entusiasmò moltissimo, dicendo: «ho
San Carlo di Napoli Napucalisse. Ha insegnato alla Aldeburgh Music e nell’estate 2012 ha tenuto
il corso Progetto opera presso l’accademia Chigiana di Siena. Nel 2013 Battistelli ha intrapreso
la lavorazione di Lot, la sua opera su soggetto biblico commissionata dall’Hannover Staatsoper.
Per ulteriori informazioni si rinvia a Il punto di vista di Giorgio Battistelli, a cura di S. Ferrone e
P. Carbone, «Drammaturgia. Quaderno», 1999, pp. 7-13.
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CO2 . INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI
capito tutto, ho capito quale è il senso di quest’opera, mi piace». È, in effetti,
un’opera veramente innovativa per la tematica. Mi confermò quindi la commissione per il 2007 e iniziammo a lavorare. Scelse lui il librettista e il regista.
Il regista, William Friedkin, regista hollywoodiano (Il braccio violento della legge, L’esorcista) che da qualche anno si occupa anche di regie d’opera; il librettista, J.D. McClatchy, americano, docente a Boston di Drammaturgia, che ha
scritto il libretto dell’opera di Lorin Maazel, 1984. Abbiamo lavorato insieme
un anno e mezzo, e ovviamente avevo cominciato già a scrivere. Poi c’è stato uno strappo, un confronto durissimo fra librettista e regista sulla struttura
dell’opera, soprattutto sulla struttura della messa in scena. E quindi si comprese
che i due non potevano più lavorare insieme. Lissner chiese a me chi scegliere
fra i due, ma erano stati chiamati dal teatro e io avevo già iniziato a utilizzare il testo di McClatchy; inoltre l’impostazione scenica di Friedkin era molto
imponente, molto cinematografica per cui si decise di cambiare il regista. La
seconda proposta che fece Lissner fu Robert Lepage, un grande regista di teatro con esperienza operistica, uno dei più grandi registi del mondo. Con lui
ho lavorato circa due anni. Ma poi si è ripetuta un po’ la stessa cosa: cioè Lepage è un regista che lavora in maniera molto maniacale, nel dettaglio e aveva già cominciato a costruire degli spazi simulati per l’allestimento dell’opera.
Lui lavora in Canada, ha a disposizione un immenso capannone dove mette
in piedi e realizza le sue idee: Lepage collabora costantemente con il Cirque
du Soleil, quindi con idee di grande spettacolarità. Fece un impianto scenico
bellissimo. Ho avuto con lui numerosi incontri, a Parigi e a Londra: abbiamo fatto delle sessioni di studio molto affascinanti e impegnative. Purtroppo
però, dopo due anni e mezzo, l’impianto scenico che ne venne fuori risultò
proibitivo dal punto di vista economico. Era una realizzazione enorme, con
degli ologrammi in scena, estremamente complessa e quindi con costi troppo
alti. Nel frattempo erano passati altri anni e si decise di cambiare regista per la
terza volta. Allora proposi, sempre a Lissner – erano gli ultimi mesi della sua
sovrintendenza alla Scala – di chiamare Robert Carsen, con cui avevo già lavorato nel Riccardo III, una mia opera a cui tengo infinitamente, e che mi aveva molto colpito per il suo modo di lavorare. Fu una delle poche volte in cui
vidi un regista in azione col coro e con i cantanti sempre con la partitura sotto il braccio; tutti gli spostamenti in scena avvenivano con la musica davanti,
non solo visivamente belli, ma soprattutto con una pertinente ragione musicale. Così, ci siamo incontrati con Robert Carsen e Ian Burton, il suo drammaturgo e librettista. Ho proposto il soggetto e naturalmente è avvenuta una
nuova invenzione e, a quel punto, anche un allontanamento dal testo di Al
Gore. Il tema è rimasto lo stesso, cioè quello del clima, ma è stato reinventato
in modo diverso. Reinventare quel soggetto attraverso una struttura narrativa
simbolica, riguardante i forti problemi che oggi hanno tutti i paesi del mon-
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ANNA MENICHETTI
do, e affrontare questo attraverso un’opera, credo sia la particolarità principale dell’operazione. Senza cadere nell’enfasi, la ritengo una forma di impegno
– come poteva essere per un compositore degli anni Sessanta – di impegno
politico su soggetti fortemente ideologici. Trovo che far riflettere le persone,
oggi, attraverso un’opera in musica, su una problematica così complessa e delicata, possa essere una forma di dovere etico e sociale; inoltre ci consente uno
sguardo da un’angolatura di tipo più estetico, artistico: è un’ottima occasione
e un ottimo metodo di riflessione. Per cui con Carsen siamo andati avanti per
più di un anno e mezzo e ho lavorato benissimo perché, appunto, conosco il
suo modo di fare regia. Siamo andati molto veloci, infatti. Alla fine però mi
sono trovato quasi tre opere scritte! Sì perché avevo tutte le scene precedenti
che non ho potuto riutilizzare, giacché erano su testi diversi e con dinamiche
drammaturgiche diverse: con Ian Burton, con il quale l’esperienza di Riccardo
III è stata straordinaria sia umanamente che artisticamente, ci siamo trovati
d’accordo su tutto, per cui siamo andati rapidissimi e in un anno e mezzo ho
terminato l’opera… il percorso è stato comunque molto lungo – dal 2007! –
soprattutto rispetto ai miei tempi di scrittura. Io ho un metabolismo veloce
nello scrivere e ho bisogno di esprimerlo subito: un’incubazione troppo lunga
di un soggetto mi toglie energia. È un fatto anche caratteriale: c’è chi ha bisogno di cinque anni di riflessione e chi dopo cinque mesi inizia.
La concomitanza con l’EXPO 2015 è stata casuale?
Sì. L’opera era stata commissionata nel 2007 e prevista nel 2011. Poi dal
2011 si è deciso di portarla al 2013. Nel 2013 la struttura era già abbastanza
avanzata e forse ce l’avremmo anche fatta. Ma Lissner, in accordo con il sindaco di Milano, mi propose di posticiparla al 2015 perché il tema dell’EXPO
– sull’alimentazione e le problematiche dell’acqua e della globalizzazione – era
molto pertinente con CO2 .
Il titolo è suo, Maestro?
Lo abbiamo concordato con Ian Burton. Avevamo diversi titoli a disposizione. A me piaceva anche molto il titolo di Al Gore, Una scomoda verità, che però
era fortemente politico, di denuncia. Quindi con Ian Burton abbiamo deciso di
trovare qualcosa che desse la sensazione di un’espressione più tossica e allo stesso tempo sintetica. E allora, lui che vive e insegna vicino a Londra, ha fatto un
esperimento con degli studenti universitari proponendo tre titoli e chiedendo
loro quale fosse quello per il quale sentivano maggiore empatia, sollecitazione
immaginifica e CO2 ha vinto, la sua tossicità ha vinto, e ci siamo decisi a utilizzarlo. È una formula: la prima opera che viene presentata come una formula.
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CO2 . INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI
È anche interessante che il titolo sia stato scelto dai ragazzi dell’università: un problema che li riguarda da vicino. È molto bello questo. Vogliamo parlare più strettamente
dell’opera: l’organico, le voci, i personaggi?
È un’opera che ha una struttura molto chiara: formata da un Prologo, una
vera e propria scena introduttiva dell’opera; nove scene con soggetti e riferimenti precisi al percorso drammaturgico, e un Epilogo. E viene rappresentata
in un atto unico di circa un’ora e quaranta. I passaggi da una scena all’altra sono molto serrati. Il personaggio principale è un climatologo: Adamson (figlio
di Adamo) e si presenta al pubblico come un oratore che tiene una conferenza
sul clima: si apre il sipario ed è dietro un podio, saluta il pubblico e comincia
a parlare. Naturalmente c’è un riferimento anche ad Al Gore: sappiamo che Al
Gore da anni gira il mondo facendo conferenze su questo problema, aprendo
discussioni sulle varie minacce e i rischi che stiamo correndo e che sta correndo la terra a causa del surriscaldamento globale. Adamson parla, dunque, della
necessità di una ‘creazione’. La parola ‘creazione’ dà inizio alla prima scena nella
quale appare la divinità Shiva, e una danza illustra il concetto della creazione
della terra. Con il movimento, attraverso l’atto della creazione e i momenti di
energia, si creano il globo e la convivenza di elementi anche molto distanti fra
di loro: da un punto di vista chimico, scientifico, culturale. Subito dopo abbiamo l’apparizione di quattro scienziati, per l’esattezza due ecologisti e due
climatologi, che dialogano fra di loro con posizioni anche molto diverse sulla
questione del clima nel mondo. Mentre discutono, arrivano dall’alto quattro
Arcangeli che cominciano a conversare con loro. Ha inizio una riflessione sulle origini dell’universo, sulle stelle, sui misteri della creazione, con riferimenti
alla cultura giudaico-cristiana. Un dialogo su due livelli, quindi: uno più metafisico, religioso e uno invece di tipo più scientifico, portato avanti dai quattro scienziati. Subito dopo abbiamo una scena completamente contrapposta:
siamo in un aeroporto. Troviamo il dott. Adamson, seduto su una valigia, che
si è perso perché c’è stato l’annullamento, per ragioni meteorologiche, di una
serie di voli. Assistiamo a un momento di grande caos nell’aeroporto: annunci in tante lingue, tante persone che passano, tanta gente che non riesce più a
partire. Un momento caotico ma anche molto realistico, purtroppo! Adamson
è in partenza per il Giappone, per la conferenza a Kyoto, il primo importantissimo convegno di Kyoto del 1997, dove si è cercato di realizzare un protocollo
sul clima. Rimane invece bloccato senza sapere come raggiungere la destinazione. Il passaggio alla scena successiva – e questa è la prima volta che faccio
una scena di musica completamente in stile a cappella – è l’entrata nell’ambiente di Kyoto, il palazzo dove si svolge il convegno. Ci sono tutte le rappresentanze del mondo: cinese, giapponese, russa, indiana e così via, insomma le
varie posizioni, anche contrastanti, sul tema. E su questo ho deciso di ferma-
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ANNA MENICHETTI
re l’orchestra. I cinque cori sulla scena cantano a cappella. Tutto è dialogato
e tutto è affidato alla voce. La voce dell’uomo: fra loro parlano, dialogano, si
sovrappongono, si contrappongono. È una scena molto articolata, anche molto
performativa perché questi cinque cori si rincorrono fra di loro, si scontrano,
per idee contrarie: quella americana che era contro il protocollo e non voleva
vincoli, come quella russa e cinese, oppure quella araba e giapponese; e questi
cinque cori con i loro delegati cantano in cinque lingue diverse.
Quindi con uno scontro di vocali, di consonanti, di sillabe di potente effetto fonico
e verbale?
Sì. E di culture, ovviamente. Il significato del testo è sempre lo stesso, però
cantato in cinque lingue diverse. Chi a favore e chi contro. Quindi una scrittura molto polifonica e performativa, con suoni onomatopeici: le contestazioni, le proteste, gli umori. Il convegno si presenta molto duro, molto animato.
Tutta l’opera CO2 è cantata in inglese, il libretto è in inglese, ma ci sono momenti diversissimi: qui cinque cori plurilingue, un momento in sanscrito, un
coro greco che canta in greco antico. Si tratta delle varie espressioni e del variegato percorso dell’umanità, delle tante culture che si sono venute a creare:
è una scena che vuole essere globale. E allo stesso tempo l’unificazione che
viene dalla lingua inglese, che è la lingua predominante del libretto, parlata
oggi in tutto il mondo.
Questa è la parte centrale dell’opera?
No, non proprio. Io considero la parte centrale dell’opera, il punctum direbbe Roland Barthes, l’apparizione di Gaia, della Terra. La Terra che parla agli
uomini. Quello è il momento del monito agli uomini. Comunque, andando
per ordine, dopo questa scena del protocollo di Kyoto sulla progressiva eliminazione degli elementi inquinanti nell’atmosfera – anche se poi questo trattato
fu quasi un fallimento, come è noto, per le posizioni estremamente contrastanti
–, segue un momento di vuoto orchestrale fatto di ben undici minuti di voci
sole che si contrappongono; poi improvvisamente si sente l’orchestra che via via
cresce. Entriamo nella scena degli uragani: la risposta della Terra alle questioni
che si stanno trattando. Ed è un momento anche coreografico perché si tratta di un balletto con grande orchestra e un coro fuori scena che canta i nomi
degli ultimi venticinque uragani dello scorso secolo: nomi di scienziati, spesso
di donne…! Venticinque danzatori rappresentano gli uragani. Un momento
molto dinamico da un punto di vista anche scenico e musicale. Timbri, ritmi,
colori molto mossi. Alla fine, questi uragani si allontanano a poco a poco, con
evidente impatto sonoro determinato dal contrasto delle due scene affiancate
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CO2 . INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI
– prima sole voci, poi grande orchestra – ed entriamo in un’altra scena di assoluta poesia. Siamo immersi nel verde ed è l’Eden. Abbiamo tre personaggi:
due bellissimi Adamo ed Eva, tenore e soprano, nudi e persi nella natura, che
cantano fra di loro con estrema dolcezza e dialogano sull’ecosistema; e un altro
personaggio che appare improvvisamente: il serpente, un controtenore, con il
quale si avvia il terzetto e si sviluppa fino al momento in cui riesce a donare
una mela. Il morso della mela entra in orchestra. Noi ascoltiamo quel morso:
un suono campionato, durissimo aspro forte, che chiude la scena dell’Eden.
Un suono campionato e con strumenti?
Sì con strumenti e un suono campionato elettronico. Sentiamo questo terribile morso della mela e lì abbiamo il cambio repentino alla scena successiva:
ci troviamo in un supermarket, dove si continua a sentire il suono di masticazione e di morsi, con un’orchestra che cresce: un suono concreto, un rumore
se vogliamo, inserito dentro l’orchestra e poi sommerso dall’orchestra. Ci troviamo nel passaggio dall’Eden al momento grottesco del grande supermercato
di generi alimentari, dove abbiamo una cinquantina di donne, o uomini travestiti, che si muovono tra questi scaffali. E lo fanno su un ritmo quasi danzante:
c’è un infinito elenco di cibi che noi mangiamo e che provengono da tutto il
mondo… dal Messico, da Cuba, dalla Nuova Zelanda, dalla Norvegia, fagioli che vengono da chissà dove, pane… Un elenco ossessivo e perpetuo di una
cascata di cibi cantata dalle donne… Alla fine di questa scena c’è l’apparizione
di Gaia, che avverte che in tutto questo scambio di cibi c’è una contraddizione tragica perché, proprio per tutti questi trasporti di alimenti da tutto il mondo, si emette veleno continuo: voli, inquinamento dell’aria… per un cibo che
viene poi globalizzato. Tutti siamo omologati. Tutti mangiano tutto con gli
effetti positivi e negativi della globalizzazione. Sull’apparizione e sul monito
di Gaia, Adamson riprende la conferenza: una scena in cui viene presentata la
teoria dello scienziato James Lovelock che nel 1979 sorprese un po’ il mondo
scientifico sostenendo che la terra ha un sistema di autoregolamentazione naturale, nel senso che essa stessa è in grado di rigenerarsi. Se viene ferita, recupera
il proprio stato di benessere; che è poi lo scudo che molti scienziati sfruttano:
non preoccuparsi troppo perché poi tanto l’aria si rigenera. Alla fine di questa
esposizione di Adamson appare dalle viscere del teatro Gaia, che è un mezzosoprano con tinte gravi, che parla direttamente agli uomini. Lancia un avvertimento molto, molto forte, aggressivo e anche accorato: «mi avete lacerato,
uomini, mi distruggete dall’interno, ma se uccidete me ucciderete anche voi
stessi. Attenzione però: io non mi lascerò distruggere». A questa affermazione
ci troviamo in un paesaggio post-tsunami in Thailandia. Una spiaggia, una signora inglese che ha perso un familiare (una storia vera) ha una corona di fio-
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ANNA MENICHETTI
ri in mano; accanto a lei un signore thailandese, il direttore dell’hotel dove lei
alloggiava durante lo tsunami, e viene lanciata in acqua una corona di fiori.
Una scena molto bella, suggestiva, con le foto dello tsunami e le immagini di
documenti veri della sciagura. Una scena molto toccante. Da lì si passa alla scena dell’apocalisse. Immagini apocalittiche della terra che suggeriscono in parte
quella che sarà la conclusione della conferenza di Adamson, dove per la prima
volta dichiara quali sono i pericoli veri che stiamo correndo noi uomini. I pericoli della stessa sopravvivenza dell’uomo. Auspica un maggior rispetto ecologico della natura ma anche una manifestazione di amore verso la Terra. In
questa scena, mentre parla, entrano i quattro scienziati che cercano di trovare
un accordo. L’atteggiamento nei confronti del convegno di Kyoto è cambiato:
i quattro scienziati sentono la necessità, l’urgenza di trovare una soluzione. E
mentre stanno dialogando ritornano i quattro Arcangeli che avvertono e lanciano un ultimo monito: «siamo alla fine, sta a voi trovare una soluzione, noi
non possiamo fare nulla. Soltanto l’uomo può salvare sé stesso». Scena particolarmente potente, con gli effetti devastanti della rivolta della Terra. Riappare Shiva che attraverso il fuoco, attraverso la distruzione, vuole e offre ancora
un’opportunità di ricreare la Terra. Questo è il tragitto dell’opera, che deve intendersi come un percorso narrativo di natura simbolica, fortemente biblico, che
richiama diverse culture, di carattere trans-culturale. Tutta l’opera è costruita
su tinte contrastanti, contrapposte: chiaro-scuro, forte-piano, vuoto-pieno…
Secondo un criterio drammaturgico della teoria degli affetti di tradizione barocca?
Sì. E anche molto densa di elementi, di significati, di sentimenti. L’organico è per grande orchestra: legni a tre, quattro corni, quattro trombe, quattro
tromboni, due tube, due tastiere di suoni campionati, due arpe. Grande orchestra con coro di bambini che stanno a indicare la possibilità della rigenerazione, di un futuro, di un mondo nuovo. E un grande coro di cento cantanti che
si frantuma in tanti diversi altri cori: donne, uomini, coro greco, coro fuori
scena. Infine le voci dei personaggi: Adamson baritono, Adamo ed Eva tenore
e soprano, il Serpente controtenore, quattro Arcangeli tre bassi e un soprano
– soltanto Gabriele è soprano – e gli scienziati che sono tre bassi e un tenore,
un doppio quartetto quindi che si confronta. Shiva è un mezzosoprano che
canta in orchestra, rimane in buca. Il concetto è quello della spazializzazione
di suoni e voci. Anche Gaia è un mezzosoprano. Insomma sedici personaggi
in tutto, compresi Mrs Mason e il direttore dell’hotel tailandese: tanti, e naturalmente alcuni hanno doppi ruoli. Inoltre devo dire che è la prima volta che
lavoro su una struttura così strettamente simbolica e con forti contrasti. Nonostante questo non ho avuto timore o difficoltà ad affrontarla, non ho provato disagio ad allontanarmi da un mio sistema narrativo, di cui solitamente ho
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CO2 . INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI
sempre bisogno. È stato naturalmente consequenziale mettere in relazione il
prima e il dopo e una volta messa a fuoco la struttura dell’opera tutto ha preso a scorrere fluidamente.
La scrittura è complessa? Anche per gli interpreti?
La complessità della scrittura, come spesso nella mia musica, è più una complessità di concertazione, di come fare emergere le varie voci: sia le voci dell’orchestra, dei singoli strumenti, che le voci dei personaggi. E quindi è un lavoro
sempre, spero, divertente ma più impegnativo per i direttori d’orchestra. La mia
scrittura è in genere densa e proprio per questa densità c’è bisogno di fare un
lavoro di concertazione molto attento per tutte le voci. Dirigerà l’opera Cornelius Meister, un giovane direttore tedesco che sta facendo una carriera, direi,
folgorante in questi ultimi anni. L’abbiamo visto a Salisburgo con opere impegnative; è venuto l’anno scorso qui a Roma all’accademia di Santa Cecilia, dove ha ottenuto molto successo. Da questo punto di vista mi sento molto sicuro
di avere interpreti di rilievo. Anche i cantanti sono molto bravi. Curiosamente
sono cantanti che provengono soprattutto da frequentazioni ed esperienze del
grande repertorio: Strauss, Wagner. È molto interessante verificare come sanno accostarsi con disinvoltura a una partitura di oggi, del nostro tempo. In me
c’è stato un cambiamento, in questi ultimi dieci anni, perché in passato cercavo sempre la specializzazione, come se un cantante, un interprete, un direttore
formatosi nella musica contemporanea e del Novecento mi desse la garanzia di
possedere una sensibilità, un’attenzione di maggior perizia su un tipo di scrittura; devo dire, invece, che in questi ultimi dieci anni ho cominciato a fidarmi, non dico di più, ma allo stesso modo: mi è capitato di incontrare direttori
d’orchestra che non hanno mai diretto opere moderne e che hanno realizzato
risultati strabilianti. Il primo, mi ricordo, fu Adam Fischer tredici anni fa. Un
direttore che ha sempre diretto un certo tipo di repertorio, da Haydn e Mozart a Wagner, ma che non andava oltre. Quando fu chiamato in Germania, a
Mannheim, a dirigere una mia opera ero molto preoccupato e nei primi giorni di prove avevo un certo timore. Poi invece ha fatto un lavoro molto serio
e accurato. Entrare dentro una partitura, che sia di Battistelli, di Wagner o di
chi altro significa sempre tirar fuori dei contenuti… e con la stessa attenzione.
Non sarà anche, Maestro, che la sua scrittura ha un carattere molto fluido, un grande e articolato flusso sonoro e che quindi chi si occupa, diciamo, di opera tradizionale ci
si ritrova molto bene?
Questo, francamente, non posso dirlo io. Vedo che oggi la complessità della
scrittura è dovuta anche al fatto che abbiamo una grande libertà degli elemen-
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ANNA MENICHETTI
ti. Carl Dahlhaus scriveva che – intuizione assolutamente folgorante, precisa
– l’operista è per sua natura impuro. E deve essere impuro perché deve poter
contemplare, deve mettere in connessione tra di loro elementi eterogenei dal
punto di vista linguistico.
C’è anche uno strato profondo, direi, di meccanismi di conoscenza dell’opera che si
sente nella sua scrittura. Probabilmente anche la sua frequentazione assidua e professionale dell’opera in qualità di direttore artistico – è di pochi giorni fa la sua nomina alla
direzione artistica del teatro dell’Opera di Roma per la musica sinfonica e per l’opera
contemporanea, e questo oltre alle attività che ha svolto e svolge in diversi teatri – la tiene
sempre a contatto con una vitalità teatrale, musicale, operistica, che comporta certo problematiche, decisioni ma anche risultati e visioni oggettive dello specifico comparto musicale:
non trova che tutto questo possa indirizzarla verso un linguaggio molto pratico e attuale?
Io lo sento naturalmente come un linguaggio del mio tempo, del nostro tempo,
che deve essere per sua natura un linguaggio sferico, tridimensionale. Soprattutto sento la diversità fra gli autori dell’Ottocento, ma anche da Monteverdi, fino
agli autori del primo Novecento e ai compositori di oggi. È che noi, attraverso
il grande sviluppo e l’evoluzione della tecnologia, abbiamo in questo momento
storico la possibilità di metterci in contatto, di ascoltare – visto che ci occupiamo
di ascolto – tutto: dal canto gregoriano alla musica techno, alla musica elettronica. Nessun altro orecchio ha ascoltato quello che noi possiamo ascoltare oggi,
quindi la tecnologia ha modificato il nostro attuale sistema percettivo. Il compositore d’opera deve tener presente tutti questi elementi e avere il coraggio, io
lo definisco coraggio, di seguire il senso drammaturgico della scrittura piuttosto
che quello razionale, di coerenza, di un determinato sviluppo musicale. Questo è fondamentale. Oggi è più innovativo o può essere molto più innovativo
l’inserimento di una triade all’interno di un contesto armonico, se appare come
qualcosa di inaspettato e dirompente. Può essere molto più dirompente di un
cluster: è la sorpresa, è un qualcosa di inatteso che crea una tensione di ascolto.
Molto haydniano il legame!
E certo! Perché non si può scrivere niente nel nome della coerenza: «no,
questo io non posso farlo…». Il non poterlo fare, si fa rispetto a dei canoni, dei
modelli convenzionali. E invece l’interessante di oggi, per ritornare a Dahlhaus,
è che, in particolare, il compositore d’opera deve essere pronto a tollerare: può
tollerare tutto, tutto nella scrittura, anche il kitsch che è fondamentale. Ma non
può tollerare la purezza, cioè l’essere puro. È un’altra dimensione di ascolto rispetto all’opera, rispetto al teatro. Ma anche i grandi del passato erano impuri,
lo stesso Monteverdi lo era nello scrivere l’opera. E pensiamo a Puccini. Per
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CO2 . INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI
non parlare dell’Ottocento italiano: Donizetti, Verdi! Verdi è un compositore
straordinario, geniale ma un compositore per certi aspetti anche un po’ ‘grezzo’, anche un po’ ‘sporco’ nel senso di non rifinito, non raffinato; ma quella
sua non raffinatezza è talmente pertinente nelle cose che scrive che lo rende
uno dei più grandi compositori che abbiamo avuto!
Indubbiamente. Tornando a CO2, Maestro, lei andrà alle prove della sua opera, le
seguirà?
Seguirò le prove quando verrò invitato perché l’inizio delle prove è sempre un momento delicatissimo, occorrerà quindi andare al momento giusto. Il
7 aprile inizieranno le prove con i cantanti. Io credo che sarà necessario fare
un incontro con loro per dare qualche suggerimento, e poi naturalmente con
l’orchestra; anche se tendo sempre – ma questo anche per mio carattere, perché a me piace – tendo sempre a essere sorpreso. Il mio lavoro termina davvero quando consegno la partitura. E rispetto le interpretazioni del regista, del
direttore d’orchestra anche quando sono molto distanti dalle mie. Mi incuriosisce molto vedere come un interprete può leggere, guardare, ascoltare lo
stesso oggetto da angolature diverse. Mi permette di vedere in un altro modo… Mi è sempre capitato, con ogni direttore d’orchestra che ha diretto mie
partiture e anche lavori sinfonici o anche registi, di pensare: «ma guarda come
viene…!». È curioso. Ricordo un’interpretazione bellissima di Luca Ronconi quando fece la regia della mia parabola in musica, Teorema, da Pasolini: ne
fece un’interpretazione talmente particolare, talmente piena di poesia che ha
arricchito il mio rapporto con quest’opera.
E poi per un compositore, sentirla finalmente tutta, l’opera composta, è forse sempre
qualcosa di straordinario, anche se oggi ci sono mille modi tecnologici per potere sentire gli effetti, certe scelte timbriche piuttosto che armoniche… Schubert docet. Sentire le
proprie opere è importante…
Sì. Certamente questo è un altro grande vantaggio di oggi. Anche se io
scrivo a matita…
A matita…?
Sì, sì… sono ancora uno dei… [ride divertito]. Devo dire che a volte ho
persino difficoltà a reperire la carta. Io me la faccio stampare, perché non si
trova più… carta a 32, a 36 righi, non la fanno più. Ma ho proprio bisogno di
questo. Poi consegno il manoscritto e Ricordi, il mio editore, l’affida a copisti
che la trascrivono con un sistema computerizzato.
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ANNA MENICHETTI
Come sono le sue abitudini di scrittura?
Io inizio a lavorare molto presto al mattino, cinque e mezzo-sei della mattina. Dipende in parte dalla pressione del lavoro. Però, in genere, mi sveglio
presto: la fascia d’orario fino all’una e mezza è per me il momento più forte
per la scrittura. Poi faccio una pausa di un’ora e riprendo a lavorare fino alle sette di sera. Questo quando ho impegni e scadenze. Altrimenti possono
cambiare gli orari… Però io lavoro tutti i giorni: anche quando vesto i panni del direttore artistico, quando vado a Firenze, o quando lavoro nei teatri,
ho comunque bisogno di lavorare, di scrivere ogni giorno. Mi alzo la mattina
magari un po’ prima e alle nove e mezzo sono in ufficio o in teatro e la sera
continuo a scrivere.
Quindi la scrittura è sempre?
La scrittura è sempre. C’è stato un periodo della mia vita in cui ero molto
tormentato dal rapporto con la scrittura. Tormentato perché ero ossessionato dalla paura che potesse esaurirsi, l’idea che il mio pozzo creativo potesse…
Un po’ leopardiana come idea…
Sì, sì… pensavo: «ma com’è possibile, che succederà…» ed è stato anche
un motivo per… non perché ne avessi bisogno, ma per confrontarmi e stabilire un dialogo da un punto di vista psicoanalitico. Cosa che ho fatto per un
periodo con un grande psicanalista junghiano che si occupava proprio di tali
questioni, con un forte interesse per la creatività. Mi confrontavo quindi su
questi temi della creatività e della paura del suo esaurirsi… Questo per dire
come la scrittura fosse vissuta da me come un perno centrale della mia esistenza: io mediavo il mondo, e medio tuttora il mondo, attraverso la scrittura.
Poi lui mi rassicurò molto dicendo che il dèmone della creatività o si ha o non
si ha. Si può anche far finta di averlo ma, quando si ha ed è autentico, non ti
abbandona. Non lo devi maltrattare, questo no, ma lo avrai per tutta la vita.
Per un Maestro come lei che ci svela che scrive a matita, cosa che trovo meravigliosa, quanto la scrittura musicale, la grafica cioè il segno, sono esaustive di un pensiero?
… anche questo è un motivo molto inquietante, e non voglio essere di nuovo leopardiano, ma è un problema di perdita: perché il passaggio tra il pensiero
e la scrittura significa dover convivere con una perdita; ciò che noi scriviamo
è un qualcosa che si è allontanato da ciò che abbiamo pensato. Abbiamo perso qualcosa nel momento in cui viene messo su carta e certamente accettare
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CO2 . INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI
quella perdita non è facile. È una sofferenza per me perché vorrei naturalmente
mettere tutto, ma so che, quando traduco in segno un pensiero, avviene automaticamente una privazione. La questione poi è che c’è una successiva sottrazione che si effettua tra il segno e ciò che noi ascoltiamo: quando lo diamo
in mano all’interprete. Lì mi accorgo che c’è un’ulteriore perdita, che negli
ultimi anni però accetto molto di più perché la vivo, come dicevo prima, come un arricchimento: un modo diverso di guardare la stessa cosa; e anzi mi
piace vedere come il signor X o il direttore Y o il cantante Z interpretano il
mio suggerimento, la mia proposta.
Comunque lei sente che il segno grafico non è esaustivo, non è fedele a un pensiero: è limitato?
Ma è limitato anche quando si usa una scrittura iperdeterminata. La mia
scrittura è una scrittura precisa, ma è sempre una sintesi rispetto a ciò che
ho pensato. Curiosa, se la ricordiamo, l’intuizione di Adorno quando parlava dell’iperdeterminismo del suono sostenendo che una iperrazionalizzazione
del materiale porta a una indeterminazione della struttura. Si può razionalizzare, determinare, controllare nei particolari un serialismo integrale, esasperato: se noi andiamo sul serialismo integrale, se lavoriamo su tutti i parametri
del suono, tutto sotto controllo… l’esecuzione di quello equivale quasi a un
pezzo aleatorio… quindi l’iperdeterminazione ti porta all’indeterminato! È
un circolo inevitabile!
Lei comunque non fa ricorso a scritture particolari?
No. No, no. Utilizzo la scrittura convenzionale. Ho un mio sistema armonico a cui faccio riferimento e che negli anni ho messo a fuoco, composto di
rapporti armonici fra i suoni: il mio libro dei suoni che ho lì… che mi serve
per creare i miei percorsi… Ma come scrittura è una scrittura molto tradizionale e non c’è la tendenza al grafismo musicale. Può capitare, come nella scena
di Kyoto dove ci sono cinque cori, che quando uso delle parole che sono dei
suoni onomatopeici del coro, devo scriverli in un certo modo, ma è comunque
una scrittura sempre di sintesi e che fa riferimento al nostro sistema occidentale, europeo. Non è una musica aleatoria, ma non perché questa non mi interessi: dico solo che occorre sempre utilizzare ciò di cui si ha bisogno, perché è
quel tipo di necessità che ti porta a scrivere. Per esempio, in CO2 c’è un momento particolare: quando, durante il dialogo tra i quattro Arcangeli e i quattro
scienziati, entrano le due arpe con suoni eolici e circolari. Ecco, se vogliamo,
possiamo definirla scrittura aleatoria; ma in fondo non lo è perché io stabilisco
un ambito, un range specifico dove devono essere prodotti questi suoni eolici
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ANNA MENICHETTI
e chiarisco un andamento all’interno delle altezze. Ma quella è una sintesi: in
quel momento serve una formula specifica. L’inserimento ha un senso, proprio
lì, ed è in quel senso che si stabilisce la necessità di quella determinata scrittura.
Ho detto leopardiano ma in effetti dovevo dire, soprattutto in questo caso, hoffmanniano!
Sì, certo!
Maestro parliamo anche della ‘missione’ – userei questo termine – nel campo della
direzione artistica e quindi dei suoi rapporti con la Toscana, con Firenze, con l’Orchestra?
Con Firenze e con la Toscana è ormai un rapporto più che decennale: il
primo incarico l’ho avuto quindici anni fa e ho lavorato per sei anni alla direzione artistica dell’Orchestra; poi sono tornato e questo è il mio quarto anno: quindi sono dieci anni! È un ambiente straordinario. Considero l’ORT la
migliore orchestra da camera italiana. È un’orchestra che ha delle peculiarità
uniche per le formazioni con questa morfologia, con questo organico, perché
è composta da tutte prime parti. I fiati sono tutti primi, e sempre un doppio
primo, e questo determina una qualità altissima d’espressione. C’è un sistema di rotazione sugli archi, per cui non ci sono mai delle sacche statiche da
un punto di vista interpretativo, cosa importantissima anche questa. Inoltre
abbiamo fatto un lavoro straordinario sul repertorio perché abbiamo iniziato
dal periodo classico per arrivare via via al Romanticismo, al tardo Romanticismo e alla musica del Novecento. E adesso – e questo è stato determinante
per l’ampliamento del repertorio – stiamo portando avanti un progetto molto
interessante sulle Sinfonie di Mahler che sarà pubblicato dalla Universal: proporremo un ciclo di queste sinfonie trascritte per un organico che va benissimo
per noi; il che è anche molto impegnativo perché ci mette a confronto con il
grande repertorio e impone, da un punto di vista tecnico-interpretativo, una
attenzione particolare. L’ampliamento di un repertorio, per un’orchestra, significa sempre confrontarsi: l’allargamento della letteratura corrisponde all’allargamento della problematica tecnica.
Maestro, ora che ha terminato la scrittura di CO2, quali sono i progetti futuri?
Sì, è finita. Infatti mi sembra di averla scritta quindici anni fa! Si è talmente allontanata… Ora sono concentrato sulla nuova opera, che farò per il teatro
dell’Opera di Hannover, in Germania, su un tema biblico. Il titolo è Le figlie
di Lot. Le due figlie che fanno ubriacare il padre e che poi hanno un rapporto
sessuale con lui per poter ripopolare la terra. È una cosa molto forte, intensa
come tematica… e molto diversa da CO2 .
182
CO2 . INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI
Forse, diciamo, che ci potrebbe essere un collegamento…
Sì, certo, la rinascita della Terra.
Un collegamento anche un po’ mistico?
Questo? … non so. Più che mistico forse spirituale. In questo momento è un
po’ così per me… Prima si parlava della perdita che si determina tra il pensiero
e la scrittura e tra la scrittura e l’esecuzione: proprio in quella fase problematica
ci sono dei collegamenti, per esempio, con tutta la questione che riguarda la
fede… per me. È curioso il percorso che ho fatto. Diciamo che il mio rapporto con la fede è stato sempre un rapporto non risolto. Pasolini diceva: «quando
entro in una chiesa, quell’acustica quello spazio quell’architettura, mi ricordano che non ho risolto il mio problema con la fede»… [sorride]. È curioso, ma è
un po’ quello che per me è avvenuto con la scrittura, perché ponendomi quei
problemi sulla perdita – di dove va a finire quello che ho pensato e che non è
stato messo o non è rientrato nel segno, o quello che ho ascoltato o quello che
ho segnato – vi ho trovato qualcosa che ha a che fare un po’ con le questioni
di fede e… poi forse… anche con il dubbio… ecco. Il dubbio è una questione
molto particolare. Il festival che dirigo a Firenze, Play it!, dedicato alla musica italiana, ogni anno ha una tematica più di natura filosofica che musicale
– anche se poi i compositori scrivono quello che vogliono – e di dibattito, di
confronto. Ogni mattina c’è un incontro fra tutti i partecipanti e così il tema
del prossimo festival sarà Il dubbio. Quindi il dubbio sulla scrittura, il dubbio
del creare, quali sono i dubbi che hanno i compositori o gli interpreti. Dubbi
di natura diversa ovviamente. Perché il dubbio non è solo incertezza, fragilità, ma è anche dinamica. Il dubbio è dinamico, non è depressivo, così come il
dubbio amletico, lacerante… Anche nella fede è importante… ritorna spesso
in tante parti della Bibbia, è sicuramente il momento più intenso della fede, no?
In ogni caso è ricerca, approfondimento. Terrorizzante, a mio avviso, chi ha solo
certezze…
Esatto: mi fanno sempre paura coloro che hanno sempre certezze…
La parola ‘credo’ è esemplare. In molte lingue, ma soprattutto in italiano, significa credere, sinonimo di certezza: ‘credo’, affermativo; ma anche ‘credo’… il dubbio costruttivo.
Sì: inteso come ‘forse’, ‘chi lo sa’… Certo. Una volta parlai proprio con un
cardinale di questi argomenti… Mi proposero di scrivere una Via Crucis, diversi anni fa. Pranzando con questo prelato ho affrontato il tema della fede. E
183
ANNA MENICHETTI
lui mi fece una precisazione molto importante. Gli dissi: «ma sa, io sono avvolto nel dubbio, un dubbio che mi fa male, che mi distrugge, che mi lacera»;
non ho usato il termine ‘dubbioso’ perché mi pareva estremamente riduttivo.
E lui mi disse: «ma più che un dubbio, lei è dubitante». Quindi non dubbioso.
Mi è sembrata un’espressione più delicata.
Come il passo, che può essere dubitante.
Sì. Adopero il dubbio, ma per andare avanti, non per restare fermo…
184
RICERCHE IN CORSO
Teresa Ferrer Valls
IL PUNTO SUL MONDO DEGLI ATTORI
DEL SIGLO DE ORO*
Le prime compagnie che iniziarono a organizzarsi in Spagna a partire dagli
anni Quaranta del Cinquecento recitavano, è noto, in spazi non pensati specificamente per ospitare spettacoli teatrali: nei cortili delle locande e in edifici pubblici, in case private, nei saloni e nei cortili aristocratici, nelle strade e
nelle piazze delle città e anche nelle chiese in occasione di alcune celebrazioni
religiose. Negli anni Ottanta del XVI secolo si aprirono gradualmente i primi
spazi teatrali commerciali detti corrales, cortili o case di comedias a seconda delle
zone geografiche. Nella penisola iberica l’esistenza di questi edifici, utilizzati in maniera stabile e regolare come spazi per l’attività drammatica, diede un
impulso decisivo al consolidamento delle compagnie professionali e rafforzò
il commercio del teatro.
La popolarità di tale fenomeno culturale e commerciale suscitò ben presto
l’interesse delle autorità che stabilirono tempestivamente regolamenti sia per gli
edifici pubblici e il loro uso teatrale sia per l’organizzazione delle formazioni.
Si ricordi, ad esempio, che dopo un primo periodo di divieto, nel 1587 il Consejo Real decise che le donne potessero far parte legalmente delle compagnie.
Negli anni seguenti, tuttavia, non mancarono polemiche generate da quella
ostilità verso il teatro, capitanata da alcuni severi moralisti, che attraversò più
o meno sotterraneamente tutto il XVII secolo. Malgrado il loro successo, gli
attori non furono riconosciuti come corporazione finché, nel 1634, non venne sancita ufficialmente la fondazione della Cofradía de Nuestra Señora de la
Novena. L’istituzione di questa confraternita era stata portata a compimento
da alcuni dei più prestigiosi capocomici dell’epoca. Fu un passo avanti nell’organizzazione e nella difesa degli interessi degli attori e fu soprattutto, da parte
di costoro, un tentativo di offrire una immagine socialmente accettabile della
loro professione. Non si dimentichi che la confraternita nacque sotto la protezione della Madonna e che stabilì la propria sede nella madrilena chiesa di san
Sebastián. In quel 1634 l’attività dei comici professionisti era ormai radicata
nella società e nella cultura spagnole. Gli attori avevano contribuito in modo
*
Si pubblicano qui, con ritocchi, aggiornamenti e in traduzione italiana, le pagine già apparse su «Ínsula», 2013, 802, pp. 7-9.
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 185-196
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18370
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
© 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License
(CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original
author and source are credited.
TERESA FERRER VALLS
fondamentale alla trasformazione del teatro in un fenomeno aperto a un pubblico amplio ed eterogeneo e, con i loro itinerari e i loro viaggi, consolidarono
i circuiti teatrali della penisola, circuiti che si sarebbero protratti nel tempo.
In Spagna esiste un ricco patrimonio documentale che permette di ricostruire una buona parte dell’attività dei professionisti della scena dagli inizi a
tutto il XVII secolo, un giro di tempo coincidente con il periodo di splendore noto come teatro classico spagnolo. Un periodo nel quale gli attori fecero
vivere sulle scene i personaggi di Lope de Vega, Calderón de la Barca, Luis
Vélez de Guevara, Juan Ruiz de Alarcón, Francisco de Rojas Zorrilla, Agustín Moreto e altri drammaturghi. Rispetto ad altri paesi europei limitrofi,
che ebbero una attività teatrale simile, in Spagna, si è detto, è particolarmente
abbondante la documentazione prodotta, su diversi versanti, da tale attività;
e non soltanto in rapporto ai teatri commerciali, ma anche in relazione alla
festa del Corpus e alla messa in scena degli autos sacramentales; per non dire dei
processi di produzione, realizzazione e fruizione degli spettacoli di palazzo
e delle grandi feste cortigiane. Numerosi sono i contratti a noi pervenuti tra
attori e capocomici, al pari di quelli con i corrales de comedias e con le autorità
ecclesiastiche o con i comuni, in occasione di festeggiamenti religiosi e per la
celebrazione del Corpus Domini. Un’altra fonte importante sono gli ordini di
pagamento per l’organizzazione delle grandi feste di corte, così come per le
rappresentazioni di particulares che avevano luogo in privato dinanzi ai membri
della famiglia reale. I libri contabili, sia dei corrales sia di palazzo, o le querele
tra gli affittuari dei corrales e i comuni, ai quali costoro dovevano rendicontare
le rappresentazioni, sono tra i documenti più rilevanti. Ancora. A volte si possono trovare inventari di ‘robbe’ e di commedie nascosti tra le carte dei banchi
di pegno o possiamo meglio conoscere le biografie di alcuni attori grazie ai
loro testamenti oppure alle querele di diversa natura nelle quali essi potevano
essere implicati a vario titolo: ad esempio, per un divorzio o per una accusa di
bigamia o di concubinato.
Dal punto di vista biografico, il primo tentativo di raccogliere le notizie
sui professionisti della scena in Spagna risale al 1723, data della probabile conclusione della Genealogía, origen y noticias de los comediantes de España, un manoscritto che fu pubblicato nel 1985 da Shergold e Varey nell’importante collana
«Fuentes para la historia del teatro en España» edita da Tamesis Books e a cui
ha dato impulso Varey al quale dobbiamo il ricupero di basilari documenti del
nostro patrimonio teatrale. Fin dagli inizi del XX secolo Rennert, in appendice al proprio studio The Spanish Stage in the time of Lope de Vega (1909), inserì
una «List of Spanish actors and actresses. 1560-1680» basandosi sulla principale documentazione pubblicata sino ad allora, specialmente nei lavori di Pérez
Pastor, Sánchez Arjona e altri. Nel secolo scorso tale studio fu imprescindibile
per ogni studioso in cerca di notizie sugli spettacoli e gli attori di professio-
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GLI ATTORI DEL SIGLO DE ORO
ne. Proprio dal 1909 aumentarono costantemente le pubblicazioni che svelavano nuovi documenti o sviluppavano studi sull’attività teatrale di città come
València, Córdoba, Sevilla, Valladolid, ecc., oppure che raggruppavano fonti
al servizio delle biografie di alcuni attori, come quelle di Cotarelo su María de
Córdoba e Andrés de la Vega. Una mole di lavori che poi crebbe notevolmente grazie alla già citata collana «Fuentes para la historia del teatro en España».
La pubblicazione nel 2008 del database Diccionario biográfico de actores del teatro clásico español (DICAT), un progetto che ho diretto fin dal 1995, ha raccolto
per la prima volta le notizie fondamentali pubblicate in lavori importanti per
il loro apporto documentario: dai classici di Mérimée, Pérez Pastor, Alonso
Cortés sino ai più recenti contributi di Varey e Shergold, Sentaurens, Haley,
Sarrió, De la Granja, De los Reyes Peña, Bolaños, Sanz o García, fra i tanti;
dando vita così a un elenco di quasi trecento referenze. DICAT comprende un
archivio bibliografico con tali referenze, al quale rinvio per brevità. E giova
consultare anche il sito La casa di Lope che, dal 2001, registra la bibliografia
fondamentale sul teatro spagnolo del Secolo d’Oro (http://www.casadilope.it).
Il nostro database propone un elenco di circa cinquemila attori, autores (capocomici) e musicisti di compagnie professionali dai tempi di Lope de Rueda
sino alla fine del XVII secolo. DICAT registra tutte le informazioni che provengono da tali fonti. I dati sono stati vagliati, collazionati e organizzati criticamente in un formato digitale che consente all’utente di stabilire molteplici
relazioni tra i documenti. Si possono effettuare ricerche mirate su determinati
attori e studiare i differenti aspetti della professione comica: la struttura delle compagnie, i loro itinerari e i loro repertori, le loro condizioni di lavoro e
i loro guadagni o la condizione professionale della donna nelle formazioni.
Dal 2005, data limite della bibliografia inserita in DICAT, è proseguita
la pubblicazione di documenti inediti. Ricordo soprattutto i libri di García
Gómez (2008) sulla vita teatrale a Córdoba, o di Sánchez Martínez sul teatro
a Murcia (2009). Ricordo anche, per il loro apporto documentale, alcuni articoli di De los Reyes Peña e Bolaños Donoso, studiose attive in archivio da
molti anni (Reyes Peña, 2007, 2009; Bolaños, 2006, 2007a, 2007b, 2009); o,
ancora, Sanz Ayán (2009). Quest’ultima ha recentemente raccolto una scelta
dei suoi lavori in Hacer escena. Capítulos de historia de la empresa teatral en el Siglo de Oro (2013).
Grazie al formato del database DICAT tutta questa nuova documentazione
e quella a venire potranno, in un futuro non lontano, essere immesse nella banca dati, completando così le biografie di attori, attrici, musicisti o ampliando
l’elenco dei professionisti della scena finora noti. Il dvd di DICAT comprende anche la trascrizione digitalizzata del manoscritto, conservato nell’archivio
del Museo nacional del teatro (segnatura 4115-doc), che riunisce i documenti
legali e i regolamenti riguardanti la fondazione della già citata corporazione
187
TERESA FERRER VALLS
di attori della Cofradía de la Novena, nonché un ampio archivio d’immagini che aiutano il lettore a richiamare alla memoria gli spazi principali (corrales,
Corpus, palazzo) in cui lavorarono questi comici professionisti.
Insomma, DICAT incrementa le pubblicazioni che migliorano la conoscenza del patrimonio teatrale d’ambito europeo. Per citare solo alcune referenze imprescindibili ricordo che sia per il teatro inglese sia per quello francese
disponiamo da tempo di strumenti biografici dedicati all’attività dei professionisti del teatro. Si pensi, ad esempio, a Nungezer (1929), a Highfill, Burnim e
Langhans (1973-1993) o a Mongrédien (1961; 19712). Quanto al teatro italiano, Siro Ferrone dell’Università di Firenze dirige dal 2001 il progetto AMAtI
(Archivio Multimediale degli Attori Italiani) consultabile in rete (http://amati.
fupress.net) e che raccoglie dati sugli attori dal Cinquecento a oggi.
In Spagna, tra la gran quantità di documenti contenenti notizie sull’attività
dei professionisti del teatro, si trovano spesso titoli di commedie. Ciò permette di schedare un considerevole numero di messe in scena del Secolo d’Oro.
Il gruppo di ricerca teatrale DICAT (http://www.uv.es/dicat), sempre da me
diretto, lavora in questo periodo al progetto CATCOM (Las comedias y sus representantes: base de datos de comedias mencionadas en la documentación teatral 15401700) che ha l’obiettivo di redigere un calendario elettronico di spettacoli. Un
progetto i cui primi risultati possono essere consultati in rete (http://catcom.
uv.es). Fino a oggi sono stati immessi seicento records frutto del ‘trattamento’ di
più di mille titoli fra quelli principali e secondari o alternativi acclusi in ognuno di tali records. Le informazioni, riepilogate in ogni titolo di ‘voce’, offrono
non solo la data o le date di rappresentazione di un’opera, ma illustrano anche
il contesto di produzione e realizzazione (la compagnia che la mise in scena,
il luogo, lo spazio pubblico o privato). Il database dispiega una rete di relazioni tra titoli e secondi titoli e rifacimenti drammaturgici facendo il punto sulla
questione della autorialità, a partire dal confronto e dallo studio dei dati forniti dai cataloghi e dalla bibliografia specializzata.
Negli ultimi due decenni, è noto, lo sviluppo delle nuove tecnologie e l’apertura di un nuovo settore, le Scienze umanistiche digitali, sono stati strategici per la realizzazione di strumenti che forniscono agli studiosi del teatro
classico spagnolo una notevole quantità di informazioni e la possibilità di stabilire molteplici collegamenti tra i dati. E vanno ricordati altri progetti che
offrono notizie sulla pratica scenica di attori e compagnie. È il caso di Manos
teatrales diretto da Margaret R. Greer: un database con notizie attinenti all’analisi della grafia dei manoscritti teatrali e che ha l’obiettivo di dare vita a un
catalogo di copisti in rapporto al materiale analizzato. Alcuni di questi manoscritti furono strumenti di lavoro per le compagnie e contengono nomi di
attori, di attrici, di capocomici e, talvolta, tracce delle date di messa in scena
di alcune opere drammatiche (http://manosteatrales.org).
188
GLI ATTORI DEL SIGLO DE ORO
Bisogna inoltre menzionare, sullo stesso versante, il progetto diretto da
Héctor Urzáiz, CLEMIT (Censuras y licencias en manuscritos e impresos teatrales),
un database in cui possono essere rintracciati permessi di recite anche per stabilire nessi tra le diverse compagnie teatrali (http://www.clemit.es).
Dunque, la comparazione dei dati favorita da questi strumenti digitali può
produrre esiti interessanti anche circa le date di composizione o di rappresentazione dei testi, nonché sulla paternità di alcune opere drammatiche, come
ho segnalato recentemente (2014). Ricordo, tra i lavori di questo tipo, quelli
di Ferrer Valls (2003a, 2003b), De Salvo (2003) o García Reidy (2009, 2011) e
penso specialmente alla recente scoperta della perduta opera di Lope de Vega
Mujeres y criados, rintracciata da García Reidy e resa possibile dalla collazione
dei dati di CATCOM e Manos teatrales, come ha spiegato il medesimo studioso (2013) membro dei teams di entrambi i progetti.
Contestualmente alla linea di ricerca centrata sul recupero di fonti sugli attori e sulla pratica scenica, negli ultimi anni sono stati compiuti studi
che, prendendo le mosse dai documenti noti, affrontano particolari aspetti
della professione teatrale completando o aggiungendo ‘sfumature’ al panorama generale che fu tracciato da Oehrlein (1993 [1986]) o, da un punto di
vista più sociologico, da Díez Borque in molti dei suoi lavori, specialmente
in Sociedad y teatro en la España de Lope de Vega (1978). Per quanto riguarda il ruolo dei musicisti nelle compagnie va citato il recente libro di Flórez
Asensio (2014).
Della posizione della donna nella professione teatrale e dei meccanismi della sua inclusione nelle compagnie spagnole, sia come attrice che come capocomica, si sono occupati invece Sanz Ayán (2001), Ferrer Valls (2002, 2009)
e De Salvo (2005). Quest’ultima ha studiato anche la funzione dei soprannomi, vale a dire della trasmissione dei nomi d’Arte: un fenomeno assai comune
nella professione attoriale (2002). Mentre Sanz (2002) ha preso in considerazione, dal punto di vista patrimoniale ed economico, i corredi o i vestiti di
scena di alcune attrici.
Da un altro punto di vista Davis, nella sua introduzione al libro scritto in
collaborazione con Varey (2003), ha ampliato l’orizzonte di un fenomeno sul
quale già Salomon aveva posto l’accento (1960) e che ha a che fare con l’attività
professionale extraurbana di compagnie, attori, musicisti e soprattutto attrici
che recitavano nelle feste dei paesi e dei villaggi, spesso in collaborazione con
attori dilettanti. Altri progressi storiografici, dopo il fondante lavoro di Rozas
(1980), riguardano lo studio della tecnica dell’attore. Rodríguez Cuadros ha
dedicato al tema un ponderoso volume (1998), completando poi il quadro con
altre pubblicazioni (2008, 2009, 2012a). La studiosa ha anche indagato il nostro
teatro classico nelle memorie di attori di epoche successive (2005). Ora si possono leggere alcuni dei suoi lavori raccolti in El libro vivo que es el teatro (2012b).
189
TERESA FERRER VALLS
D’altronde, l’analisi dei manoscritti teatrali utilizzati dalle compagnie, che
talvolta registrano le modifiche apportate ai testi in funzione di rappresentazioni specifiche, è un altro vettore di ricerca che ha recuperato informazioni
non secondarie sul modo di lavorare delle formazioni. Si ricordino i lavori di
Presotto (1997) e di Ferrer Valls (2004).
Fra i documenti che aiutano a illustrare i diversi aspetti del mestiere teatrale non possiamo non ricordare i papeles de actor cioè le ‘parti scannate’. A
quest’area di lavoro, finora disattesa, Vaccari ha dedicato un dettagliato studio
(2006). E non sarà inutile ricordare l’attività degli attori professionisti italiani
nella Spagna del Cinquecento (Ojeda Calvo 2007).
Riassumendo, la pubblicazione di documenti inediti è stata abbinata in
questi ultimi anni, grazie alle nuove tecnologie, alla creazione di strumenti
digitali che hanno consentito e consentono di meglio valorizzare le informazioni in nostro possesso. Al tempo stesso ciò ha reso possibile l’avanzamento
degli studi sul lavoro dei professionisti della scena spagnola da diversi e proficui punti di vista.
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Francesca Simoncini
LE PRIME ATTRICI DELLA COMPAGNIA REALE SARDA
NEL DATABASE AMAtI
Dedichiamo la sezione AMAtI (Archivio Multimediale degli Attori Italiani)
di questo numero di «Drammaturgia» a tre profili di attrici: Carlotta Marchionni (1796-1861), Amalia Bettini (1809-1894), Antonietta Robotti (1817-1864).
Si tratta delle più importanti interpreti della prima metà del XIX secolo, consacrate dalla comune – seppur cronologicamente sfalsata – militanza nella più
prestigiosa compagnia dell’epoca: la Reale Sarda, protetta e finanziata dalla
dinastia di casa Savoia. Artiste dotate di una non comune personalità artistica,
di un maturo e consapevole carisma scenico, mostrarono nel tempo capacità
interpretative indirizzate verso concreti criteri di rinnovamento e furono le
indiscusse prime donne assolute della più importante compagnia del proprio
tempo. Dall’alto di questa loro privilegiata – e meritata – posizione, che all’epoca equivaleva a un marchio di origine protetta e controllata, riuscirono a
traghettare l’ancora multiforme e indefinita realtà teatrale settecentesca di prosa
verso più solide e moderne pratiche recitative. Agirono all’interno di un sistema
teatrale di scarso respiro europeo, ma con il loro esempio, il loro differenziato
talento, il loro rigore professionale – maturati individualmente ben prima di
approdare nella formazione del re di Sardegna – contribuirono a creare i presupposti per la genesi di quel fenomeno di natura autoctona, ma di riconosciuta rilevanza internazionale, che va sotto il nome di teatro del Grande Attore.
Se ne avvantaggiò in seguito Adelaide Ristori (1822-1906) che, saggiamente,
non mancò di riconoscere in Carlotta Marchionni (fig. 1) la sua maestra, ma
che dovette attendere il ritiro dalle scene di Amalia Bettini (fig. 2) e il declino della ‘rivale’ Antonietta Robotti (fig. 3), più anziana di lei di soli cinque
anni ma precocemente ‘invecchiata’, per poter raggiungere l’ambita scrittura di prima attrice assoluta della Reale Sarda. Ci arrivò appena in tempo per
accompagnare l’utopia della Stabile torinese verso il suo definitivo tramonto.
Nessuna di loro fu attrice di scuola. Tutte, anzi, affondarono le radici, l’apprendistato teatrale, gli esordi e la prima maturità artistica, all’interno di quel
sistema di famiglie d’Arte che costituiva, e che ancora per molto tempo conDRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 197-200
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18372
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
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FRANCESCA SIMONCINI
tinuò a formare, l’ossatura portante del teatro italiano di tradizione. Colsero il meglio di quanto quella pratica, ormai secolare, poteva consegnare loro.
Ne mantennero intatti i peculiari tratti di autonomia artistica e di intelligente
creatività e seppero, con coscienza e pazienza, perfezionarla. Pur senza sconfessare i gesti forti, talvolta marcatamente esibiti, propri della recitazione di
mestiere, gradualmente li ripulirono dalle più pesanti scorie che il tempo vi
aveva depositato e riuscirono ad arricchirli, impreziosendoli di sottili e individuali sfumature.
Sia la Marchionni, indubbiamente la più famosa delle tre, sia la Bettini, attrice di talento probabilmente eccezionale e ingiustamente ‘dimenticata’ dalla
storiografia, riuscirono a intrecciare rapporti duraturi con importanti letterati. Se per la Marchionni sono spendibili i nomi di Silvio Pellico, Ludovico
di Breme e Alberto Nota, per la Bettini è doveroso fare quello di Giuseppe
Gioachino Belli, poeta con cui l’attrice intrattenne una lunga consuetudine
testimoniata da un nutrito carteggio, all’oggi solo parzialmente pubblicato. I
personali rapporti tra attori e letterati dell’epoca, anche quando furono buoni
e fertili di scambi, come noto, non ebbero mai la forza di tradursi in una produzione drammatica continuativa degna di tale nome. Gli attori e gli autori
della prima metà del secolo XIX si mossero su strade lontane e parallele denunciando una sostanziale incompatibilità e siglando l’impossibilità di un incontro, impedito anche da presupposti ideologici da un lato, economici dall’altro.
L’incarnazione più sintomatica di questo fallimento la visse la Robotti, prima
interprete di Ermengarda, l’eroina dell’Adelchi di Alessandro Manzoni (Torino, teatro Carignano, 13 maggio 1843). La sua interpretazione, pur apprezzata, non riuscì infatti a salvare la tragedia che irritò il pubblico, dispiacque alla
critica e fu presto eliminata dal repertorio della Reale Sarda.
Un altro aspetto accomunò Carlotta Marchionni e Amalia Bettini, una caratteristica tutta interna al mestiere dell’Arte che fu loro trasmessa, in modo
preferenziale, per via matrilineare. Entrambe si avvantaggiarono dell’abilità e
dell’esperienza delle madri, attrici di qualche pregio, ma soprattutto, e insospettabilmente (per l’epoca) anche scaltre capocomiche. Contro una indimostrata
vulgata che vuole le madri delle prime attrici, se possibile, ancora più ‘capricciose’ delle figlie, Elisabetta Baldesi-Marchionni e Lucrezia Morra-Bettini
seppero, dietro le quinte e con lungimiranza, costruire il futuro professionale
delle figlie, formando intorno a loro compagnie più che dignitose che contribuirono a instradarle artisticamente e a lanciarle verso più alte e ambiziose
mete. Un particolare che getta nuove possibili interpretazioni sul sistema teatrale dell’epoca e che non è l’unico ad emergere da queste storie di vite dando
legittimità a un metodo, quello della scuola fiorentina creata da Siro Ferrone,
che ritiene possibile, e forse anche doveroso, costruire – o ri-costruire – la storia
del teatro italiano anche attraverso l’attento studio delle biografie degli attori.
198
LE PRIME ATTRICI DELLA COMPAGNIA REALE SARDA
Venendo a queste ultime non sarà inutile ricordare che la veste editoriale
cartacea, per le sue insite caratteristiche, penalizza l’esaustività delle voci contenute in AMAtI pensate per una più flessibile e ampia navigazione on line.
Poco del corollario di dati, di fonti e di materiale iconografico, raccolto nella banca dati sulla carriera e sulle interpretazioni delle attrici, è stato qui, per
ovvie ragioni di spazio, riprodotto (e si registrano, d’altronde, inevitabili ripetizioni di notizie). Si invitano quindi i lettori e gli studiosi desiderosi di approfondimenti a non accontentarsi della punta dell’iceberg e a non rinunciare né
alla puntuale illustrazione del ‘sistema’ AMAtI apparsa nel precedente numero
di «Drammaturgia»,1 né, soprattutto, alla consultazione del sito (http://amati.
fupress.net) per ottenere di queste attrici, e di altri loro compagni d’Arte, un
ritratto più completo e capillarmente documentato. Resta, tuttavia, l’esemplarità dello specimen qui presentato.
1. Cfr. F. Simoncini, Il ‘sistema’ AMAtI fra tradizione e multimedialità, «Drammaturgia», xi /
n.s. 1, 2014, pp. 313-328.
199
FRANCESCA SIMONCINI
Fig. 1. Ritratto di Carlotta Marchionni, particolare, 1840, incisione (da Sanguinetti 1963).
Fig. 2. Ritratto di Amalia Bettini, particolare,
prima metà sec. XIX, incisione (da Sanguinetti
1963).
200
Fig. 3. Ritratto di Antonietta Robotti, prima metà sec. XIX, incisione (da
Sanguinetti 1963).
Francesca Simoncini-Antonio Tacchi
CARLOTTA MARCHIONNI
(Pescia, 14 giugno 1796-Torino, 1° febbraio 1861)
Sintesi
Figlia d’Arte, tra le più famose attrici italiane della prima metà dell’Ottocento, muove i primi passi recitando in compagnie di giro toscane. Approda al ruolo di prima donna nel 1811 nella Sociale della madre Elisabetta e di
Antonio Belloni, Carlo Calamari e Ferdinando Meraviglia. Nel 1823 diviene
acclamata prima attrice della compagnia Reale Sarda. La capacità di armonizzare gradatamente mestiere, impresariato e nuove teorie sulla recitazione
costituisce la qualità che la porta a ottenere una posizione preminente nella
Reale Sarda e nella storia del teatro italiano.
Biografia
Figlia del fiorentino Angelo Marchionni (attore comico nel ruolo di caratterista e interprete delle maschere di Brighella e di Arlecchino) e della buona
attrice tragica senese, Elisabetta Baldesi, nasce il 14 giugno 1796 a Pescia, piazza toccata dalla compagnia di Giovan Battista Mancini dove i genitori recitavano. Fin da piccola, emula della madre, dimostra inclinazione per il teatro.
Tale propensione non l’abbandona neppure durante gli anni, dal 1800 al 1806,
trascorsi nel collegio delle Orsoline di Verona dove acquisisce un misticismo
tanto intenso da farle guadagnare l’appellativo di ‘estatica di Verona’. Dell’insegnamento religioso impartitole in questi anni, modellato sull’esempio della
fondatrice dell’ordine, Angela Merici, mantiene per tutta la vita la devozione
fervente e la vocazione al nubilato cui sembra abdicare solo per il compagno
d’Arte Ferdinando Meraviglia con il quale lavora negli anni giovanili. L’anno
successivo all’abbandono del collegio da parte di Carlotta la Merici viene santificata, nel 1810 l’ordine delle Orsoline è abolito: Carlotta sembra metterne
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 201-222
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18373
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
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FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI
in pratica l’insegnamento incarnando la «condizione della nubile volontaria
vissuta senza clausura e segni esteriori».1
Dopo aver abbandonato il collegio inizia a calcare il palcoscenico rivestendo prima parti di ‘paggetto’ e poi, presumibilmente, di seconda amorosa. Dal
1807 milita, insieme alla madre e al fratello Luigi, nella formazione diretta da
Lorenzo Pani in cui figura quasi continuativamente fino alla stagione di carnevale del 1814 se si esclude la breve parentesi dell’anno comico 1808-1809
che la vede, insieme alla madre e al fratello, tra gli attori della compagnia Venier. In quello stesso anno compare però, con Elisabetta, anche in un elenco
manoscritto in calce a una lettera del capocomico Giacomo Dorati che avvia
con il teatro dei Costanti di Pisa una trattativa, poi non conclusa, per la stagione di quaresima del 1810. Nell’anno comico 1807-1808 segue gli spostamenti
della compagnia Pani nelle piazze toscane di Lucca (teatro Pubblico), di Pisa
e di Firenze (teatro di via del Cocomero). Scritturata come seconda amorosa, recita al teatro dei Costanti di Pisa nella quaresima e nella primavera del
1809. Al 1810 risale la prima notizia della sua attività fuori dei confini toscani: lavora al teatro Santa Radegonda di Milano, dove probabilmente Madame
de Staël la vede interpretare Mirra di Vittorio Alfieri. Nel 1811 è, ancora insieme alla madre, nella medesima formazione, denominata anche compagnia
de’ Lombardi, della quale è ormai divenuta prima attrice. Gli attori recitano al
teatro della Piazza Vecchia di Firenze nella stagione del carnevale 1811-1812.
È dunque da rettificare la notizia, trasmessa dalla maggior parte dei repertori
biografici che, in tale data, la collocano nella Sociale della madre Elisabetta e
di Antonio Belloni.
In questo periodo, durante un ciclo di rappresentazioni al teatro Santa Radegonda di Milano, Carlotta riporta grandi successi e conosce, fra gli altri,
Silvio Pellico. L’incontro tra l’autore e l’attrice risulta fertile: Pellico compone
infatti, appositamente per lei, le tragedie Laodicea, poi distrutta, e Francesca da
Rimini, destinata a divenire uno dei suoi ‘cavalli di battaglia’. Durante il soggiorno milanese l’attrice, pur militando in una compagnia considerata secondaria, riesce, per le sue qualità artistiche, a guadagnarsi la fama di migliore
attrice italiana per le parti da giovane e a destare l’attenzione del capocomico
della Vicereale milanese Salvatore Fabbrichesi che, nell’ottobre 1814, manifesta la volontà di scritturarla per la formazione che stava costituendo: la compagnia del teatro dei Fiorentini di Napoli.
Il carnevale 1813-1814 la vede per l’ultima volta con la compagnia Pani,
nelle cui file Carlotta si distingue nelle parti ingenue, riscuotendo generale
approvazione sul palcoscenico fiorentino del teatro di via del Cocomero. Qui,
1. S. Geraci, Carlotta Marchionni in effige, «Teatro e storia», xviii, 2004, 25, pp. 368-369.
202
CARLOTTA MARCHIONNI
alla fine del gennaio 1814, si segnala per la sua interpretazione del personaggio
di Isabella nel Filippo di Vittorio Alfieri sostenendo «la difficile arte di procedere riguardata nei colloqui con Carlo».2
Alla fine dell’anno comico 1813-1814 Carlotta, abbandonata la compagnia
Pani, diviene prima donna della più modesta Sociale Marchionni-Belloni (di
cui sono soci anche Carlo Calamari e Ferdinando Meraviglia) e dove figura
anche Luigi Domeniconi. La formazione, inizialmente dotata di scarsi mezzi,
sa avvantaggiarsi nel tempo della presenza di Carlotta, guadagnando il favore del pubblico e divenendo un complesso di buon livello. Gli attori, secondo
Luigi Rasi, reciterebbero al teatro della Piazza Vecchia di Firenze con la Pamela nubile di Carlo Goldoni. In questa formazione, condotta nominalmente
da Elisabetta Marchionni che ricopre anche i ruoli di prima donna e di madre,
Carlotta assume di fatto sempre più importanza fino a divenire la vera capocomica. Nella primavera del 1814, al teatro Castiglioncelli di Lucca, in compagnia recita anche il padre Angelo come secondo caratterista. Nel giugno del
1815 gli attori si spostano a Milano per tenere un corso di rappresentazioni al
teatro Lentasio e a quello diurno dello Stadera, quindi passano al teatro Re
dove Carlotta interpreta per la prima volta la Francesca da Rimini di Silvio Pellico con grande successo di critica e di pubblico cui contribuisce anche l’interpretazione di Luigi Domeniconi nella parte di Paolo. Quest’ultimo sarà,
nell’anno successivo, l’indiretto responsabile di un grave lutto per la famiglia
Marchionni: la morte accidentale della sorella minore di Carlotta, Giuseppina, dovuta al morso del suo cane.
Fra il 1815 e il 1820 Carlotta frequenta oltre a Pellico, Pietro Maroncelli, e
l’abate Ludovico di Breme che sembra assumere per lei la funzione di ideologo e di dramaturg. L’attrice, grazie al suo carisma scenico, ispira e incoraggia la
vena teatrale del gruppo di intellettuali del «Conciliatore» che considerano le
sue interpretazioni come il modello cui anche le altre attrici devono conformarsi. Nel 1818 l’attrice recita al teatro del Corso di Bologna.
Al 1820 è da ascrivere la stesura del dramma Bianca e Fernando che l’autore
teatrale e attore Carlo Roti scrive appositamente per lei. Del settembre dello stesso anno è anche il primo contatto con il conte Lodovico Piossasco con
cui l’attrice entra in trattative per una scrittura, come prima donna, nella costituenda compagnia Reale Sarda. Il Piossasco si reca personalmente a Crema per incontrare l’attrice e garantirsi la sua disponibilità nel timore che ella
possa accettare le offerte di Salvatore Fabbrichesi, divenuto nel frattempo capocomico della compagnia al servizio di Ferdinando IV di Borbone di stanza
al teatro dei Fiorentini di Napoli. La Marchionni, tentata dall’offerta del con-
2. «Giornale del dipartimento dell’Arno», 22 gennaio 1814, 10, p. 4.
203
FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI
te Piossasco, non manca di dettare le sue condizioni pretendendo la completa
indipendenza dal capocomico e riconoscendo la sola autorità della direzione.
Tale richiesta mette in luce la riluttanza dell’attrice ad abdicare al raggiunto
rango di capocomica, la ferma volontà di non rinunciare a essere l’unica responsabile delle proprie creazioni artistiche nella piena libertà di concezione
e di esecuzione della parte e il desiderio di rimuovere ogni tipo di filtro fra
interprete e copione.
La compagnia Marchionni-Belloni-Calamari-Meraviglia recita nel carnevale 1820-1821 al teatro d’Angennes di Torino. Nella quaresima del 1823,
troviamo gli attori a Firenze, al teatro di via del Cocomero, dove Carlotta interpreta uno dei suoi cavalli di battaglia: Francesca da Rimini. Alla fine dell’anno
comico, libera dall’impegno con la troupe sociale e considerata ormai unanimemente la migliore attrice italiana entra, con la madre e con il caratterista
Carlo Calamari, nella Reale Sarda, debuttando al teatro Carignano di Torino
la sera dell’8 aprile 1823 con La bella fattora, riduzione dal francese curata da
Lodovico Piossasco. Ben tre incisioni, datate 1822, la ritraggono con probabile
intento pubblicitario per il suo ingresso nella compagnia piemontese. Francesco Righetti, con lei in compagnia, nel suo Teatro italiano la descrive di figura
snella, di portamento leggiadro, vivace d’espressione, insinuante nella voce,
dotata di perfetta dizione e di pronta intelligenza.
Carlotta lascerà la compagnia sabauda nel 1840. A differenza di tutti i suoi
colleghi, scritturati sempre ‘a vicenda’, ricopre costantemente il ruolo di prima attrice assoluta, una vera e propria eccezione per la compagnia. L’attrice,
unica stipendiata direttamente dalla Tesoreria dello Stato e non dal capocomico Gaetano Bazzi, percepisce una paga di undicimila lire che, se confrontate
con la dote complessiva della formazione che «fu prima di cinquanta e poi di
trentamila lire»,3 appare una cifra considerevole. Dal 1836 al 1839, Carlotta è
affiancata da Antonietta Rocchi-Robotti. Grazie agli insegnamenti della Marchionni l’allieva assume presto il ruolo di prima attrice giovane che dovrà poi
cedere a Adelaide Ristori.
Durante la militanza nella troupe torinese Carlotta ottiene la considerazione e la stima dell’alta società e degli intellettuali di tutte le città toccate
nelle sue tournées. Stringe amicizia con Alberto Nota che, ispirato dalla sua
recitazione, modella i suoi testi seguendone l’evoluzione artistica e anagrafica.
Così postilla l’autore in una lettera del 1834 indirizzata a Gaetano Bazzi: «chi
vuole scrivere per la compagnia Reale dee, da dieci anni a questa parte, pensare che alla Signora Marchionni non convengono più parti da giovinetta; e
3. G. Michelotti, La compagnia Reale Sarda, «Il dramma», xxiv, 15 aprile 1948, 57-58-59,
p. 159.
204
CARLOTTA MARCHIONNI
bisogna stillarsi il cervello per trovar vedove o maritate per tenerla sempre in
buona vista del pubblico».4 Per lei scrivono anche Carlo Marenco (Pia de’ Tolomei, 1836), Giacinto Battaglia e Angelo Brofferio. Alcuni testi di quest’ultimo vengono declamati da Carlotta e Francesco Righetti nei circoli letterari.
Poco più che quarantenne, all’acme della carriera artistica, di ritorno da
una tournée milanese, il 3 marzo 1840 abbandona le scene recitando, al teatro
d’Angennes di Torino, ne La fiera di Alberto Nota: «È impossibil descrivere il
fanatismo, l’entusiasmo dimostrato a lei dai torinesi. Vi fu teatro illuminato.
Alla fine della commedia scese una bambina vestita d’amorino a porle in capo
una corona di lauro in oro ed argento ed a presentarle un volume delle poesie stampate per tale circostanza. [Luigi] Gandolfi e Oggero [sic!] [A. Augero] fecero due composizioni litografiche magnifiche che vennero distribuite;
e l’Accademia Filodrammatica parimenti dispensò copia litografica del busto
della Marchionni».5 Con tale gesto i filodrammatici intendevano nominarla reggitrice e maestra dell’accademia. All’albergo Universo di Torino si era
tenuto pochi giorni prima un banchetto d’addio durante il quale la giovane
Adelaide Ristori, quasi a simboleggiare un avvenuto passaggio di testimone,
aveva declamato versi in onore della prima donna uscente, tra i quali spiccano i seguenti: «Tu dell’arte maestra amorosa, / Tu all’errante mio piede segnavi / Infallibile traccia. // […] Se or mi lasci, se a me più compagna / Non
verrai nell’arena onorata, / A me resta grand’orma segnata: / Possa io quella
costante calcar. // E se a pien non tradiscemi speme / A te, invece di poveri fiori, / Fia ch’io renda cresciuti gli allori / Che tue mani pietose educar».6
Durante la serata all’attrice era stata inoltre donata una preziosa corona probabilmente quella stessa con cui, alla fine del suo ultimo spettacolo, era stata
incoronata e con la quale è eternata nella litografia distribuita al pubblico in
quella occasione.
Torna a calcare sporadicamente le scene a scopo di beneficenza per l’accademia Filodrammatica di Torino di cui successivamente è nominata direttrice. Nell’aula Brofferio dell’accademia viene posta una lapide commemorativa
dedicata all’attrice. Il re di Sardegna le concede una pensione.
Carlotta, oltre a divenire soggetto di numerosi componimenti poetici (raccolti in volume in occasione del suo addio alle scene) e incisioni a lei dedicate
è stata la prima attrice italiana, dopo Isabella Andreini, per la quale sono state coniate due medaglie. La prima a Milano nel 1821, la seconda a Bologna
4. La citazione è riportata in A. Camaldo, Alberto Nota, drammaturgo (con il testo di otto
commedie inedite), Roma, Bulzoni, 2001, p. 222.
5. G.B. Gottardi, Diario inedito, in G. Deabate, I comici di Sua Maestà, Torino, Tipografia
della Gazzetta del popolo, 1905, pp. 13-14.
6. In L. Sanguinetti, La compagnia Reale Sarda (1820-1855), Bologna, Cappelli, 1963, p. 63.
205
FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI
nel 1822. Di lei sono stati scolpiti due busti marmorei, a Bologna dal professor Francesco Rosaspina, a Torino, come ornamento del vestibolo del teatro
d’Angennes, dallo scultore Giuseppe Bogliani.
Il 1° febbraio 1861 muore a Torino dove è sepolta insieme alla madre.
Famiglia
Le prime notizie accertate sulla famiglia d’Arte Marchionni risalgono ai
genitori di Carlotta, il fiorentino Angelo e la senese Elisabetta Baldesi che ne
sarebbero quindi i capostipiti. Sebbene nessuna notizia sia stata tramandata in
tal senso non è da trascurare la possibilità che anche i nonni materni, dei quali
è noto solo il nome del nonno (Pompeo), fossero attori. L’ipotesi è avvalorata
dal fatto che anche la sorella di Elisabetta, Anna Baldesi Tafani, intraprende
la stessa carriera ed è a sua volta madre dell’attrice Carolina Tafani Internari.
Il padre Angelo, «giovane di sicura abilità nelle parti da Innamorato»,7 dopo aver debuttato come dilettante in non meglio identificate accademie ricopre parti di maschera in compagnie minori fiorentine. Si reca quindi a Napoli
per un breve periodo riscuotendo discreto successo. Dopo essere tornato a
Firenze milita in formazioni toscane interpretando parti di innamorato e le
maschere di Arlecchino e Brighella. Nel 1790 sposa la compagna d’Arte Elisabetta Baldesi con la quale nell’anno comico successivo è scritturato, insieme
alla cognata Anna Baldesi-Tafani, nella compagnia di Carlo Battaglia attiva
esclusivamente nell’Italia del Nord.
In tale periodo si colloca la nascita, a Venezia, del primogenito Luigi che
segue le orme dei genitori alternando però il mestiere comico a quello di traduttore e di drammaturgo. In tale veste si impegna anche per promuovere il
successo della sorella scrivendo per lei le pièces Chiara di Rosemberg calunniata,
Chiara innocente e L’orfanella svizzera e numerose traduzioni-adattamenti da testi francesi. Prima del 1813 sposa l’attrice Teresa Villani.
L’itineranza dei coniugi Marchionni al di fuori dei confini granducali è di
corto respiro: riprendono a lavorare nel sistema teatrale toscano a partire dal
1793. In questo periodo nasce, il 14 giugno 1796, a Pescia, piazza teatrale toccata dai comici, la figlia Carlotta. Nel 1806 la famiglia si allargherà con la nascita della terzogenita Giuseppina, a sua volta attrice.
Con l’inizio del nuovo secolo Angelo passa a ricoprire ruoli di caratterista
pur conservando la specializzazione nelle parti in maschera. La sua carriera
7. F. Bartoli, Notizie istoriche de’ comici italiani che fiorirono intorno all’anno MDL. fino a’ giorni
presenti, Padova, Conzatti, 1781-1782, vol. ii, p. 27.
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CARLOTTA MARCHIONNI
sembra subire una battuta d’arresto mentre quella della moglie, prima donna
in varie compagnie tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, conosce nuovi sviluppi. Ella, dopo aver alternato il suo impegno tra formazioni toscane e di giro nazionale approda infatti, nel 1814, a ruoli di madre e al
capocomicato in società con Antonio Belloni, Ferdinando Meraviglia e Carlo Calamari. In questa compagnia figurano Angelo, secondo caratterista, la
giovane Carlotta e, in parti da ragazza, la piccola Giuseppina, morta precocemente due anni più tardi.
Elisabetta, prima attrice e capocomica, svolge un ruolo fondamentale per gli
esordi e per la definitiva consacrazione della figlia Carlotta come prima donna. Tutti gli anni di apprendistato di quest’ultima, nella Lorenzo Pani (18071814) e nella Marchionni-Belloni (1814-1823) si svolgono infatti sotto l’egida
e la supervisione di Elisabetta che segue la figlia anche nel suo debutto nella
Reale Sarda ricoprendo ruoli di madre nobile e caratteristica dal 1824 al 1828.
Formazione
Figlia d’Arte, nel 1807 esordisce come seconda amorosa nella compagnia
diretta da Lorenzo Pani indicato da Luigi Rasi come uno dei maggiori capocomici attivi tra il 1785 e il 1815. Nella troupe, insieme a Carlotta figurano anche
la madre e il fratello Luigi. Con questi esce dall’angusto circuito teatrale toscano e calca i palcoscenici milanesi dove comincia a essere notata e apprezzata.
Avvertendo l’incompletezza della propria formazione e, nel 1814, dovendo
riprendere l’interpretazione di Mirra di Vittorio Alfieri che già aveva in repertorio dal 1810, vuole andare oltre l’esempio fornitole dalla madre (apprezzata
interprete del personaggio) e frequenta per due mesi, a Firenze, la Scuola di
declamazione di Antonio Morrocchesi, vecchio compagno d’Arte del padre,
per approfondire e perfezionare lo studio della parte. Il processo intrapreso
dall’attrice per nobilitare una genesi chiusa nella tradizione di un mestiere attorico ereditato per filiazione prosegue attraverso l’incontro con alcuni intellettuali romantici (Silvio Pellico, Ludovico di Breme, Pietro Giordani e Pietro
Maroncelli) che la portano a concepire significativi cambiamenti nella consueta prassi recitativa e con cui istaura un proficuo rapporto di collaborazione
rafforzandone l’interesse verso il teatro.
Gli anni 1814-1823, trascorsi nella compagnia della madre, diretta da Antonio Belloni (che le fu prodigo di preziosi consigli) sono fondamentali per
la sua maturazione. All’interno di un repertorio che alterna messinscene di
drammi storici, commedie e tragedie Carlotta decreta la sua definitiva consacrazione con la Francesca da Rimini che Silvio Pellico scrive secondando le sue
caratteristiche di giovane prima attrice.
207
FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI
All’insegnamento della tradizione comica e all’esempio pratico-organizzativo dell’esercizio del capocomicato materno (da cui trae la sicurezza di una
consuetudine e la forza della capacità direttiva) la giovane attrice aggiunge,
grazie alla frequentazione dei circoli intellettuali milanesi, la personale volontà di superare i ‘vizi’ del mestiere e di giungere a una equilibrata consapevolezza intellettuale.
La capacità di armonizzare gradatamente mestiere, impresariato e nuove
teorie sulla recitazione, che Carlotta seppe sapientemente valorizzare, costituisce la qualità che porta l’attrice a diventare la prima donna assoluta della compagnia Reale Sarda, all’interno della quale rivendica e ottiene un’autonomia
artistica non riconosciuta a nessun altro scritturato.
Interpretazioni/Stile
Carlotta interpreta all’esordio parti di paggio e di amorosa, ma già nel 1811,
all’età di quindici anni, la troviamo prima attrice nella compagnia di Lorenzo
Pani, ruolo che ricopre anche nella Marchionni-Belloni-Calamari-Meraviglia
e, successivamente, nella Reale Sarda. Subito riscuote i positivi consensi della
critica che non risparmia invece la compagnia nel suo complesso: «La giovinetta Marchionni per altro si disimpegna con dignità la parte di prima donna; genio, buona volontà, ed intelligenza pare che non le manchino, ma […]
trovasi con dei compagni che non secondano la di lei bravura comica»;8 e ancora: «Negli Americani in Londra la signora Marchionni prima attrice della
Piazza Vecchia sostenne la sera di Lunedì scorso molto plausibilmente la parte di Gurly. Somma intelligenza, bellissima Toscana dicitura, azione scenica,
nobiltà di gesto, tutto riuniva in se stessa quella giovine donna […]. In questa
rappresentazione come in tant’altre, la signora Marchionni fece troppo conoscere, quanto non lungi la sia da divenire una delle migliori Attrici Italiane».9
Nel 1815 trionfa nella parte di Francesca in Francesca da Rimini scritta per
lei da Silvio Pellico. Il personaggio farà parte del repertorio dell’attrice fino al 1840, anno del suo ritiro dalle scene. L’autore in una lettera al fratello
Luigi, datata 30 agosto 1815, ne loda l’interpretazione: «La Carlotta Marchionni rispose perfettamente alle mie speranze; io la stimo attrice capace di ogni
eccellenza».10 Non dello stesso tenore il giudizio che aveva riservato agli altri
8. «Giornale del dipartimento dell’Arno», gennaio 1812, 3, p. 4.
9. Ivi, gennaio 1812, 11, p. 4.
10. S. Pellico, Lettere milanesi (1815-’21), a cura di M. Scotti, Torino, Loescher, 1963,
pp. 20-21.
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CARLOTTA MARCHIONNI
attori in una lettera del 21 agosto: «una compagnia povera venuta al Lentasio
e passata per caso al Re, e tuttora recitante alla luce del sole nello Stadera, non
può darmi quel che vale la tragedia. Io dunque non gliene cedo la proprietà.
Gliela lascerò recitare per qualche tempo, perché, sul dubbio ancora della riuscita, hanno fatto delle spese per un vestiario apposta e magnifico».11
Stendhal, viaggiatore consapevole, la ricorda nel suo diario in una notazione dell’anno 1817: «L’ingenuità è in Italia cosa rarissima […]. Quel poco di ingenuità che ho incontrato, l’ho trovato tutto nella signorina Marchioni [sic!],
giovane divorata da passioni, la quale recita ogni giorno, spesso due volte: verso le quattro, al teatro all’aperto, per il popolo; la sera, alla luce delle lampade,
per la buona società. Mi ha commosso fino all’estasi, alle quattro, nella Gazza
ladra, e alle otto in Francesca da Rimini».12
Versatile nella scelta del repertorio, interpreta testi tragici e comici (soprattutto di Alfieri e Goldoni) insieme a drammi lacrimosi e sentimentali (alcuni
dei quali scritti o tradotti per lei dal fratello Luigi), eccelle nelle parti ingenue
suscitando generale ammirazione: «La naturale sensibilità, il nobile gestire,
l’espressione del volto, e più di tutto il suono armonioso della voce donavano
alla Carlotta un fascino che dominò per quasi trent’anni tutti i pubblici d’Italia. Chi la vide rappresentare L’Alexina, La Fiera, La Lusinghiera e La Vedova in
solitudine del Nota; la Sposa sagace, le due Pamele, Gl’Innamorati, le tre Zelinde del Goldoni; La bella Fattora, traduzione del conte Piossasco; le due Chiare
di Rosemberg, La figlia della terra d’esilio, L’Orfanella svizzera, drammi scritti a
posta per lei dal fratello Luigi, non poté a meno di riconoscere e di applaudire
in lei quei tratti di grande attrice, che caratterizzano il vero genio. Un altro
genere da lei insuperabilmente rappresentato era quello delle parti ingenue.
La Giurlì o La famiglia indiana, la Lauretta di Gonzales, e varie altre erano da lei
con tale innocenza rappresentate, e nel tempo stesso con una varietà sì grande
da far supporre che l’arte non vi aggiungesse nulla del proprio, quando invece
era la sublimità di questa che le faceva raggiungere il vero; e se questa somma
attrice fu a tante superiore nella commedia e nel dramma, con non minore
maestria seppe innalzarsi nella tragedia, poiché la Francesca da Rimini che ella
creò, la Pia de’ Tolomei, la Mirra, l’Ottavia, e tante altre le procuraron sempre
nuovi trionfi».13
Quella della Mirra di Alfieri è considerata la sua migliore interpretazione.
Con questa Carlotta superò la celebre attrice alfieriana Anna Fiorilli Pellandi
11. Ibid.
12. Stendhal, Roma, Napoli, Firenze. Viaggio in Italia da Milano a Reggio Calabria, RomaBari, Laterza, 1990, p. 224.
13. Antonio Colomberti, ora in L. Rasi, I Comici italiani. Biografia, Bibliografia, Iconografia,
Firenze, Bocca-Lumachi, 1897-1905, vol. ii, p. 78.
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FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI
«sia per le mosse degli occhi, che pel muto parlare degli atti e della fisionomia».14
Il personaggio, svelato in tutta la sua prorompente peccaminosità nell’ultimo
atto della tragedia, è recitato, per i primi quattro, soltanto con lievi, ma continue allusioni alla sua passione incestuosa. L’inquietudine interiore di Mirra
viene sapientemente dosata e lasciata intuire soltanto attraverso nascoste sottolineature che esaltano la capacità dell’attrice nel controllare registri interpretativi tra loro antitetici.
Sulla stessa linea si colloca la scrittura scenica utilizzata per la parte di Giulia in La lusinghiera di Alberto Nota. La protagonista della commedia incarna
una donna dal comportamento spregiudicato nell’adulare contemporaneamente
molti corteggiatori con audaci civetterie giocate su menzogne, sorrisi, sguardi
languidi e sensuali elargiti indistintamente a tutti gli spasimanti. L’interpretazione della Marchionni fu in un primo momento criticata dall’autore che,
in una lettera a Vincenzo Monti del 1° aprile 1818, la taccia di essere ‘nemica
di tal commedia’ perché portatrice di una recitazione romantica inadeguata
al personaggio. Tale accusa è decisamente respinta dalla Marchionni che, l’8
aprile 1818, in risposta all’autore, replica sostenendo di gradire la parte e di
averla interpretata se non magistralmente quantomeno in maniera da non danneggiare la fortuna della pièce. In effetti l’interpretazione dell’attrice assicura
un costante successo alla commedia al punto che lo stesso Nota, abbandonato
ogni scetticismo, così ne parla nella sua Prefazione: «Poche altre attrici potranno
per avventura agguagliare, nonché superare la signora Carlotta Marchionni, a
cui fu le prime volte affidata la parte di donna Giulia, parte che richiede assai
maestria, giacché le arti e le lusinghe per trarre altrui nella rete, e per conservare ed accrescere il numero degli adoratori, vogliono esser custodite da un
contegno nobile, disinvolto, ben educato e gentile».15
A testimonianza della qualità dell’esecuzione, piena di vitalità, Giuseppe
Costetti aggiunge: «Donna Giulia è un carattere scabroso, la cui licenziosità è
di tanto insinuante quanto meno è aperta: una bella donna che collo sguardo,
co’ sorrisi, e con la parola indiretta s’offre ad ogni momento, non concedendosi mai. S’aggiunga che il più degli effetti scenici di questo ruolo di coquette
è nell’artifizio della controscena muta, nelle occhiate, nei sorrisi, nel provocante abbigliamento, nella procace scollatura delle vesti dissimulata in guisa
da riuscire più stimolante. […] Carlotta Marchionni, la estatica di Verona, la
immancabile alle Messe meridiane della Consolata o di San Filippo, che prima
14. Epilogo di notizie teatrali, «Il Corriere delle Dame», 4 maggio 1816, 18, p. 139, ora in G.
Ciotti Cavalletto, Attrici e società nell’Ottocento italiano. Miti e condizionamenti, Milano, Mursia,
1978, p. 124.
15. A. Nota, Teatro comico di Alberto Nota, Torino, Pomba, 18422, vol. iv, p. 321.
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CARLOTTA MARCHIONNI
di uscir sulla scena ogni sera si faceva senza ostentazione, né sotterfugio, il suo
bravo segno di croce rappresentò alla perfezione Donna Giulia e le sue spinte
civetterie, come già aveva reso le fiamme incestuose di Mirra».16
Non esente da alcuni vizi propri dei figli d’Arte le vengono rimproverati
difetti dovuti a mancanza di scuola sia nel gesto, sia nelle intonazioni. Particolarmente criticata è la sua consuetudine di incrociare le mani al petto e di
stringere i gomiti alla testa muovendo in modo scomposto gli avambracci. A
tali appunti tenta di rimediare frequentando nel 1814 a Firenze, per breve periodo, la Scuola di declamazione di Antonio Morrocchesi. È universalmente
apprezzata, invece, per la nobiltà dell’incedere sulla scena, per la semplicità e
la versatilità della sua recitazione che sa esprimersi naturalmente, sia nella dizione sia nella riproduzione di particolari minuti a cui viene restituita apparenza di realtà, e per la capacità di modulare con varietà di inflessioni la voce.
La sua presenza scenica si avvantaggia di un fisico scultoreo e giunonico,
di braccia ben modellate e di una fisionomia, non bella né regolare, ma dotata di comunicativa e fascino. Alla biasimata abitudine dei comici, accusati di
una eccesiva gesticolazione, sostituisce nel tempo, la grande mobilità del volto e la particolare espressività dello sguardo che le permettono una recitazione eloquente, ma priva di gesti esasperati. Le doti di naturalezza evidenziate
nella conduzione dei dialoghi, unite ad una eleganza non affettata, fanno di
lei una caposcuola: «Ma io sfido tutti i delicati conoscitori dell’arte comica a
dirmi in chi, dove e quando si è veduto nella commedia italiana una donna,
che con tanta grazia, con tanta decenza, e con tanta nobiltà passeggi la scena?
Io m’appello a tutte le dame di tutte le corti più galanti, se si può con miglior
dignità ed amabilità in una nobile e gentile conversazione, dir sedete come lo
dice la nostra Marchionni; con quale vivacità di colorito sa ella moltiplicare e
compartire le tinte in una scena di gelosia! Chi sa comporre quello sguardo,
accomodar quel labbro, emettere quel suono di voce in una scena d’ironia al
pari di lei? Della felicità sorprendente nelle transazioni, e nel passaggio d’un affetto all’altro, della dizione semplicissima e naturale, dell’artifizio che par tutto
natura, ne abbiamo un esempio parlante nella Lusinghiera dell’avvocato Nota».17
Vere e proprie innovazioni volute dall’attrice sono da considerare l’abolizione del suggeritore e la concertazione degli attori durante le prove, che arriva a
prolungare fino ad un mese, dirigendole personalmente. Capace di compiere
scarti che le permettono di eccellere nel tragico, nel comico, nelle parti ingenue e nell’interpretazione delle passioni contrastate, è considerata la migliore
16. G. Costetti, La compagnia Reale Sarda e il teatro italiano dal 1821 al 1855, Milano,
Kantorowicz, 1893, pp. 36-37.
17. Francesco Righetti, ora in Rasi, I Comici italiani, cit., vol. ii, p. 78.
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FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI
attrice italiana dell’epoca ancora prima di approdare, come prima donna, alla
Reale Sarda: «Il Vestri e la Marchionni personificarono […] quella varietà di
attitudini che è degli attori italiani soltanto, e che permette a ciascuno di loro, che sia veramente nato all’arte, di suscitare le commozioni più disparate e
diverse; di passare con stupenda volubilità e occorrendo in una sera medesima dal tragico al comico, dall’Alfieri al Goldoni: d’essere come la Marchionni ora Mirra o Clitennestra, più tardi Mirandolina o Rosaura: come il Vestri oggi
Don Marzio, domani Il povero Giacomo».18 Le sue interpretazioni sono il frutto
della scrittura scenica di un’attrice noncurante di intervenire decisamente sui
copioni con tagli e interpolazioni. A tale proposito aggiunge Francesco Regli
«la Marchionni erasi formata un’alta e vera idea dell’arte sua. Ragguardavala
essa come un aiuto e un supplimento all’invenzione del poeta e all’opera dello
scrittore; epperò, o le parti che doveva sostenere erano con maestria colorite,
ed ella, nel concetto dell’autore internandosi, vi dava l’ultima mano; o distavano troppo da quella verità, da quel calore, da quel moto che si richiede nelle
situazioni drammatiche, ed ella tanto vi lavorava sopra d’ingegno e di cuore,
tanto vi metteva del proprio, che diventava, come Talma col Bruto, come De
Marini col Benefattore e l’Orfana, come Vestri col Povero Giacomo o Gustavo
Modena col Saul, creatrice».19
Altra importante testimonianza della convergenza tra il suo stile recitativo
e la drammaturgia a lei contemporanea la fornisce nel dicembre del 1839, sulle colonne del «Figaro», il recensore dell’ultima sua apparizione milanese: «La
Marchionni compendia in se stessa i tratti speciali al dramma moderno. Perché essa pinge ogni maniera di posato o concitato, gaio o malinconico affetto e principalmente il dolore che si stende nell’opere moderne al modo stesso
che s’incarna nella vita della società. Essa percorre con naturale andamento
tutte le gradazioni della poesia; dalle note gravi alle dolci, dalle elevate alle
volgari, dalle fantastiche alle appassionate. La Marchionni è veramente l’artista estetica voluta dal maturato sviluppo delle idee artistiche e dalle esigenze
psicologico-letterarie dell’epoca. Creata da natura e da lunghi studi esercitata
a trovare e produrre ogni perfezione di bello, essa imita con giustezza estetica l’età del romanzo e l’età del disinganno; esprime il sospiro del povero, la
preghiera dell’inerme, il lamento del prigioniero, la maestà della sventura e il
ruggito della disperazione. Talvolta calda, energica, fremente; talvolta languida, gemente, spiritante. La sua anima è come invasa da un soffio di fuoco che
18. Ferdinando Martini, ora ivi, p. 77.
19. F. Regli, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici,
maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in
Italia dal 1800 al 1860, Torino, Dalmazzo, 1860, p. 302.
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CARLOTTA MARCHIONNI
spinge fuori l’impressione animata, ardente; e lo prova il mutar continuo di
quel suo volto, rispondentissimo agli interni sentimenti».20
Durante la militanza a Torino, in linea con i principi della compagnia sabauda, accentua i caratteri di purezza, eleganza, nobiltà e perfezione espositiva della sua arte contribuendo alla creazione del mito dell’attrice moralmente
integra e vocata all’arte nobile. L’adesione all’etica del sociale, del civile e del
religioso che caratterizza la poetica pedagogico-artistica della Reale Sarda la
costringe a abbandonare il repertorio romantico e passionale, che l’aveva imposta nel periodo degli anni milanesi, obbligandola a conciliare la rappresentazione di forti passioni e sentimenti con la sua nuova immagine di vergine-attrice.
Non è da escludere però che molta della fascinazione esercitata sul pubblico
dalla prima donna fosse costruita proprio sullo scarto, consapevolmente gestito, tra passioni intuibili, trattenute nella vita reale, e liberamente sfogate nella
finzione scenica, dove si manifestavano attraverso brevi, improvvise, ma potenti esplosioni, tanto più efficaci quanto più calate in un linguaggio scenico
elegante, educato e misurato: «Chi rese potentemente l’amore incestuoso di
Mirra, l’adultero di Francesca, il casto della Vestale Giunia, non poteva avere
gelidi né il cuore né i sensi. E quando si rifletta che la verginità di Carlotta
Marchionni non fu una maschera astuta per gabellare irresponsabilmente non
dirò la scostumatezza ma nemmeno le facili mondanità della vita del teatro,
ma fu invece una castità immacolata e tersa, non appannata mai neppure dal
soffio della maldicenza che, fra le quinte, è vipereo; è da pensare piuttosto che
quell’anima forte e quella vigorosa fantasia si piacessero del contrasto fra la
severità del costume che s’era imposta, e le sfrenate amorose passioni che doveva rappresentare».21
Fonti, recensioni e studi critici
Manoscritti:
Atto di battesimo di Carlotta Marchionni, Archivio storico delle parrocchie di Pescia,
Battesimi vol. 23 (1792-1808), c. 50v., atto n. 924.
A. Colomberti, Notizie su attori italiani, Roma, Biblioteca e raccolta teatrale del
Burcardo, ms. 3-15-3-19/A (ora ms. 9).
A. Morrocchesi, Memorie, Biblioteca marucelliana di Firenze, ms. D19, i-iii.
20. Ora in Sanguinetti, La compagnia Reale Sarda, cit., pp. 59-60.
21. Costetti, La compagnia Reale Sarda, cit., p. 38.
213
FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI
Affare di polizia n. 1480: nota della compagnia Lorenzo Pani, Archivio di stato di Firenze, Presidenza del Buon Governo 1784-1808, f. 449, affare 1480, a. 1807.
A stampa:
F. Bartoli, Notizie istoriche de’ comici italiani che fiorirono intorno all’anno MDL. fino a’
giorni presenti, Padova, Conzatti, 1781-1782, 2 voll. (rist. anast. Bologna, Forni, 1978.
Riediz. a cura di G. Sparacello, introd. di F. Vazzoler, trascrizione di M. Melai,
IRPMF-CNRS, 2010, «Le savoir des acteurs italiens», consultabile on line all’indirizzo http://www.iremus.cnrs.fr/fr/publications/les-savoirs-des-acteurs-italiens).
«Giornale del dipartimento dell’Arno», gennaio 1812, 3 (p. 4) e 11 (p. 4).
«Giornale del dipartimento dell’Arno», dicembre 1813, 156.
«Giornale del dipartimento dell’Arno», gennaio 1814, 8 e 10 (p. 4).
[Senza autore], Epilogo di notizie teatrali, «Il Corriere delle Dame», 4 maggio 1816,
18, p. 139.
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servizio di S.M. il re di Sardegna, Torino, Alliana e Paravia, 1826, 3 voll.
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1857-1861, 9 voll.
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tesi di laurea in Storia dello spettacolo, Università di Firenze, Facoltà di lettere e fi-
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Repertorio
1810
Mirra di Vittorio Alfieri
1811
Oreste di Vittorio Alfieri
1814
Filippo di Vittorio Alfieri
216
CARLOTTA MARCHIONNI
1815
Francesca da Rimini di Silvio Pellico
Pamela nubile di Carlo Goldoni
1816
Bianca e Fernando, o La tomba di Carlo IV duca d’Agrigento di Carlo Roti
Caterina Neuport di Luigi Marchionni
Francesca da Rimini di Silvio Pellico
Mirra di Vittorio Alfieri
1818
I due carlini di autore non precisato
La figlia maledetta di autore non precisato
La lusinghiera di Alberto Nota
1820
Bianca e Fernando, o La tomba di Carlo IV duca d’Agrigento di Carlo Roti
Gli amori di Zelinda e Lindoro di Carlo Goldoni
Gl’innamorati di Carlo Goldoni
L’abboccamento notturno di Carlo Goldoni
La locandiera di Carlo Goldoni
Le donne curiose di Carlo Goldoni
Le gelosie di Zelinda e Lindoro di Carlo Goldoni
Pamela nubile di Carlo Goldoni
Un curioso accidente di Carlo Goldoni
1822
Adele e Fontanges di Alberto Nota
Chiara di Rosembergh di Hubert [pseudonimo di Philippe-Jacques Laroche]
1823
Agamennone di Vittorio Alfieri
Alexina ossia Costanza rara di Alberto Nota
Amore ed equivoco di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue
Amori d’antica data di Philippe Néricault Destouches
Antigone di Vittorio Alfieri
Aristodemo di Vincenzo Monti
Clementina e Dorvignì di Monvel [pseudonimo di Jacques-Marie Boutet]
Cuore d’arte di Francesco Augusto Bon
Didone abbandonata di Pietro Metastasio
Due amici di Lione di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais
217
FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI
Due famiglie in una casa di Louis-Benoît Picard, Alexis-Jacques-Marie Vafflard e
Fulgence-Joseph-Désiré de Bury
Edoardo in Iscozia di Alexandre-Vincent Pineux Duval
Francesca da Rimini di Silvio Pellico
Ginevra di Scozia di Giovanni Pindemonte
Gli amori di un filosofo di Filippo Casari
Gli amori di Zelinda e Lindoro di Carlo Goldoni
Gli eredi di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue
Gl’innamorati di Carlo Goldoni
Gurlì di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue
I contrapposti di Speciosa Zanardi Bottioni
I contrapposti di Benoît Pelletier de Volmeranges
I due granatieri di Joseph Patrat
I due inglesi di Mélesville [pseudonimo di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier]
I litiganti senza lite di Charles-Guillaume Étienne
I pazzi per progetto di Giovan Carlo Cosenza
Il barbiere maldicente di Gheldria di Francesco Antonio Avelloni
Il benefattore e l’orfana di Alberto Nota
Il bibliomane di Alberto Nota
Il burbero benefico di Carlo Goldoni
Il capitano Belronde di Louis-Benoît Picard
Il cavaliere d’industria di Alexandre-Vincent Pineux Duval
Il cavaliere e la dama di Carlo Goldoni
Il celibe e l’ammogliato di Alexis-Jacques-Marie Vafflard e Fulgence-Joseph-Désiré de
Bury
Il cugino da Lisbona di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue
Il disperato per eccesso di buon core di Giovanni Giraud
Il filosofo celibe di Alberto Nota
Il giudice di se stesso di Benoît Pelletier de Volmeranges
Il landerman di Solm di Francesco Antonio Avelloni
Il matrimonio per generosità di Speciosa Zanardi Bottioni
Il misantropo di Moliére [pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin]
Il nuovo ricco di Alberto Nota
Il padre e il tutore di Louis-Armand-Théodore e Louis-Charles-Achille d’Artois de
Bournonville
Il pittor per amore di Benoît Pelletier de Volmeranges
Il poeta fanatico di Carlo Goldoni
Il portafoglio di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue
Il riconoscente e l’ignoto di Francesco Antonio Avelloni
Il saccente di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue
Il tartufo dei costumi di Luigi Claudio Chéron
218
CARLOTTA MARCHIONNI
Il tiranno domestico di Alexandre-Vincent Pineux Duval
Il vanaglorioso di Philippe Néricault Destouches
Il ventaglio di Carlo Goldoni
L’abate de l’Epée di Jean-Nicolas Bouilly
L’ajo nell’imbarazzo di Giovanni Giraud
L’ambiziosa di Alberto Nota
L’ammalato immaginario di Alberto Nota
L’antiveggente di Marc-Antoine-Madeleine Désaugiers
L’atrabiliare di Alberto Nota
L’autorità paterna di August Wilhelm Iffland
L’avaro di Molière [pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin]
L’avventuriere notturno di Camillo Federici [pseudonimo di Giovan Battista Viassolo]
L’epigramma di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue
L’incontro fortunato di François-Antoine-Eugène de Planard
L’intollerante di Gaetano Fiorio
L’ozioso di Francesco Augusto Bon
La bella fattora di Amélie-Julie Candeille
La bizzarra di Carlo Goldoni
La bottega del caffè di Carlo Goldoni
La festa della rosa di Antonio Simeone Sografi
La locandiera di Carlo Goldoni
La lusinghiera di Alberto Nota
La moglie finta moglie di Gaetano Barbieri
La pretesa e i pretendenti di Francesco Antonio Avelloni
La promessa imprudente di François-Antoine-Eugène de Planard
La romanzesca di Francesco Augusto Bon
La sorella rivale del fratello di Dumaniant [pseudonimo di Jean-André Bourlain]
La sposa persiana di Carlo Goldoni
La sposa sagace di Carlo Goldoni
La stravagante di Pietro Andolfati
La suocera e la nuora di Carlo Goldoni
La supposta nipote di François-Antoine-Eugène de Planard
Lauretta Gonsalez di Antonio Simeone Sografi
La vedova scaltra di Carlo Goldoni
La vedova spiritosa di Carlo Goldoni
Le donne di buon umore di Carlo Goldoni
Le gelosie di Lindoro di Carlo Goldoni
Le parentele di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue
Le risoluzioni in amore di Alberto Nota
Le smanie per la villeggiatura di Carlo Goldoni
Lo spirito di contraddizione di Carlo Goldoni
219
FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI
Maometto di Voltaire [pseudonimo di François-Marie Arouet]
Matilde di Monvel [pseudonimo di Jacques-Marie Boutet]
Matrimonio di Goldoni di Gaetano Fiorio
Merope di Scipione Maffei
Merope di Vittorio Alfieri
Misantropia e sentimento di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue
Moglie pazza per gelosia di Giacomo Bonfio
Molière di Carlo Goldoni
Molière, marito geloso di Pietro Chiari
Non contar gli anni alle donne di Camillo Federici [pseudonimo di Giovan Battista
Viassolo]
Ogni male non vien per nuocere di autore non precisato
Olivo e Pasquale di Antonio Simeone Sografi
Ospizio degli orfani di August Wilhelm Iffland
Ottavia di Vittorio Alfieri
Pace figlia d’amore di Filippo Casari
Pamela maritata di Benoît Pelletier de Volmeranges e Michel de Cubières-Palmézeaux
Pamela nubile di Carlo Goldoni
Primi passi al mal costume di Alberto Nota
Rosmunda di Vittorio Alfieri
Saul di Vittorio Alfieri
Sofia e Langer di [?] Belloni
Temistocle di Pietro Metastasio
Teresa e Claudio ovvero L’amor irritato dalle difficoltà di Giovanni Greppi
Teresa vedova di Giovanni Greppi
Torquato Tasso di Carlo Goldoni
Un curioso accidente di Carlo Goldoni
Un giorno a Parigi di Charles-Guillaume Étienne
Uno spende e gli altri godono di [?] Fabris
Valeria cieca di Augustin-Eugène Scribe e Mélesville [pseudonimo di Anne-HonoréJoseph Duveyrier]
Verter di Antonio Simeone Sografi
Zaira di Voltaire [pseudonimo di François-Marie Arouet]
1824
Medea di Cesare della Valle
Mirra di Vittorio Alfieri
Sofonisba di Vittorio Alfieri
1825
Eudosia di Angelo Brofferio
220
CARLOTTA MARCHIONNI
1826
Francesca da Rimini di Silvio Pellico
Ines di Castro di Davide Bertolotti
La fiera di Alberto Nota
1827
La novella sposa di Alberto Nota
1828
L’oppressore e l’oppresso di Alberto Nota
1830
Ludovico Ariosto di Alberto Nota
1831
Alceste di Vittorio Alfieri
1832
Ester d’Engaddi di Silvio Pellico
Gismonda da Mendrisio di Silvio Pellico
Petrarca e Laura di Alberto Nota
1833
La donna irrequieta di Alberto Nota
1834
Gismonda da Mendrisio di Silvio Pellico
Il progettista di Alberto Nota
La donna irrequieta di Alberto Nota
La famiglia di Riquebourg di Augustin-Eugène Scribe
Lo sposo di provincia di Alberto Nota
1835
Il duello fra due donne di Giovan Carlo Cosenza
Lo sposo di provincia di Alberto Nota
Parisina di Antonio Somma
1836
Il prigioniero e l’incognita di Alberto Nota
Le conseguenze di una festa da ballo di Jean-François-Alfred Bayard
Pia de’ Tolomei di Carlo Marenco
221
FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI
1837
Giovanna I di Carlo Marenco
Giovanna I regina di Napoli di Giacinto Battaglia
Il prigioniero e l’incognita di Alberto Nota
Torquato Tasso di Alberto Nota
Vittorina ossia Le conseguenze di una scommessa di Giacinto Battaglia
1838
Giovanna I regina di Napoli di Giacinto Battaglia
Natalina ovvero Il liceo d’Heisperg di Alberto Nota
1839
Filippo Maria Visconti di Giacinto Battaglia
Gismonda da Mendrisio di Silvio Pellico
1840
La fiera di Alberto Nota
1854
La gioventù di Cimarosa di Raffaele Colucci
222
Daniela Sarà
AMALIA BETTINI
(Milano, 15 agosto 1809-Roma, 6 maggio 1894)
Sintesi
Amorosa, poi prima attrice, la più apprezzata e ricercata interprete femminile italiana degli anni Trenta del XIX secolo. Attiva, negli ultimi anni di
carriera, nella compagnia Reale Sarda.
Biografia
Amalia Bettini nasce a Milano il 15 agosto 1809 da Giovanni e Lucrezia
Morra, attori all’epoca ingaggiati da Salvatore Fabbrichesi nella compagnia
Reale Italiana; nel 1814, con la caduta di Napoleone, la formazione si scioglie
e il capocomico si trasferisce a Napoli dove costituisce una nuova compagnia
Reale, protetta dai Borbone, conducendo con sé anche i Bettini. Dal 1815 al
1822 Amalia vive in un istituto francese della città e in seguito alla morte del
padre, deceduto nel 1822 a trentatré anni, inizia l’attività artistica: ingaggiata
da Fabbrichesi nella compagnia Reale come amorosa, si esibisce con Luigi Vestri e Giuseppe De Marini che la affiancano anche come insegnanti di recitazione. All’inizio del 1824 segue con la madre il capocomico che si trasferisce
con la formazione nell’Italia centrale; nel dicembre 1826 la troupe esegue un
ciclo di recite al teatro del Corso di Bologna.
Dopo la scomparsa di Fabbrichesi, avvenuta a Verona nell’autunno del 1827,
la Bettini conclude la scrittura esibendosi al teatro Re di Milano nel carnevale 1828. Nel 1829 si stabilisce con la madre a Vicenza dove recita come prima
attrice in una compagnia filodrammatica. Lo stesso anno, in società con Vincenzo Caprara e Orazio Cerini, Lucrezia costituisce una propria compagine
nella quale riserva ancora alla figlia il ruolo primario; la formazione è attiva a
Parma nell’agosto 1829, al teatro Comunale di Ferrara nell’autunno successiDRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 223-239
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18374
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
© 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License
(CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original
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DANIELA SARÀ
vo, nuovamente a Parma nel giugno 1830 e al teatro Goldoni di Firenze nel
carnevale 1830-1831, ma subito dopo si scioglie per problemi economici.
Nel 1831 la Bettini passa nella compagine del caratterista veronese Gaetano
Nardelli, all’epoca associato con Luigi Ghirlanda, come prima attrice assoluta; nell’ottobre 1831 si esibisce al teatro del Corso di Bologna e nell’autunno
1833 al teatro Comunale di Ferrara. Nel 1835 Amalia entra con lo stesso ruolo
nella formazione Ducale di Parma, condotta da Romualdo Mascherpa, attiva
nei principali centri del nord e centro Italia, nella quale recitano Luigi Gattinelli, Giacomo Landozzi e alcuni esponenti della famiglia Dondini. Ha inizio la fase più brillante della carriera dell’attrice che in breve si afferma tra le
maggiori interpreti contemporanee. Nel 1835 la compagnia recita a Livorno,
Bologna, Ravenna, Perugia, Cesena e Roma, dividendosi tra il teatro Valle e
il teatro Alibert (settembre 1835-febbraio 1836); nel 1836 a Livorno (febbraiomaggio), Trieste, Venezia, Padova, Milano, Pavia e Genova.
Nel 1837 Amalia torna nella formazione di Nardelli – ora in società con Carlo Re, proprietario dell’omonimo teatro milanese – che però nel 1840 si ritira
dalle scene. Nel luglio 1837 la compagnia è attiva a Bologna, tra i successivi mesi
di settembre e dicembre al Re, nel marzo 1838 a Venezia, nel carnevale 1839
a Livorno, in aprile ancora a Bologna, tra giugno e luglio al teatro Comunale
di Faenza e a Ravenna e in settembre al teatro del Cocomero di Firenze. Tra il
1838 e il 1839, allo scadere della scrittura, la Bettini riceve numerose proposte
d’ingaggio che rifiuta perché non soddisfatta delle condizioni economiche: è
contattata da Pietro Monti per la formazione del teatro dei Fiorentini di Napoli, da Giovan Battista Gottardi, che intende costituire una compagnia in società con Luigi Domeniconi, poi non realizzata, e dal milanese Camillo Ferri.
Nel 1840 entra nella compagnia Reale Sarda, diretta da Gaetano Bazzi, con
sede stabile al teatro Carignano di Torino, subentrando a Carlotta Marchionni che si ritira dalle scene; si trova così a recitare al fianco di Adelaide Ristori, prima attrice giovane, nella formazione dal 1837-1838; tra le due interpreti
si instaura un rapporto di rivalità che nel 1841 induce la Ristori a lasciare la
formazione, per ritornarvi solo nel 1853. L’8 marzo 1840 Amalia debutta al
teatro Re di Milano; nell’autunno 1840 la compagnia compie una tournée
fiorentina e nel marzo 1841 ripropone un ciclo milanese di rappresentazioni.
Sparsasi la voce di una conclusione anticipata della collaborazione con Bazzi
allo scadere del primo anno comico, anche dopo l’inizio del nuovo ingaggio
Amalia continua a ricevere proposte da altre formazioni e capocomici: il teatro dei Fiorentini, Mascherpa, Lorenzo Da Rizzo, Angelo Lipparini, Corrado Vergnano e Camillo Ferri; è contattata anche per un eventuale ingresso in
compagnie di prossima costituzione, come quelle di Francesco Paladini, che
intende associarsi con Luigi Domeniconi, di Gaetano Coltellini e dello stesso
Domeniconi; le sono infine proposte collaborazioni artistiche da appaltatori
224
AMALIA BETTINI
di teatri come Vincenzo Jacovacci che la contatta per recitare al teatro Valle di
Roma. Tutti vedono nella Bettini un’interprete di livello eccellente, capace,
per l’azione di richiamo esercitata sul pubblico, di ribaltare le sorti economiche delle loro imprese. L’attrice però decide di prolungare la scrittura con la
Reale Sarda e in breve diventa la beniamina del pubblico torinese.
Al culmine del successo, l’8 febbraio 1842 recita per l’ultima volta al teatro
Carignano. Il successivo 2 giugno, a Bologna, dove stabilisce la sua residenza,
sposa il dottore Raffaele Minardi e, a soli trentatré anni, si ritira dalle scene,
nonostante le insistenze di alcuni capocomici – tra cui Coltellini, Vergnano,
Ferri, Mascherpa, Paladini, Domeniconi e Gaetano Gattinelli – per farla recedere dalla decisione; lo stesso Bazzi le scrive per scongiurare un suo abbandono della compagnia Reale Sarda concedendole maggiore agio nella scelta
del repertorio. Amalia però non torna sui suoi passi e lascia definitivamente
il teatro professionale per concedersi saltuariamente la partecipazione a spettacoli di beneficenza, come tra l’ottobre e il dicembre 1843, al fianco di alcuni membri dell’accademia bolognese dei Concordi diretti da Giovan Battista
Zoppetti. Nel 1847 dà alla luce un figlio, Pasquale Giuseppe Gioacchino; alla
metà di maggio del 1848 esegue altre recite al teatro Comunale di Bologna
con l’accademia dei Solerti e nell’ottobre 1880 si esibisce nuovamente per beneficenza al teatro Aliprandi di Modena. Scompare a Roma il 6 maggio 1894.
Famiglia
Amalia Bettini appartiene ad una famiglia dedita da almeno una generazione
al professionismo attorico. Il padre Giovanni (Venezia o Verona, 1789-Venezia,
1822) milita dal 1807, come primo amoroso, nella compagnia Reale Italiana di
Salvatore Fabbrichesi. Qui affina le doti performative fino a diventare una delle
promesse più significative del teatro italiano, ma muore di tisi a trentatré anni.
La madre Lucrezia Morra, inizialmente prima attrice, poi regredita a ruoli
di seconda donna, madre e caratterista, recita nella formazione di Fabbrichesi e,
dopo la scomparsa del marito, segue la figlia esercitando temporaneamente anche il capocomicato, fino al 1837, anno in cui si ritira dall’attività professionale.
Nell’anno comico 1841-1842 Fanny, sorella di Amalia, compare tra i membri dell’organico della compagnia Reale Sarda.
Formazione
In tenera età Amalia Bettini frequenta un prestigioso istituto francese a Napoli, dove entra per intercessione dei Borbone, protettori del padre Giovanni,
225
DANIELA SARÀ
e dove riceve un’istruzione di alto livello, destinata ai figli delle famiglie nobiliari, comprendente disegno, musica e lingue straniere. Negli anni l’attrice
continuerà a coltivare la sua formazione culturale, come testimonia il suo carteggio col poeta Giuseppe Gioachino Belli (si veda Interpretazioni/Stile), ricco
di riferimenti aulici al mondo letterario e di scambi di composizioni poetiche;
di particolare interesse sono le lettere in cui la Bettini si sofferma in maniera
lucida e competente sulla situazione teatrale contemporanea e sull’attività dei
tragediografi dell’epoca. Nel 1822 l’interprete lombarda esordisce in teatro,
ingaggiata come amorosa da Salvatore Fabbrichesi nella compagnia Reale di
Napoli; i colleghi Luigi Vestri e Giuseppe De Marini, tra i migliori attori in
circolazione, le insegnano le basi della recitazione.
Interpretazioni/Stile
Nel 1822, a tredici anni, Amalia Bettini esordisce dunque come amorosa
nella compagnia Reale di Napoli, diretta dal Fabbrichesi, nella quale rimane
fino al 1828; dopo soli due anni di militanza suscita l’interesse delle cronache teatrali che ne elogiano le doti artistiche, prevedendo per lei una fortunata carriera: «Bettini figlia… giovinetta di 15 anni, di leggiadra figura, di volto
avvenente, di bei modi, non iscarsa di grazie, […] ella supera sé medesima, e
porge altissime speranze di pareggiare ben presto le decantate prime attrici,
che l’han preceduta. Nulla le manca ad essere nel numero delle valenti, fuorché un esercizio più lungo, mancanza a cui il tempo porrà quanto prima il
compenso; ma intanto è dolce il vederla con merito vero rappresentare i suoi
caratteri, e troppo bello e giocondo il difetto, che alcun rigido osservatore in
qualche parte le addossa, d’essere cioè troppo giovine. Oh! quanto meglio ciò
conta che il vedere provetta attrice con tre dozzine d’anni alle spalle affibbiati
rappresentarci talora l’ingenua ragazza, o la spiritosa sposina! Si calmi adunque di talun l’iraconda impazienza, e mentre da un lato trova in questa compagnia chi per assoluta perizia può soddisfarlo, si appaghi dall’altro della tenera
capacità e delle belle speranze, onde a buon diritto l’Itala scena può attendere
in questa ragazza una novella esimia attrice».1 Da una recensione risalente alla fine dell’esperienza con Fabbrichesi, nella quale la Bettini è descritta come
«nata per fare le parti di giovane modesta, affezionata e ingenua»,2 si desume
la sua specializzazione nel repertorio patetico-sentimentale.
1. La testimonianza apparsa su «Varietà teatrali» del 1824 è qui trascritta da L. Rasi, I Comici
italiani. Biografia, Bibliografia, Iconografia, Firenze, Bocca-Lumachi, 1897-1905, vol. i, p. 388.
2. Cenni teatrali, «Il Corriere delle Dame», 19 gennaio 1828, 3, p. 18, ora in G. Ciotti
Cavalletto, Attrici e società nell’Ottocento italiano. Miti e condizionamenti, Milano, Mursia, 1978, p. 45.
226
AMALIA BETTINI
Dal 1831 al 1835 Amalia è prima attrice nella compagnia di Gaetano Nardelli; si tratta di una fase di transizione e sperimentazione, che la vede a volte
soggetta a critiche: «avrebbe d’uopo talvolta di non far troppo, bensì di stare
un po’ più ne’ confini prescritti da natura e dalla verità»;3 si esprimerebbe con
una voce «modulata talvolta a cadenza»;4 si lascerebbe andare, in alcuni casi,
a innaturali «moti convulsi».5 Tra i principali detrattori del periodo si segnala
Giacinto Battaglia dalle pagine del «Figaro».
Nella seconda metà degli anni Trenta, trascorsi come prima attrice nelle
formazioni di Mascherpa (1835-1837) e di Nardelli (1837-1840) Amalia vive
la fase più fortunata della carriera, confermandosi come una delle esponenti
più significative del ruolo primario. Riguardo a questo periodo resta la preziosa testimonianza di Antonio Colomberti, suo compagno di lavoro sia nella
compagnia di Mascherpa che in quella di Nardelli; oltre a delinearne un ritratto fisico, l’attore si sofferma sulle doti artistiche di Amalia caratterizzate
da un’alta capacità di immedesimazione, da una voce particolarmente duttile e in grado di esprimere una vasta gamma di gradazioni umorali e da una
memoria eccezionale che le consente di assimilare le parti senza la minima
sbavatura: era «di capello castagno e di carnagione bianchissima. La sua voce
corrispondeva a tutte le vibrazioni della sua anima. Di natura estremamente sensibile e nervosa, s’immedesimava tanto perfettamente nel personaggio
da lei rappresentato, fosse esso comico, drammatico o tragico, da far provare
all’ascoltatore le stesse impressioni da lei esuberantemente sentite. Dotata di
memoria ferrea, poteva fare a meno del rammentatore ed in 5 anni ch’ebbi il
piacere di esserle al fianco come direttore e primo attore, non l’ho mai veduta
ricorrere al soggetto per saper la parola per entrare in scena. Abituata fin dalla
sua più tenera gioventù a non considerare la sua parte dal numero dei foglietti
ma dall’interesse che poteva avere nell’intiera produzione, poneva in tutte lo
stesso impegno, non escluse le farse».6
Negli anni trascorsi nella troupe di Mascherpa, la Bettini è acclamata ovunque come catalizzatrice degli interessi del pubblico. Tra le attestazioni di stima dei contemporanei nei suoi confronti si ricorda la medaglia d’oro coniata a
Perugia in occasione di una tournée compiuta entro il settembre 1835. Amalia
entra anche in contatto con numerosi esponenti della cultura contemporanea;
una particolare attenzione merita la sua relazione con Giuseppe Gioachino Belli
che, incaricato dallo «Spigolatore» di recensire alcune sue recite eseguite al te3. Ivi, p. 49.
4. Ibid.
5. Ivi, p. 50.
6. A. Colomberti, Memorie di un artista drammatico, testo, introd., cronologia e note a cura
di A. Bentoglio, Roma, Bulzoni, 2004, p. 491 n.
227
DANIELA SARÀ
atro Valle di Roma, presso il quale l’attrice lombarda si esibisce tra settembre
1835 e febbraio 1836, scrive alcuni sonetti in romanesco soffermandosi sulle eccezionali doti artistiche dell’interprete; rimasto affascinato, Belli stringe
con Amalia una amicizia, che si protrae per molti anni, testimoniata dal prolungato scambio epistolare intercorso tra i due, particolarmente intenso fino
al 1842, anno del matrimonio dell’attrice con Raffaele Minardi (il carteggio
è conservato nell’archivio Piancastelli di Forlì e nella Biblioteca nazionale di
Roma; è stato parzialmente edito da Alfredo Mezio nel 1942, da Pietro Paolo
Trompeo nel 1948 e da Giacinta Spagnoletti nel 1961).
Anche Stendhal conosce la Bettini durante il soggiorno romano del 18351836: rimastone profondamente colpito e coinvolto sentimentalmente, scrive di lei nel romanzo autobiografico La vie de Henry Brulard, menzionando in
particolare un incontro con l’attrice all’accademia Filarmonica di Roma il 19
dicembre 1835 in occasione di un’esecuzione del Guglielmo Tell di Gioacchino
Rossini. Le attestazioni di stima nei suoi confronti si protraggono lungo l’intero corso della carriera: in data imprecisata Giovanni Prati le dedica versi di
elogio, mentre documenti epistolari a lei indirizzati testimoniano l’ammirazione coltivata nei suoi confronti da Rossini e Giovan Battista Niccolini. Nel
suo Diario, il 20 dicembre 1839, anche Niccolò Tommaseo esprime il desiderio di conoscere l’attrice.
Riguardo al ciclo di recite che vede impegnata la Bettini al Valle tra il 1835
e il 1836, una testimonianza giornalistica sottolinea la versatilità dell’interprete, presentata come una protagonista della scena italiana contemporanea: «in
Amalia Bettini ci è sembrato riconoscere un raro e straordinario talento per
l’arte ch’ella professa, e che abbia sviluppato nel modo il più vittorioso quanto può avere attinto alla scuola la più finita. Infatti i sentimenti che risvegliò,
l’effetto grandioso che produsse nel dramma Sedici anni or sono; l’espressione del
più intenso dolore, le angosce, la mortale ansietà che così bene dipinse nella
sublime scena coll’irato padre nella Malvina; le grazie e le sottigliezze comiche, non iscompagnate da decentissimo contegno, di cui fece sfoggio negl’Innamorati, nel Casino di Campagna, nella Fedeltà alla Prova; il suo atteggiarsi […],
la sua energia sempre analoga al sentimento dell’azione, la sua maniera delicata di esporre, tutti questi pregi, valutati con entusiasmo dal pubblico, ci addimostrano come quest’attrice meriti di essere annoverata fra le altre prime
drammatiche viventi».7
Lo scrittore e critico francese Arnould Frémy, che assiste ad una recita di cui
Amalia è protagonista nel 1836 a Venezia, dedica all’attrice un lungo profilo
7. Z.Z., Lettera del Signor Z.Z. ai compilatori della Rivista, «Rivista teatrale. Giornale drammatico, musicale e coreografico», vol. ii, 2 novembre 1835, 11, p. 5.
228
AMALIA BETTINI
biografico, soffermandosi, riguardo al periodo di militanza nella compagnia
Mascherpa, sull’intesa particolare instauratasi con il primo attore Luigi Domeniconi e sull’intensa capacità di immedesimazione di entrambi sulla scena:
«Domeniconi et Amalia Bettini jouant ensemble certaines pièces du Gymnase,
riant aux éclats là où les acteurs de Paris se contentent de sourire, pleurant, se
tordant là où les autres indiquent seulement l’émotion, font briller dans leur
jeu un accord, un ensemble de talens, qu’on aurait peine à rencontrer peutêtre sur toute autre scène d’Europe».8
Frémy sottolinea l’eccellenza della Bettini nella commedia – in particolare
nel repertorio goldoniano –, loda lo slancio con cui interpreta i personaggi patetici e la sua finezza di recitazione, reputandola all’altezza delle più significative esponenti della scena internazionale, come Fanny Kemble e Mademoiselle
Mars (pseudonimo di Anne-Françoise-Hippolyte Boutet); «le fond de sa nature est […] une sorte de grace et de douce tristesse […]. Sans être précisément
jolie, sa figure est de celles qui s’embellissent sur la scène […]. Un des grands
mérites de son jeu est de n’avoir aucun apprêt. Elle entre en scène et elle marche, elle pleure, elle exprime la joie, la jalousie, le bonheur, la tristesse avec le
même simplicité, le même naturel que si elle était réellement jalouse, offensée,
aimée et trahie».9 Secondo il critico il suo maggior pregio è nel ‘parlato’ naturale, ricco di sfumature in grado di esprimere le sensazioni più lievi, considerato dai contemporanei una delle sue caratteristiche più pregevoli.
Lo stesso giudizio è ripreso, qualche decennio dopo, da Giuseppe Costetti, che afferma: «quando appunto le attrici migliori recitavano a singulti, e i
più rinomati attori predicavano enfaticamente, e gridavano come l’ultimo dei
ciurmadori, Amalia Bettini ‘parlava’; sin anche, per quanto il consentisse la
sostenutezza del verso, nella tragedia che recitava non meno bene della commedia e del dramma. Era in lei tanto di naturalezza e di spontaneità che, facendo due sere la medesima parte, traeva effetti straordinari con mezzi sempre
diversi, a lei suggeriti lì per lì dalla forza molteplice e protea del suo genio».10
Sulla seconda fase di permanenza nella compagnia Nardelli (1837-1840),
sono da registrare alcune testimonianze di Francesco Regli che, dalle colonne della rivista «Il pirata», di cui è direttore, recensisce spesso le performances
dell’attrice, da lui ammirata sia professionalmente che umanamente, presentata come un caso straordinario di interprete istruita e dai sani principi morali. Relativamente ad una delle ultime esecuzioni realizzate dalla Bettini con
8. A. Frémy, Artistes étrangers. Amalia Bettini, «Revue de Paris», n.s., to. xxxv, 1836, p. 209.
9. Ivi, p. 207.
10. G. Costetti, I dimenticati vivi della scena italiana, Roma, Stabilimento tipografico della
Tribuna, 1886, p. 21.
229
DANIELA SARÀ
la formazione Nardelli nel ruolo protagonista del dramma Beatrice di Tenda di
Felice Turotti, messo in scena nel febbraio del 1840, il critico si sofferma su
quella che, nonostante la versatilità dimostrata nel padroneggiare i vari generi
spettacolari, emerge alla lunga come dote principale dell’interprete, la capacità di commuovere profondamente lo spettatore: «fu grande, somma sotto le
spoglie della bella infelice. E di vero chi non rapì ella e non commosse alle lagrime? Chi non sarebbesi alzato a difendere la sua innocenza allorquando, da
fatali e mendaci apparenze attorniata, invocava una voce, una sola voce che
sorgesse a smentirle? […] Oh noi piangemmo e in questo dirottissimo pianto,
in questo pianto spontaneo, tutto figlio del cuore stava la prova che la Bettini
raggiunse nell’arte sua il grado dell’eccellenza!».11
Nel 1860, in un profilo biografico della Bettini dopo il ritiro dalle scene, Regli ribadisce il suo giudizio conferendo all’attrice lombarda il primato nel genere
patetico-sentimentale: Amalia era stata un’«abilissima tragica, eccellente comica,
non aveva rivali nel genere drammatico ch’era proprio il suo arringo prediletto, ove ci commoveva alle lagrime, e tutto ci faceva sentire l’entusiasmo delle
passioni, il fuoco degl’affetti, le lunghe miserie e le brevi felicità della vita».12
Negli ultimi due anni di carriera (1840-1842), trascorsi nella compagnia
Reale Sarda, l’attrice dimostra altrettanta abilità nell’affrontare il genere tragico. Amalia entra nella formazione, diretta da Gaetano Bazzi, come prima
attrice in sostituzione di Carlotta Marchionni che lascia la carriera artistica
dopo diciassette anni durante i quali aveva conquistato il pubblico del teatro
Carignano di Torino, sede della troupe. L’eredità è difficile da sostenere e nel
primo anno comico la Bettini non riesce a farsi accettare pienamente, come
attestano le ‘voci’ sulla sua esitazione a proseguire la collaborazione professionale con Bazzi e sul suo desiderio di abbandonare la compagine. Nel suo
diario, il primo attore Giovan Battista Gottardi parla di un esordio positivo
della Bettini nel marzo 1840, confermato da Regli che nelle pagine del «Pirata» continua ad elogiare la sua beniamina, ancora impegnata in un ruolo patetico nel Vagabondo e la sua famiglia di Francesco Augusto Bon: «nulla eravi in
essa di esagerato, di troppo sentito, di inutile: piangeva e palpitava quando ne
avea necessità […] insomma la Bettini ritraeva a perfezione la virtuosa sposa e
l’amorosissima madre».13
11. [F. Regli], Gazzetta teatrale-teatro Valle, «Il pirata», v, 28 febbraio 1840, 70, p. 288, ora
in Ciotti Cavalletto, Attrici e società nell’Ottocento italiano, cit., p. 46.
12. F. Regli, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici,
maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in
Italia dal 1800 al 1860, Torino, Dalmazzo, 1860, p. 59.
13. Id., Gazzetta teatrale-teatro Re, «Il pirata», v, 13 marzo 1840, 74, p. 303, ora in Ciotti
Cavalletto, Attrici e società nell’Ottocento italiano, cit., pp. 45-46.
230
AMALIA BETTINI
In estate la Bettini riceve però alcuni segnali di ostilità da parte degli spettatori: il 6 agosto, in occasione della messinscena al Carignano della commedia I pazzi per progetto di Giovan Carlo Cosenza, «in mezzo ad un applauso
dato dal pubblico alla Bettini vi fu qualche pst… pst… ed un sonorissimo fischio assordante; la Bettini diventò una furia, si rivolse con atti di minaccia
al pubblico, ed azzardò di dire ad alta voce: – Incivili! –. Quindi terminata la
commedia inveì contro Bazzi».14 L’episodio testimonia forse una divergenza
tra l’attrice e il capocomico relativamente alla scelta dell’opera messa in scena.
La vera affermazione della Bettini al Carignano avviene un anno dopo, tra la
fine di maggio e i primi di giugno del 1841, con la messinscena della tragedia
Iginia d’Asti di Silvio Pellico, vero e proprio exploit che finalmente le fa meritare un pieno riconoscimento da parte del pubblico, oltre che le vive congratulazioni per via epistolare dell’autore, assente al debutto.
Dalla critica allo spettacolo di Giorgio Briano emerge l’effetto travolgente esercitato da Amalia sugli spettatori, un effetto amplificatore delle intenzioni del drammaturgo: «Che diremo della signora Amalia Bettini? Ella fu
dal grido universale salutata grandissima attrice; una di quelle pochissime
donne capaci di farsi interprete di un Pellico, di trascinare un intero pubblico agli applausi, di reggere alla più acuta e profonda critica. Dal primo suo
apparire sulla scena, sino alla fine, fu il vero, il reale personaggio con tanto
amore, con tanta forza descritto dal Pellico; anzi si può dire, che lo stesso
autore avrebbe provato una nuova compiacenza per la sua creazione ove l’avesse veduta rivivere per opera della egregia attrice. L’autore ha colorito il
carattere, la Bettini lo ha scolpito; ella ebbe dell’autore una parola che passata sulle sue labbra conduceva al fremito, all’applauso, al delirio. Pareva che
l’attrice volesse col vigore della sua anima, coll’espressione degli atti, coll’ardore del desiderio rientrare nell’entusiasmo che destò quell’alto lavoro; pareva che un altro sentimento, non meno nobile e generoso, la infiammasse,
ed era di recare un conforto, una gioia all’anima, su cui in pochi anni tanti e sì fieri dolori si erano accumulati. Ella fu interprete dell’autore al pubblico, dal pubblico all’autore. Descrivere a parte gli altri pregi di questa sua
rappresentazione, seguirla in que’ suoi atteggiamenti varj, in quei rapidi trapassi che l’eccesso di una passione immensa, combattuta, rendeva in lei profondi, subitamente veraci, è cosa che non si può significare in brevi parole.
Quando un’attrice ha tocco quella eccellenza a cui giunse la signora Bettini,
il darle una lode comune sarebbe un oltraggio all’arte stessa, per cui tanto si
affatica, per cui si può dire che viva. Abbiasi per ora la nostra ammirazione,
14. G.B. Gottardi, Il diario di un primo attore della compagnia Reale Sarda, a cura di G.
Deabate, Torino, Archivio tipografico, 1899, p. 17.
231
DANIELA SARÀ
che riputiamo il più bell’elogio al suo merito, quando quest’ammirazione è
divenuta sentimento universale».15
Riguardo agli ultimi mesi di permanenza nella compagnia Reale Sarda
disponiamo della dettagliata testimonianza del critico Edoardo Soffietti, collaboratore della rivista «Il piccolo Faust», in un resoconto edito nel 1841 in
difesa dell’attività della formazione. Dal documento risulta come il successo
riscosso dalla Bettini nell’Iginia d’Asti condizioni la scelta del repertorio che,
nei mesi successivi, vedrà prevalere la messinscena di tragedie con la Bettini
nel ruolo protagonista.
Poco dopo, Amalia è impegnata in un’altra interpretazione di una tragedia
di Pellico, Gismonda da Mendrisio, di cui rende in maniera magistrale il personaggio eponimo, particolarmente complesso per l’intreccio di sentimenti che
lo caratterizza: «La parte […] veramente disastrosa della tragedia è quella di
Gismonda, parte tutta di lotta interna, di tumulto di affetti contrari, pugnanti in anima ardente, minaccianti ad ogn’ora d’irrompere, ed irrompenti alfine
in larghissima vena quando vien meno la forza di contenerli, parte che in chi
deve rappresentarla, richiede un cumulo di tante e sì diverse doti, da lasciare
molto in sospetto sulla possibilità della cosa. Eppure sgombrate i sospetti che
la Bettini è quella, è la Gismonda tale quale ve l’ho disegnata in poche parole, e vedendola agire con quella verità, con quella forza, con quell’altezza che
è tutta sua propria, vi parrà che ad essere così grande, essa non vi ponga studio veruno».16
Segue poco dopo la messinscena di Medea di Cesare della Valle, in cui la
duttilissima voce si conferma il principale strumento espressivo della Bettini:
«È poi bello e forse non inutile notare, come in questa tragedia, in cui la signora Bettini può convenientemente dar sfogo ed abbandonarsi intieramente
a tutto l’impeto del suo forte sentire, ella sia appunto più grande, più sublime,
più maravigliosa in un punto in cui tutto quell’impeto è fortemente compresso, vale a dire nella scena dell’atto 4°, quando ella manda in dono il fatal cinto
alla rivale. Nelle più tenui, nelle più sfumate vibrazioni della sua voce si colorisce allora così mirabilmente la successione dei pensieri e degli affetti da cui
è dominata quella donna terribile, vi si legge così chiaramente la gioia feroce
della pregustata vicina vendetta, avvicendata col timore che il menomo suo
atto od accento troppo risentito possa in quell’istante tradirla e porre inciampo al suo disegno, che tanta verità, a tanta perfezione di esecuzione è forza
15. G. Briano, ‘Iginia d’Asti’, tragedia di Silvio Pellico, «Eridano», i, 15 giugno 1841, 10, pp.
394-397, ora in Rasi, I Comici italiani, cit., vol. i, p. 400.
16. E. Soffietti, Dramaturgia: ragionamento critico, semi-serio e semi-allegorico a proposito della
compagnia Reale, del suo repertorio e del presunto suo decadimento, Torino, Ferrero, 1841, p. 23.
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AMALIA BETTINI
sclamare pieni di meraviglia: – Dov’è, dov’è l’attrice pari a questa? O quando
mai l’arte saliva tant’alto! – ».17
Non altrettanto riuscita l’interpretazione del personaggio eponimo in Francesca da Rimini di Pellico, tragedia allestita immediatamente dopo, in cui la
Bettini non riesce ad interiorizzare perfettamente i sentimenti della protagonista ed è costretta a renderli evidenti in maniera grossolana e poco convincente: «Essa, diciamolo pure, non rese che in parte quel tenue velo di malinconia
sparso sulla dolce figura di Francesca […]. Essa, nella tema forse di non essere
abbastanza compresa dal pubblico, non si diede troppo studio di comprimere
in presenza di Lanciotto l’amorosa cura che la divora, di tal maniera, che se
l’amante marito potesse allora vedere altrimenti di quello che gli fa vedere il
poeta, non tarderebbe […] a scoprire la fonte di quel misterioso dolore che la
consuma. Essa finalmente nella gran scena del suo incontro con Paolo, dell’atto 3°, non si mostrò forse abbastanza compresa di quella mestizia e infrenabile turbamento che vien dall’amore e dalla presenza della persona amata; e la
crescente sua agitazione, colorita forse con moti troppo rapidi e spezzati, e tal
atto, tal gesto violento della mano, accompagnato da un subito troppo spiccato
cambiamento di voce nel punto ch’ella vuol correggere la sfuggitale fatal parola
io t’amo, e un contegno poi nell’insieme alcun che troppo sfogato, e risoluto,
danno a conoscere come siale passato inosservato il tratto più caratteristico di
quella situazione, come cioè Francesca in quel supremo momento che contro
ogni sua aspettazione sente di essere riamata dal suo Paolo, dall’uomo che ha
tanto adorato in suo segreto, deve sentirsi l’anima innondata di così grande
dolcezza, e questo sentimento deve a tutta forza rimanere per quell’ora così
fattamente dominante in cuor suo, e da esso devono così fattamente colorirsi
ogni pensiero, ogni atto, ogni interiezione anche contraria in quell’istante, da
esserle impossibile di dare al suo volto, alla sua azione, alle sue parole anche
le più ritrose (che non ve ne sono) una espressione meno che profondamente
commossa ed affettuosa. Un’ultima pecca poi in cui parmi sia incorsa la signora
Bettini nella rappresentazione di questa tragedia sono le troppo sfoggiate vesti, e ricercato abbigliamento da lei usato, sfoggio e ricercatezza, non al certo
gran fatto convenienti all’abituale stato di dolore e di tristezza della sventurata
Francesca: e questa pecca ci stupisce tanto più in lei che su questo punto abbiamo sempre trovata dotata di tatto finissimo e della più scrupolosa diligenza».18
Anche nella commedia La donna irrequieta di Alberto Nota, allestita successivamente, Amalia non si mostra all’altezza delle sue potenzialità e non supera il confronto a distanza con la Marchionni, specie nella scena del terzo atto
17. Ivi, p. 25.
18. Ivi, pp. 26-27.
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DANIELA SARÀ
caratterizzata dall’incontro della protagonista con il medico: «È quella una
scena tutta di civettismo e di galanteria, in cui la rabbiosa signorina deve come cambiare natura, e farsi così morbida e manosa come la più artifiziata pettegola; scena che fummo già avvezzi a vedere eseguita con troppa perfezione
dalla Marchionni per rimanerci ora contenti alla mediocrità appena raggiunta
dalla Bettini, cui siffatte situazioni, per un’evidente ripugnanza di carattere,
rimarranno sempre le meno accessibili».19
Interpretazione magistrale è invece quella offerta nella Maria Stuarda di
Friedrich Schiller, allestita al Carignano dal primo agosto 1841: «Io non posso
trovare adeguate parole per esprimere la meraviglia e tutta la serie delle succedentisi commozioni diverse fortissime in me destate da quella grande, patetica e sventurata Stuarda così mirabilmente rediviva nell’azione dignitosa,
commossa, agitata, sublime, di quella sorprendente Bettini! La scena dell’atto
primo in cui con pacato calore, e con tutta la dignità di un’anima conscia di
sua innocenza ribatte l’argomentare maligno del crudele Cecilio; quella divina dell’atto terzo in cui mortalmente provocata, mortalmente si vendica, gittando nel fango in presenza del suo drudo e della sua corte, l’ambiziosa rivale;
e finalmente la commoventissima dell’atto quinto, in cui si prepara cristianamente a morire, e move nobilmente rassegnata al supplizio, furono situazioni
scolpite con tale e tanta verità, squisitezza e profondità di sentimento, che difficilmente la grande Attrice vi potrà essere agguagliata; superata non mai».20
Ritiratasi prematuramente dalla carriera professionale dopo il matrimonio con Raffaele Minardi (1842), Amalia continua ad esibirsi per beneficenza
a Bologna, sua città di residenza, destando ancora l’entusiasmo del pubblico,
come attesta una cronaca relativa ad una recita effettuata con gli accademici
Concordi i primi di ottobre del 1843: «L’entusiasmo che fece la Bettini in quella sera non è descrivibile; basti dire che il teatro sembrava un giardino di primavera; corone, fiori volavano da tutte le parti: e viva e chiamate alla grande
artista e a i suoi bravi compagni, che tutti, facendole bella corona, corrisposero egregiamente coi loro rispettivi talenti, in modo che col recare un sollievo
all’indigenza, veniva il Pubblico deliziato di una serata, che resterà mai sempre
scolpita nei cuori come memoria della patria carità Bolognese».21
19. Ivi, pp. 28-29.
20. Ivi, p. 46.
21. G. Fiori, Teatri, «Teatri, arti e letteratura», xxi, 7 dicembre 1843, 1035, p. 112.
234
AMALIA BETTINI
Scritti/Opere
Nel 1835 esce a Milano, presso lo stampatore Visai, l’edizione di una traduzione
di Amalia Bettini del Quacquero e la ballerina, commedia in due atti di Eugène Scribe.
Fonti, recensioni e studi critici
Manoscritti:
Richiesta e comunicazioni relative alla scrittura della compagnia drammatica Lucrezia Bettini, 1 agosto 1829, Archivio storico del teatro Regio di Parma, Serie carteggi, 1829,
fasc. iv, Rappresentazioni, c. n.n.
Richiesta e comunicazioni relative alla scrittura della compagnia drammatica Lucrezia Bettini, giugno 1830, Archivio storico del teatro Regio di Parma, Serie carteggi, 1830,
fasc. iv, Rappresentazioni, c. n.n.
A stampa:
[Senza autore], Cenni teatrali, «Il Corriere delle Dame», 19 gennaio 1828, 3, p. 18.
[Senza autore], Notizie epilogate, «Teatri, arti e letteratura», v, 31 gennaio 1828,
195, pp. 187-188.
[Senza autore], Teatri comici, «Teatri, arti e letteratura», vi, 27 marzo 1828, 203,
pp. 34-35.
[Senza autore], Destinazione delle compagnie comiche nei diversi teatri d’Italia pel carnevale del 1830 al 31, «Teatri, arti e letteratura», viii, 2 dicembre 1830, 350, p. 108.
E. Scribe, Il quacquero e la ballerina, trad. di A. Bettini, Milano, Visai, 1835.
Z.Z., Lettera del Signor Z.Z. ai compilatori della Rivista, «Rivista teatrale. Giornale
drammatico, musicale e coreografico», vol. ii, 2 novembre 1835, 11, pp. 4-6.
A. Frémy, Artistes étrangers. Amalia Bettini, «Revue de Paris», n.s., to. xxxv, 1836,
pp. 204-211.
[Senza autore], Biografia teatrale. Amalia Bettini, «Teatri, arti e letteratura», xiv, 19
gennaio 1837, 675, pp. 153-154.
[Senza autore], Tributo di ammirazione e di affetto del pubblico cesenate alla signora Amalia Bettini che l’agosto MDCCCXXXIX agiva rappresentazioni sceniche nel teatro comunale
di Cesena, Cesena, Tip. Costantino Bisazia, 1839.
[F. Regli], Gazzetta teatrale-teatro Valle, «Il pirata», v, 28 febbraio 1840, 70, p. 288.
F. Regli, Gazzetta teatrale-teatro Re, «Il pirata», v, 13 marzo 1840, 74, p. 303.
A., Teatri, «Il felsineo», i, 24 agosto 1840, 13, p. 108.
G. Briano, ‘Iginia d’Asti’, tragedia di Silvio Pellico, «Eridano», i, 15 giugno 1841,
10, pp. 394-397.
E. Soffietti, Dramaturgia: ragionamento critico, semi-serio e semi-allegorico a proposito della compagnia Reale, del suo repertorio e del presunto suo decadimento, Torino, Ferrero, 1841.
235
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[Senza autore], Amalia Bettini, «Teatri, arti e letteratura», xx, 17 marzo 1842, 943,
pp. 19-20.
[Senza autore], Omaggio poetico offerto alla signora Amalia Bettini esimia attrice nella
Reale drammatica compagnia piemontese la sera del 8 febbraio 1842 in che prendeva commiato
dai torinesi, Torino, Castellazzo, [1842].
G. Fiori, Teatri, «Teatri, arti e letteratura», xxi, 7 dicembre 1843, 1035, pp. 109-112.
[Senza autore], O Amalia Bettini-Minardi o prima gloria della drammatica italiana queste poche pagine che i filodrammatici di Bologna […] ti offrono facendoti augurio di lunghi anni
[…], Bologna, Volpe, [1843].
[Senza autore], Nota delle offerte fatte al municipio di Bologna dal dì 12 aprile al 30 giugno 1848, Bologna, Sassi, 1848.
F. Regli, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc.
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Repertorio
1827
Federico II re di Prussia in Slesia di autore non precisato
Gli eredi di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue
I contrapposti di Benoît Pelletier de Volmeranges
I due sergenti di Théodore Baudouin D’Aubigny e Auguste Maillard
Il delirante per la speranza di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue
Il ministro d’onore di August Wilhelm Iffland
Il portafoglio di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue
237
DANIELA SARÀ
Il solitario e l’incognito di autore non precisato
L’astrologo per ghiottoneria di Giovanni Regli
L’autorità paterna di August Wilhelm Iffland
La bottega del caffè di Carlo Goldoni
La scuola dei vecchi di Casimir-Jean-François Delavigne
Le avventure della villeggiatura di Carlo Goldoni
Le smanie per la villeggiatura di Carlo Goldoni
Pamela maritata di Carlo Goldoni
Pamela nubile di Carlo Goldoni
Saul Warington di Camillo Federici [pseudonimo di Giovan Battista Viassolo]
Una lettera da Cadice di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue
1833
I pericoli della lontananza di Augustin Eugène Scribe
1835
Agnese di autore non precisato
È pazza di Mélesville [pseudonimo di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier]
Estella, ovvero Il padre e la figlia di Augustin Eugène Scribe
Gl’innamorati di Carlo Goldoni
I tristi effetti di un tardo ravvedimento di Jean-François-Alfred Bayard
Il casino di campagna di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue
La fedeltà alla prova di August Heinrich Julius Lafontaine
La lettrice di Jean-François-Alfred Bayard
Malvina overo Il matrimonio d’inclinazione di Augustin Eugène Scribe
Sedici anni or sono di Victor-Henri-Joseph-Brahain Ducange
1840
Alexina ossia Costanza rara di Alberto Nota
Beatrice di Tenda di Felice Turotti
I pazzi per progetto di Giovan Carlo Cosenza
Un duello ai tempi di Richelieu di Edmond Badon e Lockroy [pseudonimo di JosephPhilippe Simon]
Un vagabondo e la sua famiglia di Francesco Augusto Bon
Ventinove anni di Louis-Armand-Théodore e Louis-Charles-Achille D’Artois de
Bournonville
1841
Alexina ossia Costanza rara di Alberto Nota
Francesca da Rimini di Silvio Pellico
Gismonda da Mendrisio di Silvio Pellico
Iginia di Asti di Silvio Pellico
Il viaggio di una donna di spirito di Giacomo Bonfio
238
AMALIA BETTINI
La donna irrequieta di Alberto Nota
La famiglia di Riquebourg di Augustin Eugène Scribe
Lazzaro il mandriano di Joseph Bouchardy
Malvina overo Il matrimonio d’inclinazione di Augustin Eugène Scribe
Maria Stuarda di Friedrich Schiller
Medea di Cesare della Valle
Oreste di Vittorio Alfieri
Ottavia di Vittorio Alfieri
Pia de’ Tolomei di Carlo Marenco
Un vagabondo e la sua famiglia di Francesco Augusto Bon
239
Emanuela Agostini
ANTONIETTA ROBOTTI
(Como, novembre 1817-Bologna, 29 agosto 1864)
Sintesi Tra le maggiori prime attrici del XIX secolo, recita per un biennio nella
compagnia Ducale di Parma (1839-1842) e per un intero decennio (1842-1853)
nella Reale Sarda. Dal 1853, con il marito Luigi, fonda e dirige formazioni
proprie. Biografia
Antonietta Rocchi nasce a Como da Giuseppe e Giuseppina Cesartelli nel
1817. Questa data, riportata da Luigi Rasi, contrasta con quella indicata nelle memorie di Antonio Colomberti (1812), ma è invece confermata dal permesso di sepoltura dell’attrice1 in cui si legge che al momento del decesso, nel
1864, aveva quarantasette anni. I coniugi Rocchi sono definiti da Colomberti
«poverissimi»; analoga considerazione è formulata anche da Baldassarre Lambertenghi nel suo articolo su Antonietta Robotti apparso in «Strenna teatrale
europea»:2 forse proprio a causa delle loro difficoltà economiche affidano la figlia Antonietta, «quasi ancor bambina»,3 alle cure di una famiglia di comici, i
Torondelli,4 che la avviano alla professione teatrale.
È nella loro compagnia che Antonietta svolge il suo apprendistato, confrontandosi presumibilmente con un repertorio che alterna rappresentazioni
1. Archivio storico comunale di Bologna, Comune, Permesso di seppellimento, lettera S,
n. 512, 1864.
2. vii, 1844, p. 63.
3. Ivi, p. 64.
4. Torandelli secondo l’Enciclopedia dello spettacolo, Tarandelli secondo quanto riportato da
G. Cauda, A velario aperto e chiuso. Figure, tipi, impressioni, confronti, aneddoti, indiscretezze, liete
promesse, Chieri, Astesano, 1920, p. 36.
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 241-262
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18375
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
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EMANUELA AGOSTINI
drammatiche, farse in musica e balletti giocosi. Grazie al suo talento si mette
ben presto in luce e, identificata dal pubblico come ‘la Giovane Torondelli’,
è considerata uno degli elementi più validi della compagnia. Tra i suoi primi successi i repertori ricordano le farse Il pitocchetto e Giovannina dai bei cavalli (ovvero L’eredità o Giovannina dai bei cavalli e dalla bella carrozza di August
von Kotzebue).
A imprimere una svolta alla sua vita e alla sua carriera giunge nel 1836 il
matrimonio con l’attore Luigi Robotti con cui ottiene una scrittura, nel ruolo di prima attrice giovane, nella prestigiosa compagnia Reale Sarda. La critica saluta con entusiasmo il suo debutto augurandole di emulare l’esempio
della principale attrazione della troupe, Carlotta Marchionni: «Di una novella
attrice fece intanto acquisto la compagnia Reale. Essa è la signora Antonietta Robotti, che si produsse la prima volta, con fortunatissimo successo, nella
commedia di Ancelot intitolata: Un anno. Io offro ben volentieri un tributo
di lode a questa giovane attrice che per molti riguardi fa ben presagire di se
[sic!]; e quando il suo metodo sarà del tutto conforme a quello dei suoi compagni, e quando, alla scuola della Marchionni, avrà imparato che tanto l’arte
è più perfetta quanto più s’accosta alla natura, avrà sempre maggior diritto di
suffragio dalla platea».5
Nei mesi successivi l’attrice non delude le aspettative del pubblico. Nello
stesso anno comico si segnala in particolare nella Pia de’ Tolomei di Carlo Marenco in cui recita nella «parte della contadina della Maremma» suscitando «al
quint’atto […] applausi e ammirazione».6 L’attrice viene pertanto confermata
prima attrice giovane al fianco di Carlotta Marchionni anche per la stagione successiva, mentre per il 1838-1839 potrebbe essere stata addirittura promossa al ruolo di prima attrice a vicenda con la Marchionni, come si deduce
dall’elenco della compagnia risalente al novembre 1838 del diario del teatro
Ducale di Parma.7
Al termine di questa seconda stagione la militanza nella Reale Sarda si
conclude. Secondo quanto riportato da Costetti la fuoriuscita della Robotti e
del marito dalle fila della compagnia sarebbe dovuta alle incomprensioni nate
tra l’attrice e Adelaide Ristori che, scritturata nel 1837-1838 come amorosa
ingenua, aveva finito per erodere il repertorio della prima attrice giovane:
5. L’articolo a firma di Angelo Brofferio, apparso su «Il messaggiere» del 9 aprile 1836, è ora
in Cauda, A velario aperto e chiuso, cit., p. 39.
6. G. Costetti, La compagnia Reale Sarda e il teatro italiano dal 1821 al 1855, Milano,
Kantorowicz, 1893, p. 111.
7. Cfr. l’elenco della compagnia del novembre 1838, in A. Stocchi, Diario del teatro Ducale
di Parma dal 1829 a tutto il 1840 compilato dal portiere al palco scenico Alessandro Stocchi, Parma, Rossi
Ubaldi, 1841.
242
ANTONIETTA ROBOTTI
«La Robotti e la Ristori non potevano a lungo, giovani, belle, e valorose,
rimanere insieme nello stesso ruolo. La Ristori vinse, e la Robotti uscì col
marito il quale fu surrogato, nelle parti amorose di seconda fila, da Giampaolo Calloud».8 La interpretazione del Costetti, fondata sulla documentata
certezza della rivalità tra le due attrici, rilegge anacronisticamente gli episodi in questione alla luce di un primato ristoriano che si sarebbe manifestato solo in seguito. L’uscita della Robotti dalla compagnia potrebbe essere
infatti più esattamente spiegata dalla prospettiva di divenire prima attrice di
un’altra importante formazione, la Ducale di Parma al servizio dell’arciduchessa di Modena Maria Luisa e diretta da Romualdo Mascherpa. Ulteriore indizio a conferma di questa interpretazione dei fatti è la permanenza di
Adelaide Ristori nella Reale Sarda in un ruolo subordinato a quello di prima attrice anche quando, dopo il ritiro della Marchionni nel 1840, le viene
preferita Amalia Bettini.
Grazie al passaggio alla Ducale di Parma, nel 1839 Antonietta Rocchi
Robotti raggiunge l’apice della gerarchia dei ruoli femminili. Reciterà nella troupe guidata da Mascherpa fino al 1842 confermando le sue ottime qualità:
«La signora Antonietta Robotti, prima attrice, ed il signor Giacomo Landozzi
da Siena, primo attore, sono meritatamente acclamati eccellenti nell’arte che
professano con tanto amore; imperciocché ogni parte, sia di passione, di gelosia, o di furore viene da essi sostenuta con somma verità e bravura».9 Anche Antonio Colomberti, primo attore della Ducale dal 1840, esterna la sua
approvazione verso il capocomico Mascherpa per la fiducia riposta nella Robotti: «non poteva far scelta migliore dell’Antonietta Robotti, allora nel fiore
dell’età, bella e di merito assai distinto».10
La stessa fonte riferisce invece che Luigi Robotti, che aveva seguito la moglie scritturato come primo amoroso, nonostante l’intelligenza, per il suo non
gradevole aspetto è costretto a ripiegare verso parti da generico: la ricchezza
dei coniugi Robotti è tutta nel talento di Antonietta che il marito si prende
cura di amministrare. Il 4 luglio 1840, ad esempio, mentre è a Verona, Luigi
Robotti scrive soddisfatto a Gaetano Bazzi direttore della Reale Sarda: «Mascherpa fa bene i suoi interessi in Verona come in Vicenza; la Compagnia garba assai e l’Antonietta ogni giorno più viene ammirata da questo pubblico».11
8. Ivi, p. 119.
9. G. Romani, Cronaca teatrale-Lucca, «Glissons, n’appuyons pas», vi, 15 maggio 1839, 39,
pp. 155-156, che riporta una lettera del 5 maggio.
10. A. Colomberti, Memorie di un artista drammatico, testo, introd., cronologia e note a cura
di A. Bentoglio, Roma, Bulzoni, 2004, p. 521.
11. Il brano della lettera, conservata presso la Biblioteca del Burcardo di Roma, si legge
ora ivi, p. 523 n.
243
EMANUELA AGOSTINI
Proprio Gaetano Bazzi, nel 1842, richiama i coniugi Robotti nella compagnia Reale Sarda, dove Antonietta sostituisce Amalia Bettini. Quest’ultima,
convolata a nozze, abbandona infatti la professione. Primo attore del gruppo
è ancora Giovanni Battista Gottardi, mentre tra gli elementi femminili ‘storici’ la Reale Sarda continua ad annoverare la servetta Rosina Romagnoli da
molti considerata «l’unica celebrità rimasta a questa drammatica truppa».12 A
questa altezza cronologica Antonietta Robotti non è dunque considerata una
‘celebrità’, ma è senza dubbio una prima attrice nel pieno delle sue forze che
sa raccogliere consensi ovunque la compagnia si presenti. Tra gli aneddoti tramandati dalle fonti favorevoli all’attrice per testimoniare il suo carisma
emerge quello relativo all’invaghimento da lei suscitato in Giuseppe Peracchi
durante il passaggio della Reale Sarda da Parma intorno al 1843. L’ingresso
in Arte di Peracchi, al tempo giovane laureato in medicina e attore dilettante
in una filodrammatica, viene infatti attribuito al fascino della prima attrice,
per la quale avrebbe abbandonato una più certa carriera proponendosi come
amoroso senza paga. Nel 1849, alla morte del primo attore Gottardi, sarebbe
stato proprio Peracchi a sostituirlo divenendo uno dei partner di scena prediletti dalla Robotti.
Più chiara prova dell’apprezzamento di Antonietta Robotti nella Reale Sarda
è la durata della sua militanza nella compagnia. L’attrice, confermata nel ruolo
primario anche quando nel 1843 Domenico Righetti si avvicenda a Gaetano
Bazzi, mantiene questa posizione per un intero decennio, fino al 1853, anno
in cui sarebbe stata infine scalzata da Adelaide Ristori.
Tra i numerosi spettacoli allestiti dalla Robotti durante il lungo periodo
di attività con la Reale Sarda svetta, per rinomanza dell’autore molto più che
per l’efficacia scenica del testo, la prima rappresentazione dell’Adelchi di Alessandro Manzoni nel 1843. In questa occasione la Robotti esprime «i dolori
di Ermengarda col più profondo sentimento di una pia che muore e perdona», ma la sua interpretazione non riesce comunque a salvare una scena che,
per «quante bellezze di stile [vi] si trovino», è considerata «talmente disgiunta
dal dramma» da compromettere irrimediabilmente «l’unità di azione», e provoca pertanto il malcontento della platea: «ad onta di quanto fece la Robotti, a cui non mancò qualche applauso, questa scena irritò tanto il pubblico».13
A causa dell’esito infausto della rappresentazione la tragedia manzoniana non
rimane nel repertorio né della Reale Sarda né dell’attrice. Una vasta eco ha
12. Teatro Re, «Strenna teatrale europea», vi, 1843, p. 191.
13. A. Brofferio, ‘Adelchi’, tragedia di A. Manzoni, «Il messaggiere torinese», 20 maggio
1843, ora in A. Manzoni, Le tragedie, a cura di G. Tellini, Roma, Salerno editrice, 1996, pp.
1015 e 1017.
244
ANTONIETTA ROBOTTI
invece, nel 1846, il Fornaretto di Francesco Dell’Ongaro. Il testo, che pone al
centro della vicenda il tema della pena di morte, è portato al successo dagli
attori della compagnia Reale Sarda, tra cui, nella parte di Clemenza, un’efficace Antonietta Robotti.
Sul fronte interno della compagnia l’affermazione della Robotti ha come contropartita la progressiva emarginazione della più anziana collega Rosa
Romagnoli, servetta che, come già ricordato, al momento dell’ingresso della
Robotti nella formazione ne era tra i principali elementi di pregio. Il declino
della servetta, certo dovuto a ovvie considerazioni anagrafiche, è probabilmente alimentato dalla concorrenza della prima attrice. Si veda ad esempio la
tensione scaturita attorno alla commedia tradotta dal francese La contessa della
botte: «La parte di protagonista di questo lavoro era sempre stata eseguita con
molto successo dalla signora Rosa Romagnoli, servetta, alla quale spettava per
diritto. Un bel giorno la Robotti, per la quale gli applausi tributati alla Romagnoli erano altrettante pugnalate, insorse e pretese che quella parte spettava a
lei e per conseguenza intendeva assumerla. Righetti non seppe fare di meglio,
che rivolgersi alla Direzione e chiederle la facoltà di togliere dal repertorio la
produzione».14 Quando la direzione della compagnia, con il parere di Massimo
d’Azeglio, assegna la parte alla Romagnoli, la commedia è di fatto espunta dal
repertorio della troupe. «La Romagnoli poi finì per essere lasciata del tutto in
disparte e a non fare più che rade apparizioni sulla scena».15
Anno dopo anno, Antonietta Robotti diviene una delle beniamine del
pubblico. Trentenne è ormai indicata quale modello alle più giovani artiste:
«La Sado[w]ski deve tendere alla celebrità della Ristori, della Robotti, della [Carolina] Santoni, e mercè dello studio innalzarsi a pareggio della triade
invitta».16 Il primato della Robotti sulla scena italiana, già condiviso con altre
interpreti, è però destinato a bruciarsi nel giro di pochi anni, anche in relazione alla prepotente ascesa delle attrici della generazione successiva, tra cui la
stessa Fanny Sadowsky e soprattutto Adelaide Ristori.
Il primo segno della supremazia di quest’ultima è il suo avvicendamento
alla Robotti nel ruolo di prima donna della Reale Sarda nel 1853, avvenuto,
tra l’altro, con un contratto a lei estremamente favorevole. Secondo quanto
raccontato da Ernesto Rossi nella sua autobiografia, Francesco Righetti, direttore della compagnia, era stato costretto a prendere questa decisione perché Antonietta Robotti non era più adatta alle parti giovanili e si era rifiutata
14. S. Cordero di Pamparato, Teatri e censura in Piemonte nel Risorgimento italiano (18491861), «Il Risorgimento italiano», vol. xiv, gennaio-giugno 1941, 26-27, p. 137.
15. Ivi, p. 138.
16. Relazione sulla compagnia Lombarda all’Apollo di Venezia nella primavera 1846, «Il caffè
Pedrocchi», i, 21 giugno 1846, p. 200.
245
EMANUELA AGOSTINI
di farsi affiancare da un’altra interprete: «Nell’anno 52 la Robotti non era più
giovane, e già si tentava dal direttore della compagnia di metterle al fianco
un’altra prima attrice, desiderando, che ella passasse a fare le parti di donna
matura, lasciando ad un’altra più giovane di lei quelle di amorosa giovane».17
Stando sempre al racconto di Rossi (forse incline a enfatizzare il buon carattere
della Robotti anche per contrapporlo a quello di Adelaide Ristori) nella decisione ultima avrebbe avuto un non piccolo ruolo l’opinione di Luigi Robotti: «La Robotti, poco superba, e forse conscia dello stato suo, stava per cedere:
ma sorse il marito, attore nullo, uomo alquanto istruito, ma cocciuto quanto
orgoglioso, rispose di no: non valsero istanze, ragioni e preghiere d’amici: il
suo no fu più ostinato di quello d’un mulo».18
Ancora alla penna di Ernesto Rossi si deve la descrizione della recita con
cui, al teatro Carignano di Torino, Antonietta Robotti, insieme a Cesare
Dondini, a Giuseppe Peracchi e ai rispettivi nuclei familiari, si congeda dalla
compagnia di cui aveva fatto parte tanto a lungo: «Fu una scena commuoventissima! pareva un distacco di amico da amico, un abbandono di padre dal figlio, di fratello dal fratello. Non è una esagerazione, se io ti dico, che le lagrime
scorrevano in copia, non solo dagli occhi delle belle signore e signorine, ma
anche da quelli meno sensibili degli uomini e dei giovinotti. […] l’addio alla
Robotti fu commuovente: commovente fu quello pure al Dondini: dignitoso
e cortese al Peracchi. Se comuovente e sensibile fu per il pubblico, non meno
sentito lo ebbero dalla compagnia. Non erano soltanto artisti che si allontanavano: ma amici e fratelli, i quali avevano vissuto insieme tanti anni, diviso
glorie e onori, vittorie e disfatte, piaceri, gioie e disgusti: infine erano due famiglie che si distaccavano; e in mezzo agli abbracci, ai baci, alle lagrime, agli
auguri di prosperità, ogni tanto usciva la parola proprio ad hoc e ad hominem:
asinaccio! cocciuto! presuntuoso! ignorante! – la quale andava diritto diritto
a qualificare il marito della signora Robotti. I mariti delle prime donne non
sono niente migliori dei padri e delle madri. La loro legittimità, più o meno legittima, è adoperata sempre nel senso di un esagerato e falso amor proprio».19
La fermezza di Luigi Robotti si nutre della speranza di ricavare un maggiore introito da una compagnia propria costruita su base familiare: una volta
archiviata l’esperienza della Reale Sarda Robotti si associa infatti al genero Gaetano Vestri, marito della figlia Luigia dal 1851.20 Pare dunque inesat17. E. Rossi, Quarant’anni di vita artistica, con proemio di A. De Gubernatis, Firenze,
Niccolai, 1887-1889, vol. i, p. 66.
18. Ivi, p. 67.
19. Ivi, pp. 77-78.
20. Cfr. T. Assennato, Vestri, Luigi, in amati.fupress.net/S100?idattore=605 (data di pubblicazione su web: 12 gennaio 2009).
246
ANTONIETTA ROBOTTI
to quanto riportato da Colomberti secondo il quale Robotti avrebbe fondato
una compagnia propria, per poi associarsi con Vestri dal 1854. Antonietta è il
«principale ornamento» della formazione,21 Luigia recita come prima attrice
giovane, ma è proprio Gaetano Vestri, figlio del celebre Luigi, che negli anni
di collaborazione con i Robotti raggiunge i massimi livelli della sua carriera.
Allo stato attuale le informazioni sull’attività della Robotti-Vestri sono
troppo esigue per poterne tracciare un bilancio complessivo. Meritevole di
un approfondimento sarebbe anche il contributo della Robotti alla direzione
del complesso. Dagli scambi epistolari con i drammaturghi (ad esempio Giovan Battista Niccolini) si presume che sul versante della produzione artistica la Robotti avesse una funzione primaria. Alcune fonti secondarie (come
i profili biografici di Nardo Leonelli e Luigi Possenti) ricordano inoltre che
Antonietta Robotti «ebbe sviluppato lo spirito affaristico che ne fece un’ottima capocomica».22
Al 1856 risale una serie di episodi che mette nuovamente faccia a faccia
Antonietta Robotti e Adelaide Ristori. Alla fine di maggio, infatti, la Robotti allestisce per prima a Torino la Medea di Ernest Legouvé pur sapendo che
Adelaide Ristori ne aveva acquistato i diritti di rappresentazione. Lo spettacolo
raccoglie applausi, sebbene Cesare Ricci, in una lettera del 25 maggio indirizzata a Giuliano Capranica, giudichi la Robotti incapace di «portarsi all’altezza
di quelle terribili passioni» e definisca i suoi compagni di scena dei «cani».23
Il contenzioso finisce in tribunale, sede nella quale i Robotti sono difesi dal
figlio di Angelo Brofferio, e si conclude con la loro condanna al pagamento
di un’indennità. Le prospettive di guadagno dagli incassi degli spettacoli non
li fanno però desistere da continuare a mettere in scena il testo. Anche una
successiva rappresentazione a Bologna si conclude con una citazione a comparire in giudizio, ma stavolta il verdetto è sfavorevole ad Adelaide Ristori.
Piazza teatrale dopo piazza teatrale la ‘tattica’ adottata dalla Robotti finisce
per costringere la Ristori ad astenersi dal riproporre Medea in diverse città. A
Verona, ad esempio, la Ristori non rappresenta questo testo. In una lettera al
traduttore Giuseppe Montanelli, motiva la sua scelta spiegando che le era stato sconsigliato di farlo «per la pessima impressione che quella rapacissima Robotti vi aveva prodotto».24
21. F. Regli, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici,
maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in
Italia dal 1800 al 1860, Torino, Dalmazzo, 1860, p. 451.
22. N. Leonelli, Attori tragici, attori comici, Roma, Tosi, 1940-1944, vol. ii, p. 282.
23. Cfr. T. Viziano, Il palcoscenico di Adelaide Ristori. Repertorio, scenario e costumi di una
compagnia drammatica dell’Ottocento, presentazione di A. d’Amico, Roma, Bulzoni, 2000, p. 143.
24. Ibid.: Adelaide Ristori a Giuseppe Montanelli, Verona, 24 settembre 1858.
247
EMANUELA AGOSTINI
Secondo i principali repertori, in conseguenza dell’uscita dalla compagnia
di Gaetano Vestri e sua moglie Luigia, nel 1859 la Robotti «riformò […] la
propria compagnia»25 fondando la compagnia Nazionale Subalpina. Uno spoglio analitico delle fonti documentarie (tutt’ora in corso) porta a pensare che
il titolo di compagnia Nazionale Subalbina fosse già attribuito alla troupe dei
Robotti almeno fin dal 1857. Il 1859 è in ogni caso un anno decisivo perché
l’allontanamento di Gaetano Vestri impone ai Robotti un notevole sforzo di
riorganizzazione del loro ensemble. L’esito di questa operazione è infausto. Secondo Ernesto Rossi concorrono a determinarlo le responsabilità del capocomico: «cattiva direzione, cattiva amministrazione mandarono tutto a rotoli».26
Ma a questa altezza cronologica è la stessa stella di Antonietta Robotti ad essere ormai in definitivo declino, anche a causa di gravi problemi di salute.
Nel 1862 un attacco di artrite costringe l’attrice a letto per tre mesi come si evince da una lettera del marito inviata da Ferrara, in aprile, all’amico
Francesco Righetti: «Antonietta è sempre stata in condizione da non poterle
parlare d’affari; oggi […] grazie a Dio, dopo 107 giorni d’infermità va meglio».27
L’attrice non si riprenderà mai del tutto e due anni dopo, nel 1864, muore a
Bologna. Ernesto Rossi ricorda così il suo decesso: «la povera Robotti finì la
sua esistenza in Bologna nella miseria e nel dolore per l’abbandono di tutti coloro che un dì la salutarono e la corteggiarono quale principessa della scena».28
Viene sepolta nel cimitero della Certosa di Bologna dove il marito avrebbe
poi fatto affiggere una lapide in sua memoria (poi trascritta da Rasi): «Antonietta
Rocchi, moglie a L. Robotti / salutata nell’arte di Roscio maestra / non superba
/ nei trionfi, / nelle dovizie nei plausi / non pavida / in casi avversi e malattie
dolorose / pronta / a soccorrere i miseri, a giovare i congiunti / in Dio fidata
/ lo invocando spirò – La sola amicizia fedele / in vita ed in morte / murò il
sepolcro a custodire le ceneri / di / Antonietta / ed il suo nome il marmo incideva. – N. in Como A. MDCCC XVII M. in Bologna A. MDCCC LXIV». Famiglia
Le informazioni sulla famiglia d’origine di Antonietta Robotti sono esigue:
così come si evince dal permesso di sepoltura29 l’attrice nacque nel 1817 a Co25. Leonelli, Attori tragici, attori comici, cit., vol. ii, p. 281.
26. Rossi, Quarant’anni di vita artistica, cit., vol. i, p. 67.
27. In L. Rasi, I Comici italiani. Biografia, Bibliografia, Iconografia, Firenze, Bocca-Lumachi,
1897-1905, vol. ii, p. 385.
28. Rossi, Quarant’anni di vita artistica, cit., vol. i, p. 67.
29. Rivedi n. 1.
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ANTONIETTA ROBOTTI
mo da Giuseppe Rocchi e Giuseppina Cesartelli che Baldassarre Lambertenghi
definisce «onesti e civili parenti, ma non favoriti dal sorriso della fortuna».30
Ugualmente misteriosa è, ad oggi, l’identità dei comici Torandelli31 a cui
Antonietta viene affidata «quasi ancor bambina»32 e che per primi la avviano
alla professione teatrale. Non è chiarita neanche l’eventuale relazione tra questi
comici, l’attore Giuseppe Torandelli (o Torondelli) scritturato nella compagnia
Battaglia per il 1788-1789 e come generico nella compagnia Moncalvo nell’autunno 1823 e Luigia Torandelli, prima attrice nel 1820-1821 e madre nobile
nel 1821-1823 nella formazione diretta da Giuseppe Moncalvo.
Figura decisiva tanto per la vita quanto per il percorso professionale di Antonietta Robotti è il marito Luigi che nel 1836, quando la coppia è scritturata
nella compagnia Reale Sarda, ha già alle spalle alcuni anni di attività professionale, avendo militato nel 1829-1830 nella compagnia di Lucrezia Bettini,
nel dicembre 1831 nella compagnia di Ciarli-Fiaschetti, e dal 1832 proprio
nella compagnia di Moncalvo in cui erano presenti anche alcuni membri della famiglia Torandelli.
La coppia ha almeno due figli: Luigia e Federico. La prima è destinata dai
genitori al teatro: recita infatti al loro fianco con continuità fin dalla più tenera età interpretando inizialmente parti ingenue, per poi passare al ruolo di
amorosa e quindi a quello di prima attrice giovane. Sposata intorno al 1851
con l’attore Gaetano Vestri (1825-1862), primogenito del celeberrimo Luigi
(1781-1841), Luigia Robotti è a sua volta madre di Laura, ottima madre e caratteristica del secondo Ottocento, morta nel 1905.
Più incerte le notizie riguardanti Federico Robotti: nel 1841-1842 è scritturato nella Ducale di Parma per le parti ingenue (come la sorella) e nel 18421843 come generico nella Reale Sarda. Per quanto la ricerca documentaria sia
ancora lacunosa, l’assenza del suo nominativo negli elenchi delle compagnie
in cui i suoi familiari sono scritturati successivamente potrebbe essere il segno di una sua diversa destinazione. Il legame con l’attività familiare è però
saltuariamente testimoniato anche in seguito: nel 1854 Federico è autore di
una pièce messa in scena dalla compagnia Robotti-Vestri. Le speranze per il
suo avvenire si infrangono però tragicamente a causa della morte che lo coglie
prematuramente proprio intorno a quell’anno.
Una nipote di Antonietta Robotti, Giuseppina Rocchi, sposa nel 1856 Cesare Rossi (1829-1898), notevole caratterista, promiscuo e capocomico.
30. Lambertenghi, Antonietta Robotti, cit., p. 63.
31. O Torondelli, o ancora Tarandelli secondo quanto riportato da Cauda, A velario aperto
e chiuso, cit., p. 36.
32. Lambertenghi, Antonietta Robotti, cit., p. 64.
249
EMANUELA AGOSTINI
Formazione
Secondo i repertori Antonietta Robotti sarebbe entrata in Arte grazie ai
comici Torondelli a cui viene affidata da ragazzina. Il suo apprendistato si sarebbe dunque consumato sul campo, all’interno di una compagnia di infimo
ordine contraddistinta da un repertorio composito (rappresentazioni drammatiche, farse in musica e balletti giocosi). I suoi primi successi sarebbero stati le
farse Il pitocchetto e Giovannina dai bei cavalli (ovvero L’eredità o Giovannina dai
bei cavalli e dalla bella carrozza di August von Kotzebue).
Una funzione formativa ha anche la sua prima permanenza nella compagnia Reale Sarda. Per un intero triennio comico (1836-1839) Antonietta
Robotti lavora infatti al fianco della celebrata prima attrice Carlotta Marchionni di cui ha modo di studiare metodi e tecniche. Le ricadute di questa
esperienza sulla qualità della sua recitazione richiedono però ancora una sistematica valutazione. Interpretazione/Stile
Antonietta Robotti, oggi pressoché sconosciuta, intorno agli anni Quaranta
dell’Ottocento era una delle beniamine del pubblico teatrale italiano. Restituisce la misura del consenso da lei ricevuto la sua permanenza nel massimo
ruolo femminile in compagnie di eccezionale prestigio come la compagnia
Ducale di Parma (dal 1839 al 1842) e la Reale Sarda (dal 1842 al 1853). Le ragioni dell’attuale noncuranza verso la sua personalità, condivisa anche da una
parte dei repertori e della bibliografia dedicata alle attrici ottocentesche, sta
nella collocazione della sua esperienza artistica in una posizione mediana tra
l’astro di Carlotta Marchionni, ritiratasi dalle scene nel 1840, e l’incontenibile
ascesa di Adelaide Ristori alla metà del secolo. Schiacciata tra questi due modelli attorici Antonietta Robotti non riesce a consolidare nel tempo la preminenza sulla scena teatrale guadagnata al momento del ritiro della Marchionni
e, pur inizialmente contrastando una Ristori ancora emergente, è presto destinata a essere superata.
Le fonti di più immediato reperimento, i repertori e l’esigua bibliografia
inerente la Robotti non sono molto generosi nel descrivere le qualità su cui
si fondava il suo fascino, mentre sono inclini a soffermarsi sulla parabola discendente della sua carriera artistica. La causa della sua decadenza è identificata nel prematuro invecchiamento che avrebbe presto reso preferibile per
lei la scelta di parti di donne mature: «Come d’altra parte non avvertire la
signora Robotti che ormai la scuola nella quale essa è stata uno dei luminari è decaduta: come non avvertirla, brutta verità per tutti e specialmente per
250
ANTONIETTA ROBOTTI
una donna, che vi sono delle parti che non possono sostenersi che nel fiore
della gioventù?».33
L’inadeguatezza della Robotti non era solo fisica: ad essere datata era soprattutto la qualità della sua recitazione. Molto interessante è, a questo proposito,
la testimonianza di Ernesto Rossi che con lei aveva recitato nella Reale Sarda. Nella sua autobiografia l’attore rileva la profondità del rapporto costruito
dall’interprete con il suo pubblico, tanto da ritenere rischiosa la sua sostituzione nella compagnia, ma non si esime dal notare che la sua recitazione non si
accordava al gusto più aggiornato: «L’osso duro, il chiodo, che bisognava cacciare dentro, era la Robotti. Troppe cose si erano unite insieme per stabilire
una corrente simpatica fra il pubblico e lei, per poterla rompere ex abrupto; la
sua bontà come donna, la sua condiscendenza, la sua onestà, e sia pur detto ad
onore del vero, la sua non comune abilità artistica. Il pubblico, in generale,
abituato, non vedeva più i difetti, o, se li vedeva, li copriva con tutte le altre
qualità. Però da molti era riconosciuto, che la Robotti non era più giovine,
che a lei più non si attanagliavano le parti giovanili, tenere ed amorose, che il
suo metodo era alquanto antiquato. Di questi difetti il pubblico si era accorto,
dopo aver veduto altre compagnie quali, per esempio: quella della Battaglia
diretta da F[rancesco] A[ugusto] Bon, ove le prime donne erano la Sadowsky
e l’Arrivabene, allieve entrambe di Gustavo Modena: e le compagnie francesi, che già da qualche tempo si alternavano al teatro D’Angennes. Quella del
Dubigny prima, poi quelle di Adler-Perrichon e Meynadier: nelle quali era
sempre una prima donna di qualche merito. Anche la Rachel era scesa in Italia nel 1851».34
Anche la drammaturgia più congeniale all’attrice è indicativa della distanza di Antonietta Robotti dalle attrici più giovani tra le quali svetta, oltre ad
Adelaide Ristori, Fanny Sadowsky. Mentre queste ultime si distinguono nel
dramma romantico, Antonietta Robotti continua ad eccellere in un repertorio uniformato ai canoni estetici e interpretativi della precedente generazione:
«Piacque più nel classico che nel romantico o drammatico […]. Ed era giusto:
– Pel genere classico il pubblico più non ricordava la Internari, la Pelzet, la
Pellandi, la Marchionni per il romantico e il drammatico, – vivevano però la
Ristori e la Sadowski che erano somme entrambe, la prima nella Maria Stuarda, la seconda nella Adriana».35
L’elenco dei cavalli di battaglia della Robotti è in verità eterogeneo e ben
evidenzia come Antonietta Robotti sia stata l’interprete della transizione del
33. Leopoldo Br., Teatro del Cocomero, «Lo Scaramuccia», i, 16 dicembre 1853, 14, pp. n.n.
34. Rossi, Quarant’anni di vita artistica, cit., vol. i, p. 80.
35. Ibid.
251
EMANUELA AGOSTINI
teatro dalla stagione classicista verso il romanticismo: da una parte l’attrice
eredita il repertorio di Carlotta Marchionni e lo aggiorna con titoli nuovi ma
affini per gusto, dall’altro si dirige verso novità che condivide con la Ristori e
la Sadowsky. Fanno così parte del suo repertorio le tragedie Maria Stuarda di
Friedrich Schiller, Francesca da Rimini di Silvio Pellico, Pia de’ Tolomei di Carlo Marenco, Parisina di Antonio Somma, Mirra di Vittorio Alfieri, Antonio Foscarini di Giovanni Battista Niccolini, Giulietta e Romeo di Cesare Della Valle,
i drammi Dopo sedici anni e Il testamento di una povera donna di Victor Ducange, La madamigella di Belle-Isle di Alexandre Dumas e Cuore ed arte di Leone
Fortis, le commedie Le gelosie di Zelinda e Lindoro, Gl’innamorati e La vedova
scaltra di Carlo Goldoni, La suonatrice d’arpa di David Chiossone, La calunnia di
Eugène Scribe, Un vagabondo e la sua famiglia e L’addio alle scene di Francesco
Augusto Bon, L’odio ereditario di Giovanni Carlo Cosenza, La marchesa di Senneterre di Mélesville e Charles Duveyrier e infine Goldoni e le sue sedici commedie nuove di Paolo Ferrari.
Secondo la prassi corrente per le prime attrici dell’epoca, anche Antonietta Robotti si cimenta in tutti i generi. Per Ernesto Rossi «nella commedia era
mediocre», mentre «nel dramma e nella tragedia interpretava bene, ma eseguiva
un poco esageratamente».36 Un pensiero contrastante sembra essere espresso da
almeno un’altra testimonianza risalente al 1854: «La Robotti è un nome ormai
popolare in Piemonte, è un nome ormai sinonimo di attrice eccellente. È ella
migliore della Ristori? […] Solo diremo schiettamente che nelle tragedie ameremmo meglio udir la Ristori, nelle commedie la Robotti».37 L’assegnazione di
un primato della Robotti nella commedia potrebbe però spiegarsi in questo caso
con il ricorso da parte dell’autore dell’articolo ad una formula giornalistica che
limava la disparità tra le due artiste in un momento in cui la supremazia ristoriana nel genere prediletto, quello tragico, doveva essere ormai evidente. Solo
una decina di anni prima, nel 1843, la questione era affrontata in questi termini: «a coloro che mi domandano quale è la migliore artista attuale italiana per
la commedia alla Scribe e pel dramma alla Dumas, risponderò: la Robotti e la
Ristori: l’attrice sentimento, se si può dire, l’attrice soavità. E per la commedia
alla Goldoni ed alla Bon? La Romagnoli e la Landozzi comica colta e brillante.
Che se fossi richiesto della miglior interprete della tragedia di Schiller e d’Alfieri, direi ancora la Robotti e la Santoni».38 Anche secondo questa fonte, dunque,
la Robotti avrebbe dato il meglio di sé sopratutto nel dramma e nella tragedia.
36. Ivi, p. 65.
37. E. Liveriero, Rivista teatrale, «Rivista contemporanea», ii, 1854, vol. ii, p. 642.
38. G.S.A., Dell’arte comica in Italia e di Gustavo Modena, «Rivista europea», n.s., i, secondo
trimestre 1843, pp. 111-112.
252
ANTONIETTA ROBOTTI
Per quanto riguarda la qualità della sua recitazione si può immaginare che,
così come il repertorio, si collocasse in una posizione intermedia tra la purezza della Marchionni e la ‘passionale monumentalità’ ristoriana. Questa lettura potrebbe forse spiegare la parziale contraddittorietà delle fonti in merito.
Al momento dell’esordio Carlotta Marchionni è sicuramente per Antonietta
Robotti un ideale di perfezione professionale a cui aspirare. In linea con l’archetipo dell’attrice ‘morale’ che nella Marchionni aveva trovato perfetta incarnazione, anche la Robotti rafforza il suo legame con il pubblico facendo parlare
di sé per le qualità personali, come l’umana simpatia e l’affetto rivolto verso il
marito, ancor prima che per quelle strettamente professionali. Per Ernesto Rossi
ad esempio la «signora Robotti non era una grande attrice, ma le sue belle qualità fisiche e intellettuali la rendevano simpatica a tutti i pubblici, cara ai suoi
compagni».39 Rimanda sempre alla ‘scuola’ della Marchionni l’abitudine della
Robotti di imparare le parti interamente a memoria, assistita in questo da una
memoria di ferro («il suggeritore per lei era un semplice rammentatore: e bada
bene, che il tempo concessole per lo studio di una parte nuova non era lungo,
tutto al più una settimana»).40 Potrebbe essere invece il segno di una distanza
dal modello-Marchionni, originale ma fallimentare, della Lusinghiera di Alberto Nota che era stato un cavallo di battaglia della Marchionni.41
La protagonista della commedia, Giulia, è «una donna dal comportamento disinvolto, che illude i quattro innamorati che l’hanno seguita da Perugia
a Roma, e scrive lettere di conforto a quelli lontani, arrivando a compiere alcuni gesti di civetteria giudicati troppo audaci dal pubblico di quei tempi. Il
Nota rende volutamente sgradevole il personaggio di Giulia soffermandosi
eccessivamente sulle menzogne, sui sorrisi, sugli sguardi languidi della donna
distribuiti a tutti, su atteggiamenti troppo spregiudicati, per esempio compra
trecce da donare agli spasimanti fingendo di averle fatte coi suoi capelli, riceve
i pretendenti tutti insieme e mentre fa cenno col piede a uno, stringe la mano dell’altro».42 Il finale punisce la protagonista, la cui immoralità era in parte
mitigata dallo scopo con cui giustificava la sua libertà, la scelta del marito migliore, con la condanna alla solitudine.
Carlotta Marchionni fu la sola a riuscire a imporre quella che era considerata
una parte di donna senza scrupoli probabilmente grazie a un’interpretazione
elegante e nobile che ne attenuava i tratti dissonanti in conformità all’ideale
di perfezione morale da lei personificato: «Ci voleva Carlotta Marchionni, che
39. Rossi, Quarant’anni di vita artistica, cit., vol. i, p. 65.
40. Ibid.
41. Cfr. qui pp. 210-211.
42. A. Camaldo, Alberto Nota, drammaturgo (con il testo di otto commedie inedite), Roma,
Bulzoni, 2001, p. 117.
253
EMANUELA AGOSTINI
fu salamandra di castità in mezzo al fuoco della scena, per cavarsela con onore da una parte nella quale il più degli effetti scenici è nell’artifizio della controscena muta, nelle occhiate, nei sorrisi e persino nella procace scollatura del
busto, vieppiù stimolante quanto più dissimulata sotto la trasparenza dei veli e
delle trine».43 Al contrario la Robotti, evidenziando gli aspetti ‘piccanti’ della parte, suscitò la disapprovazione degli spettatori: «che il successo di quella
commedia fosse presso che esclusivamente dovuto alla Marchionni, apparve
chiaro più tardi, quando altre valentissime attrici vi si provarono dopo di lei.
O ne accentuassero la simulazione, come Amalia Bettini, o la procacità come
la Robotti bellissima, non approdarono che ad annoiare il pubblico, come la
prima; o, come la seconda, a farlo rumoreggiare».44
Mancanza di decoro per ‘eccesso di fisicità’ pare esserle attribuita anche in occasione di uno spettacolo al teatro Gallo di Venezia nel 1840: «La signora Antonietta Robotti prima attrice avrebbe buoni elementi per la recitazione del dramma,
ove con più parsimonia e maggior dignità usasse delle movenze di sua avvenente
persona e non modulasse ad incessante cantilena una voce fresca, insinuante e
robusta».45Addirittura impeto grossolano è quello menzionato da Vittorio Bersezio (che però, nato nel 1828, non avrà forse potuto apprezzare pienamente le
prove migliori della Robotti nel fiore degli anni): «Antonietta Robotti bellissima, procace, ardente, aveva dalla caldezza della propria indole pregi e difetti, che
concorrevano in parte uguale ad acquistarle l’entusiasmo dei pubblici: trascurata, ma appassionata, un po’ volgare, ma impetuosa, con poco studio, ma con
una gran felicità di ispirazione e d’indovinamento, esagerata, ma affascinante».46
L’avvenenza della persona e la tendenza ad esagerare sono confermate da
molte testimonianze. Alla prima qualità fa riferimento Francesco Regli che
ricorda anche l’entusiasmo che la Robotti riusciva a suscitare negli spettatori:
«Bellissima nella persona, con due occhi che ti cercavano il cuore, con un’anima che vivamente sentiva, non senza intelligenza, non senza istruzione, nata e
fatta per le scene, eccitava continui clamori in tutti i teatri in cui si presentava,
ed era la delizia e la simpatia dei pubblici i più capricciosi e severi».47
Per quanto riguarda l’eccessiva enfasi, gli articoli dell’epoca la segnalano
frequentemente, ma diversamente da quanto affermato da Bersezio non sem-
43. G. Costetti, Il teatro italiano nel 1800. Indagini e ricordi, Rocca San Casciano, Cappelli,
1901, pp. 74-75.
44. Ivi, p. 75.
45. G. Podestà, Cronaca teatrale-Venezia [30 settembre 1840], «Glissons, n’appuyons pas», vii,
5 ottobre 1840, 80, p. 320.
46. V. Bersezio, Il regno di Vittorio Emanuele II. Trent’anni di vita italiana, Roma-TorinoNapoli, Roux e C., 18892, vol. i, p. 206.
47. In Cauda, A velario aperto e chiuso, cit., pp. 40-41.
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ANTONIETTA ROBOTTI
pre in associazione con l’irruenza. Al contrario la Robotti è di norma criticata
per le maniere troppo studiate: «in altri termini: […] non rado ha bisogno di
far meno. […] alla Robotti, giacché ad onta de’ suoi difetti è incontrastabilmente un distinto talento, la consiglio non contraffare le artifiziate maniere,
i trovati meccanici che una celebre donna nell’ultimo stadio della sua carriera
[Carlotta Marchionni] sostituiva al semplice e ingenuo linguaggio del vero. E
se ancor persiste nello studio della grande artista, il meglio non il peggio ne
imiti; e adoperi a rinnovare in parte su la scena la prima vita artistica di essa,
l’epoca della Mirra e della Gurlì, quando recitava per impeto d’affetto, e peccava piuttosto per troppa verità e per manco d’arte, che di soverchia maniera, di soverchia affettazione».48 Lo stesso articolo sembrerebbe indicare che, in
continuità con la compostezza dell’ultima Marchionni, la Robotti proponesse una recitazione controllata e estraniata: «La Robotti va presso ai migliori
dell’arte. La sua tristezza è mite, il suo pianto soave, e ’l sorriso raccolto. Per
essa non lampi fuggitivi d’entusiasmo, né bellezza a sbalzi: ma sì un tutto aggraziato dove la ispirazione balena e domina la ragione. Direte che la sua voce
è povera d’intonazioni, e non è abbastanza pieghevole: ma la non è accanita,
né stridente. Direte ch’essa è talvolta lenta, monotona, declamatrice, e talora
soverchiamente ansante, affannosa […]; ma non si mostra mai affatto disordinata, convulsa e quasi frenetica. […] E possiede a ritroso una decisa tendenza a
ogni maniera d’amabilità, sia poi da istinto, da proprio giudizio o da educazione; sebbene lontana di buon tratto da quella che noi chiamiam aria distinta».49
Misurata e composta, priva di slanci e di eccessi, sembra anche la sua Maria
Stuarda: «Vedetela nella Stuarda. Cosa strana ma vera! l’incompleta, la difettiva Robotti così nella Stuarda, come nella Famiglia Riquebourgh, nell’Anello della Nonna, nel Tardo Ravvedimento, nel Lione innamorato… riesce egregiamente.
Con che ha mostrato, che essa potrebbe fare assai più nell’arte sua. La Robotti
e per la persona, e per la maniera, e per l’affetto, è la Stuarda di Schiller, è la
Stuarda della storia, è la Stuarda della poesia. Grande in tutta la tragedia, meno
forse qualche momento dell’atto terzo dove trascorre un po’, nel quinto atto è,
quasi dissi, incomparabile. Là giustezza, riserbo, decoro; là correzione, misura,
finezza. Eh oh! l’ingenuo dolore, il vero abbattimento, la naturale maestà. La
Robotti nella scena in cui l’anima si ferma esitante tra i dolori patiti e le gioie promesse, tra gli affetti terreni e l’infinito amore, tra la vita e la morte, il
cielo e la terra; in quella scena meravigliosa, nella quale succede il misterioso
colloquio tra il creatore e la creatura, che la sola divina mente dello Schiller
poteva comprendere e rivelare; la Robotti, dico, s’ammanta d’una tal quiete e
48. G.S.A., Dell’arte comica in Italia e di Gustavo Modena, cit., p. 110.
49. Ivi, pp. 110-111.
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EMANUELA AGOSTINI
pia rassegnazione, d’una fiducia cotanto mesta e solenne, ch’è vera poesia. La
Robotti nella Stuarda tocca [l]a sublimità!».50
A conferire una sensazione di artificio e di mancanza di naturalezza doveva essere soprattutto la voce, che veniva impiegata, secondo quella che era
una vera e propria cifra stilistica della Robotti, in modo cantilenante e declamatorio. In aggiunta la gestualità era forse fondata su pose riconoscibili. In
un articolo del 1846, ad esempio, in cui si critica «il metodo di recitazione»
dei membri della Reale Sarda perché «nessuno parla sulla scena […] ma tutti
qual più qual meno con affettazione, con troppa misura declamano», nemmeno Antonietta Robotti è risparmiata. All’attrice pur ritenuta «all’apogeo dello
splendore drammatico» e lodata per «l’intuizione estetica e la forma rappresentativa, per cui comprende e veste ogni più scabro carattere», viene richiesto, per raggiungere la perfezione, «un po’ meno di manierismo, un po’ più di
mutabilità nella fisionomia».51
A distanza di otto anni, nel 1854, una recensione evidenzia nuovamente
l’enfasi declamatoria, ma rileva anche, come tratto positivo, l’atteggiamento
fisico dell’interprete: «La signora Antonietta Robotti pecca di canto nel declamare il verso della tragedia. Il suo gesto però è molto eloquente; da’ suoi occhi
scintilla la passione animata, e l’incesso sulla scena è veramente da quell’artista, che tiene posto elevato nell’arte».52
Sulla voce della Robotti si pronunciano infine anche Regli e Ernesto Rossi. Per il primo «qualcuno trovava troppo maschia la sua voce, ma se questa in
qualche produzione disdiceva in altre aggiungeva maestà».53 Doveva dunque
trattarsi di una voce possente che ben si accompagnava a un atteggiamento
regale. Secondo Rossi invece «la voce sua era forte, limpida come un campanello – Ne abusava e si compiaceva di udirsi: più che nel naturale e nel vero,
stava nel barocco; ma era un barocco, che qualche volta toccava il sublime; la
sua massima era di sorprendere, anziché quella di convincere. Non si può dire che fosse artifiziosa, ma rasentava l’artifizio: quando ella si abbandonava alla sua natura, che era bella e sincera, era assai più felice di quando cercava di
guidarla colla sua artistica esperienza».54
50. Ivi, p. 112 n.
51. Venezia-Reale compagnia Sarda. Teatro San Benedetto, «Il caffè Pedrocchi», i, 19 aprile
1846, p. 129.
52. A. Bonafini, Rivista teatrale, «Rivista contemporanea», ii, 1854, vol. ii, pp. 439-448.
53. In Cauda, A velario aperto e chiuso, cit., p. 41.
54. Rossi, Quarant’anni di vita artistica, cit., vol. i, p. 65.
256
ANTONIETTA ROBOTTI
Fonti, recensioni e studi critici
Manoscritti:
Permesso di sepoltura dell’attrice Antonietta Robotti, 22 novembre 1864, Archivio storico
comunale di Bologna, Comune, Permesso di seppellimento, lettera S, n. 512, 1864.
A stampa:
G. Romani, Cronaca teatrale-Lucca, «Glissons, n’appuyons pas», vi, 15 maggio 1839,
39, pp. 155-156.
G. Podestà, Cronaca teatrale-Venezia [30 settembre 1840], «Glissons, n’appuyons pas»,
vii, 5 ottobre 1840, 80, p. 320.
A. Stocchi [pseudonimo di L. Molossi], Diario del teatro Ducale di Parma dal 1829
a tutto il 1840 compilato dal portiere al palco scenico Alessandro Stocchi, Parma, Rossi Ubaldi, 1841.
G.S.A., Dell’arte comica in Italia e di Gustavo Modena, «Rivista europea», n.s., i, secondo trimestre 1843, pp. 108-115.
A. Brofferio, ‘Adelchi’, tragedia di A. Manzoni, «Il messaggiere torinese», 20 maggio 1843.
[Senza autore], Teatro Re, «Strenna teatrale europea», vi, 1843, p. 191.
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B. Lambertenghi, Antonietta Robotti, «Strenna teatrale europea», vii, 1844, pp.
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[Senza autore], Gazzetta teatrale. Brescia, «Il pirata», xi, 25 novembre 1845, 43, p. 181.
[Senza autore], Venezia-Reale compagnia Sarda. Teatro San Benedetto, «Il caffè Pedrocchi», i, 19 aprile 1846, p. 129.
[Senza autore], Relazione sulla compagnia lombarda all’Apollo di Venezia nella primavera
1846, «Il caffè Pedrocchi», i, 21 giugno 1846, p. 200.
Leopoldo Br., Teatro del Cocomero, «Lo Scaramuccia», i, 16 dicembre 1853, 14,
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S. Sollazzi, Profilo biografico-artistico di una Prima attrice dell’Ottocento, tesi di laurea in Storia del teatro e dello spettacolo, Università degli studi di Firenze, Corso di
laurea in Progettazione e gestione di eventi e imprese dell’arte e dello spettacolo, a.a.
2013-2014 (relatrice: prof. Francesca Simoncini).
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ANTONIETTA ROBOTTI
Repertorio
1836
Pia de’ Tolomei di Carlo Marenco
Un anno di [ Jacques-Arsène-François-Polycarpe?] Ancelot
1837
Vittorina ossia Le conseguenze di una scommessa di Giacinto Battaglia
1838
Alexina ossia Costanza rara di Alberto Nota
Estella, ovvero Il padre e la figlia di Augustin Eugène Scribe
Fratello e sorella di Augustin Eugène Scribe
Giovanna I regina di Napoli di Giacinto Battaglia
Gl’innamorati di Carlo Goldoni
I due metodi di autore non precisato
Il budjet dei giovani sposi di Augustin Eugène Scribe
Il furfantello di Parigi di Jean-François-Alfred Bayard e Emile-Louis Vanderburch
Il povero Giacomo di Hippolyte e Charles-Théodore Cogniard
Il romanzetto d’un’ora di Lodovico Piossasco
La croce d’oro di Mélesville [pseudonimo di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier]
La giovane al momento di maritarsi di autore non precisato
Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni
Madame di Saint Agnès di Augustin Eugène Scribe
Niente di male di Francesco Augusto Bon
Papà Goriot, ovvero Una lezione ai padri di Marie-Emmanuel-Guillaume-Marguerite
Théaulon de Lambert, Alexis-Barbe-Benoît Decomberousse e Jean-François-Ernest Jaime
Rosina e il suo tutore di autore non precisato
Un capolavoro sconosciuto di Charles Lafont
Un curioso accidente di Carlo Goldoni
1839
Eulalia Granger ovvero Ancora un matrimonio disuguale di Michel-Nicolas Balisson de
Rougemont
I due matrimoni ovvero La rassegnata di Jean-François-Alfred Bayard
Il casino venduto e ricomperato ossia L’appuntamento di Jacques-Arsène-François-Polycarpe Ancelot
Il domino nero di Augustin Eugène Scribe
Il furfantello di Parigi di Jean-François-Alfred Bayard e Emile-Louis Vanderburch
L’abate de l’Epée di Jean-Nicolas Bouilly
Malvina overo Il matrimonio d’inclinazione di Augustin Eugène Scribe
Parisina di Antonio Somma
259
EMANUELA AGOSTINI
Pia de’ Tolomei di Carlo Marenco
Sedici anni or sono di Victor-Henri-Joseph-Brahain Ducange
Un vagabondo e la sua famiglia di Francesco Augusto Bon
1840
Marino Faliero di Giulio Pullé
1841
Caterina Haward di Alexandre Dumas père
Cesare e Augusto di Augustin Eugène Scribe
Chiara ossia Dovere e generosità di Marguerite-Louise-Virginie Ancelot
Di sospetto in sospetto o Tutti compromessi di autore non precisato
Due case in una casa di Louis-Benoît Picard, Alexis-Jacques-Marie Vafflard e Fulgence-Joseph-Désiré de Bury
Felice come una principessa di Mélesville [pseudonimo di Anne-Honoré-Joseph
Duveyrier]
Galeotto Manfredi di autore non precisato
Il birichino di Parigi di Jean-François-Alfred Bayard e Émile-Louis Vanderburch
Il cavaliere di San Germano di autore non precisato
Il genio della notte di Jean-François-Alfred Bayard e Étienne Arago
Il marito della cieca di autore non precisato
Il matrimonio di Luigi di Jean-François-Alfred Bayard
Il proscritto di Frédéric Soulié e Timothée Dehay
La calunnia di Augustin Eugène Scribe
La cognata di Mélesville [pseudonimo di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier]
La fedeltà alla prova di August Heinrich Julius Lafontaine
Le donne avvocate di Simeone Antonio Sografi
Luisa moglie e fidanzata di Frédéric Soulié
Madamigella di Belle-Isle di Alexandre Dumas père
Maria Stuarda di Friedrich Schiller
Pamela nubile di Carlo Goldoni
Paolina ovvero Il testamento di una povera donna di Victor-Henri-Joseph-Brahain Ducange
Paolo James il corsaro generoso, ossia Il figlio della vittima di Alexandre Dumas père
Pia de’ Tolomei di Carlo Marenco
Un vagabondo e la sua famiglia di Francesco Augusto Bon
1842
Amore o morte di autore non precisato
Carlo Goldoni a Parigi di Domenico Righetti
Cristoforo Colombo ovvero La scoperta del nuovo mondo di Giorgio Briano
Edoardo e Clementina di Laurencin [pseudonimo di Paul-Adolphe Chapelle]
Enrico Hamlin di Charles-Emile Souvestre
I Correggeschi di Parma di Pietro Corelli
260
ANTONIETTA ROBOTTI
Il burbero benefico di Carlo Goldoni
Il chirurgo e il viceré di Alberto Nota
Il lione innamorato di Augustin Eugène Scribe
Il lupo di mare di Thomas-Marie-François Sauvage
L’addio alle scene di Francesco Augusto Bon
L’anello della marchesa di Laurencin [pseudonimo di Paul-Adolphe Chapelle] e Eugène
Cormon
L’anello della nonna di Francesco Augusto Bon
La bottega del caffè di Carlo Goldoni
La calunnia di Augustin Eugène Scribe
La catena di Augustin Eugène Scribe
La catena elettrica di [?] Gabriel
La cognata di Mélesville [pseudonimo di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier]
La croce d’oro di Mélesville [pseudonimo di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier]
La dote di Cecilia di autore non precisato
La finta ammalata di Carlo Goldoni
La forza dell’amore materno di Jean-François-Alfred Bayard
La lusinghiera di Alberto Nota
La moglie dell’artista di autore non precisato
Le prime armi di Richelieu di Jean-François-Alfred Bayard e Philippe-François-Pinel
Dumanoir
Malvina overo Il matrimonio d’inclinazione di Augustin Eugène Scribe
Oscar, ossia, Il marito che inganna la propria moglie di Augustin Eugène Scribe
Rosmunda di Pietro Corelli
Un fallo di Augustin Eugène Scribe
Un segreto di autore non precisato
Un vagabondo e la sua famiglia di Francesco Augusto Bon
Van Bruch l’incognito di [?] Fournier
1843
Adelchi di Alessandro Manzoni
1844
Genio dei vagabondi di Vittorio Alfieri
Mirra di autore non precisato
1846
Adalberto all’assedio della Rocella di Achille Montignani
Il fornaretto di Francesco Dall’Ongaro
Il proscritto di Frédéric Soulié e Timothée Dehay
La zingara, o L’America nel 1775 di Augustin Eugène Scribe e Mélesville [pseudonimo
di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier]
261
EMANUELA AGOSTINI
1847
Educazione e natura ovvero La figlia in adozione di Alberto Nota
1852
Il cuore di una madre di autore non precisato
La signora dalle camelie di Alexandre Dumas fils
1853
Il vetturale del Monte Cenisio di Joseph Bouchardy
La donna in seconde nozze di Paolo Giacometti
Sior Todero Brontolon di Carlo Goldoni
1854
Camoens di Leone Fortis
Cuore ed arte di Leone Fortis
Goldoni e le sue sedici commedie nuove di Paolo Ferrari
La notte di Venerdì Santo di Paolo Giacometti
1857
Clelia o la Plutomania di Gaetano Gattinelli
Edmondo Dantès il marinajo di Alexandre Dumas père e Auguste Jules Maquet
Elisabetta regina d’Inghilterra di Paolo Giacometti
Filippo Maria Visconti ultimo duca di Milano di autore non precisato
I due sergenti di Théodore Baudouin D’Aubygny e Auguste Maillard
Medea di Ernest Legouvé
Merope di Vittorio Alfieri
Sior Todero Brontolon di Carlo Goldoni
1858
Elisabetta regina d’Inghilterra di Paolo Giacometti
I giornali di Giuseppe Vollo
262
INDIZI DI PERCORSO E PROGETTI
Gianluca Stefani
SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO IN ANGUSTIE A VENEZIA:
I GUAI DELLA STAGIONE 1718-1719 AL SANT’ANGELO
Artista in moto perpetuo fu Sebastiano Ricci quondam Livio (1659-1734).1
Più celebre come ‘pittore di figura’,2 Rizzi (come allora era chiamato, per via
del suono sibilante che la consonante c assume con le vocali e e i nel dialetto
veneto)3 fu anche disegnatore, restauratore, caricaturista, consulente e mercante di opere d’arte.4 Tra le sue passioni ci fu il teatro, o meglio il teatro musi-
1. Propongo qui una essenziale bibliografia: J. von Derschau, Sebastiano Ricci: ein Beitrag zu
den Anfängen der venezianischen Rokokomalerei, Heidelberg, K. Winters Universitätsbuchhandlung,
1922; R. Pallucchini, Studi ricceschi (I). Contributo a Sebastiano, «Arte veneta», vi, 1952, pp. 6384; Atti del congresso internazionale di studi su Sebastiano Ricci e il suo tempo (Udine, 26-28 maggio
1975), a cura di A. Serra, Milano, Electa, 1976; J. Daniels, Sebastiano Ricci, Hove, Wayland
Publishers, 1976; L’opera completa di Sebastiano Ricci, a cura di Id., Milano, Rizzoli, 1976; L.
Moretti, Documenti e appunti su Sebastiano Ricci (con qualche cenno su altri pittori del Settecento),
«Saggi e memorie di storia dell’arte», 1978, 11, pp. 95-125; Sebastiano Ricci, catalogo della mostra
a cura di A. Rizzi, presentazione di G. Bergamini (Udine, 25 giugno-31 ottobre 1989), Milano,
Electa, 1989; F. Montecuccoli degli Erri, Sebastiano Ricci e la sua famiglia. Nuove pagine di vita
privata, «Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti. Classe di scienze morali, lettere ed
arti», clvii, 1994-1995, 1, to. 153, pp. 105-154; A. Scarpa, Sebastiano Ricci, Milano, Alfieri, 2006;
L. Moretti, Miscellanea riccesca, in Sebastiano Ricci 1659-1734. Atti del convegno internazionale di
studi (Venezia, 14-15 dicembre 2009), a cura di G. Pavanello, Verona, Scripta, 2012, pp. 71-136.
2. Nella gerarchia dei pittori di Antico regime, quelli ‘di figura’ occupavano il gradino
più alto.
3. Cfr. Moretti, Miscellanea riccesca, cit., p. 71. Scrive Luigi Lanzi: «Sebastiano Ricci, che
i Veneti scrivon Rizzi» (Storia pittorica della Italia dal risorgimento delle belle arti fin presso al fine del
XVIII secolo [1795-1796], a cura di M. Capucci, Firenze, Sansoni, 1968-1974, vol. ii [1970], p.
170). Moretti sostiene che il vero cognome di Sebastiano fosse Rizzi, e non Ricci, ipercorrettismo toscano di un cognome tuttora diffuso nell’Italia del centro-nord (cfr. Miscellanea riccesca,
cit., p. 71). Sulle varianti del cognome cfr. O. Ceiner, Sulle origini della famiglia di Sebastiano Ricci,
in Sebastiano Ricci tra le sue Dolomiti, catalogo della mostra a cura di M. Mazza e G. Galasso
(Belluno e Feltre, 30 aprile-29 agosto 2010), Belluno, Provincia di Belluno Editore, 2010, p. 17.
4. Sebastiano Ricci fu consulente e procacciatore di opere d’arte per Ferdinando de’ Medici
(cfr. Lettere artistiche del Settecento veneziano. i, a cura di A. Bettagno e M. Magrini, Vicenza, Neri
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 263-289
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18380
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
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GIANLUCA STEFANI
cale. Il bellunese Ricci fu impresario d’opera nel circuito delle sale pubbliche
della Serenissima, sia pure non a tempo pieno, compatibilmente con l’attività
principale di ‘depentore’.5
Fin dagli studi di Luigi Ferrari, si sa che il settantenne pittore aveva assunto la conduzione del teatro di san Cassiano nella stagione 1728-1729, insieme
al soprano Faustina Bordoni.6 In un contributo apparso nel 1978 nella rivista
«Saggi e memorie di storia dell’arte», Lino Moretti pubblicava un documento
notarile che accertava il suo impresariato al teatro di sant’Angelo un decennio prima, nel 1719.7 Recentemente, grazie alle ricerche archivistiche di Micky White e Beth L. Glixon, si sono allargati ulteriormente gli orizzonti di
una militanza teatrale che si riteneva più circoscritta, anticipandola al biennio
1705-1706, sempre al Sant’Angelo.8
Rimandando a una specifica monografia la pubblicazione integrale delle inedite
carte sull’attività impresariale di Ricci da me rintracciate all’Archivio di stato di
Pozza, 2002, pp. 14-22 e 25-27, lettere 1-12 e 15; sul mecenatismo del Gran Principe v. soprattutto
L. Spinelli, Il principe in fuga e la principessa straniera. Vita e teatro alla corte di Ferdinando de’ Medici e di
Violante di Baviera [1657-1731], Firenze, Le Lettere, 2010). Va detto che non solo Sebastiano Ricci,
ma molti artisti coevi operavano come agenti d’arte. Una condizione di ‘meticciato’ che inizierà a
declinare poco a poco con l’emergere della figura del conoscitore di professione (cfr. F. Del Torre,
Sebastiano Ricci, Ferdinando di Toscana e altri corrispondenti, in Lettere artistiche, cit., pp. 8-9).
5. Sul ‘mestiere’ di impresario cfr. almeno J. Rosselli, L’impresario d’opera (1984), Torino,
EDT, 1985; F. Piperno, Il sistema produttivo, fino al 1780, in Storia dell’opera italiana, a cura di L.
Bianconi e G. Pestelli, iv. Il sistema produttivo e le sue competenze, Torino, EDT, 1987, pp. 1-75.
6. Cfr. L. Ferrari, L’abate Antonio Conti e Madame De Caylus, «Atti del reale Istituto veneto
di scienze, lettere ed arti», xciv, 1934-1935, 2, p. 18, n. 1.
7. Cfr. Venezia, Archivio di stato (di qui in avanti ASV), Notarile. Atti, b. 12249, c. 251r.
(antica numerazione), Venezia, 24 febbraio 1718 more veneto (d’ora in poi m.v.), atti del notaio
Giorgio Maria Stefani, in Moretti, Documenti e appunti, cit., p. 111. In queste pagine utilizzerò
il calendario corrente, specificando in nota le date secondo il more veneto.
8. Cfr. B.L. Glixon-M. White, ‘Creso tolto a le fiamme’: Girolamo Polani, Antonio Vivaldi
and Opera Production at the Teatro S. Angelo, 1705-1706, «Studi vivaldiani», viii, 2008, pp. 3-19.
Sul famoso teatro veneziano, ubicato in corte dell’Albero, cfr. almeno: C. Ivanovich, Memorie
teatrali di Venezia (1681), a cura di N. Dubowy, Lucca, LIM, 1993, pp. 400-401 e 412; N.
Tessin the Younger, Travel Notes 1673-77 and 1687-88, a cura di M. Laine e B. Magnusson,
Stockholm, Nationalmuseum, 2002, pp. 363-364; I teatri pubblici di Venezia (secoli XVII-XVIII),
mostra documentaria e catalogo a cura di L. Zorzi et al. (Venezia, 22 settembre-11 ottobre
1971), Venezia, La Biennale, 1971, passim; N. Mangini, I teatri di Venezia, Milano, Mursia,
1974, pp. 73-76, 132-137; F. Mancini-M.T. Muraro-E. Povoledo, I teatri del Veneto, i. to.
ii. Venezia e il suo territorio. Imprese private e teatri sociali, Venezia, Regione del Veneto, Giunta
regionale-Corbo e Fiore, 1996, pp. 3-62; M. Talbot, A Venetian Operatic Contract of 1714, in
The Business of Music, a cura di M. T., Liverpool, Liverpool University Press, 2002, pp. 10-61; E.
Selfridge-Field, A New Chronology of Venetian Opera and Related Genres, 1660-1760, Stanford,
Stanford University Press, 2007, passim.
264
SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO
Venezia,9 presento qui i documenti riguardanti l’operato riccesco al Sant’Angelo
nella stagione 1718-1719, ossia due stagioni prima che Il teatro alla moda di Benedetto Marcello mettesse alla berlina quel teatro sul suo frontespizio (dicembre 1720).
In quel periodo, Sebastiano Ricci, all’apice della carriera, era da poco rientrato dall’Inghilterra, dove aveva soggiornato fino all’estate 1715 insieme al nipote
Marco, apprezzato paesaggista e scenografo.10 Una volta a Venezia, Ricci senior,
carico di onori e notevolmente arricchito dalle generose commissioni britanniche, aveva acquistato al pubblico incanto un bell’appartamento al secondo piano
delle Procuratie Vecchie, dove si era stabilito con quel suo nipote prediletto.11
Mentre i due Ricci erano impegnati, dal principio del 1718, nella decorazione di un ciclo di affreschi nella villa Belvedere, residenza estiva di Giovanni Francesco Bembo, vescovo di Belluno,12 il Ricci jr era stato contattato dal
nuovo impresario del Sant’Angelo come scenografo. Il nome di Marco compare in tutti e tre i libretti delle opere prodotte in quel teatro nell’autunno e
carnevale 1718-1719, dove gli è attribuita l’«invenzione delle scene».13
Come Sebastiano si sia riavvicinato al teatro per il quale aveva lavorato oltre un decennio prima14 è facile intuirlo, benché sconosciute siano, nel detta9. Questo articolo è tratto dalla mia tesi dottorale Sebastiano Ricci impresario d’opera (16941729), Università degli studi di Firenze, Dottorato di ricerca in Storia dell’arte e Storia dello
spettacolo, xxvi ciclo, 2014, tutor prof. Stefano Mazzoni, in corso di stampa (Firenze University
Press). Colgo l’occasione per rivolgere al mio tutor e maestro i più affettuosi ringraziamenti.
10. Sul pittore, disegnatore, caricaturista e scenografo Marco Ricci cfr. almeno: A.
Blunt-E. Croft-Murray, Venetian Drawings of the Seventeenth and Eighteenth Centuries in the
Collection of Her Majesty the Queen at Windsor Castle, London, Phaidon, 1957; Marco Ricci, catalogo della mostra a cura di G.M. Pilo, con un saggio di R. Pallucchini (Bassano del Grappa, 1°
settembre-10 novembre 1963), Venezia, Alfieri, 1963; A. Scarpa Sonino, Marco Ricci, Milano,
Berenice, 1991; Marco Ricci e il paesaggio veneto del Settecento, catalogo della mostra a cura di D.
Succi e A. Delneri (Belluno, 15 maggio-22 agosto 1993), Milano, Electa, 1993.
11. Cfr. Moretti, Documenti e appunti, cit., p. 111.
12. Cfr. Daniels, Sebastiano Ricci, cit., p. xv; Scarpa, Sebastiano Ricci, cit., pp. 151-153; G.
Galasso, Gli affreschi della villa Belvedere, in Sebastiano Ricci tra le sue Dolomiti, cit., pp. 45-49; E.
Lucchese, Belluno. Villa vescovile detta ‘di Belvedere’, in Gli affreschi nelle ville venete. Il Settecento, a
cura di G. Pavanello, Venezia, Marsilio, 2011, pp. 105-109, scheda 18.
13. I libretti in questione, pubblicati dall’editore veneziano Marino Rossetti, sono: L’amor di
figlia di Giovanni Andrea Moniglia, musica di Giovanni Porta; Amalasunta di Giacomo Gabrieli,
musica di Fortunato Chelleri; Il pentimento generoso di Domenico Lalli, musica di Andrea Stefano
Fiorè. È la prima volta che Marco Ricci è accreditato a Venezia come scenografo. Dopo aver
lavorato a Londra al Queen’s Theatre, a Haymarket, come pittore di scena (1709-1710), ritroveremo il Ricci jr ancora attivo in questo ruolo a Venezia al San Giovanni Grisostomo, nel
carnevale 1726, affiancato da Romualdo Mauro. Per i libretti citati v. qui anche note 25, 27, 61.
14. Cfr. Glixon-White, ‘Creso tolto a le fiamme’, cit. Per una relazione più approfondita
sull’attività di Ricci al Sant’Angelo in quella stagione rinvio al mio libro di prossima pubblicazione (rivedi n. 9).
265
GIANLUCA STEFANI
glio, le circostanze di questo nuovo coinvolgimento. Si è supposto, sulla base
dell’unico documento finora noto,15 che egli fosse l’impresario di quella stagione. In realtà, come rivelano i documenti, le cose furono più complesse.
Secondo gli accordi iniziali, il ‘conduttore’ del Sant’Angelo per l’anno teatrale 1718-1719 non doveva essere Ricci, ma il Modotto. Fino a ora costui era
nient’altro che un nome, anzi un soprannome – Modotto, appunto – annotato su una copia della prima edizione del Teatro alla moda rinvenuta da Gian
Francesco Malipiero.16 Qui un anonimo postillatore settecentesco aveva sciolto i nomi dei personaggi criptati negli anagrammi del frontespizio del libello
marcelliano, tra i quali:
Il signor Modotto una volta Padron di Peate voga a due remi fuor del costume. Questo
è Impressario in Sant’Angelo e gettato il feraiolo favorisce il Signor Orsatto conducendolo a casa con le provigioni sudette.17
Un ‘medaglione’ iterato dalla critica fino a oggi. Grazie a nuove ricerche
d’archivio,18 quel nomignolo, abbinato alla figura di uno snello vogatore a poppa
della ‘peata’ nel frontespizio del Teatro alla moda (fig. 1), acquista spessore biografico. Se ne apprende il nome di battesimo e il cognome, Antonio Moretti,
fatti seguire dal soprannome sempre specificato – perché come tale, evidentemente, egli era conosciuto ai più. Si viene a sapere che suo padre si chiamava Bernardo. Si hanno le prove che egli fu ‘conduttore’ del Sant’Angelo nella
stagione 1720-1721 (quella irrisa sul frontespizio del pamphlet marcelliano).19
Quanto alla stagione di nostro interesse, una serie di carte notarili e giudiziarie
attesta che, entro la fine di aprile 1718, Modotto aveva sottoscritto con i compatroni il contratto di locazione per prendere in gestione il Sant’Angelo. Nei teatri
della Serenissima, si sa, era norma per ogni impresario (o chi per lui) nominare un
proprio agente (il cosiddetto ‘procuratore’) per riscuotere gli affitti stagionali dei
15. Cfr. qui n. 7.
16. Cfr. G.F. Malipiero, Un frontespizio enigmatico, «Bollettino bibliografico-musicale», v,
1930, pp. 16-19. Come noto, il frontespizio del libello marcelliano riproduce in incisione un
gustoso disegno caricaturale, con tre figurine su una barca in mare aperto. Sotto alla caricatura,
si legge una bizzarra indicazione tipografica diventata ormai celebre: «Stampato ne BORGHI
di BELISANIA per ALDIVIVA LICANTE, all’Insegna dell’ORSO in PEATA. Si vende nella
STRADA del CORALLO alla PORTA del Palazzo d’ORLANDO».
17. Ivi, p. 18. ‘Il Signor Orsatto’ è il vicentino Giovanni Orsatto quondam Domenico, attivissimo impresario del tempo, allora di ruolo al San Moisè.
18. Nuovi documenti al riguardo saranno pubblicati nella monografia in corso di stampa
segnalata a n. 9.
19. Cfr. n. 16.
266
SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO
palchi.20 A questo incaricato veniva arrogato il diritto di muovere azione legale
in caso di morosità e renitenza ai pagamenti. Non sappiamo se Modotto conoscesse già Sebastiano Ricci, o se quest’ultimo gli fosse stato presentato dal nipote scenografo, o da qualcuno dei nobili proprietari del teatro. Fatto sta che, con
un inedito atto legale del 16 dicembre 1718 (doc. 1), ratificato dal notaio Giorgio Maria Stefani, l’impresario nominava suo ‘procuratore’ il pittore bellunese:
Il Sig[no]r Antonio Modotto, spontaneamente costituisce suo Proc[urato]r irrevocabile, il Sig[no]r Sebastian Rizzi Pittor in questa città benche absente etc. À poter à
nome suo riscuotter, ricever, e conseguir da tutti, e cadauni Affituali de Palchi del
Teatro di S. Angelo l’Affitto d’ogni, e cadaun Palco, che s’attrova Affittato in detto Teatro per l’opera del presente Autuno e venturo Carnevale 1718 m[or]e v[enet]o
che saranno maturati li primi giorni della Quadragesima prossima; e tutto quello, e
quanto riscuotterà di esso Affitto trattenersi nelle di lui mani d[ett]o Sig[no]r Sebastian
Rizzi per spese per occasione di d[ett]a Opera da lui fatte; essercitando perciò qualunque essecutione con chi fossero renitenti per la consecutione di essi Affitti, nella
forma e modo, et in tutto, e per tutto, come far potrebbe d[ett]o Sig[no]r Modotto
Costituente, se presente fosse; et in suo luoco sostituire unò, ò più Procuratori con
simile overo limitate auttorità, et quelli revocare.21
Iniziava così l’avventura di Ricci al Sant’Angelo nella stagione 1718-1719.
L’incarico di procuratore fu solo temporaneo. Ben presto il pittore divenne
impresario del teatro, come conferma un documento del 24 febbraio 1719 (la
carta morettiana già citata).22 Per qualche ragione Modotto aveva rinunciato
al proprio mandato; quindi aveva fatto un atto di cessione a favore del suo sostituto Ricci. Sappiamo del resto, da un altro contratto similare del 1714 per
lo stesso teatro, che in caso di difficoltà l’incarico di ‘conduttore’ era cedibile
a terzi, previo il consenso dei compatroni («non possa sotto qual si sia pretesto
sublocar ad altri il Teatro stesso senza il previo assenso, e permissione in scritto de detti N[obili] H[omini] Comp[ad]roni»).23
20. Quella del procuratore incaricato di riscuotere gli affitti dei palchi era una figura codificata del sistema teatrale veneziano (cfr. R. Giazotto, La guerra dei palchi [prima serie], «Nuova
rivista musicale italiana», i, 1967, 2, p. 286; B.L. Glixon-J.E. Glixon, Inventing the Business of
Opera. The Impresario and His World in Seventeenth-Century Venice, Oxford, Oxford University
Press, 2006, pp. 30-33). Pare che, almeno negli anni Settanta del Seicento, certi procuratori non
fossero retribuiti direttamente dall’impresario o dai proprietari dei teatri, ma contassero sulle
mance degli affittuari dei palchi (cfr. ivi, pp. 30-31).
21. ASV, Notarile. Atti, b. 12249, cc. 175r.-v. (antica numerazione), Venezia, 16 dicembre
1718 (protocolli del notaio Giorgio Maria Stefani).
22. Cfr. n. 7.
23. Cfr. ASV, Inquisitori di Stato, b. 914, fasc. ‘Case di gioco e teatri’, sottofasc. ‘S. Angelo’,
c. 1v., Venezia, 11 dicembre 1714. Il lungo contratto, stipulato tra i compatroni del teatro di
267
GIANLUCA STEFANI
Ricci si trovava al timone di un’impresa già avviata, con alle spalle la stagione di autunno, pronto ad affrontare il periodo teatrale più delicato: quello
di carnevale.24 Il corso delle recite invernali era iniziato il 27 dicembre 1718,
con la prima dell’opera Amalasunta, su musica di Fortunato Chelleri e libretto
attribuito a Giacomo Gabrieli,25 e si concluse il 21 febbraio (con la ricorrenza
del martedì grasso),26 nel segno dell’ultima performance de Il pentimento generoso,
su intonazione di Andrea Stefano Fiorè, poesia di Domenico Lalli.27
Una volta terminata la stagione, Sebastiano avviò un giro di vite per riscuotere gli affitti dei palchi in arretrato.28 Per tale mansione il pittore delegava
il veterano Domenico Viola con un atto notarile del 24 febbraio 1719, rogato
dallo stesso Stefani (doc. 2):
sant’Angelo e l’impresario Pietro Denzio, è integralmente pubblicato in Talbot, A Venetian
Operatic Contract of 1714, cit., pp. 44-49: 45.
24. Il numero degli spettatori era di gran lunga maggiore in carnevale, dato l’apporto
massivo dei visitatori che confluivano a Venezia in quella stagione. Spesso l’opera d’autunno era
un banco di prova per testare il cast stagionale (cfr. M. Talbot, Tomaso Albinoni: The Venetian
Composer and His World, Oxford, Clarendon Press, 1990, p. 199).
25. Il libretto di Amalasunta (Venezia, Rossetti, 1719, 60 pp.) è stato consultato nella
copia conservata presso la Biblioteca marucelliana di Firenze (Melodrammi, 2311.17). Per una
scheda dell’opera cfr. Selfridge-Field, A New Chronology, cit., pp. 343-344. Il titolo originale era Amalasunta, regina de’ goti. È documentato che la produzione di questo dramma
per musica era prevista per l’inverno del 1716 al Sant’Angelo. Sappiamo che la partitura fu
ultimata entro il 2 dicembre 1715. Tuttavia una disputa tra il compositore Fortunato Chelleri
e l’impresario Stefano Lodovici ne sospese la messa in produzione, rinviandola di due anni
(cfr. ivi, p. 344). Nella stagione riccesca all’Amalasunta furono abbinati gli intermezzi Serpilla
e Bacocco e Madama Dulcinea e il cuoco (ovvero La preziosa ridicola), interpretati dalla famosa
coppia di buffi Antonio Ristorini e Rosa Ongarelli (cfr. T. Wiel, I teatri musicali veneziani
del Settecento. Catalogo delle opere in musica rappresentate nel secolo XVIII in Venezia [1701-1800],
Venezia, Visentini, 1897 [rist. anast. Bologna, Forni, 1978], p. 55; Selfridge-Field, A New
Chronology, cit., p. 343 e n. 319; G.M. Orlandini, Serpilla e Bacocco, ovvero Il marito giocatore e
la moglie bacchettona, tre intermezzi di A. Salvi, ediz. critica a cura di G. Giusta e A. Mattio,
Bologna, Orpheus, 2003).
26. Cfr. Selfridge-Field, A New Chronology, cit., p. 655.
27. Il libretto de Il pentimento generoso (Venezia, Rossetti, 1719, 60 pp.) è stato consultato
presso la Biblioteca marucelliana di Firenze (Melodrammi, 2308.11). E v. Selfridge-Field, A
New Chronology, cit., p. 346.
28. Il tempo massimo previsto per il pagamento degli affitti era il carnevale; ciò spiega
perché molti procuratori venivano nominati al termine della stagione teatrale. Per far fronte alla
recalcitranza degli affittuari, i procuratori procedevano, in prima battuta, a inoltrare avvisi di
sollecito; in seguito ricorrevano a scritture estragiudiziali registrate negli atti dei notai. Infine,
passavano agli ultimatum: se l’affitto non fosse stato corrisposto entro un certo termine, il palco
sarebbe stato sciolto dai vincoli e messo a disposizione di altri aspiranti affittuari (cfr. GlixonGlixon, Inventing the Business of Opera, cit., p. 32).
268
SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO
Il Sig[no]r Sebastian Rizzi Pittor in questa Città, facendo come Conduttore, sive
Patrone del Teatro di S. Angelo, spontaneam[en]te costituisce suo Proc[urato]re, e
Commesso legitimo il Sig[no]r Domenico Viola Agente delli N.N. H.H. Tron benché absente etc. À poter à nome suo riscuotter, ricever, e conseguir da tutti, e cadauni Affittuali de Palchi di d[ett]o Teatro di S. Angelo tutti li Affitti corsi, e maturati,
facendo di quanto riscuotterà le debite ricevute e cautioni; et in caso di renitenza al
pagamento giudiciariamente astringer, facendo perciò qualunque comparsa, essecutione, et Atti che ricercasse il bisogno.29
Come si evince dal documento, Domenico Viola quondam Tomio o Tomaso era l’«Agente delli N.N. H.H. Tron». Il suo nome circolava da anni
nell’ambiente teatrale della Serenissima. Uomo di fiducia dei proprietari del
San Cassiano almeno dal 1697,30 Viola collaborò in più occasioni anche con il
Sant’Angelo, a riprova dei cordiali rapporti che intercorrevano tra le due sale.31
Egli fu cassiere del teatro nel 1716-1717 sotto l’impresario Pietro Ramponi,32
irriso, quest’ultimo, da un anonimo, coevo poema burlesco per via del sonoro fiasco della Penelope la casta di Chelleri su libretto di Matteo Noris, seconda opera della stagione:
Il soprano turrinese
ha Domenico Viola
in cui spera al fin del mese
che sia uomo di parola.33
Come vedremo, Viola fu cassiere del Sant’Angelo anche nella stagione riccesca: a lui i professionisti dello spettacolo si rivolgevano per ottenere la sospirata
paga (al pari della star torinese della satira).34 Più che uomo di riferimento di
29. ASV, Notarile. Atti, b. 12249, c. 251r. (antica numerazione), Venezia, 24 febbraio 1718
m.v. (protocolli del notaio Giorgio Maria Stefani); cit. in Moretti, Documenti e appunti, cit., p.
111 (e rivedi n. 7). Sgombrando il campo da possibili fraintendimenti (cfr. Scarpa, Sebastiano
Ricci, cit., p. 57, n. 218), precisiamo che nel gergo notarile del tempo la formula «benché absente» stava a indicare che il soggetto interessato era assente al momento della rogazione dell’atto.
Nel nostro caso, con tale formula si specificava che Viola, pur non presente, dava il suo assenso.
30. Fu nominato procuratore dai Tron il 24 febbraio 1696 m.v., come si legge in un documento seriore inedito: ASV, Notarile. Atti, b. 1742, cc. 115v.-117v., Venezia, 19 aprile 1709
(protocolli del notaio Pietro Paolo Bonis).
31. Su Domenico Viola cfr. G. Vio, Una satira sul teatro veneziano di Sant’Angelo datata febbraio
1717, «Informazioni e studi vivaldiani», x, 1989, p. 110.
32. Cfr. ibid.
33. Racolta di satire in lingua venetiana fatte da soggeto diversi. Tomo VII, ms., Venezia, Biblioteca
del museo Correr, Codice Cicogna, n. 1178, c. 175v. (cit. ivi, p. 104).
34. Si veda quanto si dirà più avanti.
269
GIANLUCA STEFANI
Ricci, Viola era, dunque, un fedelissimo dei Marcello, dei Capello e degli altri
compatroni del teatro. Da costoro fu probabilmente caldeggiato il suo nome
a Ricci per l’ingrata incombenza di ‘estorcere’ gli affitti dalle tasche dei ritardatari. Inseguire i palchettisti insolventi non era compito facile, né esente da
rischi: è documentato che, nel gennaio del 1662, un certo Stefano Galinazza,
agente al San Luca, fu pugnalato vicino a casa da uomini mascherati.35 E potremmo citare altri esempi.36 Ci voleva una certa tempra per far da procuratore,
e Viola doveva averne, al pari di altri colleghi patentati. Si guardi, ad esempio, alla faccia ‘da sgherro’ di Piero Balbi detto Franzifava in una caricatura
di Anton Maria Zanetti (fig. 2).37 L’identificazione del disegno col Balbi è qui
avanzata per la prima volta: la galleria delle caricature zanettiane si arricchisce
di un altro professionista orbitante nel sistema dei teatri veneziani. Franzifava era colui che affittava «li palchi e scagni nel Teatro di opera che si fa in S.
Moise»:38 il minaccioso cipiglio del ritratto zanettiano, certamente identificabile
con il solerte agente di Almorò Giustinian,39 riporta all’attenzione della critica
un personaggio altrimenti condannato al dimenticatoio, destinato tutt’al più
a venire a galla in qualche registro di cassa o in qualche notifica giudiziaria.
Che Domenico Viola avesse effettivamente agito per conto di Sebastiano Ricci nella riscossione degli affitti stagionali dei palchi lo prova un altro
inedito in data 4 aprile 1719: «Cassa detta ducati 10 = Contadi a Dom[eni]co
Viola Proc[urato]re di Sebastian Rizzi per affitto del Palco pepian n. 26 nel
Teatro di Sant’Angelo per il Carnevale pass[a]to».40 L’estratto è desunto da uno
dei capitoli delle ‘spese diverse estraordinarie’ annotate nei registri di cassa
del nobiluomo Girolamo Ascanio Giustinian.41 Tali registri sono solo parzial35. Cfr. ASV, Consiglio di dieci, ‘Criminal’, b. 94, n. 1661, Venezia, [datazione non specificata], doc. cit. in Glixon-Glixon, Inventing the Business of Opera, cit., p. 33.
36. Cfr. ibid.
37. Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Gabinetto dei disegni e delle stampe, Album
Zanetti, f. 39, inv. 36615 (cfr. Caricature di Anton Maria Zanetti, catalogo della mostra a cura di
A. Bettagno [Venezia, 1969], presentazione di G. Fiocco, Vicenza, Neri Pozza, 1969, p. 81,
scheda 215; e segnalo l’imminente pubblicazione per lineadacqua del catalogo delle caricature
dell’album Cini a cura di E. Lucchese). Sul lato destro della caricatura si legge la scritta autografa di Zanetti: «Franzifava».
38. ASV, Capi del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, f. 44, fasc. a. 1728, c. n.n., 11 febbraio 1728 m.v. (il documento è inedito).
39. Piero Franzifava era l’agente di Almorò Giustinian e della sua famiglia, allora proprietari del teatro di san Moisè.
40. ASV, Ospedali e luoghi pii, ‘Registri’, b. 1002, c. 232b, alla data.
41. Patrizio veneziano, amante delle lettere, dilettante di violino, Girolamo Ascanio
Giustinian (1697-1749) studiò musica con Giuseppe Tartini. Il nobiluomo passò alla storia soprattutto per la sua collaborazione all’Estro armonico-poetico di Benedetto Marcello (1724-1726):
sua la parafrasi in italiano dei primi cinquanta salmi. Lo stesso Giustinian fu anche dedicatario
270
SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO
mente noti.42 Il merito della loro scoperta si deve a Gastone Vio, il quale, in
un articolo di qualche decennio fa, segnalava l’esistenza dei registri contabili (e dei corrispettivi giornali di cassa), appartenuti ai Giustinian del ramo ‘di
Calle delle Acque’, conservati nel fondo degli Ospedali e luoghi pii all’Archivio
di stato di Venezia.43 L’estinzione del ramo della famiglia con la morte di due
discendenti femmine aveva legittimato alla successione dell’eredità l’ospedale degli Incurabili e quello della Pietà, secondo le disposizioni testamentarie
dell’ultimo rampollo di quella casata.44
I registri in questione, compilati da Giovanni Andrea Cornello, segretario amministrativo di Girolamo Ascanio, sono una fonte preziosa per la storia dei teatri veneziani a quest’altezza cronologica. Vi si trovano annotati,
tra le spese sostenute dal nobiluomo, anche pagamenti relativi a maschere e
bollettini teatrali,45 nonché le somme versate per l’affitto dei palchi acquisiti
dai Giustinian per via ereditaria o noleggiati per la stagione. Notevoli anche
le notizie sui costi dei palchi (e dei bollettini) e sui nomi dei destinatari dei
pagamenti. Se, in quest’ultimo caso, sono ripetitivi i dati rispetto ai teatri
canonici, dove si sa in linea di massima chi riscuoteva gli affitti (Domenico
Viola è confermato uomo di fiducia dei Tron, mentre Pietro Balbi e il conte
Antonio Frigimelica sono i rispettivi incaricati per il San Moisè e il San Samuele), più interessanti sono le informazioni circa il Sant’Angelo. Scorrendo i registri è possibile ricomporre la sequenza di chi, di volta in volta, ebbe
il compito di riscuotere dal Giustinian (o da chi per lui) la somma dovuta
per il palco numero ventisei, a pepiano, posseduto da quella nobile famiglia.
Certe stagioni a batter cassa erano i compatroni, certe altre – nei casi per
noi più fortunati – gli impresari o i loro procuratori. Una documentazione
di Cassandra, cantata composta dallo stesso Marcello su testo poetico di Antonio Conti (sul
Giustinian cfr. in partic. G. Vio, Note biografiche su Girolamo Ascanio Giustinian, in Benedetto
Marcello: la sua opera e il suo tempo. Atti del convegno internazionale [Venezia, 15-17 dicembre
1986], a cura di C. Madricardo e F. Rossi, Firenze, Olschki, 1988, pp. 61-74; M. Talbot, The
Vivaldi Compendium, Woodbridge, The Boydell Press, 2011, pp. 89-90, s.v.).
42. Cfr. per tutti ibid. Molti studi di settore ignorano l’esistenza di questa preziosa fonte, o
perlomeno non la tengono in debito conto.
43. Cfr. Vio, Note biografiche, cit.
44. Cfr. ASV, Notarile. Testamenti, b. 233, cedole 116 e 117, Venezia, rispettivamente alle
date 9 agosto e 28 settembre 1790 (testamenti del notaio Giovanni Battista Capellis); cit. ivi,
pp. 72-74.
45. In data 14 ottobre 1727, ossia prima dell’inizio della stagione, Giustinian acquistava
dall’allora impresario del Sant’Angelo Gerolamo Gentillini un pacchetto di cinquantadue biglietti «per tutte le sere» (ASV, Ospedali e luoghi pii, ‘Registri’, b. 1004, c. 240b, alla data). Il che
indurrebbe a pensare che il numero totale delle recite fosse solitamente fissato in anticipo (cfr.
Talbot, Tomaso Albinoni, cit., p. 197). Vedi anche quanto si dirà più avanti.
271
GIANLUCA STEFANI
ricca, che può aiutare a sciogliere alcuni nodi sull’ingarbugliato turnover di
impresari al Sant’Angelo.
L’indagine ha già dato i suoi frutti per gli unici due registri finora conosciuti
e studiati,46 corrispondenti alle buste 1004 e 1011 del citato fondo archivistico,
e relativi alle uscite di quasi un ventennio, dal 1722 al 1740. Il recupero di una
terza busta (la numero 1002)47 consente ora di allargare lo spettro d’inchiesta
agli anni cruciali 1716-1721.
Dalla citata voce di pagamento al Viola si apprende che la somma versata
dal Giustinian per un mezzo palco a pepiano era di dieci ducati.48 Il nobiluomo adempì al suo dovere soltanto il 4 aprile 1719, a stagione ampiamente scaduta. Ricci e Viola potevano comunque stimarsi fortunati: l’anno successivo,
quando era impresario il dottor Francesco Rossi, il Giustinian versò il denaro
soltanto il 21 agosto, direttamente presso il tribunale del Forestier (presumibilmente per l’insorgenza di beghe legali).49 Del resto, come noto, i ritardi nel
pagamento degli affitti dei palchi erano diffusi tra i nobili veneziani. I registri
di cassa dei Giustinian non fanno che confermare tale prassi.
La stagione teatrale 1718-1719 al Sant’Angelo si concluse senza intoppi, fatte
salve le magagne di routine. L’unico impedimento alla regolare messa in scena
delle recite fu, per quanto ne sappiamo, la scossa di terremoto del 14 gennaio
1719, di cui si dava conto tre giorni dopo nella corrispondenza del «Bologna»:
Verso le 3 ore e mezza di sabbato sera si sentì […] una terribil scossa di terremoto,
che durò lo spazio d’un Credo […] e più d’ogni altro luogo si sentì alli teatri dell’opere, e comedie, da quali fuggirono le persone, li comici bassarono subito il telone.50
Nel carnevale di quell’anno le opere allestite al Sant’Angelo furono puntualmente annunciate dagli «Avvisi» di Venezia.51 In questi bollettini manoscritti
46. Cfr. ivi, p. 195 e n. 8.; Id., The Vivaldi Compendium, cit., pp. 89-90, s.v. Giustiniani,
Girolamo Ascanio.
47. Segnalata nel menzionato articolo di Vio (Note biografiche, cit., p. 62, n. 5).
48. Cfr. ASV, Ospedali e luoghi pii, ‘Registri’, b. 1002, c. 232b, alla data. A venti ducati
ammontava l’affitto intero di un palco a pepiano nel teatro di sant’Angelo.
49. Cfr. ASV, Ospedali e luoghi pii, ‘Registri’, b. 1002, c. 295a, 21 agosto 1720 (documento inedito).
50. Il «Bologna» era un notiziario a stampa, uscito dai torchi felsinei fin dal 1645 e poi edito, con continuità, dal 1678 al 1796 (cfr. E. Selfridge-Field, Song and Season: Science, Culture,
and Theatrical Time in Early Modern Venice, Stanford, Stanford University Press, 2007, p. 318 e n.
33). L’estratto qui proposto è trascritto in Id., A New Chronology, cit., p. 344, n. 322. Analogo
resoconto sull’evento sismico si legge nei dispacci del nunzio pontificio a Venezia (cfr. Città del
Vaticano, Biblioteca Apostolica, Archivio segreto, ‘Nunziatura di Venezia’, n. 169, c. 23, Venezia,
14 gennaio 1719).
51. Gran parte delle copie degli «Avvisi» di Venezia è conservata presso la Biblioteca del
museo Correr (Codice Cicogna, n. 1995) e alla Marciana di Venezia (Cod. It. vi, 74 [=5837]).
272
SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO
di taglio ‘pubblicitario’, redatti ogni sabato52 e depositati presso la Cancelleria
degli inquisitori di Stato,53 ricorrevano frequentemente notizie sui teatri e sugli spettacoli della Serenissima. Nei loro resoconti gli estensori54 registravano
la messa in scena delle produzioni più importanti, aggiungendo qualche volta dettagli di contorno (per lo più notifiche di imprevisti o incidenti), oppure lapidari giudizi di merito, in genere stilati meccanicamente utilizzando un
vocabolario codificato.55
Con queste parole, il 31 dicembre 1718 si metteva a verbale l’inizio della
stagione di carnevale:
e nella stessa sera [santo Stefano] si riaprirono tutti li ridotti, e Teatri delle Comedie
et opere, et in quello à S. Gio: Grisostomo andò in scena il nuovo Drama intitolato Il
Lamano, e nella sera seguente andò pure in scena all’altro à S. Angelo l’Amalasunta.56
Il medesimo estensore, in data 4 febbraio 1719, annunciava la prima del già
ricordato Pentimento generoso:
All’epoca, i foglietti con le notizie erano esposti nelle farmacie, nelle distillerie, nei negozi di
barbiere e, a partire circa dal 1720, nelle botteghe di caffè dove ci si riuniva per discutere le
notizie del giorno (cfr. Selfridge-Field, Song and Season, cit., pp. 312-314).
52. Si sa che i dispacci partivano su una chiatta da Rialto ogni sabato, dopo le due ore
venete (ossia dopo il tramonto). I bollettini erano distribuiti in Terraferma per mezzo di una
serie di corrieri. Viste le incombenti difficoltà sui tragitti di comunicazione, la sopravvivenza
degli «Avvisi» risulta per lo più irregolare e lacunosa (cfr. Selfridge-Field, A New Chronology,
cit., p. 41).
53. Poiché necessitavano dell’approvazione degli inquisitori di Stato, gli «Avvisi» sono conservati all’ASV nel fondo dedicato a questa speciale magistratura. Gli inquisitori, istituiti nel
1539, erano tre: due membri erano scelti nei ranghi del consiglio dei Dieci (i cosiddetti ‘neri’)
mentre un componente veniva dal corpo dei consiglieri personali del doge (il ‘rosso’). Tale
magistratura si occupava, tra le altre cose, della difesa dell’ordine pubblico ed ebbe perciò voce
in capitolo anche in materia di spettacoli (cfr. G. Comisso, Agenti segreti veneziani nel Settecento
[1705-1797], Milano, Bompiani, 1941, pp. 5-13; E. Selfridge-Field, Pallade Veneta. Writings
on Music in Venetian Society 1650-1750, Venezia, Fondazione Levi, 1985, pp. 24-25; ManciniMuraro-Povoledo, I teatri del Veneto, cit., to. ii, p. 24, n. 80).
54. I resoconti più citati erano quelli di Pietro Donado. Costui, attivo dal 1689 al 1746
circa, aveva un’agenzia davanti alla chiesa di san Moisè. Tra gli estensori accreditati quelli più
prolifici furono Giovanni Battista Feriozzi (attivo negli anni Dieci del Settecento), Francesco
Alvisi (tra gli anni Dieci e Venti), Girolamo Alvisi (negli anni Trenta) e Carlo Origoni Perabò
(tra gli anni Dieci e gli anni Cinquanta); cfr. Selfridge-Field, Song and Season, cit., p. 314.
55. Cfr. Selfridge-Field, A New Chronology, cit., p. 72. Questa forma ‘acerba’ di critica
non era propria solo degli «Avvisi», ma era comune a tutti i resoconti coevi di spettacolo, a
Venezia e in altre parti della penisola (cfr. L. Bianconi-T. Walker, Production, Consumption and
Political Function of Seventeenth-Century Opera, «Early Music History», iv, 1984, p. 213).
56. ASV, Inquisitori di Stato, b. 707, fasc. a. 1718, c. n.n., Venezia, 31 dicembre 1718.
273
GIANLUCA STEFANI
Intanto arrivano del continuo Cav[alie]ri Forastieri dà tutte le parti per godere dello stesso [carnevale] essendo ultimam[en]te nel Teatro di S. Gio. Grisostomo andato in Scena il 3° Drama intitolato l’Ifigenia in Tauride, e q[ue]sta sera in q[ue]llo di
S. Angelo vi anderà il 3°: Drama intitolato il Portamento [sic!] Generoso, ò sia il
Tiranno raveduto.57
per poi registrare, la settimana successiva, il gran successo di pubblico riscosso
dall’opera firmata da Lalli e Fiorè:
Sabb[a]to sera d[e]lla passata andò in scena nel Teatro à Sant’Angelo il terzo Dramma
intitolato Il Pentimento Generoso, che hà un straordinario concorso.58
Parole che lasciano supporre il buon esito della stagione teatrale di Sebastiano Ricci. Si apprende, peraltro, da carte inedite, che le recite quell’anno
furono in tutto sessantacinque:59 numeri da record, visto che, per fare un solo
confronto, la brillante stagione del 1729-1730 al San Giovanni Grisostomo,
lanciata nel nome di Farinelli, avrebbe totalizzato ‘appena’ cinquanta performances.60 D’altronde, si tenga conto che, in quel 1718, la stagione autunnale era
partita presto, con il debutto dell’Amor di figlia di Lalli e Giovanni Porta il 29
ottobre.61 Il numero delle recite veniva probabilmente stabilito in anticipo:62
nei citati registri Giustinian, in data 14 ottobre 1728, è annotato il pagamento di un pacchetto di cinquantadue bollettini per l’imminente stagione teatrale al Sant’Angelo63 (cinquanta dovevano essere in media le recite stagionali
in Laguna). Cifre per altro non esenti da variazioni: la programmazione degli
spettacoli era generalmente flessibile, tenendo conto della risposta del pubbli-
57. Ivi, Venezia, 4 febbraio 1718 m.v.
58. Ivi, Venezia, 11 febbraio 1718 m.v.
59. Cfr. ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31,
n. 22, Venezia, 21 marzo 1719.
60. Cfr. Talbot, Tomaso Albinoni, cit., p. 197. Ancora, l’Orlando furioso di Grazio Braccioli
(libretto) e Antonio Vivaldi (musica), andato in scena per la prima volta al Sant’Angelo il 9 novembre 1713 (impresario lo stesso Vivaldi), totalizzò quasi cinquanta recite, tanto che fu replicato l’anno successivo nello stesso teatro (cfr. R. Strohm, The Operas of Antonio Vivaldi, Firenze,
Olschki, 2008, vol. i, pp. 60 e 122-123).
61. Il libretto de L’amor di figlia (Venezia, Rossetti, 1718, 60 pp.) è stato consultato presso la
Marucelliana di Firenze (Melodrammi, 2310.12). Per una scheda dell’opera cfr. Selfridge-Field,
A New Chronology, cit., p. 342. Al San Giovanni Grisostomo, l’Ariodante di Antonio Salvi (libretto) e Carlo Francesco Pollarolo (musica) debuttò quasi un mese dopo, il 20 novembre 1718
(cfr. ivi, p. 342).
62. Cfr. Talbot, Tomaso Albinoni, cit., p. 197.
63. Rivedi n. 45.
274
SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO
co.64 Se gli spettatori gradivano, si incrementavano le repliche, sia pure entro
i termini del calendario stabilito.
Sotto la gestione riccesca si recitò quasi ogni sera, con lauti incassi. Il buon
andamento al botteghino di cui riferiscono gli «Avvisi», nonché le ottime condizioni economiche di cui godeva Ricci contribuirono ad agevolare il corso
degli spettacoli, limitando le consuete polemiche e gli incidenti. I verbali dei
Capi del consiglio dei Dieci non registrano nessun disordine: una felice eccezione, dato che nelle stagioni passate (e in quella successiva) molteplici furono gli interventi e i provvedimenti presi da costoro a fronte dei gravi episodi
verificatisi al Sant’Angelo.65
Tuttavia non tutto andò liscio. Dalle carte dei giudici del Forestier veniamo a sapere di un contenzioso che vide protagonisti Sebastiano Ricci impresario e due membri della famiglia d’arte Madonis, i violinisti Giovan Battista
e Lodovico. Documenti significativi, non tanto per il merito della controversia, quanto, soprattutto, per le informazioni indirette sulla gestione di quella
stagione teatrale e, più in generale, sul sistema delle sale d’opera veneziane nel
primo Settecento.
Dei Madonis, il nome più noto è quello di Luigi, anch’egli violinista.66 Presunto allievo di Antonio Vivaldi, nel 1729 costui si stabilì a Parigi, al servizio
dell’ambasciata di Venezia; e nel 1733, come violino di spalla, fece parte della
compagnia di Gaetano, Gennaro e Antonio Sacco in viaggio sulla rotta di San
Pietroburgo, presso la corte della zarina Anna Ioannovna.67
Si sa che Luigi era fratellastro di Antonio Madonis,68 impresario al Sant’Angelo nella stagione 1724-1725 e poi violinista in Russia con la compagnia Sacco
64. «Le opere con un buon riscontro di pubblico potevano andare in scena ogni giorno,
mentre quelle con risultati alterni solo qualche volta alla settimana» (Selfridge-Field, Song and
Season, cit., p. 105; mia la traduzione). Si sa, viceversa, che nel caso in cui un’opera fosse andata
male si poteva decidere di interromperla e di sostituirla il prima possibile con una produzione
‘di scorta’.
65. L’intervento dei Capi al Sant’Angelo si registra nelle stagioni 1716-1717 (cfr. ASV, Capi
del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, f. 42, fasc. a. 1716, cc. n.n., alle date 31 dicembre 1716;
5, 12, 30 gennaio e 25 febbraio 1716 m.v.); 1717-1718 (cfr. ivi, fasc. a. 1717, cc. n.n., alla data 22
gennaio 1717 m.v.) e 1719-1720 (cfr. ivi, f. 43, fasc. a. 1719, c. n.n., alla data 30 gennaio 1719
m.v.).
66. Cfr. G. Fornari, Madonis, Luigi, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
della enciclopedia italiana, 2006, vol. 62, pp. 164-166 (ora anche on line).
67. Cfr. ivi, p. 165; e, soprattutto, S. Ferrone, La Commedia dell’Arte. Attrici e attori italiani
in Europa (XVI-XVIII secolo), Torino, Einaudi, 2014, pp. 218 e n., 342.
68. Cfr. Fornari, Madonis, cit., p. 164. Lo stesso Antonio Madonis fu violinista al
Sant’Angelo nella stagione 1717-1718; cfr. ASV, Capi del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, f.
42, fasc. a. 1717, c. n.n., Venezia, 22 gennaio 1717 m.v.
275
GIANLUCA STEFANI
nella citata tournée del 1733.69 Sua e del fratello Giovan Battista la firma alla
dedica del Seleuco, prima opera di carnevale di quell’anno.70 Dai documenti
inediti sulla citata controversia, si ricava che Giovan Battista era il padre di Lodovico e che entrambi suonarono in quel teatro nell’autunno e nel carnevale
1718-1719, sotto la gestione del Ricci. Non era la prima volta che Lodovico
Madonis si esibiva nell’orchestra del Sant’Angelo: in un verbale dei Capi del
consiglio dei Dieci del 25 febbraio 1717 si legge che egli «sonò in d[ett]o Teatro il Violino Capo de Secondi».71 In quella stessa stagione 1716-1717 (guidata
dall’impresario Pietro Ramponi), Lodovico fu anche ‘carattadore’, finanziando in proprio le produzioni operistiche.72
I Madonis furono legati al Sant’Angelo a doppio filo: in base alle tracce documentarie rinvenute, si può ipotizzare che la loro collaborazione in quel teatro fosse continuativa (non è un caso che Antonio ne divenisse impresario).73
Purtroppo, si sa, i nomi dei ‘sonadori’74 non erano registrati nei libretti, né
sono sopravvissuti registri di cassa o altri documenti che possano aiutare a ri-
69. Si legge nei citati registri Giustinian: «Contadi à Domen[i]co Viola Proc[urator]e di
D[omin]o Gio[vanni] Carestini Cess[iona]rio del S[igno]r Ant[oni]o Madonis Impresario del
Teatro di S. Angelo per affitto del Palco Pepian n. 20» (ASV, Ospedali e luoghi pii, ‘Registri’, b.
1004, c. 181b, alla data 24 febbraio 1724 m.v.). La notizia dell’impresariato di Antonio Madonis,
data a suo tempo da Vio (cfr. Note biografiche, cit., p. 69), è stata trascurata dalla critica successiva.
Quanto alla tournée in Russia v. n. 67.
70. Seleuco, Venezia, Rossetti, 1725 (copia consultata: Milano, Biblioteca nazionale braidense, Racc. Dramm. Corniani Algarotti, 1067). Dopo l’impresariato al Sant’Angelo, i due fratelli
violinisti furono legati alla troupe di Antonio Denzio, divisi tra il San Moisè e il teatro del conte
boemo Fantišek Antonín von Sporčk a Kuks (Praga). È probabile che si riferisca a Antonio la
seguente testimonianza inedita di Apostolo Zeno: «Diman l’altro partir di qui per Venezia il sig.
Madonnis, sonatore di violino, amicissimo del sig. Filippo Recanati: che è stato qualche tempo
in Praga per l’opere di quel Teatro» (lettera di Apostolo a Pier Caterino Zeno, Vienna, 31 agosto 1726, in Lettere inedite del signor Apostolo Zeno istorico e poeta cesareo, raccolte e trascritte da Giulio
Bernardino Tomitano opitergino, membro del collegio elettorale dei dotti (1808), ms., Firenze, Biblioteca
medicea laurenziana, Codice Ashburnham, 1788, c. 238r., lettera 514).
71. ASV, Capi del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, f. 42, fasc. a. 1716, c. n.n., Venezia,
25 febbraio 1716 m.v.
72. Cfr. Selfridge-Field, A New Chronology, cit., p. 332.
73. Cfr. n. 69.
74. Come è noto, gli artigiani veneziani erano uniti in corporazioni, dette arti, che ne
regolavano l’attività commerciale. Tra queste corporazioni ve ne era una che rappresentava i
musicisti, l’Arte de’ Sonadori (cfr. E. Selfridge-Field, Annotated Membership Lists of the Venetian
Instrumentalist’s Guild, 1672-1727, «R.M.A. Research Chronicle», 1971, 9, pp. 1-52). «Gli elenchi
dei membri forniti periodicamente [dalla corporazione] alle autorità governative sono un’utile
fonte di informazioni per l’età anagrafica (malgrado questa sia spesso riportata in maniera inesatta) e perfino sulla relativa ricchezza di ciascun membro» (Talbot, The Vivaldi Compendium,
cit., p. 27, s.v.; mia la traduzione).
276
SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO
costruire sistematicamente l’organico dei professionisti di quella sala d’opera.
Solo grazie al menzionato contenzioso è possibile collegare il nome dei Madonis alla stagione di nostro interesse. In quell’anno teatrale Ricci aveva accusato Giovan Battista e il figlio Lodovico di aver riscosso da Domenico Viola
denaro in eccesso rispetto all’onorario pattuito. I due violinisti non avevano
voluto sentire ragioni e il pittore decise di far ricorso alla giustizia. Il 21 marzo 1719, a più di un mese dalla conclusione delle recite, Ricci presentava al
tribunale del Forestier75 la sua ‘dimanda’ contro Giovan Battista Madonis, redatta da Agostino Rosa, interveniente del teatro (doc. 3):
Con la sc[rittu]ra 29 Aprile 1718 foste accordato, et v’obligaste Voi d[omino] Gio[van]
Batt[ist]a Madonis con d[omino] Antonio Moreti d[ett]o Modotto Impresario del
Teatro di S. Angelo a suonare il Violino Voi et v[ost]ro figli[ol]o nelle opere in d[ett]o
Teatro dell’auttuno, e Carnevale prossimi passati in tutte le prove, e recite per l’esborso da farvisi de ducati cento, e quaranta da lire 6:4 l’uno tra tutti due à lire quindeci ogne recita in difalco sino al saldo dei sud[dett]i ducati 140. Et essendo stato cesso
et renonciato il sud[dett]o Teatro a condure il med[esim]o dal sud[dett]o Moretti à
mè Sebastian Ricci con tutti gl’obleghi, et accordi da lui fatti, v’hò anco ricevuti
in bell’essercitio, ed impiego, et v’hò fatto prontam[en]te contribuire ogne recita da
d[omino] Dom[eni]co Viola da mè declinato alla dispensa de Bolettini, et al pagamento delle spese ord[inari]e dell’opere le sudette lire quendeci da Voi conseguite per
mano di Franc[esc]o Dominesso, ché fù da tutta l’orchestra scelto per scoddere per
il corso intiero di sessantacinque recite che il sud[dett]o Viola le esborsò senza haver
cognitione sin a qual suma ciò dovevasi continuare, all’hor ché venuto in cognitione
tralasciò per vedervi non solo da Voi conseguito l’intiero delli ducati 140 stabiliti, ma
ancora lire cento, e sette di più, e se ve n’è recercata la restitutione che da Voi recusata con patente ingiustitia fù chè citato nel presente Ecc[ellent]e Mag[istrat]o insto,
et addimando che restiate sententiato alla restitutione delle sud[dett]e lire 107 di più
del vostro accordo conseguite, et che indebitamente vi ritenete.76
Da questa ‘dimanda’ si ricava che, il 29 aprile 1718, i due Madonis avevano
firmato il loro contratto di ingaggio (la ‘scrittura’)77 con Antonio Modotto, al-
75. I giudici del Forestier erano una corte speciale destinata alle cause nelle quali almeno
una delle due parti implicate era ‘forestiera’. Lo spoglio sistematico del fondo (anni 1696-1730)
ha portato a galla un discreto numero di carte concernenti beghe teatrali, per lo più riguardanti
la proprietà dei palchi. Il contenzioso in questione è in tal senso un’eccezione: al centro della
battaglia giudiziaria non ci sono palchi, ma questioni pecuniarie relative a professionisti del
mondo dell’opera.
76. ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 22,
Venezia, 21 marzo 1719 (documento inedito); e v. doc. 3.
77. Nell’ambiente teatrale dell’epoca, il termine ‘scrittura’ indicava un atto specifico volto a ratificare gli accordi tra due o più soggetti. Nel suo classico studio sui teatri veneziani,
277
GIANLUCA STEFANI
lora unico impresario del teatro. La cifra pattuita per l’intero corso delle recite
ammontava a centoquaranta ducati.78 Come specificato nel documento, ogni
loro performance era compensata con quindici lire:79 l’equivalente di quanto fu
pagato al secondo e al terzo violino nella stagione 1717-1718 al Sant’Angelo.80
I conti di quest’ultima annata sono noti perché passati al setaccio dei Capi
del consiglio dei Dieci, i quali avevano commissariato la conduzione dell’allora impresario Giovanni Orsatto, finito sull’orlo del fallimento.81 Dal listino
delle paghe giornaliere dovute ai singoli professionisti, si apprende, appunto, che al secondo violino Antonio Madonis dovevano essere corrisposte otto
lire a recita, mentre al terzo violino Marco Madonis (un consanguineo non
meglio identificato) furono accordate sette lire e dieci soldi.82 Se non è chiaro quanto percepì al netto di ogni esibizione il primo violino Paulo Sabadin
(nelle venti lire al giorno registrate sono incluse le spese di alloggio), i restanti
cinque violinisti furono equamente retribuiti con sei lire e quattro soldi.83 Paghe non certo elevate se prese singolarmente, ma che dovevano incidere non
poco sulla spesa complessiva.84
Sulla base del citato listino è inoltre possibile ricostruire la composizione
dell’orchestra al Sant’Angelo in questi anni. Oltre agli otto violinisti menzioLudovico Zorzi dichiarava di non essere riuscito a «rintracciare un solo contratto o un’altra
qualsiasi menzione ufficiale relativa ai componenti dell’orchestra, evidentemente persone raccogliticce e di poche pretese» (Venezia: la Repubblica a teatro [1971], in Id., Il teatro e la città. Saggi
sulla scena italiana, Torino, Einaudi, 1977, p. 263 [ora anche in versione e-book, con un saggio di
S. Mazzoni, Bologna, CUE Press, in corso di stampa]). Beth e Jonathan Glixon, confermando
l’assenza di notizie relative a contratti con orchestrali, ne ricavano che i musicisti in linea di
massima non sottoscrivevano accordi ufficiali (cfr. Inventing the Business of Opera, cit., p. 223).
L’inedito documento in questione prova, al contrario, che i musicisti erano ingaggiati sulla base
di specifiche ‘scritture’, al pari degli altri professionisti d’opera.
78. Si tratta di ducati ‘correnti’, il cui valore all’epoca ammontava appunto a sei lire e quattro soldi (in ‘lire di piccoli’).
79. Cfr. ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31,
n. 22, Venezia, 21 marzo 1719; e v. doc. 3.
80. Cfr. ASV, Capi del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, fasc. a. 1717, f. 42, c. n.n.,
Venezia, 22 gennaio 1717 m.v.
81. Cfr. ibid. Il documento citato registra l’autorizzazione emessa dal consiglio dei Dieci
per la recita di Cleomene, su musica di Tomaso Albinoni e libretto di Vincenzo Cassani, al debutto al Sant’Angelo la sera stessa del nulla osta. Su questo doc. vedi anche Selfridge-Field, A
New Chronology, cit., pp. 338-339.
82. Cfr. ASV, Capi del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, fasc. a. 1717, f. 42, c. n.n.,
Venezia, 22 gennaio 1717 m.v.
83. Cfr. ibid.
84. Si è calcolato che, negli anni Cinquanta del Seicento, le paghe degli orchestrali ammontassero a circa un sei per cento della spesa totale (cfr. Glixon-Glixon, Inventing the Business
of Opera, cit., p. 223).
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SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO
nati, si devono annoverare due cembali, un ‘violone’, un violoncello, due ‘violette’ e un oboe.85 Quindici elementi in tutto: un ensemble ben più articolato
di quanto calcolato dalla critica fino a oggi (si era parlato di sei o sette strumentisti al massimo).86
Si sa che i musicisti erano pagati di sera in sera, al pari di illuminatori, sarti,
suggeritori, comparse, pittori di scena, maschere.87 I loro emolumenti, esclusi
dai bilanci stagionali, erano conteggiati a parte,88 insieme alle spese «ord[inari]e
dell’opere», compresa la «messa per le aneme del Purgatorio».89 Nella sua denuncia Sebastiano Ricci precisava di aver assegnato a Domenico Viola il compito di «contribuire ogne recita».90 Il fido cassiere, alloggiato presso il «buso
de boletini»91 (il botteghino), avrebbe pensato ogni sera a radunare i soldi per
l’orchestra per poi consegnarli nelle mani di Francesco Dominesso, incaricato di distribuire le paghe ai singoli musicisti. Stando alla testimonianza riccesca, sulla paga dei Madonis c’era stato un malinteso tra la direzione e Viola.
Quest’ultimo, «senza haver cognitione», aveva dato ai due violinisti centosette
lire oltre il dovuto. Dal canto loro, padre e figlio avevano incassato il denaro,
senza batter ciglio.92
Un altro nome di musicista si aggiunge, dunque, all’elenco degli orchestrali
al Sant’Angelo nella stagione 1718-1719: quello di Francesco Dominesso. Dominesso era un parrucchiere con l’hobby del violino, al pari di Giovanni Bat-
85. Cfr. ASV, Capi del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, fasc. a. 1717, f. 42, c. n.n.,
Venezia, 22 gennaio 1717 m.v.
86. Cfr. Mancini-Muraro-Povoledo, I teatri del Veneto, cit., to. ii, p. 25. Siamo comunque ben lontani dai numeri e dalle caratteristiche dell’orchestra come la intendiamo oggi. Così
Strohm: «Le dimensioni complessive dell’orchestra d’opera variavano da istituzione a istituzione; ma un corpo di base composto da dodici suonatori d’archi, due/quattro suonatori di legni e
due suonatori di ottoni, più uno o due arpicordi e forse una tiorba e un contrabbasso era normalmente sufficiente per un’opera italiana dell’epoca» (Strohm, The Operas of Antonio Vivaldi,
cit., p. 93; mia la traduzione). Nel Seicento l’organico orchestrale era ancora più ridotto: negli
anni Cinquanta si parla di cinque strumenti a corda, due o tre arpicordi, una o due tiorbe (cfr.
Glixon-Glixon, Inventing the Business of Opera, cit., p. 222).
87. Cfr. L. Bianconi, Condizione sociale e intellettuale del musicista di teatro ai tempi di Vivaldi,
in Antonio Vivaldi: teatro musicale, cultura e società. Atti del convegno internazionale di studio
(Venezia, 10-12 settembre 1981), a cura di L. B. e G. Morelli, Firenze, Olschki, 1982, vol. ii,
p. 377; Glixon-Glixon, Inventing the Business of Opera, cit., pp. 15 e 223.
88. Cfr. Bianconi-Walker, Production, Consumption, cit., p. 225.
89. ASV, Capi del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, fasc. a. 1717, f. 42, c. n.n., Venezia,
22 gennaio 1717 m.v.
90. ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 22,
Venezia, 21 marzo 1719; e v. doc. 3.
91. Ivi, n. 108, Venezia, 31 maggio 1719.
92. Ivi, n. 22, Venezia, 21 marzo 1719.
279
GIANLUCA STEFANI
tista Ganasette, di Angelo Galuppi, di Salvador Appoloni, Francesco Bottion
e del più famoso Giovanni Battista Vivaldi.93 Visto l’incarico di responsabilità
ottenuto sotto la gestione del Ricci (su votazione degli orchestrali),94 è lecito
ipotizzare che il barbiere-musicista fosse un veterano del Sant’Angelo. Tornano alla mente, a questo proposito, le paradossali (ma non menzognere) parole usate da Benedetto Marcello per descrivere il ‘sonadore’ d’opera: «Dovrà il
Virtuoso di Violino in primo luogo far ben la Barba, tagliar Calli, pettinar Perucche
e compor di Musica».95 Si è ricordato come il frontespizio del Teatro alla moda
irridesse proprio il Sant’Angelo: negli ironici consigli elargiti ai professionisti
dell’opera, Marcello mescolava critiche generali con frecciate ad personam.96
Tanti, dunque, gli spunti che potremmo ricavare dal trascritto documento.
Tornando al contenzioso, i Madonis non rimasero inermi di fronte alla querela
del pittore. Il 1° aprile seguente, con altrettanta pervicacia, Giovan Battista espo93. Cfr. G. Vio, Musici veneziani nella cerchia di Giovanni Battista Vivaldi, in Nuovi studi vivaldiani: edizione e cronologia critica delle opere, a cura di A. Fanna e G. Morelli, Firenze, Olschki,
1988, vol. ii, pp. 696-699; F.M. Sardelli, Vivaldi’s Music for Flute and Recorder, trad. ingl. di M.
Talbot, Aldershot, Ashgate, 2007, p. 154, n. 29; Talbot, The Vivaldi Compendium, cit., p. 30,
s.v. Barbers and Barber-Musicians, Venetian. Dominesso risulta iscritto all’Arte de’ Sonadori nei
registri degli anni 1711 e 1727 (cfr. Selfridge-Field, Annotated Membership Lists, cit., p. 19).
94. Cfr. ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31,
n. 22, Venezia, 21 marzo 1719; e v. doc. 3.
95. [B. Marcello], Il teatro alla moda, Venezia, [Pinelli], [1720], cit. nell’ediz. a cura di R.
Manica, Roma, Quiritta, 2001, p. 41. Talvolta le botteghe di barbitonsore funzionavano come
vere e proprie scuole dove si impartiva agli allievi una formazione musicale. «È tutt’altro raro il
caso di Capi Maestri Barbieri – come venivano qualificati i proprietari e conduttori di negozi
da barbiere – che si impegnavano, per contratto, ad insegnare ai loro apprendisti non solo la
loro vera e propria arte, ma anche la musica e l’apprendimento di qualche strumento» (G. Vio,
I luoghi di Vivaldi a Venezia, «Informazioni e studi vivaldiani», v, 1984, p. 103, n. 9). Nelle sue
ricerche, Vio avverte di aver raccolto una ricca messe di «contratti di garzonaggio nei quali si
tratta di apprendimento dell’arte musicale. Per lo più i maestri sono barbieri. C’è da credere che
nelle ‘botteghe da barbier’, a Venezia, si tenessero trattenimenti musicali, forse nei momenti di
‘stanca’, quando la clientela era meno numerosa, ma si deve tenere presente che erano i barbieri
che si recavano nelle case dei nobili (e non viceversa) e nei palazzi veneziani potremmo dire che
la musica era davvero di casa» (Vio, Musici veneziani, cit., p. 696, n. 28). Che a Venezia si facesse
musica e ci si formasse musicalmente nelle botteghe dei barbieri è indizio della mancanza di
istituti di formazione professionale (eccezion fatta per i conservatori, che allevavano fanciulle
destinate, per lo più, a rimanere confinate entro il perimetro dei conservatori stessi) e dunque
indice di una formazione «informale, mimetica» (cfr. Bianconi, Condizione sociale, cit., p. 379).
Professionisti siffatti, senza precisa formazione, che imparavano l’arte in qualche bottega di barbiere di fortuna, sono appunto l’oggetto della satira di Marcello, che non manca di sottolineare
questa consuetudine irridendo a quei musicisti che anziché maneggiare i principi della composizione (nella tradizione cinquecentesca) maneggiavano pennelli e rasoi.
96. Cfr. E. Selfridge-Field, Marcello, Sant’Angelo and ‘Il Teatro alla moda’, in Antonio Vivaldi:
teatro musicale, cultura e società, cit., vol. ii, pp. 533-546.
280
SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO
neva per iscritto le proprie ragioni (doc. 4).97 Costui puntualizzava essere ben
altri gli accordi presi «con d[omi]no Ant[oni]o Moretti d[et]to Modotto, al quale esso Rizzi è succeduto per Impressario del Teatro di S. Angelo per l’Autuno,
e Carnevale pross[i]mo passato». Poiché tali accordi erano stati violati, Madonis si sentiva legittimato a «tratenersi tutto il conseguito», ossia le centosette lire incriminate. In che cosa consistessero le «alterationi» dell’«accordo» «praticate
dà esso Rizzi cessionario», non è detto apertamente. Madonis parla di «insolito
impiego non mai concertato, anzi fuori del convenuto praticato», in ragione del
quale l’impresario «doverebbe con honesto, e raggionevole sentimento riddursi à
supplire à suoi ulteriori doveri».98 Non è improbabile che il musicista alludesse al
servizio prestato per recite extra, programmate sulla scia del successo di pubblico.
Ma Giovan Battista Madonis non si limitò a replicare alle accuse di Ricci.
Il 22 maggio il violinista passava al contrattacco, presentando ai giudici del Forestier una ‘dimanda di converso’ (doc. 5), con la quale chiedeva il pagamento di centosessantacinque lire per le ultime undici sere di recita (per «il solito
onorario delle lire 15 per ogni sera»).99 Evidentemente, dopo aver scoperto
l’illecito, Ricci non aveva finito di pagare i due violinisti, scalando dall’onorario pattuito il saldo delle loro ultime prestazioni. Secondo Giovan Battista si
trattava di un mero pretesto studiato dall’impresario per «esimersi dall’intiero
adempim[ent]o de suoi doveri»; d’altronde, «poco plausibili» erano le
insistenze di d[omin]o Sebastian Rizzi nel pretender con aperta ingiustitia la restitut[io]ne
delle lire 107 fatte soministrare a d[omin]o Z[u]an B[attis]ta Madonis e Lod[ovi]co
suo figliolo per dovuta recognitione del loro impiego e serviggio prestato nel Teatro
di S. Angelo di sera in sera.100
Era troppo. Nove giorni dopo, il pittore ricapitolava, con maggiore concisione, le proprie ragioni, rigettando la domanda di ‘converso’ come un torbido espediente usato «per far cadere la causa deputata di volontà per li 24 dello
stesso mese».101 Quindi tornava a chiedere giustizia contro il Madonis (doc. 6).
I giudici gli diedero ragione. Della causa possediamo la sentenza, anch’essa
inedita, emessa in data 18 luglio 1719 da «Giacomo Minoto, Mattio Ciceron
e Andrea Marcello Hon[orand]i Giud[ic]i di Forestier» (doc. 7).102 Nel dop97. ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n.
45, Venezia, 1° aprile 1719.
98. Ibid.
99. ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 97,
Venezia, 22 maggio 1719.
100. Ibid.
101. Ivi, n. 108, Venezia, 31 maggio 1719.
102. ASV, Giudici del Forestier, ‘Sentenze’, b. 133, c. 264v., Venezia, 18 luglio 1719.
281
GIANLUCA STEFANI
pio ‘spazzo’ (sentenza) la corte da un lato condannava Madonis al capo di imputazione prodotto nell’accusa del 21 marzo; dall’altro assolveva Ricci dalla
controaccusa presentata dal violinista presso quel tribunale in data 22 maggio.
Come era norma in questi casi tutte le spese processuali sarebbero state addebitate al Madonis. Di seguito i verdetti:
Quanto al cappo di principal, tutti tre S.S. E.E. Unanimi et Concordi hanno
sent[enziat]o detto d[omi]no Gio[van] Batt[ist]a Madonis giusto in tutto e per tutto
alla Dima[nd]a del d[omin]o Rizzi cond[annand]o la parte Rea nelle spese.
Quanto al cappo di converso di d[omin]o Madonis parimenti tutti tre S.S. E.E.
Unanimi et Concordi hanno asolto d[omin]o Rizzi da d[ett]o Cappo e dalle cose in
esso cont[enu]te cond[annand]o il sud[dett]o Madonis nelle spese.
[Firma] Giacomo Minotto Giudice di Forestier.103
Si concludeva così l’incresciosa vicenda che aveva visto Ricci alle prese con
beghe contrattuali e aule di giustizia. Il ricordo amaro dei guai giudiziari della stagione 1705-1706104 doveva essersi riacceso. Dieci anni più tardi (1729), il
pittore ci sarebbe ricascato, ficcandosi nell’impresa di un altro teatro, il San
Cassiano di Francesco Tron. Neanche allora mancarono i ‘dolori’. In una ‘crudele’ caricatura (fig. 3), Zanetti ritraeva «Bastian Ricci pensoroso; perche non
faceva assai Bollettini in S. Cassiano».105 L’amico ne aveva ben fiutato l’umore:
nuove grane erano in arrivo, altri assilli. Alla soglia dei settant’anni, l’impresario sarebbe tornato in angustie.
Appendice
La trascrizione dei documenti è prevalentemente conservativa. Tra parentesi quadre
sono indicate le lettere omesse nelle abbreviazioni o nelle parole contratte. La particolare accentazione in uso al tempo è stata per lo più mantenuta, tranne nei casi di
ambiguità e possibile fraintendimento. Gli a capo sono stati rispettati solo in parte, e,
quando necessario, è stata introdotta o modificata la punteggiatura. Si è distinto u da v.
103. Ibid.
104. Cfr. Glixon-White, ‘Creso tolto a le fiamme’, cit. e M. White, Antonio Vivaldi: A Life
in Documents, Firenze, Olschki, 2013, pp. 50-54.
105. Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Gabinetto dei disegni e delle stampe, Album
Zanetti, f. 56, inv. 36679 (cfr. Caricature di Anton Maria Zanetti, cit., p. 96, scheda 279; E.
Lucchese, Sebastiano Ricci ‘pensoroso’, in Sebastiano Ricci. Il trionfo dell’invenzione nel Settecento
veneziano, catalogo della mostra a cura di G. Pavanello [Venezia, 24 aprile-11 luglio 2010],
Venezia, Marsilio, 2010, p. 48, scheda 3).
282
SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO
Doc. 1
Antonio Moretti nomina suo procuratore Sebastiano Ricci, ASV, Notarile. Atti, b.
12249, cc. 175r.-v. (antica numerazione, protocolli del notaio Giorgio Maria Stefani).
Die Veneris 16 Mensis Decembris 1718. In Scriptoria mei Notarij super Platea Divi
Marci Venetiarum etc.
Il Sig[no]r Antonio Modotto, spontaneamente costituisce suo Proc[urato]r irrevocabile, il Sig[no]r Sebastian Rizzi Pittor in questa città benche absente etc.
À poter à nome suo riscuotter, ricever, e conseguir da tutti, e cadauni Affituali de
Palchi del Teatro di S. Angelo l’Affitto d’ogni, e cadaun Palco, che s’attrova Affittato
in detto Teatro per l’opera del presente Autuno e venturo Carnevale 1718 m[or]e
v[enet]o che saranno maturati li primi giorni della Quadragesima106 prossima; e tutto quello, e quanto riscuotterà di esso Affitto trattenersi nelle di lui mani d[ett]o
Sig[no]r Sebastian Rizzi per spese per occasione di d[ett]a Opera da lui fatte; essercitando perciò qualunque essecutione con chi fossero renitenti per la consecutione
di essi Affitti, nella forma e modo, et in tutto, e per tutto, come far potrebbe d[ett]o
Sig[no]r Modotto Costituente, se presente fosse; et in suo luoco sostituire unò, ò più
Procuratori con simile overo limitate auttorità, et quelli revocare; et Generalmente
etc. Promettendo etc. sott’obbligatione etc. Rogano etc.
Teste:
D[ominus] Sanctus Bortoli q[uondam] Camilli; et
D[ominus] Fran[ces]cus Anumano
Doc. 2
Sebastiano Ricci nomina suo procuratore Domenico Viola, ASV, Notarile. Atti, b.
12249, c. 251r. (antica numerazione, protocolli del notaio Giorgio Maria Stefani).
Die Veneris 24 Mensis Februarij 1718 M.V. In domo habitationis mei Notarij de
Confinio Sancti Salvatoris Veneti etc.
Il Sig[no]r Sebastian Rizzi Pittor in questa Città, facendo come Conduttore, sive
Patrone del Teatro di S. Angelo, spontaneam[en]te costituisce suo Proc[urato]re, e
Commesso legitimo il Sig[no]r Domenico Viola Agente delli N.N. H.H. Tron benché absente etc.
À poter à nome suo riscuotter, ricever, e conseguir da tutti, e cadauni Affittuali de
Palchi di d[ett]o Teatro di S. Angelo tutti li Affitti corsi, e maturati, facendo di quanto riscuotterà le debite ricevute e cautioni; et in caso di renitenza al pagamento giu-
106. Quaresima.
283
GIANLUCA STEFANI
diciariamente astringer, facendo perciò qualunque comparsa, essecutione, et Atti che
ricercasse il bisogno; et Generalmente etc. Promettendo etc. sott’obbligat[ion]e etc.
Teste:
D[ominus] Antonius Angeli q[uonda]m d[omi]ni Mathei et
D[ominus] Jo[annis] Dom[eni]cus Redolfi q[uondam] d[omi]no Jo[annis].
Doc. 3
Domanda di Sebastiano Ricci in causa con Giovan Battista Madonis, ASV, Giudici del
Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 22.
Adì 21 Marzo 1719
Dimanda di D[omin]o Sebastian Rizi in causa contro Do[mi]no G[iov]an Batt[ist]a
Madonis.107
Con la sc[rittu]ra 29 Aprile 1718 foste accordato, et v’obligaste Voi d[omino] Gio[van]
Batt[ist]a Madonis con d[omino] Antonio Moreti d[ett]o Modotto Impresario del
Teatro di S. Angelo a suonare il Violino Voi et v[ost]ro figli[ol]o nelle opere in d[ett]o
Teatro dell’auttuno, e Carnevale prossimi passati in tutte le prove, e recite per l’esborso da farvisi de ducati cento, e quaranta da lire 6:4 l’uno tra tutti due à lire
quindeci ogne recita in difalco108 sino al saldo dei sud[dett]i ducati 140. Et essendo
stato cesso et renonciato il sud[dett]o Teatro a condure il med[esim]o dal sud[dett]o
Moretti à mè Sebastian Ricci con tutti gl’obleghi, et accordi da lui fatti, v’hò anco
ricevuti in bell’essercitio, ed impiego, et v’hò fatto prontam[en]te contribuire ogne
recita da d[omino] Dom[eni]co Viola da mè declinato alla dispensa de Bolettini, et
al pagamento delle spese ord[inari]e dell’opere le sudette lire quendeci da Voi conseguite per mano di Franc[esc]o Dominesso, ché fù da tutta l’orchestra scelto per
scoddere per il corso intiero di sessantacinque recite che il sud[dett]o Viola le esborsò
senza haver cognitione sin a qual suma ciò dovevasi continuare, all’hor ché venuto
in cognitione tralasciò per vedervi non solo da Voi conseguito l’intiero delli ducati
140 stabiliti, ma ancora lire cento, e sette di più, e se ve n’è recercata la restitutione che da Voi recusata con patente ingiustitia fù chè citato nel presente Ecc[ellent]e
Mag[istrat]o insto, et addimando che restiate sententiato alla restitutione delle
sud[dett]e lire 107 di più del vostro accordo conseguite, et che indebitamente vi ritenete. Salvis etc. et in expensis.
107. Come annotato a margine del testo, la scrittura fu «illico intimata» a un certo
Venturini.
108. Detrazione.
284
SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO
Doc. 4
Risposta di Giovan Battista Madonis in causa con Sebastiano Ricci, ASV, Giudici del
Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 45.
Adì p[ri]mo Ap[ri]le 1719
Risposta di Do[mi]no Z[u]an Batt[ist]a Madonis in causa con Domi[n]o Sebastian
Rizzi.109
Non può darsi stravaganza maggiore né ingiustitia più aperta di quella [che] và meditando d[omi]no Sebbastian Rizzi contro d[omi]no Gio[van] Batt[ist]a Madonis nel pretender con pocca gratitudine, e meno raggione la restitution delle lire 107 – dice haver il di
Lui Scodidore contribuito di più dell’accordo [che] si pretende concluso con d[omi]no
Ant[oni]o Moretti d[et]to Modotto, al quale esso Rizzi è succeduto per Impressario
del Teatro di S. Angelo per l’Autuno, e Carnevale pross[i]mo passato. Se con matura ponderatione volesse riflettere alla stretta raggione dell’accordo sud[dett]o fatto col
pred[ett]o Modotto et all’alterationi di quello praticate dà esso Rizzi cessionario non
solo conoscerebbe l’Ingiustitia de suoi tentativi che la convenienza d’esso Madonis per
legalm[ent]e tratenersi tutto il conseguito, mentre anzi doverebbe con honesto, e raggionevole sentimento riddursi à supplire à suoi ulteriori doveri, per debita retributione
dell’insolito impiego non mai concertato, anzi fuori del convenuto praticato. Sop[r]a
di che come dovran esser salve le raggioni d’esso Madonis, così rispondendo per hora alla mal consigliata dimanda Avers[ari]a insta esso Madonis d’esser dà quella assolto,
e liberato per le raggioni, e cause stesse à tempo, e luoco considerate con quel di più
[che] rissulta dal fatto; e ciò senza pregiud[ici]o quomodo qualiter; et in exp[ens]is etc.
Doc. 5
Scrittura e domanda di ‘converso’ di Giovan Battista Madonis in causa con Sebastiano
Ricci, ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc.
31, n. 97.
Adì 22 maggio 1719
Scrittura e dimanda di converso di d[omi]no Z[u]an Batt[ist]a Madonis, in causa con
domino Sebastian Rizzi insieme con un processo seg[nat]o dal p[resent]e Giorno.
[A margine:] del p[resent]e Giorno
Dalle poco plausibili insistenze di d[omin]o Sebastian Rizzi nel pretender con aperta ingiustitia la restitut[io]ne delle lire 107 fatte soministrare a d[omin]o Z[u]an
109. A margine del testo si legge che la scrittura fu «illico intimata» ad Agostino Rosa,
interveniente del teatro di sant’Angelo e dello stesso Sebastiano Ricci.
285
GIANLUCA STEFANI
B[attis]ta110 Madonis e Lod[ovi]co suo figliolo per dovuta recognitione del loro impiego e serviggio prestato nel Teatro di S. Angelo di sera in sera, come si rende patente il torto delle sue mal fondate pretese, così sempre più s’acresce la raggione d’esso
Madonis per esser dalla Giustitia assolto e liberato dalla proposta dimanda avvers[ari]a.
Ma perché vorebbe con tal dannato pretesto esimersi dall’intiero adempim[ent]o
de suoi doveri a quali è tenuto per le recite dell’ultime sere a corisponder a d[ett]i
Padre e Figliolo Mad[oni]s il solito onorario delle lire 15 per ogni sera sarà per Cappo
di Converso sentent[iat]o esso Rizzi in lire 165 importar di 11 sere ultime che a lire
15 per sera tanto rileva il pred[ett]o Madonis, come vuole la ragg[io]ne il fatto è che
stante le cose come stanno non puo ne deve ricusarne di q[ue]ste il Pagam[ent]o dovuto, ciò senza minimo pregiud[iti]o anzi con espressa riserva d’ogni e qualunque altra
attione e ragg[ion]e d’esso Madonis quomodo qualiter etc. Salvis et in expensis etc.
Doc. 6
Scrittura e risposta di Sebastiano Ricci in causa con Giovan Battista Madonis, ASV,
Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 108.
Adì 31 maggio 1719
Scrittura et risposta di do[mi]no Sebastian Rizi alla dimanda di converso di domino
Gio[van] Batt[ist]a Madonis insieme con un processo seg[na]to dal presente giorno
Bensì con giustitia può dirsi da d[omino] Sebastian Rizzi che non plausibili, ma delictabili sono le diretioni et insistenze di d[omino] Gio[van] Batt[ist]a Madonis in non voler
restituire ad esso Rizzi le lire cento, e sette che di più dell’importar del suo accordo per
suonar lui, et il figli[ol]o nell’opere in S. Angelo hà ricercato da d[omino] Dom[enic]o
Viola che al buso de boletini111 attendeva, e contribuiva di recita in recita le sume agl’operanti nelle med[esim]e destinategli in conto dei loro accordi, che tra l’ochio non
haveva,112 e che con non buona fede tutto che adempeto il di lui accordo s’è compiaciuto dalle sue mani ricercare; et maggiormente si rende censurabile la pretesa posta
à campo con tal qual dimanda di converso presentata li 22 cor[ren]te per far cadere la
causa deputata di volontà per li 24 dello stesso mese, alla quale dovendosi per capo d’ordine rispondere insta lo stesso Rizzi d’esser dalla med[esim]a assolto, e liberato, come
sarà per giustitia esaudita la sua giustissima dimanda di principale [del] 21 marzo antecedente che non può per verun reguardo esser combatuta, se non per l’ingiusto fine di
trattenersi se potesse l’indebitam[en]te conseguito di più di q[ua]nto per il suo accordo
l’era dovuto; et fù con la scrittura 29 Aprile 1718 stabilito salvis etc. et in expensis etc.
110. Il nome del Madonis senior compare nell’interlinea inferiore a correzione di Lod[ovi]co,
cancellato con più freghi.
111. Botteghino.
112. Che non aveva sott’occhio.
286
SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO
Doc. 7
Sentenza dei Giudici del Forestier sulla causa Ricci-Madonis, ASV, Giudici del Forestier,
‘Sentenze’, b. 133, c. 264v.
[18 luglio 1719]
Onde gli Illustrissimi S[igno]ri Giacomo Minoto, Mattio Ciceron e Andrea Marcello
Hon[orand]i Giud[ic]i di Forestier. Visto un processo di carte 37, scritte e non, prencipia
L[aus] D[eo] 29 Aprile 1718 Ven[eti]a etc. et fenisce salvijs et sine preg[iuditi]o et etc.
Item altro Proceso di carte 7, scritte e non, prencip[ia]nte L[aus] D[eo] 1718 12 maggio
Venetia etc. et fenisce fui p[rese]nte testimonio, a quanto di sopra prodoti dalla parte
Attrice, et di poi, veduto un processo di carte 19, scritte e non, prencipia Adì 29 Aprile
1718 Vene[ti]a etc. et Fenisce intimato ad Agostin Rosa n[omine] q[uorum] i[nterest]
prodoto per la parte rea, con quanto che hanno voluto dire et dedurre a favor delle
loro rag[io]ni con il mezzo del N. H. S[ier] Alvise Priuli per la parte Attrice, e per la
parte rea dal N. H. S[ier] Costantin Belloto loro avocadi ord[ina]ri;113 e datto prima
il giuram[en]to alli Ill[ustrissi]mi S[igno]ri Giud[ic]i s[econ]do la forma della legge.
Cristi nomine invocato a quo etc.
Quanto al cappo di principal, tutti tre S.S. E.E. Unanimi et Concordi hanno
sent[enziat]o detto d[omi]no Gio[van] Batt[ist]a Madonis giusto in tutto e per tutto
alla Dima[nd]a del d[omin]o Rizzi cond[annand]o la parte Rea nelle spese.
Quanto al cappo di converso di d[omin]o Madonis parimenti tutti tre S.S. E.E.
Unanimi et Concordi hanno asolto d[omin]o Rizzi da d[ett]o Cappo e dalle cose in
esso cont[enu]te cond[annand]o il sud[dett]o Madonis nelle spese.
[Firma] Giacomo Minotto Giudice di Forestier.
113. Era consuetudine che i giovani patrizi veneziani, all’inizio della propria carriera, si
cimentassero nella avvocatura.
287
GIANLUCA STEFANI
Fig. 1. Benedetto Marcello, Frontespizio della prima edizione de Il teatro alla moda, particolare, 1720, incisione (collezione privata).
Fig. 2. Anton Maria Zanetti il vecchio, Piero Balbi detto «Franzifava», s.d., penna e inchiostro bruno rinforzato con bistro su carta bianca (Venezia, Fondazione Giorgio Cini,
36615).
288
SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO
Fig. 3. Anton Maria Zanetti il vecchio, «Bastian Ricci pensoroso», 1729, penna con inchiostro bruno su carta bianca (Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 36679).
289
Adela Gjata
LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI (1936-1947)
Figura influente della cultura italiana del Novecento Renato Simoni si cimenta in un’ampia gamma di mestieri dello spettacolo. Nella polimorfia artistica
di costui (drammaturgo, critico, regista teatrale e cinematografico, librettista
per l’opera seria e buffa, sceneggiatore, oratore, autore di riviste, balletti, elzeviri, articoli di costume, epigrammi, anacreontiche e facezie rimate) la pratica
registica, concentrata negli anni 1936-1947, assume un grande rilievo. Autore
di spettacoli allestiti per manifestazioni quali la Biennale Teatro di Venezia e
il Maggio Musicale Fiorentino, Simoni appariva nell’articolato panorama teatrale del secondo dopoguerra come un fenomeno singolare, un «caso a parte»,1
sia per l’impossibilità di inserirlo in tendenze poetiche o prassi sceniche canoniche sia per il singolarissimo esercizio di un autodidatta, già autorevole critico teatrale, che firma la prima regia all’età di sessantuno anni e che è subito
celebrato come un ‘capostipite’. Lo aveva, del resto, già dichiarato con energia
Silvio d’Amico recensendo Il ventaglio e Le baruffe chiozzotte del 1936, le rappresentazioni goldoniane all’aperto della xx Biennale di Venezia:
Chi ha dimenticato i nomi di Reinhardt e di Copeau? Ma quest’anno, a Venezia, ha
esordito in qualche stile un italiano, Renato Simoni. Non ci sembra il caso di fare, ai
lettori di una rivista di teatro, la presentazione di questo nome. Non ci sembra nemmeno opportuno insistere sul fenomeno – che altri ha rilevato con una punta d’orgoglio, del resto legittimo – del critico che «passa dalle parole ai fatti» e cioè diventa
1. La definizione è di Giulio Cesare Castello che, in uno scritto sullo stato della regia
teatrale italiana nel secondo dopoguerra, inserisce Simoni nella categoria della «vecchia guardia», differenziando tuttavia la sua esperienza sia dall’esercizio dei «registi importanti» quali
Gualtiero Tumiati, Sergio Tofano, Pietro Sharoff e Tatiana Pavlova, che dall’attività di Anton
Giulio Bragaglia, Guido Salvini e Enzo Ferrieri – i «maestri italiani» –, così come dai cosiddetti
«epigoni» alla stregua di Giulio Pacuvio. Cfr. G.C. Castello, Vent’anni di regia, «Sipario», iv,
1949, 40-41, pp. 25-31. E v. C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi,
Firenze, Sansoni, 1984, p. 270 (cui rimandiamo anche per il quadro di riferimento).
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 291-308
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18381
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
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ADELA GJATA
regista. […] Nessuno ignora che Simoni è oggi, in Italia, l’unico critico a cui un direttore di compagnia possa rivolgersi, per consigli anche tecnici, sulla regia di un lavoro. […] Le recite goldoniane di Venezia hanno rivelato un regista italiano dalla
mano amorosa ma scaltra, sicura ma lieve.2
Il critico romano affianca dunque il debutto registico di Simoni ai nomi
di maestri europei quali Max Reinhardt e Jacques Copeau, che, è noto, nel
triennio 1933-1935 avevano allestito per il Festival di Venezia e per il Maggio
Musicale Fiorentino spettacoli di notevole qualità per ricerca creativa, attenzione interpretativa e cura dell’insieme.3 Se come critico la tribuna di Simoni
fu quella moderata del «Corriere della Sera», le sue regie non si distaccarono da
questo quadro di riferimento, realizzando nella pratica il principio damichiano dell’‘innovare conservando’; e poiché questa era la strada maestra percorsa
dalla regia italiana negli anni Trenta, Simoni divenne il punto di riferimento
della cultura teatrale nazionale che vedeva di buon occhio l’avvicinarsi degli autori alla scena in quanto garanzia di fedeltà al testo e al teatro di parola.
Il Festival teatrale di Venezia – inaugurato nel 1934 con Il mercante di Venezia per la regia di Reinhardt e La bottega del caffè diretta da Gino Rocca – si
costruisce sulla base di una linea programmatica ed estetica caratterizzata da
alcuni elementi fondamentali: la selezione, sul piano drammaturgico, di testi
‘classici’ con particolare riferimento all’opera goldoniana, parte del processo
tendente a consacrare Goldoni poeta nazionale;4 la costruzione di messe in
2. S. d’Amico, Le recite goldoniane a Venezia. Simoni regista, «Scenario», v, 1936, 8, p. 369. Nel
1940 anche Nicola De Pirro – rappresentante istituzionale del teatro italiano – eleggerà Simoni
‘regista nazionale’, autore di successi «certamente pari e talvolta superiori a quelli ottenuti da
famosi registi stranieri». N. De Pirro, Nascita della regia in Italia, ivi, ix, 1940, 1, p. 7. Sui primi
anni di vita di «Scenario» v. M. Schino, La parola regia, in Studi di Storia dello spettacolo. Omaggio
a Siro Ferrone, a cura di S. Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 491-527. Per la fortuna novecentesca di Goldoni rinviamo a P. Bosisio, Il teatro di Goldoni sulle scene italiane del Novecento,
ricerca iconografica e apparati a cura di A. Bentoglio, Milano, Electa, 1993 (pp. 46-53, per
Simoni).
3. Gli spettacoli shakespeariani di Max Reinhardt – Sogno di una notte di mezza estate al
Giardino di Boboli (1933), Il mercante di Venezia in campo San Trovaso a Venezia (1934) –, e
quelli di Jacques Copeau allestiti per il Maggio Musicale Fiorentino – La rappresentazione di Santa
Uliva nel chiostro di Santa Croce (1933) e il Savonarola di Rino Alessi in piazza della Signoria
(1935) – erano alcune delle migliori espressioni del nuovo teatro europeo, che i teatranti italiani
colsero e svilupparono solo parzialmente, guardandoli, non raramente, come bizzarrie dettate
da scelte estreme.
4. Nel 1907, in occasione della celebrazione del bicentenario di Goldoni, Simoni auspicava
una maggiore popolarità dello scrittore veneziano: «bisogna che quel suo teatro così trionfalmente e profondamente italiano sia noto tra noi per lo meno come è noto Molière in Francia».
R. Simoni, Goldoni: 1707-1907, «Il mondo artistico», 1° marzo 1907.
292
LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI
scena aderenti alla formula degli imponenti spettacoli all’aperto, nonostante i
contenuti e i ristretti spazi delle rappresentazioni – campielli, rii e cortili – non
rispondessero alla formula del teatro di massa auspicata dal regime; la creazione di compagnie apposite con elementi di primo livello, dagli interpreti agli
scenografi, ai costumisti e ai registi; il carattere internazionale garantito dalla
presenza di maestri europei, principio potenziato ulteriormente nelle rassegne
del secondo dopoguerra. Gli spettacoli erano al centro di un’intensa attività
promozionale: dai manifesti che tappezzavano gran parte delle città dell’Italia
centro-settentrionale alle trasmissioni radiofoniche, all’ospitalità ai critici delle
maggiori testate.5 Il prestigio della manifestazione lagunare scaturiva, inoltre,
dagli spettatori illustri delle ‘prime’ – dalle autorità cittadine alle più spiccate
personalità del mondo intellettuale italiano e straniero – attraverso i quali il
pubblico del festival acquisiva agli occhi del comune cittadino una esemplare
valenza sociale.6
Nel 1936, l’anno delle già ricordate prime regie goldoniane di Simoni, la
Biennale consolida i rapporti con il Ministero per la stampa e la propaganda
diretto da Dino Alfieri e in particolare con l’Ispettorato del teatro nella persona di Nicola De Pirro, in sintonia con il controllo della vita sociale e culturale
incentivato dal regime a partire dalla metà degli anni Trenta. Oltre al patrocinio istituzionale, lo Stato fascista garantisce al Festival del Teatro il supporto
economico primario per la produzione di ‘spettacoli d’arte’,7 allestimenti dai
costi ingenti, relativi, oltre alla retribuzione delle maestranze, alla realizzazione
del luogo teatrale che prevedeva la costruzione di scene tridimensionali, tribune, impianti di illuminazione, affitti, indennizzi, assicurazioni e sorveglianza.8
5. In una lettera del 30 giugno 1937 del comitato direttivo della Biennale inviata a Roma al
capitano Agostino Sanna del Ministero della cultura popolare/Direzione generale della stampa
si ha notizia del forte impegno propagandistico delle manifestazioni teatrali nelle radio e nei
giornali nazionali ed esteri. In una seconda lettera del 2 luglio 1937, indirizzata sempre a Sanna,
si parla di manifesti affissi in ben settantadue città d’Italia. Cfr. Archivio storico delle Arti contemporanee - Biennale di Venezia (da ora in poi ASAC), Sezione teatro, a. 1937.
6. Sulla valenza autocelebrativa del teatro nell’epoca fascista si rimanda allo studio di Q.
Galli, La scena dell’Impero. Seguendo Renato Simoni regista, Roma, Ellemme, 1991.
7. Il Ministero destinò per le recite goldoniane all’aperto del 1936 la somma di duecentomila lire, cui vanno aggiunte le centomila lire stanziate dal Comune di Venezia. Cfr. Verbale
dell’adunanza della Commissione della Biennale in data 29 maggio 1936, ASAC, Sezione teatro, a. 1936.
8. Per la realizzazione dei tre spettacoli diretti da Simoni e Salvini per la Biennale Teatro
1937 furono coinvolte settemilaottocento persone, come si legge nel Resoconto dell’amministrazione della Biennale per le recite dell’estate 1937. Una spesa non indifferente comportava, inoltre,
il restauro delle case danneggiate durante il lavoro di allestimento dello spazio scenico, come
dimostra una stima dei danni alla proprietà del sig. Giovanni Scarpa in campo San Cosmo in seguito alle manomissioni causate dalla messa in scena de Le baruffe chiozzotte di Simoni nel luglio
1937; cfr. ASAC, Sezione teatro, a. 1937.
293
ADELA GJATA
Le recite goldoniane all’aperto della Biennale 1936 vengono affidate a Simoni – unico regista della manifestazione – e a Guido Salvini addetto all’allestimento scenotecnico.9 Nello stesso anno il critico del «Corriere» è nominato
responsabile della sezione Teatro nella Commissione per gli spettacoli della
Biennale,10 carica istituzionale poco rilevante sul piano pratico essendo le sue
proposte spesso vagliate dal presidente della Biennale, il conte Giuseppe Volpi di Misurata, e filtrate dalle direttive ministeriali.11 Il sodalizio tra Simoni e
Salvini, rinnovato nel successivo festival, univa la tradizione di una ‘direzione
all’italiana’ con le esigenze di una scenotecnica moderna; da un lato l’esperienza del drammaturgo e del critico, dall’altro la formazione europea di un
professionista della scena. Comune a entrambi l’idea di un teatro finalizzato a
un esito spettacolare di sobria qualità. Per le recite all’aperto si scelgono, anche su consiglio di Simoni, due testi del Goldoni ‘maturo’.
Il Ventaglio del 1936 – e ancora di più la ripresa del 1939, «più mossa, più
agile, più indiavolata» –12 fu un successo apprezzato soprattutto per il ritmo
spumeggiante della messa in scena. Nell’idea di Simoni il tempo dell’allestimento doveva essere dettato dalla complessa e movimentata architettura dei
tre atti, dall’ilarità delle peripezie, dal contrappunto dei sospiri e dal moltipli9. Scenografo e regista rinomato a livello europeo, artefice di una carriera in continua
ascesa dall’esperienza del Teatro d’Arte di Pirandello negli anni 1925-1927 alla messa in scena
del Falstaff verdiano diretto da Toscanini al Festival di Salisburgo nel 1935, Guido Salvini è stato
una figura chiave del Festival del Teatro di Venezia. In una lettera non firmata – ma sicuramente
di un membro della Commissione della Biennale – del 12 febbraio 1936 indirizzata a Salvini si
ha notizia che le rappresentazioni goldoniane erano inizialmente destinate alla regia di quest’ultimo: «Certo che se queste rappresentazioni verranno decise è intendimento della Presidenza di
affidarne la regia a Lei» (ASAC, Sezione teatro, a. 1936). Sul percorso registico di Guido Salvini
si veda M. De Luca-D. Vanni, Guido Salvini, o Della nascita della regia in Italia, Bari, Edizioni
dal sud, 2005.
10. La Commissione presieduta da Giuseppe Volpi di Misurata (presidente della Biennale)
vedeva tra i suoi componenti: Nicola De Pirro, Corrado Marchi (vice-presidente della
Corporazione dello spettacolo), Cornelio Di Marzio (Confederazione professionisti e artisti),
un rappresentante del Comune di Venezia, il conte Andrea di Valmarana (delegato del presidente della Biennale), Adriano Lualdi (responsabile del Festival della Musica), Carlo Conestabile
della Staffa (segretario generale e direttore amministrativo delle manifestazioni per l’Estate
Veneziana). Cfr. la lettera del 28 febbraio 1936 del segretario generale della Biennale Antonio
Maraini all’ispettore Nicola De Pirro (ASAC), ora in L. Trezzini, Una storia della Biennale
Teatro. 1934-1995, Venezia, Marsilio, 1999, p. 28.
11. Nell’Archivio storico della Biennale di Venezia è custodita un’imponente mole di documenti di ordine amministrativo e organizzativo, prove eloquenti della volontà di controllo da
parte del regime; ogni minimo cambiamento di natura artistica e logistica doveva essere comunicato ai rappresentanti istituzionali della Biennale ed effettuato dopo la dovuta approvazione
dall’alto. Cfr. ASAC, Sezione teatro, a. 1937.
12. C. Giachetti, ‘Il ventaglio’ in campo San Zaccaria, «La Nazione», 18 luglio 1939.
294
LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI
carsi dei malintesi.13 Il regista si affida al virtuosismo degli attori: da Rossana
Masi che rese «garbata e simpatica la figura un po’ fredda della zia Gertrude»14
alla «sempre giovane» Maria Melato che «sparse colori a dovizia sui tratti della
mercantessa pettegola»,15 la Signora Susanna; dalla «tenera Candida» di Laura
Adani16 all’arguta Giannina di Andreina Pagnani, «forse l’attrice più goldoniana
che oggi abbiamo, trionfatrice della serata»,17 scrive Silvio d’Amico sulle pagine della «Nuova antologia». Nella presentazione dello spettacolo – una sorta
di nota di regia focalizzata sull’analisi del testo goldoniano – Simoni definisce il personaggio di Giannina «la figura più vivace e lucente» della commedia, «con pochissima rusticità vera, una contadinella da teatro, graziosamente
aspretta, deliziosamente impertinente, che immaginiamo più fatta per portare
il gonnellino corto e il grembiulino di pizzo di Corallina, che i ruvidi panni
d’una paesana».18 Altri mostri sacri della scena italiana recitano nel Ventaglio:
Memo Benassi è un Coronato «livido e scaltro»,19 alquanto «brighelleggiante nella mascheretta dell’oste»;20 il fiorentino Renzo Ricci, uno «stizzoso, tagliente e innamorato»21 calzolaio Crespino, raggiunge con sottili invenzioni gli
effetti di una comicità «tanto avvincente quanto di signorile compostezza»;22
13. Simoni considera Il ventaglio come un’elaborazione moderna degli scenari della
Commedia dell’Arte: «[Goldoni] prende la commedia dell’arte così com’è e si limita di popolarla di uomini; la immette nel suo tempo; fa correre per i meandri del suo canovaccio labirintico,
non più i mascherotti, che sono convenzioni fuori del tempo, ma i suoi stessi contemporanei,
riprodotti con squisito senso della verità. E ha riformato una volta di più. Dove c’era la follia
stemperata, il lazzo pazzo, il gergo imputridito, fa entrare l’umile, la semplice vita quotidiana.
E scrive un capolavoro». R. Simoni, Il ventaglio, «Corriere della Sera», 10 novembre 1921, ora
in Id., Trent’anni di cronaca drammatica: 1911-1923, a cura di L. Ridenti, Torino, Ilte, 1952, vol.
i, p. 507.
14. E. Zorzi, La prima del ‘Ventaglio’ di Goldoni con la regia di Simoni a Venezia, «Corriere
della Sera», 16 luglio 1936.
15. S. d’Amico, Goldoni nei campielli: ‘Il ventaglio’, ‘Le baruffe chiozzotte’, «Nuova antologia», 1° agosto 1936, ora in Id., Cronache del teatro: 1914/1955, a cura di A. d’Amico e L. Vito,
Palermo, Novecento, vol. iv (1934-1944), to. i (1934-1936), pp. 257-265: 261. Sull’attrice: P.D.
Giovanelli, Maria Melato. Voci d’archivio, voce di scena, Firenze, Le Lettere, 2015.
16. O. Gibertini, ‘Il ventaglio’ in campo San Zaccaria, «La tribuna», 17 luglio 1936.
17. D’Amico, Goldoni nei campielli, cit., pp. 260-261.
18. R. Simoni, Il ‘Ventaglio’, «Corriere della Sera», 15 luglio 1936. Maria Damerini informa, inoltre, come durante le prove del Ventaglio Simoni suggerisse alla Pagnani di dare vita a una
Giannina «dispettosetta ma gustosa, piccante ma garbata, furbetta e insieme ingenua e amorosa».
M. Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, Padova, Il Poligrafo, 1988, p. 198.
19. G.O. Gallo, ‘Il ventaglio’ di Goldoni a Venezia, «Il Popolo di Roma», 19 luglio 1936.
20. D’Amico, Le recite goldoniane a Venezia. Simoni regista, cit., p. 369.
21. D’Amico, Goldoni nei campielli, cit., p. 261.
22. A. Zajotti, Il trionfale successo del ‘Ventaglio’ in campo San Zaccaria, «La gazzetta di
Venezia», 16 luglio 1936.
295
ADELA GJATA
l’ottantenne Ermete Zacconi è un potente catalizzatore di comicità nella parte del declassato e scroccone conte di Roccamonte – «concreto, carnoso, colorito, gagliardo» –,23 personaggio cruciale dell’intrigo della pièce esemplato
sul marchese di Forlimpopoli della Locandiera. Nerio Bernardi, «traboccante
di merletti e di smancerie»,24 tocca «la giusta nota nella coloritura melodrammatica e lievemente caricaturale del sentimentale signor Evaristo»;25 il barone
del Cedro, suo antagonista nell’amore per Candida, trova l’interprete ideale
nel «chiaro, preciso, efficacissimo»26 Augusto Marcacci. Tra i personaggi minori spiccano le macchiette di Limoncino, il garzone del caffè tratteggiato con
garbo dal ‘goldoniano di razza’ Emilio Baldanello, e quella di Timoteo lo speziale, interpretato da Ermanno Roveri.
Le baruffe chiozzotte vantavano invece i migliori interpreti della teatralità
veneta: Gianfranco Giachetti (Cogidor), Cesco Baseggio (Fortunato), Carlo
Micheluzzi (Toni), Giuseppe Zago (Vincenzo), Gino Cavalieri (Toffolo), Emilio Baldanello (Comandador), Vittorio Cavalieri (Canochia), Pina Bertoncello
(Orseta), Margherita Seglin (Pasqua) e Giselda Gasparini (Donna Libera), affiancati da altri noti interpreti del teatro italiano come Kiki Palmer (Checca),
Giulio Stival (Titta Nane), veneto di nascita, e Luigi Grossoli (Bepo).
Le regie veneziane testimoniano che Simoni pensava lo spettacolo come una
fucina di artisti specializzati, la cui armonica interazione doveva rispondere a
un’idea estetica dell’evento scenico. La selezione degli interpreti e la distribuzione dei personaggi erano azioni decisive nella costruzione della rappresentazione. «C’è, da una parte, la tendenza a raggruppare, per alcuni spettacoli, a
spese dello Stato, otto o dieci grossi calibri, senza badare se essi artisticamente convivono bene, e se non tolgano le gradazioni all’opera d’arte – denuncia
il regista nel 1949 – e c’è dall’altra parte l’abitudine di unire due o tre attori
buoni, circondandoli di generici o non scelti con fino esame per le parti che
devono interpretare, o scadenti».27 Simoni tocca qui una questione nevralgica
del teatro italiano, criticando una formula che assomiglia alla compagnia di
giro, riconoscibile per la presenza di un grande attore (o di una grande attrice)
circondato da un ‘coro’ di attori più o meno mediocri che stanno in palcosce-
23. D’Amico, Goldoni nei campielli, cit., p. 260. Zacconi rappresentava per Simoni «il sogno e
lo splendore del teatro», imbattibile nell’«acutezza e la precisione dell’indagine fisico-psicologica»
del personaggio. In questi termini Simoni ricordava il grande attore alla sua scomparsa. Cfr. R.
Simoni, Omaggio a Ermete Zacconi, «Il dramma», xxiv, n.s., 1948, 57-59, pp. 195-196.
24. D’Amico, Goldoni nei campielli, cit., p. 261.
25. Zorzi, La prima del ‘Ventaglio’ di Goldoni con la regia di Simoni a Venezia, cit.
26. Zajotti, Il trionfale successo del ‘Ventaglio’, cit.
27. R. Simoni, I nostri attori, «Sipario», iv, 1949, 40-41, p. 16.
296
LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI
nico «per dare la battuta».28 Negli spettacoli veneziani e fiorentini29 il regista
frena il protagonismo dei primi attori, costringendo «ognuno al suo posto senza mortificare l’individualità»,30 per dare voce a un «unisono stupendo».31 Le
cronache coeve riconoscono il merito maggiore delle prime regie simoniane
nell’orchestrazione armonica degli interpreti, impegno ancora più arduo in
presenza di capocomici e mattatori. «La novità era vedere i comici dialettali
delle Baruffe – scrive D’Amico –, come gl’italiani del Ventaglio, così raggruppati, intonati, armonizzati, svolgere le loro gaie sinfonie al tocco dell’invisibile bacchetta che li aveva come magati, che aveva messo loro l’ali ai piedi, che
li faceva atteggiarsi, muoversi, inseguirsi, cicalare, sospirare, stridere, con una
verità fatta di leggiadria».32 Simoni costituiva agli occhi di D’Amico un punto di arrivo della sua battaglia accademica contro il guittismo e le caparbietà
performative del mattatore, ma anche la stabilizzazione della figura del regista-stratega garante di un maggiore rispetto del testo.
Nelle Baruffe Simoni intende veicolare la realtà nel realismo del gesto e
dell’ambientazione scenica. Se nel Ventaglio si mira al virtuosismo degli interpreti, nella messa in scena della commedia chioggiotta si lavora soprattutto a
restituire le vicende dei personaggi. La stessa selezione degli attori risponde a
una poetica che vuole svelare il microcosmo drammaturgico goldoniano; da
qui la formazione di una compagnia drammatica in lingua per il Ventaglio e
dialettale per le Baruffe. L’approccio del regista alla drammaturgia goldoniana
si sviluppa nella riflessione sul Goldoni attento osservatore del quotidiano. Le
commedie corali del popolo delle calli e dei campielli erano le sue preferite:
testi frizzanti e spiccatamente veneziani che «riconducono la vita nel teatro»,
vita che a parere del critico del «Corriere» rischiava di essere uccisa dal ‘manierismo’ che affliggeva la scena italiana del primo dopoguerra.33 La vita che
28. L. Ridenti, Teatro italiano fra due guerre, 1915-1940, Genova, Dellacasa, 1968, p. 64.
29. Oltre alle messe in scene goldoniane, Renato Simoni divenne celebre negli anni
Trenta per tre storici spettacoli all’aperto, allestiti al Giardino di Boboli per il Maggio Musicale
Fiorentino. Alla prima assoluta dei Giganti della montagna di Pirandello nel 1937, seguì una memorabile edizione dell’Aminta di Tasso (1938), infine un meno fortunato allestimento dell’Adelchi
manzoniano nel 1940.
30. D’Amico, Goldoni nei campielli, cit., pp. 264-265.
31. Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, cit., p. 200. Cfr. inoltre
D’Amico, Le recite goldoniane a Venezia. Simoni regista, cit., p. 369; G. Patanè, Parla Pirandello, «Il
Popolo di Sicilia», 30 luglio 1936, ora in Interviste a Pirandello: parole da dire, uomo, agli altri uomini,
a cura di I. Pupo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, pp. 577-580.
32. D’Amico, Le recite goldoniane a Venezia. Simoni regista, cit., p. 369.
33. Nella recensione al Ventaglio rappresentato dalla compagnia Niccodemi al teatro
Manzoni di Milano nel 1921, anno in cui imperversava la polemica pirandelliana su I sei personaggi, Simoni si esprimeva in questi termini: «Riformatori di tutti i tempi, il segreto è questo: ed
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ADELA GJATA
Simoni vuole restituire al teatro – complice la drammaturgia goldoniana – era
intesa nell’accezione aristotelica della mimesi, in quanto osservazione della realtà o «specchio della natura»; concetto che si oppone all’artificio, senza per
questo omologarsi al naturalismo o al verismo. «Il teatro non ha bisogno della
verità, ma, se mai, della finzione della verità» ribadiva nel 1934.34 La nozione
dell’inserimento della vita sulle scene si ricollega, del resto, al mito del Goldoni ‘cronista’ – «poeta della Natura» lo aveva definito Voltaire –35 che girovagava per Venezia e annotava le battute e gli atteggiamenti dei concittadini.
Gli allestimenti del Ventaglio e delle Baruffe chiozzotte nel 1936 muovono
dal presupposto che l’ambiente in Goldoni ha una funzione drammaturgica: lo spazio scenico diventa così parte integrante dell’azione e compimento
della realtà quotidiana dei personaggi. La scelta di luoghi quali piazze, calli e
giardini – caposaldo degli spettacoli di prosa del festival veneziano – è inoltre
elemento decisivo per creare la dimensione realistica della messa in scena;36
realismo sostenuto, negli spettacoli di Simoni, dalla interpretazione attoriale
e dai costumi di Aldo Calvo. Nelle Baruffe, salvo due casette posticce piazzate in primo piano,37 l’intera scena era ‘vera’: il campo, il rio che gli passa davanti percorso da barche cariche d’ortaggi, il piccolo ponte di legno tipico di
è facile! Nel teatro, di dove la vita è uscita, riconducete la vita. Tutte le riforme, in tutti i tempi,
furono fatte così; tutti i riformatori, da Lope de Vega a Molière, a Shakespeare, a Goldoni, han
fatto questo. Nessuno di questi pensò di portare nel teatro che muore, al posto degli uomini che
non ci sono più, le maschere, o goffe come quelle di una volta, o lugubri come quelle che usano
oggi». Simoni, Trent’anni di cronaca drammatica: 1911-1923, cit., vol. i, p. 507.
34. Simoni, La bottega del caffè, «Corriere della Sera», 17 novembre 1934, ora ivi, vol. iv, p. 153.
35. Cfr. Simoni, Goldoni, Gozzi e il Campiello, «Corriere della Sera», 18 luglio 1939.
36. Per Le baruffe chiozzotte fu effettuato un lungo e minuzioso sopralluogo che coinvolse
ventuno campi e rii della laguna, come segnala la relazione compilata dalla Biennale nel 1936.
San Cosmo della Giudecca si rivelò, infine, «molto adatto sia dal punto di vista scenografico
che logistico. Unico difetto, la relativa lontananza. Molto carattere. Da adottarsi però la scenografia fissa e non il cambiamento meccanico». Il campo San Zaccaria si dimostrò invece il più
adatto per l’allestimento del Ventaglio, sia dal punto di vista scenografico «per il grande albero
che darebbe il senso della campagna» di fianco alla chiesa quattrocentesca di San Zaccaria, sia
per la strategica posizione centrale, di facile accesso, infine per la capienza, potendo ospitare
circa mille spettatori. Cfr. Relazione sulla visita compiuta nelle varie località prese in esame per le recite
goldoniane dell’anno XIV, ASAC, Sezione teatro, a. 1936.
37. Le uniche due costruzioni artificiali erano la casa di Paron Toni e quella di Paron
Fortunato dietro la quale era collocata la cancelleria criminale, luogo del secondo atto. Lo studio del Cogidor Isidoro si mostra grazie a un palcoscenico girevole il cui meccanismo è svelato
da D’Amico nella recensione allo spettacolo: «Una delle due case posticce che fanno da quinta,
quella di sinistra gira su se stessa, e offre di colpo un’altra visione, la sala del cancelliere; un muretto copre il canale ch’era al centro della scena, il lato destro grazie a un rapido gioco di luci
piomba nell’oscurità». D’Amico, Goldoni nei campielli, cit., p. 264. Cfr. anche M. Corsi, Il teatro
all’aperto in Italia, prefaz. di R. Simoni, Milano-Roma, Rizzoli, 1939, pp. 231-234.
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LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI
Chioggia che l’attraversa, il canale affacciato al campo con i bragozzi carichi di
reti e di vele colorate. Lungo quel canale scende a metà del primo atto la tartana di Paron Toni, a vele spiegate. Un ambiente ‘naturalmente’ scenografico,
suggestivo e «crudelmente verista»38 che restituisce la ‘venezianità’ di Goldoni
mentre accosta – grazie a un sapiente uso delle luci – al «luccichio d’acque fra
il raso e l’argento, quelle grandi vele colorate, quel festoso viavai della piazzetta marinara».39 Ciò che la critica del tempo denominava come il trionfale
ingresso del verismo in teatro non era altro che la scoperta del teatro per mezzo della realtà: l’ambientazione esterna rafforza la naturalezza della drammaturgia goldoniana, mentre l’elaborato apparato scenico diviene un elemento
esclusivamente estetico.
La formula degli spettacoli goldoniani all’aperto – inaugurata due anni
prima da Gino Rocca con La bottega del caffè allestita nel cortile del teatro San
Luca – trovava ancora diverse resistenze.40 Le commedie goldoniane, concepite
per essere recitate in edifici teatrali di piccole o medie dimensioni, avrebbero finito per ‘snaturarsi’ se allestite all’aperto, osservavano i critici. Le messe
in scena di Simoni fecero superare parzialmente quella diffusa riluttanza: «In
verità, all’atto pratico, ci si accorge che è questione d’intendersi, e che anche
l’aperto può sempre essere relativamente misurato e chiuso», si legge nella recensione di Osvaldo Gibertini al Ventaglio, che approva l’operazione degli scenografi Salvini e Calvo di ridurre campo San Zaccaria alle proporzioni di un
teatro di prosa a cielo aperto.41 Se nelle Baruffe lo spazio ritrovato di San Cosmo rimase pressoché invariato, per Il ventaglio Salvini e Calvo trasformarono
lo scenario urbano di San Zaccaria il cui unico elemento riconoscibile rimaneva il frondoso tiglio centrale. La facciata della chiesa rinascimentale era coperta dai sette edifici del borgo delle Case nuove che fungevano da fondale e
da quinte: al centro, dietro all’albero, si addossava la palazzina signorile con il
balcone delle signore e il caffè di Limoncino, sulla destra la merceria di Susanna e l’osteria di Coronato, mentre il lato sinistro della scena era occupato
dalla farmacia dello speziale Timoteo e dalla capanna di Giannina e Moracchio con tanto di fienile e orto. Una scenografia fissa, costruita ex novo, che
presenta al primo quadro gli abitanti del villaggio lombardo impegnati nella
propria attività quotidiana. Il progetto scenografico fu completato da un’architettura d’ambiente ritmata dai «rapidi ‘crescendo’ di luci e di movimenti,
38. C. Giachetti, Imitazione e fantasia nel ‘Bugiardo’, «La Nazione», 11-12 luglio 1937.
39. D’Amico, Le recite goldoniane a Venezia. Simoni regista, cit., p. 368.
40. «Goldoni non è autore da pretesti per messinscene esteriori né per spettacoli all’aperto»,
scrive Eugenio Ferdinando Palmieri nella cronaca dello spettacolo di Rocca. E.F. Palmieri,
Goldoni all’aperto, «Il resto del carlino», 20 febbraio 1934.
41. Gibertini, ‘Il ventaglio’ in campo San Zaccaria, cit.
299
ADELA GJATA
ora ondeggianti sotto le folate del caso, chiassoso brio popolaresco, ora allegra, ora corrucciata».42
L’estetica degli spettacoli goldoniani di Renato Simoni è individuabile nell’armonia del complesso, nel fondere in un accordo dominante i gesti,
le mosse e gli atteggiamenti dei singoli personaggi. La valenza ‘musicale’ del
Ventaglio si percepisce non solo nel ritmo dettato dalla movimentata trama che
scompone e ricompone in continuazione il quadro della messa in scena, ma
anche nei rumori degli arnesi da lavoro: il pestone dello speziale, il trincetto
del ciabattino, l’acciottolio del taverniere43 e in altri suoni ‘d’atmosfera’ quali
il canto lontano di un usignolo, oppure «il nervoso gracchiare di rane» che accompagna il punzecchiarsi di Crispino e Coronato e le loro risate a crepapelle.44 Lo studio dell’atmosfera sonora raggiunge livelli altissimi nella costruzione
di un’altra commedia ‘di ambiente’ goldoniana, Il campiello, rappresentato nel
campiello del Piovan nell’ambito del Festival veneziano del 1939 (ci torneremo).
Nelle Baruffe Simoni realizza invece uno degli esempi più alti del cosiddetto «Goldoni ritmico».45 Il tempo coreutico che scandisce la messa in scena
trova un corrispettivo linguistico negli «aggettivi guizzanti come pesci nelle
reti appena ‘tirate’, con quei verbi sdruccioli che scorrono come rivoli musicali» (così Simoni).46 Anche qui, come nel Ventaglio, gli spettatori apprezzano
la capacità di concertazione dei timbri e dei ritmi vocali degli interpreti, il
contrappunto dei dialoghi e la sonorità dei battibecchi, il tutto rinforzato dalla
musica orchestrale, le coreografie di Irene Del Bosco guidate dalla prima ballerina della Scala Teresa Legnani e i canti della soprano Antonietta Meneghel
alias Toti dal Monte – l’attrice rivelazione delle Baruffe, al debutto nel teatro
di prosa – che diede alla maliziosa e insieme festosa Lucietta «una freschezza
e una spontaneità deliziose»,47 sebbene a Eugenio Ferdinando Palmieri non
sfuggisse qualche gesto melodrammatico.48 Il Paron Fortunato di Baseggio,
cui l’attore conferì un colore farsesco e una tecnica impeccabile a metà strada
42. Zajotti, Il trionfale successo del ‘Ventaglio’, cit. Cfr. anche Gallo, ‘Il ventaglio’ di Goldoni
a Venezia, cit.
43. Cfr. M. Ramperti, Una mirabile rappresentazione del ‘Ventaglio’ di Goldoni a Venezia in
campo San Zaccaria, «L’illustrazione italiana», 19 luglio 1936.
44. Cfr. Zajotti, Il trionfale successo del ‘Ventaglio’, cit.
45. R. Radice, Vent’anni di regia goldoniana. Dalla scuola al palcoscenico, in Studi goldoniani.
Atti del convegno internazionale di studi (Venezia, 28 settembre-1o ottobre 1957), a cura di V.
Branca e N. Mangini, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1960, vol. i,
p. 139.
46. R. Simoni, Le baruffe chiozzotte, «Corriere della Sera», 17 luglio 1936.
47. E. Zorzi, Il successo delle ‘Baruffe chiozzotte’ date a Venezia con regia di Simoni, «Corriere
della Sera», 17 luglio 1936.
48. Cfr. n. 52.
300
LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI
tra i comici dell’Arte e il fool shakespeariano, parve a D’Amico «eccellente […],
impagabile di verve, ma anche di misura».49 Dai ricordi di Maria Damerini, assidua spettatrice alle prove delle prime regie simoniane, emerge un Baseggio
«tanto protagonista sulla scena quanto anonimo, ‘quasi addormentato’ fuori
scena».50 Le Baruffe segnano l’inizio di una lunga collaborazione tra Simoni e
Baseggio, attore goldoniano legato a uno dei filoni più robusti della tradizione interpretativa di matrice veneziana – dei Benini e degli Zago per intenderci –, che ricorreva a forti caratterizzazioni nella recitazione.51 Dalla scuola
di Benini provenivano anche i già ricordati Giachetti, Cavalieri, Micheluzzi
(quest’ultimo un Paron Toni dalla «fragorosa baldanza»)52 e la Seglin «dal buon
gusto sensato e limpido appreso da Italia Benini Sambo».53 Bepi Zago (Paron
Vincenzo) e Giselda Gasparini (Donna Libera) erano invece eredi della scuola
goldoniana di Emilio Zago:
Ma accanto al Giachetti, il più nitido e saggio cogidor che sia pensabile, abbiamo visto
il Cavalieri, spassosissimo e misuratissimo nelle vesti di Toffolo, e il Baseggio, il quale ha fatto impazzire dalle risa il pubblico nella macchietta di quel padron Fortunato
49. D’Amico, Goldoni nei campielli, cit., p. 265.
50. Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, cit., p. 200.
51. Su Baseggio si veda la pregevole voce a lui dedicata da C. Longhi, in amati.fupress.net/
S100?idattore=11750 (data di pubblicazione su web: 7 novembre 2011), con ampia bibliografia.
«Di alcuni personaggi di ‘Paron Carlo’ era diventato il simbolo vivente – scrisse di Baseggio
Gastone Geron –, sicché quasi non si poteva immaginare un Sior Todero che non brontolasse
come lui, o un Paron Fortunato che non tartagliasse meglio fra le chiozzotte baruffanti, o un
rustego più rustego». G. Geron, Chi fu di scena, Milano, Pan, 1982, p. 7. Al repertorio goldoniano Baseggio dedica ogni energia fin da quando, nel 1926, si fa capocomico, dando vita a
una serie di formazioni specificamente impegnate a diffondere la drammaturgia di area veneta,
associandosi di volta in volta con i migliori attori in dialetto del tempo fra cui Carlo Micheluzzi,
Margherita Seglin, Gino Cavalieri, Leony Leon Bert, e ancora Elsa Merlini, Cesarina Gherardi
e Elsa Vazzoler, con la partecipazione saltuaria del soprano Toni Dal Monte. Anch’egli – come
Ermete Novelli – progetta la fondazione di una Casa del Goldoni, accontentandosi poi di imporre alla sua compagnia per un certo periodo il nome ‘La Goldoniana’. Si presta volentieri
a seguire Guglielmo Zorzi e Alberto Colantuoni nell’ambizioso tentativo di una compagnia
del Teatro di Venezia (1936-1939) e con entusiasmo analogo accetta l’offerta di Paolo Grassi
che, presso il Piccolo di Milano, tenta di riunire nuovamente, vent’anni dopo, un gruppo di
attori dialettali con il nome di Teatro di Venezia. I fallimenti di tali imprese non inibiscono
l’impegno di Baseggio che, nel corso di cinquant’anni di carriera, si fa responsabile promotore
di una capillare diffusione del teatro goldoniano, impegnandosi nelle vesti del protagonista e,
più raramente, in quelle di regista in oltre una cinquantina di opere fra maggiori e minori del
commediografo veneziano.
52. E.F. Palmieri, ‘Le baruffe chiozzotte’ rappresentate a Venezia fra gli orti, le vele, i canali, della
Giudecca, «Il resto del carlino», 18 luglio 1936.
53. R. Simoni, La bona mare, «Corriere della Sera», 2 marzo 1930.
301
ADELA GJATA
che parla imbrogliando le sillabe, ed il Micheluzzi nell’onesta figura di padron Toni,
e il giovine Baldanello, eccellente nella caricatura del messo del Tribunale.54
Daniela Palmer, in arte Kiki, l’unica milanese della compagnia, fu una
«pepatissima e piacevolissima» Checca55 che, a dire della critica, sostenne benissimo il confronto con la Bresciani, l’attrice goldoniana che rese celebre il
personaggio nel 176256. Alle venete Gasparini e Seglin, Simoni lascia campo libero nella creazione dei personaggi di Libera e di Pasqua; Bertoncello è
un’ottima Orsetta «dalla lingua sciolta e dall’occhio ardito»; Stival è un Titta
Nane «d’ottima classe», ben equilibrato nelle sue agitazioni; «bravissimo nelle
vesti di Paron Vincenzo Giuseppe Zago».57
Le recite goldoniane di Simoni e Salvini ebbero un buon successo anche
di pubblico – una media di ottocento-novecento spettatori paganti a sera –58
tanto da registrare, nei mesi successivi, imitazioni da parte delle compagnie
venete di Gianfranco Giachetti e di Gino Cavalieri. Si trattava, come informa lo stesso Simoni in una lettera dell’8 settembre 1936, di «spettacoli mediocrissimi» che raccolsero al loro debutto molti spettatori speranzosi di vedere
una ‘riproduzione’ degli spettacoli veneziani.59 Ancora. Tra gli spettatori illustri delle Baruffe c’era un Pirandello appassionato, pronto a battere le mani a
ogni scena della prova generale, pervaso «da una gioia che pareva quella di un
bambino che per la prima volta si rechi al teatro dei piccoli».60 Se il Ventaglio
54. D’Amico, Le recite goldoniane a Venezia. Simoni regista, cit., p. 369.
55. Ibid.
56. E v. A. Scannapieco, «Caterina Bresciani, chi era costei?». Tragicommedia in tre atti con un
prologo e un epilogo, «Drammaturgia», xi / n.s. 1, 2014, pp. 167-192.
57. Zorzi, Il successo delle ‘Baruffe chiozzotte’ date a Venezia con regia di Simoni, cit.
58. Se nelle quattro recite del Ventaglio rappresentate tra il 15 e il 25 luglio si assiste a un
leggero calo degli spettatori paganti (dalle 22.335 lire del debutto si passa alle 20.130 lire dell’ultima replica), le Baruffe registrano una costante crescita di spettatori e dell’incasso complessivo.
Il debutto del 17 luglio incassò 29.350 lire; quello del 21 ammontò a 29.590; la replica del 24
registrò invece 10.680 lire; infine quella del 26 luglio salì a 31.393 lire. I dati sono desunti da una
comunicazione ufficiale del 28 luglio 1936 della Biennale Teatro a Mario Pompei dell’Ispettorato del teatro relativa agli introiti delle rappresentazioni goldoniane. Nella relazione consuntiva
sugli spettacoli di prosa all’aperto si segnala che i biglietti per la recita del 24 luglio delle Baruffe,
venduti a prezzi popolari di quindici lire per i primi posti e di dieci lire per i secondi, furono
esauriti in tre ore. Cfr. ASAC, Sezione teatro, a. 1936.
59. Gli allestimenti delle compagnie venete ricalcate sulle messe in scena simoniane furono rappresentate nonostante i divieti dei dirigenti della Biennale. Cfr. la corrispondenza tra il
Conte Conestabile e Simoni nel settembre 1936 relativa all’argomento, ASAC, Sezione teatro,
a. 1936.
60. Patanè, Parla Pirandello, cit., p. 578.
302
LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI
lo deluse, come si evince da una lettera a Marta Abba,61 lo scrittore commentò
entusiasta la messa in scena della commedia chioggiotta: «E se fosse così tutto
il teatro? Ma bisognerebbe che tutta la vita fosse sempre e fosse solo quella dei
buoni pescatori di Chioggia!».62
Simoni utilizzò per gli spettacoli del 1936 un rigore filologico che spogliava i testi delle linee farsesche e dei ‘soggetti’ cucitigli addosso nel corso degli anni. Nelle Baruffe egli dimostrò che la pretesa monotonia delle liti era da
imputare ai comici che avevano perduto il ritmo originario: «la commedia è
molto più viva, più divertente quando sia sfrondata di tutte le sovrastrutture
che la bruttavano», osservò un critico.63 Il regista analizzò ciascuna delle baruffe come una struttura musicale a sé, così che ognuna si distingueva per varietà di ritmo, tono e colore, con una tecnica simile alla variazione sul tema.
Tuttavia, questi spettacoli di Simoni non attuano una lettura drammaturgica
dialettica che scavi le psicologie dei personaggi goldoniani o le loro aspirazioni. La sua regia non supera lo stereotipo del ‘buon Paron Goldoni’. I personaggi goldoniani sono, in fondo, a dire dello stesso critico, gente dal «cuore
eccellente, di bontà spontanea e sonora»; mentre le liti amorose non sono altro
che «rusticamente tenere e quasi lagrimose, puntigli fino all’ultimo»,64 finché
al ballo di una furlana si fa pace. A questa lettura pittoresca corrisponde un’udienza buona e mite, come quella che spunta dalle finestre di campo San Cosmo, alla Giudecca, e che, in fondo, chiede solo di vivere in compagnia de Le
baruffe chiozzotte «un’ora gioconda».65 Lo spettacolo inneggia, inoltre, all’icona
61. La lettera del 16 luglio 1936 è riportata in L. Pirandello, Lettere a Marta Abba, a cura
di B. Ortolani, Milano, Mondadori, 1995, p. 1353.
62. Cfr. G. Patanè, Renato Simoni e la Sicilia, «La giara», iii, 1954, 2, p. 68. Alfredo Barbina,
invece, rileva come Pirandello, pur non misconoscendo il buon livello della rappresentazione,
liquidi la regia di Simoni con un’ironia tagliente. Lo stile del veronese doveva essere poco affine
alla ben più tormentata estetica drammatica del Premio Nobel. Cfr. A. Barbina, …E Pirandello:
quel «bel mago veneziano» del Goldoni, «Ariel», viii, 1993, 2-3, pp. 221-227.
63. Zorzi, Il successo delle ‘Baruffe chiozzotte’ date a Venezia con regia di Simoni, cit.
64. Simoni, Le baruffe chiozzotte, cit. A confermare questa visione populistica della comunità chioggiotta sono le ‘colorate’ canzoncine di Domenico Varagnolo interpretate dalla Lucietta
di Dal Monte. Nella prima la giovane guarda romantica e nostalgica il mare dalla finestra – un
mare oggetto di contemplazione, piuttosto che luogo di lavoro faticoso e pericoloso –: «TittaNane xe in tartana / che barufe col garbin / se lo ciape la matana / de sto tiempo berechin, / pì
nol sente la campana, / el se perde… fantolin». Nella seconda, Lucietta, «appoggiata un po’ alla
balaustra del ponte, un po’ al petto del suo Titta-Nane» (così da «Il gazzettino»), canta: «O Ciosa
del mio cuor, / ciosa mia bela… / […] / ‘Na vela che luntan / la toche el cielo / e svole via sul
mare / ciaro e lisso: / la sgionfe tuta el fià / d’un venteselo / che spire su dal cuor / del mio novisso». Nota sulla fortuna, in C. Goldoni, Le baruffe chiozzotte, a cura di P. Vescovo, introd. di G.
Strehler, Venezia, Marsilio, 1993, p. 256 («Edizione nazionale delle Opere di Carlo Goldoni»).
65. Palmieri, ‘Le baruffe chiozzotte’, cit.
303
ADELA GJATA
nazional-popolare di Goldoni: al culmine dei canti e della furlana finale, Isidoro si immobilizza sopra un piedistallo dietro il popolo festoso nell’identica
posa nella quale lo scultore Antonio Dal Zotto aveva immortalato in campo
San Bartolomeo l’autore della riforma.66
Ritornano nei successivi spettacoli goldoniani di Simoni per la Biennale –
Il bugiardo (campo San Trovaso, luglio 1937), Il campiello (campiello del Piovan,
luglio 1939) – molti degli elementi stilistici riscontrati nel Ventaglio e nelle Baruffe: l’accurata selezione di un complesso artistico di prim’ordine, fondamentale per la riuscita della messa in scena; la cura meticolosa dello spazio scenico
e della recitazione, entrambe d’impostazione realistica; la ricerca di un ritmo
che derivi dalla parola e dalle azioni sceniche; la valenza melodica rafforzata dalle musiche e dai canti dal vivo. Gli allestimenti di Simoni vanno intesi
come un punto di intersezione tra la tradizione grandattoriale e le istanze di
cambiamento profondo della scena a livello artistico e produttivo verificatesi
dopo il secondo conflitto mondiale. Fondate su un’idea testocentrica di stampo
damichiano, con una particolare attenzione alla ricerca filologica e all’accuratezza formale, quelle regie non giunsero a una rottura linguistica innovativa,
ma operarono la saldatura tra la parola e l’immagine che sarà uno dei capisaldi
della regia critica del dopoguerra.67
La parabola degli spettacoli veneziani di Simoni inizia a declinare attorno al 1940, anno della sua rottura con il Festival Internazionale del Teatro, a
causa di dissensi sul repertorio da mettere in scena. I mancati allestimenti di
Otello (1939) e Le nozze di Figaro (1940) indebolirono i rapporti del regista con
la Biennale.68 Si trattava di allestimenti dispendiosi che, in previsione di un
magro budget, il presidente della Biennale, Giuseppe Volpi di Misurata, preferì sostituire con un «programma autarchico»,69 ossia goldoniano, costituito
da riprese degli spettacoli di Simoni.70 Il regista tornò a Goldoni nel 1940 con
66. Si noti, a confronto, il finale dell’edizione di Strehler (1965) con «la festa finale straziante e povera, con lo svolazzante Isidoro che si leva fuori dal quadro, al quale lui signorino
non appartiene». Cfr. E. Flaiano, Un Goldoni ripensato con la necessaria incertezza, «L’europeo»,
24 gennaio 1965.
67. Sull’argomento resta referenza primaria Meldolesi, Fondamenti, cit., passim.
68. Lo annuncia Guido Riva in una lettera a Giuseppe Volpi inviata da Roma il 24 gennaio 1940: «Caro Commendatore, comunicai a S.E. Simoni quanto mi avete detto sabato scorso
per telefono. Mi rispose che avrebbe atteso ancora ‘qualche giorno’ le vostre decisioni. Non vi
nascondo però, in tutta confidenza, che se non si ottiene una risolvente nel più breve tempo possibile ci troveremo di fronte a delle difficoltà insormontabili, prima di tutte quella degli attori
che vanno a mano a mano impegnandosi, e lo stesso Simoni che sento disamorarsi di ora in ora
e che finirà con il rifiutare la sua preziosissima collaborazione», ASAC, Sezione teatro, a. 1940.
69. Dattiloscritto di Giuseppe Volpi a Simoni (Venezia, 29 febbraio 1940), ivi.
70. In una lettera di Antonio Maraini al presidente Volpi del 22 marzo 1940 (Firenze) si
304
LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI
Le donne curiose: lo spettacolo debuttò al teatro Alfieri di Torino il 3 novembre. Fu poi replicato per il Festival del Teatro di Venezia il 14 dicembre 1946.
Siamo in presenza di un unicum nell’esperienza registica goldoniana di Simoni, non solo per l’allestimento al chiuso, ma soprattutto perché per la prima
volta egli diresse un gruppo di interpreti alle prime armi (i giovani attori della compagnia dell’Accademia), prassi che recupererà in parte nel 1948 quando
sceglierà come protagonisti per il suo ultimo spettacolo, Romeo e Giulietta, i
giovanissimi Giorgio De Lullo ed Edda Albertini.71
L’edizione del 1941 del Festival Internazionale del Teatro di Venezia perse la
vitalità e il respiro cosmopolita degli anni precedenti, conformandosi culturalmente al clima del ‘patto d’acciaio’. La macchina festivaliera riprese le proprie
attività nel 1947 con la direzione organizzativa di Guido Salvini e la consulenza
artistica di Simoni che ricoprì nuovamente la carica di supervisore della programmazione nella Commissione teatro. Questa prima edizione del festival,
dopo la grande catastrofe, puntò sul carattere internazionale delle opere, mentre gli spettacoli di Simoni – I rusteghi e L’impresario delle Smirne – rappresentavano il ritorno alla tradizione goldoniana che aveva ancora tanti affezionati tra
il pubblico e gli operatori teatrali. Con I rusteghi Simoni abbandona i paesaggi
naturali dei campielli e dei rii veneziani, per entrare nelle abitazioni di questi burberi ‘per bene’ «con le porte serae e i balconi inciodai» (ii 5).72 Salvini
e Calvo avevano costruito ai Giardini della Biennale73 un «vasto palcoscenico
smontabile, a piani scorrevoli e quindi a rapidi mutamenti di scena, mai visto
finora in Italia»,74 che mostrava uno spazio tripartito con gli interni delle case
dei protagonisti e che veniva riproposto con pochi cambiamenti nell’Impresario.
Simoni mantiene tuttavia l’identità di un regista-concertatore dei movimenti, dei gesti e delle tecniche degli interpreti. Nei Rusteghi, oltre ai «piacevolis-
legge: «Subito mi sono occupato di quanto in quest’ultima mi diceva circa l’opportunità di prendere contatto con Simoni. A tale scopo ho avuto una lunga conversazione con Baradel che trovai
oggi di passaggio da Firenze, poiché volevo aver più precise informazioni sull’ultimo colloquio.
Pare che in essa Simoni abbia riconfermato in maniera ancora più viva che nella sua lettera a te il
proposito di non voler ripresentarsi con ‘Il campiello’ e di non mettere in scena altre commedie
goldoniane. Ha anzi aggiunto che, se qualcuno di noi, il Presidente naturalmente eccettuato,
si recasse a Milano per vederlo in proposito, non accetterebbe nemmeno di discuterne» (ivi).
71. Cfr., per esempio, G.C. Castello, Romeo e Giulietta, «Sipario», iii, 1948, 27, pp. 4-5.
72. C. Goldoni, I rusteghi, a cura di G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 1970, p. 60.
73. L’idea di costruire una sala permanente al fine di contenere le spese degli allestimenti
all’aperto era già stata avanzata da Nicola De Pirro in una riunione della Commissione delle
Biennale del 21 luglio 1937. Cfr. ASAC, Sezione teatro, a. 1937.
74. E. Possenti, Festival del teatro a Venezia. Due commedie di Goldoni con la regia di Simoni, «Il
nuovo Corriere della Sera», 13 agosto 1947, poi pubblicato con il titolo ‘I rusteghi’ e ‘L’impresario
delle Smirne’, «Il dramma», xxiii, n.s., 1947, 42-44, p. 60.
305
ADELA GJATA
simi Cesco Baseggio, Camillo Pilotto e Giulio Stival, in gara di bravura» –75
rispettivamente nei panni dei mercanti Lunardo, Simon e Maurizio –, particolarmente gradito fu il terzetto femminile: una «furbesca, maliziosa e brillantemente petulante» Elsa Merlini,76 Leony Leon Bert dalla comicità «sapidamente
varia»77 nella parte di Margarita e Wanda Baldanello, una briosa Marina moglie di Simon. I personaggi si caratterizzarono per gesti e atteggiamenti quali
tic nervosi o comiche fissazioni, accompagnati da una dizione persuasiva che
inseriva la messa in scena nella prospettiva di un realismo psicologico tutt’altro che esasperato. Del lavoro di regia ne I rusteghi viene sottolineata l’efficace
armonizzazione della componente visiva e sonora:
Simoni si è posto ancora una volta di fronte ad un testo a lui caro come un orchestratore: un orchestratore vigile quant’altro mai al giuoco periglioso e cangiante dei
contrappunti, puntuale nel distendere e annodare il tessuto musicalmente complesso
e pur cristallino del dialogo, nel graduare l’intrico fitto e vario delle voci. Ad una così rigorosa strumentazione ha fatto riscontro un’altrettanta esatta armonizzazione del
mobile giuoco tecnico delle figure lungo l’arco della scena disegnata da Aldo Calvo.
Or più larga e pacata, or più stretta e concitata ed incalzante (si pensi al calcolatissimo ed esemplare finale del second’atto) l’orchestrazione visiva si è fusa ed integrata
con quella vocale, a creare uno spettacolo lineare e vivido, dal quale I rusteghi sono
emersi in tutta la loro essenziale, intima, genuina teatralità.78
Anche in questo caso l’approccio testocentrico non concede a Simoni un’interpretazione diversa da quello che D’Amico chiamava ‘lo spirito intimo’ della
parola, che sul piano strutturale coincide con un’accurata ricostruzione dell’ambiente. La messa in scena predilige una chiave di lettura ‘musicale’79 fondata
sugli «accenti, i toni, le pause, i respiri e gli accordi di basso, di contralto e di
soprano», linea stilistica che genera uno spettacolo il cui clima generale si riconosce in aggettivi quali «dilettoso, ironico, ilare, pittoresco, argutamente
vivo e allegramente vitale».80
La matrice musicale prevale anche nell’Impresario delle Smirne nonostante
Simoni avesse preferito la versione in prosa del testo. Il regista conserva il lin-
75. Ibid.
76. Ibid.
77. G.C. Castello, Palcoscenici di Venezia. ‘I rusteghi’ e ‘L’impresario delle Smirne’ di Goldoni,
«Sipario», ii, 1947, 16-17, p. 79.
78. Ibid.
79. Fautore di questa chiave di lettura in sede letteraria è Attilio Momigliano che ritiene
i dialoghi de I rusteghi «tramati, delicatissimamente, sopra una linea di opera buffa». Storia della
letteratura italiana (1934), Milano, Principato, 198020, p. 338.
80. Possenti, Festival del teatro a Venezia. Due commedie di Goldoni con la regia di Simoni, cit.
306
LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI
guaggio dialettale delle tre virtuose, seguendo probabilmente il suggerimento di D’Amico.81 Se la Tognina di Andreina Paul fu autenticamente veneziana
nelle battute riscritte per l’occasione da Domenico Varagnolo, il lessico della
Annina (Rina Morelli) e quello di Lucrezia – la furba e civettuola soprano di
Sarah Ferrati – si caratterizzarono rispettivamente per «pittoresche espressioni
bolognesi» e per «uno spiccato accento toscano».82 Cadenze napoletane ravvivano i personaggi del poeta Maccario (Luigi Almirante) e del soprano Carluccio,
detto il Cruscarello, interpretato da Vittorio De Sica; toni levantini colorirono
invece la vocalità dell’impresario turco di Paolo Stoppa.
«Goldoni mai mi è apparso così splendidamente terso e così miracolosamente giovane», scriveva Castello nella recensione agli spettacoli, individuando
i meriti maggiori della regia nel fresco disegno dei personaggi e nella riscoperta di un testo ‘minore’ di Goldoni come L’impresario delle Smirne,83 confinato da molti nella categoria di una «commedia onesta e tipica» con personaggi
che «non superano i limiti della macchietta».84 Il ridotto allestimento di Simoni del 1947 – affrancato dalla tradizione spuria dei soggetti posticci, dalle
leziosità e ostentazioni verbali accumulatisi nel corso degli anni – è dunque la
prima rilevante riscoperta novecentesca della commedia che verrà consacrata dieci anni dopo nella celebre messa in scena di Luchino Visconti che scelse
come protagonisti due interpreti simoniani: Paolo Stoppa (Alì) e Rina Morelli (la virtuosa Annina).85 A Simoni va riconosciuto il merito di avere creato i presupposti per una lettura diversa della drammaturgia goldoniana – poi
portata ai massimi livelli da Strehler e Visconti – in piena indipendenza dagli
stili e dalle maniere del passato anche prossimo. Pochi mesi dopo il successo
dell’Impresario, Simoni aveva pensato di valorizzare ulteriormente il testo con
un’ampliata versione scenica destinata alle ribalte internazionali, progetto interrotto dalla sua repentina scomparsa.86
81. «Siccome poi il testo si presta, potresti inventar i dialetti per ciascun personaggio, limitando i veneti al minimo possibile», scriveva Silvio d’Amico a Simoni il 5 luglio 1947; Milano,
Museo teatrale alla Scala, Biblioteca Livia Simoni, CA 1756.
82. Programma di sala de L’impresario delle Smirne. ASAC, Sezione teatro, a. 1947. Cfr. anche
Possenti, ‘I rusteghi’ e ‘L’impresario delle Smirne’, cit., p. 61.
83. Castello, Palcoscenici di Venezia, cit., pp. 78-80.
84. Cfr. il comunicato stampa della Biennale Teatro per l’anno 1947. ASAC, Sezione teatro,
a. 1947.
85. Cfr. e.g. L. Zorzi, Una regia di Visconti (‘L’impresario delle Smirne’) (1958), ora in Id.,
L’attore, la commedia, il drammaturgo, Torino, Einaudi, 1990, pp. 290-292; S. Mazzoni, Ludovico
Zorzi. Profilo di uno studioso inquieto, «Drammaturgia», xi / n.s. 1, 2014, pp. 39-40.
86. Da una lettera manoscritta che Guido Salvini inviava a Elio Zorzi il 25 febbraio 1948
si apprende che Simoni «sarebbe lietissimo di rimettere in scena L’Impresario delle Smirne, riveduto ampliato e corretto, qualora noi lo portassimo all’estero, cosa che è credo indispensabile
307
ADELA GJATA
L’impresario, sul quale Simoni operò un lavoro drammaturgico di adattamento e di riscrittura – i cinque atti del testo furono condensati in tre quadri della
durata di un’ora – fu concepito come una sorta di saggio teatrale, che doveva
affiancare lo spettacolo principale I rusteghi, un ‘divertimento’ scenico «dai toni accesi», ironico e divertente, grazie soprattutto al «disegno caricaturale»87
dei personaggi: le virtuose bizzose e impertinenti, il macchinoso e furbo sensale Nibio – interpretato da Antonio Crast, il più veneto degli interpreti –, il
nobile e onesto amante delle arti, il Conte Lasca (Camillo Pilotto), l’esotico
mercante straniero sensibile più alle grazie femminili che alla musica. Simoni
lesse il testo in chiave ironica mettendo in luce l’equilibrio fra ritratto di costume dell’ambiente e il gusto della comicità dei cantanti. Nessuna disperazione o malinconia esistenziale caratterizza i personaggi:
Ed ecco la cafoneria fatua e meschina del Cruscarello di De Sica, ecco il variegato intrico delle rivalità femminili, dall’estro esuberante della Ferrati a quello sottile della Morelli a quello puntiglioso della Paul, ecco la brusca e divertita comicità
dello Stoppa che era il turco, ecco la precisa e succosa evidenza dei tipi dal Pilotto e
dall’Almirante, dal [Adolfo] Celi [Pasqualino, tenore amico di Tognina] e dal Crast.88
Il ‘duetto’ Rusteghi-Impresario fu l’ultimo intervento di Simoni al Festival
veneziano. Una collaborazione a tratti travagliata a causa di un’organizzazione centralizzata e conservatrice che impedì al regista di sperimentare repertori
diversi. In una lettera del febbraio 1948 a Elio Zorzi, capo ufficio stampa del
Festival, Salvini rivelava come il regista veronese non intendesse continuare la
cooperazione con la Biennale poiché «la critica a Venezia ha mostrato una totale ignoranza sui problemi del teatro goldoniano».89 Gli spettacoli veneziani
del 1947 conclusero l’esperienza goldoniana di Simoni; Romeo e Giulietta allestito l’anno dopo al teatro romano di Verona fu la sua ultima regia teatrale.
perché De Sica ha in Francia e in Inghilterra un grandissimo nome». ASAC, Sezione teatro, a.
1948.
87. Castello, Palcoscenici di Venezia, cit., p. 79.
88. Ivi, p. 80.
89. Lettera manoscritta di Guido Salvini a Elio Zorzi del 25 febbraio 1948. ASAC, Sezione
teatro, a. 1948.
308
SUMMARIES
SAGGI
Claudio Longhi
Per Luca Ronconi (1933-2015): quasi una «leçon de ténèbres»
The recent death of Luca Ronconi (February 21st, 2015) became the occasion to retrace his artistic path, of a forever restless ‘adolescent’, and to understand better his
typical traits. Among projects that will remain forever unfulfilled, titanic failures and
visionary shows, the keystone of the poetics of Ronconi turns out to be an inexhaustible search of the infinite, in a dialectic between the exceeding of the limit and the
strenuous comparison with its inescapable necessity. The theatre of Ronconi, in its
giddy pursuit of ‘what has no end’, confesses its most genuine nature: an ‘anatomical’ theatre of death.
Keywords: Luca Ronconi, Stage direction, Drama, Acting, Anatomical theatre.
Sara Mamone
Drammaturgia di macchine nel teatro granducale fiorentino. Il teatro degli Uffizi da
Buontalenti ai Parigi
The essay covers the great Florentine representations of XVIth and XVIIth century,
finding a common denominator (beyond the self-celebratory value) in the ‘virtuosity’ of the machinery, which soon exceeds the textual dramaturgy. This one, in fact,
serves a peculiar ‘dramaturgy of the machines’, which become mythopoetic, bending the poetic invention to their own needs. Through a precise and detailed series
of comparisons between the various episodes, here the history of the Medici’s spectacle is examined following a possible craft and engineering interpretation, precisely
showing how the reutilization of the technological heritage conditioned the entirety
of the spectacle.
Keywords: Dramaturgy, Machinery, Teatro degli Uffizi.
Anna Maria Testaverde
L’avventura del teatro granducale degli Uffizi (1586-1637)
The essay reconstructs the chronological details of the construction and disposal of
the Teatro degli Uffizi. An extensive unpublished documentation, and a newly discovered plan of the theatre in the Archivio di Stato di Modena, bring to light hitherto
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 309-315
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18382
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
© 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License
(CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original
author and source are credited.
SUMMARIES
unknown persons and situations. The study anticipates reflections and proposals for a
structural solution that would modify the model proposed in 1975 by Ludovico Zorzi.
As a foundation of these new hypotheses, the essay offers a re-reading of the Vitruvius’s theories on which the florentine highly specialised technical skills were based on.
Keywords: Teatro degli Uffizi, Giorgio Vasari, Bernardo Buontalenti.
Caterina Pagnini
Anna di Danimarca e i ‘Queen’s Masques’ (1604-1611)
This essay offers a preliminary portrait of Anna of Denmark, queen of Scotland from
1589 for her marriage with James VI and queen of England, Scotland and Ireland for
her husband’s accession to the throne as James I in 1603. Unjustly described by the
anti-jacobean storiography as a vague character, changeable and superficial, extremely
frivolous because of her interest in the court revels, Anna was instead an emblematic and eclectic personality, both in politics and cultural activity, expecially for her
patronage of arts, artists and spectacle. Patron of painters, musicians and actors, connoisseurs of the Italian Renaissance architecture, Anna was the effective promoter
of the english court spectacle, creating a series of yearly events which, from 1604 to
1611, signed the ultimate codification of the English masque.
Keywords: English court spectacle, Masque, Anna of Denmark, Inigo Jones.
Françoise Siguret
La lumière et le temps sur la scène baroque : Poetique & Pratique
Time: Aristotle, in the Poetics, recommends the playwright to confine his tragedy
within «two revolutions of the sun»; the concept refers to the light perception, to the
fact that greek drama is acted in the open air. The messengers and the chorus represented on the stage, in the present time, what happened outside of it. In the age of
the French classical theatre, the chronological sequence of the action had to conform
to the laws of the reason: the so-called rule of the twenty-four hours became an indisputable rule of the action. A time exactly measured, substituting the time of the
light, cyclical and mythical. In Italy, pastorals, mythological melodramas and all that
belonged to the court entertainments (ballets, operas, tournaments) conformed to
a cyclical time in which the four seasons constituted the scenery, linking life to the
four liturgical seasons and to the four parts of the day, from noon to midnight (cfr.
Endymion and the Ballet de la Nuit). Light: Need to light up the indoor playhouse for
practical and moral issues. Italian craftsmen implement the technical tools; a certain
difference between primary light (intended to light up the stage and the auditorium)
and the lumi (the supplementary lighting related to a specific performance). Buontalenti’s lighting devices (sun, moon), rainbows, divine and princely splendour will en-
310
SUMMARIES
chant the spectators. France will discover these stagecraft effects with the Calandria
(1548), without subsequent developments. Afterwards, Corneille will be fascinated
by the ‘baroque’ charm (Médée, 1639 and Andromède, 1650). In the second half of the
XVIIth century, while machinery invades opera and tragedy in music, Racine refuses
anything intended to deceive the eye, though creates a lighting that may be «listened»
(Britannicus). The Allegories (the «other discourse») convey meanings on the baroque
stage through the perpetual slow motion of the gods and Time, till the final glory
of the Prince: Cosimo = cosmos. Galileo and Vespucci, medicean glories, explorers of
the theatre of the world, knew that History finds its own sense only in the perpetual
motion of the earth around the sun. Time is nothing but a Light’s accident.
Keywords: Light, Time, Poetics, Allegories, History.
Paologiovanni Maione
«Il possesso della scena»: gente di teatro in musica tra Sei e Settecento
The present article investigates the training of female stage practitioners and their
versatility in performing different genres. Through select case studies – such as those
of Giulia de Caro and Teresa Gandini – it aims to trace the careers of actresses seeking to create an identity in the stage industry. Several sources describe their still
unknown professional development, focusing both on parts and roles and on their
performing skills (singing, dance, prose). As members of a society and a stage industry which still defy a thorough illustration, they reveal complex personalities that go
far beyond brief and concise ‘biographies’. Needless to say, they interact with ‘multitasking’ colleagues, as can be seen in the troupes of Domenico Antonio Di Fiore and
Gabriele Costantini, whose actors were eager to work on different ‘stages’, showing
how varied and intriguing their specialization was.
Keywords: Italian Opera, Singers, Naples, Giulia de Caro, Teresa Gandini.
Anna Scannapieco
I ‘numeri’ delle comiche italiane del Settecento. Primi appunti
Preamble and stimulus to more systematic investigations, the paper proposes an initial review of the actresses demography in Italy in the 18th century. Beyond its significant quantitative impact, the female component is significant above all because
it attests the persistence of that mixture of different performative languages which is
the distinctive feature of the Commedia dell’Arte, and that – not yet overwhelmed
by the sectoral progress of professional skills –, is still visible in the 18th century.
From a preliminary anagraphic survey, and through the sieve of exemplary events
(like that of many actresses, as the Medebach and Marliani, Passalacqua and Rosina
Costa, Teresa Gandini; Maria Donati, Antonia D’Arbes, Teodora Ricci and her sis-
311
SUMMARIES
ters, Faustina Tesi), it emerges clearly the phenomenon of actresses who build their
professionalism even as acrobats, dancers, singers and even businesswomen: this phenomenon is a particularly eloquent, when compared to a historical and legal context
in which the capacity deficit (that excluded women from the public sphere and from
holding officia and munera) had the full force of law and in which the status of ‘owner’
collided with that of minus habens. In short, new legal and artistic identities are asserting on the Italian scene of 18th century.
Keywords: Commedia dell’Arte, 18th century actresses and ‘multimedia’, Carlo Goldoni, Women’s artistic and juridical identities in the 18th century.
Franco Perrelli
Il mulo di Lessing
In Hamburg Dramaturgy, the lengthy parallel analysis that Lessing devoted to the tragedies of Maffei and Voltaire about the figure of Merope, led him to an Enlightenment re-reading of Aristotle and to an hypothetical reconstruction of Euripides’
Cresphontes. In this way, the German critic was able to underline Euripides’ attitude
to a technique of preliminary revelation of the characters and the nodal points of the
plot: on one side, it can reduce the suspense; on the other, it avoids the most superficial coups de théâtre, shifting the tragic effect from ‘what’ to ‘how’ it occurs. Contesting the position of Abbé d’Aubignac and supporting Diderot, Lessing realized that a
considerable part of this Euripidean technique is based on the remixing of diegesis
and dramatic mimesis: it is an uncommon ‘hybrid’ of genres that appears efficacious
and extremely useful (just like the intersection from which is generated a mule). Lessing’s analysis had an important and documented influence on the modern theatre:
here, we can find a Sophoclean approach (Ibsen) and an Euripidean approach to the
drama. In particular, the Euripidean line is developed in Strindberg’s epic dramaturgy and, in all its evidence, in Brecht.
Keywords: Drama, Mimesis, Diegesis.
Alessandro Tinterri
Silvio d’Amico e la nascita del Burcardo
Silvio d’Amico played a central role in the birth and development of the Theatrical
Collection of the Italian Society of Authors and Publishers (S.I.A.E.), named ‘Burcardo Library and Theatre Collection’, and in the acquisition of Luigi Rasi’s Theatrical Collection.
Keywords: Silvio d’Amico, Burcardo Library and Theatre Collection, Theatrical
heritage, Luigi Rasi.
312
SUMMARIES
DOCUMENTI E TESTIMONIANZE
Teresa Megale
Eleonora Duse. Nuovi frammenti autografi di un lungo percorso teatrale
This essay offers the reading of several Eleonora Duse’s unpublished works, written
during a period of time between 1883 and 1921. In these writings a variously assorted network of correspondents (playwrighters, journalists, actors and antiquarians) meets. The autographs (most of them addressed to Achille Torelli) enrich the
sources about the study of the actress. In each of them, the personal life of Eleonora
Duse intersects with the theatrical profession until her biography merges with her,
never satisfied, projects.
Keyword: Eleonora Duse, Primary Sources, History of actors, Dramaturgy, Biography, History of the contemporary theatre.
‘Co2.’ Intervista a Giorgio Battistelli
a cura di Anna Menichetti
On the 16th of June 2015, the premiere of the opera CO2 by Giorgio Battistelli, based
on a libretto by Ian Burton and directed by Robert Carsen, opened at the Teatro alla Scala, meeting with great acclaim from the critics and public. After a long period
of preparatory work and many changes in the production, the opera coincided with
EXPO 2015, addressing, as it does, environmental issues and deliberately broaching
exceptionally topical issues in economic, social and political thinking. Highlighting
a subject as urgent as the pollution of the Earth in an operatic setting achieved a double effect: it created an opera which functions as a means of reflection on contemporary reality – this is already evident in the title, a chemical formula repeated so often
nowadays that it even appears in the recent papal encyclical – and produced sung
theatre with no frills which is able to express a universal truth. These elements are at
the heart of the opera’s originality: CO2 can rightly be considered the opera of the
New Millennium. During the conversation, which took place in Rome on the 30th
of March 2015, Giorgio Battistelli talked with great enthusiasm about how important
it is to make music theatre an expression of social commitment. When he speaks on
this subject, you can perceive his close attention for the theatrical word, for the musicality of his work and for its ethical and ideological content which, however, never
falls into the trap of rhetoric. The sincerity and character of the author shine through
the interview, as do his writing methods, and in the generous and forthcoming dialogue we get a faithful picture of his painstaking creative process.
Keywords: Giorgio Battistelli, CO2 , Teatro alla Scala.
313
SUMMARIES
RICERCHE IN CORSO
Teresa Ferrer Valls
Il punto sul mondo degli attori del Siglo de Oro
In Spain exists a rich documentary and bibliographic patrimony about the activities
of players and acting companies in the Golden Century. This essay offers an update
historiographic overview and highlights the progress allowed by the new technologies and by the publishing of databases containing relevant research tools concerning the stage practice.
Keywords: Spanish theatre, Golden Century, Actors.
Francesca Simoncini
Le prime attrici della compagnia Reale Sarda nel database AMAtI
The section is dedicated to the profiles of three important actresses active in the first
half of the 19th century: Carlotta Marchionni (1796-1861), Amalia Bettini (18091894), Antonietta Robotti (1817-1864).
Francesca Simoncini-Antonio Tacchi
Carlotta Marchionni
Born into an acting family, she began her career in companies in Tuscany. She gained
her first leading actress role in 1811 in the troupe run by her mother, Elisabetta, and by
Antonio Belloni, Carlo Calamari and Ferdinando Meraviglia. In 1823 she became the
leading actress of the Compagnia Reale Sarda (The Royal Sardinian Company). It is her
ability to harmonise her craft, her business sense and the new theories on acting which
creates the quality that leads her to achieve a prime position in the history of Italian theatre.
Keywords: Biography, Actresses, Repertory, Performances.
Daniela Sarà
Amalia Bettini
‘Amorosa’, then leading actress, the most appreciated and sought after actress of the
1830s. She had an intense and longstanding relationship with the poet Giuseppe Gioachino Belli. In the latter years of her career she performed in the Compagnia Reale
Sarda (The Royal Sardinian Company).
Keywords: Biography, Actresses, Repertory, Performances.
314
SUMMARIES
Emanuela Agostini
Antonietta Robotti
As one of the most important leading actresses of the 19th century, she performed in
the Ducale di Parma Company (1839-1842) and for a whole decade (1842-1853) in
the Compagnia Reale Sarda (The Royal Sardinian Company). After 1853 she founded and directed with her husband Luigi their own companies.
Keywords: Biography, Actresses, Repertory, Performances.
INDIZI DI PERCORSO E PROGETTI
Gianluca Stefani
Sebastiano Ricci impresario in angustie a Venezia: i guai della stagione 1718-1719 al
Sant’Angelo
Sebastiano Ricci was not only one of the greatest painters of the 18th century, but an
active impresario in the Venetian opera houses at the beginning of the early 18th century. Thanks to the rediscovery of some notarial and judicial documents in the Archivio di
Stato of Venice, we can reconstruct the circumstances under which he became manager
of the Teatro di Sant’Angelo in the season 1718-1719, a season marked by his succession
to the previous impresario Antonio Moretti (known as Modotto) and by his legal dispute
with the violinists Giovan Battista and Ludovico Madonis at the tribunal ‘del Forestier’.
Keywords: Sebastiano Ricci, Venice, Teatro di sant’Angelo, Antonio Moretti detto
Modotto, Madonis (violinists).
Adela Gjata
Le regie goldoniane di Renato Simoni (1936-1947)
The study aims to reconstruct Renato Simoni’s stage directing investigated through
the analysis of the outdoor Goldonian performances set up for the Festival of Venice
in the years 1936-1947. These exceptional events employed top level dramatic artists.
Simoni was one of the first directors who responsibly exercises his professional function, a profession that struggled to settle in the national theater system. His directing,
built on an idea centred on the text, according to Silvio d’Amico’s teaching, is based
on a very accurate playwriting, that aims to revalue the Italian drama in its best acting tradition. Simoni never reached a tradition-breaking linguistic innovation, but
achieved the connection between the word and the image, that will be a cornerstone
of the critical stage directing after World War II.
Keywords: Renato Simoni, Carlo Goldoni, Direction, Theater Festival, Biennale
of Venice.
315
GLI AUTORI
Emanuela Agostini è dottore di ricerca
in Storia dello spettacolo presso l’Università di Firenze (tutor: Siro Ferrone). Dal
2006 fa parte della redazione dell’Archivio Multimediale degli Attori Italiani.
Tra i suoi ambiti di interesse si segnalano la Commedia dell’Arte e le biografie
di attrici e attori italiani dell’Otto e del
Novecento. Ha pubblicato il volume Il
Bergamasco in commedia. La tradizione di
Zanni nel teatro d’antico regime (2012).
Teresa Ferrer Valls è professore ordinario di Letteratura spagnola nell’Università di Valencia. Si occupa principalmente
del teatro spagnolo dei Secoli d’Oro. Ha
pubblicato saggi sul mecenatismo teatrale, sui rapporti tra fasto e teatro di corte,
sugli attori e le compagnie teatrali dei
secoli XVI e XVII, sulle drammaturghe
barocche e su Lope de Vega, Luis Vélez
de Guevara, Antonio Mira de Amescua
e Cristóbal de Virués. Per quindici anni
ha diretto il progetto di ricerca che ha dato origine al grande database Diccionario
biográfico de actores del teatro clásico español.
DICAT (2008). Attualmente il gruppo diretto da Teresa Ferrer è impegnato nel progetto CATCOM. Las comedias
y sus representantes. Base de datos de comedias mencionadas en la documentación teatral
(1540-1700).
Siro Ferrone, professore ordinario di
Storia del teatro e dello spettacolo presso
l’Università di Firenze, è autore di libri
sulla Commedia dell’Arte e sullo spet-
tacolo del Seicento, sul teatro di Carlo
Goldoni, sulla drammaturgia dell’Ottocento e sul teatro contemporaneo. Dirige
l’Archivio Multimediale degli Attori
Italiani, la collana «Storia dello spettacolo», nonché, con Stefano Mazzoni,
la rivista annuale cartacea e digitale
«Drammaturgia» e il portale telematico
d’attualità drammaturgia.fupress.net. Tra
i suoi volumi più recenti: La Commedia
dell’Arte. Attrici e attori italiani in Europa
(XVI-XVIII secolo) (2014); La vita e il teatro di Carlo Goldoni (2011); Attori mercanti
corsari. La Commedia dell’Arte in Europa tra
Cinque e Seicento (20112, 1993); Arlecchino.
Vita e avventure di Tristano Martinelli attore
(2006; ed. francese 2008).
Adela Gjata è dottore di ricerca in Storia
dello spettacolo presso l’Università di
Firenze (tutor: Renzo Guardenti). Ha
condotto studi sulle culture teatrali del
Novecento. In corso di pubblicazione il
volume: Il grande eclettico. Renato Simoni nel
teatro italiano del primo Novecento, vincitore del Premio Ricerca ‘Città di Firenze’
2014.
Claudio Longhi, docente di Storia e
istituzioni di regia presso l’Università di
Bologna, ha pubblicato, tra l’altro: Marisa
Fabbri: lungo viaggio attraverso il teatro di regia (2010); L’‘Orlando furioso’ di AriostoSanguineti per Luca Ronconi (2006); La
drammaturgia del Novecento tra romanzo e
montaggio (1999). Dal 2008 collabora al
progetto Archivio Multimediale degli
DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 317-321
Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18383
ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press
© 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License
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GLI AUTORI
Attori Italiani. Al lavoro di ricerca affianca l’impegno teatrale attivo: dal 1995 al
2002 è stato assistente di Luca Ronconi
e dal 1999 ha iniziato a firmare in proprio la regia di spettacoli per i maggiori
teatri italiani.
Paologiovanni Maione è docente di
Storia della musica presso il Conservatorio
San Pietro a Majella di Napoli, ricercatore
dell’Istituto italiano per gli Studi filosofici di Napoli, consulente per le attività musicologiche della Fondazione Pietà
de’ Turchini-Centro di musica antica di
Napoli, membro del comitato scientifico della Fondazione Pergolesi-Spontini
di Jesi e del Da Ponte Research Center
di Vienna. Collabora con vari gruppi
di musica barocca. Ha collaborato con
la Società italiana di musicologia e attualmente è nel comitato consultivo del
settore convegni. Ha pubblicato diversi
volumi e suoi saggi sono apparsi in prestigiose riviste italiane e straniere e in libri miscellanei.
Sara Mamone, professore ordinario di
Storia del teatro e dello spettacolo presso
l’Università di Firenze, si è occupata in
particolare della civiltà teatrale fiorentina
e dei rapporti tra questa e la Francia nei
secoli XVI-XVII. Tra i suoi altri campi
d’interesse il rapporto fra arte figurativa
e arti performative e quello tra mecenati
e performers. Tra i suoi lavori: Mattias de’
Medici serenissimo, vero mecenate dei virtuosi. Notizie di spettacolo nei carteggi medicei.
Carteggio di Mattias de’ Medici (1629-1667)
(2013); Serenissimi fratelli principi impresari. Notizie di spettacolo nei carteggi medicei. Carteggi di Giovan Carlo e di Desiderio
Montemagni suo segretario (1628-1664)
(2003); Dèi, semidei, uomini. Lo spettacolo
fiorentino fra neoplatonismo e realtà borghese
(2003); Il teatro nella Firenze medicea (19912,
1981); Firenze e Parigi, due capitali dello
spettacolo per una regina: Maria de’ Medici
(19882, ed. francese 1990).
Stefano Mazzoni, docente di Storia del
teatro e dello spettacolo e Storia del teatro antico presso l’Università di Firenze,
è specialista della drammaturgia e dell’iconologia degli spazi del teatro antico
e moderno in occidente e di storiografia teatrale. Dirige, con Siro Ferrone,
la rivista annuale cartacea e digitale
«Drammaturgia» e il portale telematico d’attualità drammaturgia.fupress.net.
È responsabile della sezione Scena della
rivista digitale «Dionysus ex Machina».
Tra le sue pubblicazioni: Ludovico Zorzi.
Profilo di uno studioso inquieto (2014);
L’Olimpico di Vicenza: un teatro e la sua
«perpetua memoria» (20102, 1998); Panorama di Pompei: storia dello spettacolo e mondo antico (2008); Atlante iconografico. Spazi
e forme dello spettacolo in occidente dal mondo
antico a Wagner (20084, 2003); La fabbrica
del «Goldoni». Architettura e cultura teatrale
a Livorno (1658-1847) (1989); Il teatro di
Sabbioneta (1985).
Teresa Megale è professore di Storia del
teatro e dello spettacolo presso l’Università di Firenze. Tra i campi privilegiati
delle sue ricerche: la Commedia dell’Arte, la storia degli attori, la drammaturgia italiana tra Seicento e Novecento.
Suo interesse scientifico preminente è la
civiltà teatrale napoletana studiata nelle
manifestazioni di età moderna e contemporanea. Nel 2006 ha fondato Binario di
scambio, compagnia teatrale dell’Ateneo
di Firenze, che tuttora dirige. Fa parte
di «Drammaturgia» sin dalla sua nascita, nel 1994. Tra le sue pubblicazioni:
Mirandolina e le sue interpreti. Attrici italiane
318
GLI AUTORI
per ‘La locandiera’ di Goldoni (2008) e le
edizioni del Teatro di Manlio Santanelli
(2005) e de Il Tedeschino di Bernardino
Ricci (1995).
Anna Menichetti si è laureata in
Drammaturgia musicale e si è diplomata in pianoforte. Ha conseguito una
Maîtrise in Etnomusicologia a Nanterre
(Paris x) sul teatro del sud est asiatico
(Malaysia) e il dottorato in Storia dello
spettacolo all’Università di Firenze (tutor: Maurizio Agamennone). Dal 1982
cura programmi di musica, spettacolo e
arte per RAI Radio TRE e dal 1989 al
2005 ha condotto le dirette radiofoniche
dal teatro alla Scala di Milano. È docente
di Musicologia sistematica presso il conservatorio Luigi Cherubini di Firenze.
Caterina Pagnini è dottore di ricerca
in Storia dello spettacolo presso l’Università di Firenze (tutor: Sara Mamone).
Attualmente è docente di Storia della
danza e del mimo presso il medesimo
Ateneo. È specializzata nella storia del
teatro e della danza di Antico regime.
Fa parte del comitato direttivo della rivista «Drammaturgia». Tra le sue pubblicazioni: Il teatro del Cocomero dai Medici ai
Lorena (Firenze 1701-1748) (in corso di
stampa); Costantino de’ Servi, architettoscenografo fiorentino alla corte d’Inghilterra
(1611-1615) (2006).
Franco Perrelli è professore ordinario di Discipline dello spettacolo presso l’Università di Torino. Specialista del
teatro scandinavo e contemporaneo, dal
2002 è nell’editorial board della rivista
«Ibsenian Studies» e, dal 2004, ha codiretto «North West Passage», annuario
del Centre for Northern Performing Arts
Studies dell’Università di Torino. È con-
direttore della rivista «Mimesis Journal»
e direttore delle collane «Biblioteca dello spettacolo nordico», «Visioni teatrali» e
«Studio DAMS». Fra le sue pubblicazioni
più recenti: Poetiche e teorie del teatro (2015);
Strindberg l’italiano (2015); Storia della scenografia (20132, 2002); Ludvig Josephson e
l’Europa teatrale (2012); Strindberg: la scrittura e la scena (2009); I maestri della ricerca
teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook
(2007); La seconda creazione. Fondamenti
della regia teatrale (2005); Echi nordici di
grandi attori italiani (2004); William Bloch.
La regia e la musica della vita (2001).
Daniela Sarà è dottore di ricerca in
Storia dello spettacolo presso l’Università di Firenze (tutor: Sara Mamone). Tra
il 2006 e il 2014 ha collaborato con varie biografie all’Archivio Multimediale
degli Attori Italiani. Tra i suoi ambiti di
interesse si segnala il teatro cortigiano
e accademico del Seicento italiano. Ha
pubblicato saggi sul teatro mediceo. È
in fase di elaborazione un volume dedicato al periodo seicentesco del teatro del
Cocomero di Firenze.
Anna Scannapieco insegna Storia della drammaturgia e Filologia dei testi teatrali presso l’Università di Padova. È
membro del Comitato esecutivo dell’Edizione nazionale delle opere di Carlo
Goldoni (1993-) e del comitato direttivo delle riviste «Studi goldoniani» n.s. e
«Drammaturgia» n.s. Specializzata nella
filologia dei testi teatrali, con particolare riferimento alla tradizione di quelli
settecenteschi, e nella ricostruzione dei
contesti storico-spettacolari di riferimento, annovera, tra le sue ultime pubblicazioni, l’edizione critica delle prime due
Opere teatrali di Salvestro cartaio, detto Il
Fumoso (2016) e quelle del Ragionamento
319
GLI AUTORI
ingenuo e di altri scritti teorici di Carlo
Gozzi (2013). Françoise Siguret è stata una pioniera
dell’insegnamento di Storia dello spettacolo, così come degli studi sulla retorica dei linguaggi testuali e figurativi, al
Département d’Études Françaises dell’Université de Montréal (Canada). Tra le sue
numerose opere si segnalano i volumi: Les
Fastes de la Renommée (2004); L’Œil surpris, perception et représentation dans la première moitié du XVIIe siècle (1993), nonché
la cura del volume Andromède ou le héros
à l’épreuve de la beauté (1996); sullo stesso
tema, si deve alla sua direzione l’importante convegno Andromède (Paris, Musée
du Louvre, 1993). Tra le sue traduzioni
dall’italiano si veda quella del volume di
Siro Ferrone, Arlequin. Vie et Aventures de
Tristan Martinelli (2008). di pubblicazione il volume: Sebastiano
Ricci impresario d’opera a Venezia nel primo
Settecento, vincitore del Premio Ricerca
‘Città di Firenze’ 2014.
Antonio Tacchi (1961-2014) ha studiato attrici e attori italiani tra Sette
e Ottocento. Con le sue r icerche,
nell’ambito del dottorato in Storia dello spettacolo dell’Università di Firenze
e all’interno della redazione dell’Archivio Multimediale degli Attori Italiani,
ha posto le basi per uno studio rigoroso
e originale delle biografie di attori e del
teatro toscano in età lorenese.
Francesca Simoncini è professore associato presso l’Università degli studi di
Firenze dove insegna Storia del teatro e
dello spettacolo. È caporedattrice del progetto Archivio Multimediale degli Attori
Italiani (AMAtI) e fa parte del comitato
direttivo della rivista «Drammaturgia».
Ha pubblicato saggi sul teatro mediceo,
sul teatro italiano del secondo Ottocento,
sulla Commedia dell’Arte e le monografie Eleonora Duse capocomica (2011);
‘Rosmersholm’ di Ibsen per Eleonora Duse
(2005).
A n n a M a r i a Te stav e r de i n seg n a
Discipline dello spettacolo presso l’Università di Bergamo. Ha indagato la spettacolarità dinastica in Italia e in Europa nei
secoli XV-XVII. Attualmente si interessa
allo studio delle tecniche di composizione
del testo scenico, con particolare riguardo alle affinità e alle differenze di produzione tra teatro dei dilettanti e teatro dei
professionisti. Dirige, con Siro Ferrone,
la rivista «Commedia dell’Arte. Annuario
internazionale», fa parte del comitato direttivo di «Drammaturgia» e del comitato scientifico dell’Archivio Multimediale
degli Attori Italiani. Tra i suoi lavori: I
canovacci della Commedia dell’Arte (2007);
L’officina delle nuvole. Il teatro mediceo nel
1589 e gli ‘Intermedi’ del Buontalenti nel
‘Memoriale’ di Girolamo Seriacopi (1991).
Gianluca Stefani è dottore di ricerca in
Storia dello spettacolo presso l’Università
di Firenze (tutor: Stefano Mazzoni). È caporedattore di drammaturgia.fupress.net
ed è stato borsista presso la Fondazione
Giorgio Cini. Ha pubblicato saggi sul
teatro italiano e sul teatro musicale del
primo Settecento veneziano. In corso
Alessandro Tinterri insegna Storia del
teatro e dello spettacolo e Storia e critica
del cinema presso l’Università di Perugia.
Si è occupato principalmente di teatro
italiano dell’Otto e Novecento, con particolare riguardo al teatro di Pirandello,
Bontempelli, Tofano e Savinio. Nel
2006 ha creato la collana «Morlacchi
320
GLI AUTORI
Spettacolo». Dal 2015 è consigliere scientifico di Fondazione Ansaldo.
Lorena Vallieri è dottore di ricerca in
Storia dello spettacolo presso l’Università di Firenze (tutor: Stefano Mazzoni).
Ha condotto studi sulle accademie te-
atrali bolognesi tra Cinque e Seicento.
È caporedattore della rivista annuale «Drammaturgia». Tra i suoi lavori:
Accademie, cultura e spettacolo a Bologna nel
Cinquecento (in preparazione); Prospero
Fontana pittore-scenografo a Bologna (1543)
(2014).
321
SAGGI
Claudio Longhi, Per Luca Ronconi (1933-2015): quasi una «leçon de tenèbres»
7
Sara Mamone, Drammaturgia di macchine nel teatro granducale fiorentino. Il teatro
degli Uffizi da Buontalenti ai Parigi
17
Anna Maria Testaverde, L’avventura del teatro granducale degli Uffizi (1586-1637) 45
Caterina Pagnini, Anna di Danimarca e i ‘Queen’s Masques’ (1604-1611)
71
Françoise Siguret, La lumière et le temps sur la scène baroque : Poetique & Pratique
89
Paologiovanni Maione, «Il possesso della scena»: gente di teatro in musica tra Sei e
Settecento
97
Anna Scannapieco, I ‘numeri’ delle comiche italiane del Settecento. Primi appunti
109
Franco Perrelli, Il mulo di Lessing
129
Alessandro Tinterri, Silvio d’Amico e la nascita del Burcardo
141
DOCUMENTI E TESTIMONIANZE
Teresa Megale, Eleonora Duse. Nuovi frammenti autografi di un lungo percorso teatrale 151
‘Co2’. Intervista a Giorgio Battistelli, a cura di Anna Menichetti
169
RICERCHE IN CORSO
Teresa Ferrer Valls, Il punto sul mondo degli attori del Siglo de Oro
Francesca Simoncini, Le prime attrici della compagnia Reale Sarda nel database
AMAtI
Francesca Simoncini-Antonio Tacchi, Carlotta Marchionni
Daniela Sarà, Amalia Bettini
Emanuela Agostini, Antonietta Robotti
197
201
223
241
INDIZI DI PERCORSO E PROGETTI
Gianluca Stefani, Sebastiano Ricci impresario in angustie a Venezia: i guai della stagione
1718-1719 al Sant’Angelo
Adela Gjata, Le regie goldoniane di Renato Simoni (1936-1947)
263
291
SUMMARIES
309
GLI
317
AUTORI
€ 20,00
185
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