Rivista fondata nel 1994 XII / n.s. 2 Luca Ronconi Firenze Cinque-Seicento Queen’s Masques Gli attori del Siglo de Oro Archivio Multimediale degli Attori Italiani Ricerche in corso ‘Canterine’ e attrici italiane del Sei-Settecento Poste Italiane spa - Tassa pagata - Piego di libro Aut. n. 072/DCB/FI1/VF del 31.03.2005 Eleonora Duse Anno XII / n.s. 2 - 2015 ISSN 1122-9365 www.fupress.com FIRENZE UNIVERSITY PRESS DRAMMATURGIA XII / n.s. 2 2015 DRAMMATURGIA NUOVA SERIE RIVISTA ANNUALE DIRETTA DA SIRO FERRONE E STEFANO MAZZONI Anno XII / n.s. 2 - 2015 Firenze University Press 2015 Anno XII / n.s. 2 - 2015 Direzione Siro Ferrone, Stefano Mazzoni. Comitato direttivo Maria Chiara Barbieri, Alberto Bentoglio, Carla Bino, Francesco Cotticelli, Paola Daniela Giovanelli, Renzo Guardenti, Gerardo Guccini, Claudio Longhi, Teresa Megale, Caterina Pagnini, Laura Peja, Marzia Pieri, Anna Scannapieco, Francesca Simoncini, Elena Tamburini, Anna Maria Testaverde, Alessandro Tinterri, Paola Ventrone, Piermario Vescovo. Comitato scientifico Alessandro Bernardi, Lorenzo Bianconi, Annamaria Cascetta, Françoise Decroisette, Jérôme de La Gorce, Andrea Fabiano, Teresa Ferrer Valls, Georges Forestier, Sara Mamone, Lorenzo Mango, Silvia Milanezi, Cesare Molinari, Juan Oleza, Franco Perrelli, Franco Piperno, Mirella Schino, Ferdinando Taviani. Redazione Lorena Vallieri, caporedattore; Emanuela Agostini, Lorenzo Galletti, Leonardo Spinelli, Gianluca Stefani, segreteria di redazione, documentazione ed editing. Consulenza telematica: Stefano Marapodi, Lorenzo Mucchi. Digitalizzazione immagini: Giovanni Martellucci. I saggi editi in «Drammaturgia» sono stati valutati, in forma anonima, dal Comitato Direttivo e/o dal Comitato Scientifico e dai referees anche internazionali, tutti coperti da anonimato. Per informazioni sul sistema peer review utilizzato dalla rivista si rinvia al sito: www.fupress.com/drammaturgia In copertina: Luca Ronconi e Mariangela Melato durante le prove di Amor nello specchio di Giovan Battista Andreini, regia di Luca Ronconi (2002). Foto di Marco Caselli Nirmal. Si ringrazia il fotografo per la gentile concessione dello scatto. Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4380 del 21 aprile 1994 © 2015 Author(s). This is an open access journal distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. Firenze University Press Università degli Studi di Firenze Borgo Albizi, 28, 50122 Firenze, Italy www.fupress.com/ Printed in Italy INDICE SAGGI Claudio Longhi, Per Luca Ronconi (1933-2015): quasi una «leçon de ténèbres» Sara Mamone, Drammaturgia di macchine nel teatro granducale fiorentino. Il teatro degli Uffizi da Buontalenti ai Parigi Anna Maria Testaverde, L’avventura del teatro granducale degli Uffizi (1586-1637) Caterina Pagnini, Anna di Danimarca e i ‘Queen’s Masques’ (1604-1611) Françoise Siguret, La lumière et le temps sur la scène baroque : Poetique & Pratique Paologiovanni Maione, «Il possesso della scena»: gente di teatro in musica tra Sei e Settecento Anna Scannapieco, I ‘numeri’ delle comiche italiane del Settecento. Primi appunti Franco Perrelli, Il mulo di Lessing Alessandro Tinterri, Silvio d’Amico e la nascita del Burcardo 97 109 129 141 DOCUMENTI E TESTIMONIANZE Teresa Megale, Eleonora Duse. Nuovi frammenti autografi di un lungo percorso teatrale ‘Co2’. Intervista a Giorgio Battistelli, a cura di Anna Menichetti 151 169 RICERCHE IN CORSO Teresa Ferrer Valls, Il punto sul mondo degli attori del Siglo de Oro Francesca Simoncini, Le prime attrici della compagnia Reale Sarda nel database AMAtI Francesca Simoncini-Antonio Tacchi, Carlotta Marchionni Daniela Sarà, Amalia Bettini Emanuela Agostini, Antonietta Robotti 185 197 201 223 241 INDIZI DI PERCORSO E PROGETTI Gianluca Stefani, Sebastiano Ricci impresario in angustie a Venezia: i guai della stagione 1718-1719 al Sant’Angelo Adela Gjata, Le regie goldoniane di Renato Simoni (1936-1947) 263 291 Summaries 309 Gli autori 317 7 17 45 71 89 DRAMMATURGIA, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 5-6 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), © Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. Claudio Longhi PER LUCA RONCONI (1933-2015): QUASI UNA «LEÇON DE TÉNÈBRES» Shivà Qui a New Orleans l’aria è secca. Seduti su due piccoli panchetti di legno addossati alla parete i due fratelli Lehman aspettano salutano ringraziano. La porta si chiude poi si riapre: un altro. La barba lunga, tutti e due non più tagliata da quando è cominciato il lutto.1 Il 21 febbraio scorso, sul far della sera, è uscito di scena Luca Ronconi. Senza clamori, col suo consueto passo felpato ed elegante di flâneur del teatro, in bilico tra Baudelaire e Robert Walser, intimamente romano, ma in fondo di casa pure tra Vienna e Berlino. Distinto, caustico e sornione a un tempo, riservato, ma con insospettabili generose aperture, e in fondo anche un po’ snob, capace di collere bibliche e di insensibilità sconcertanti, ma anche teneramente innamorato delle sue rose e dei suoi cani… Se n’è andato scivolando ironico e leggero, secondo i suoi ben noti tracciati ortogonali, oltre la soglia sospesa, lì a sinistra: una finestra buia ritagliata nel candore clinico e splendente del pal1. S. Massini, Lehman Trilogy, Torino, Einaudi, 2014, Parte prima. Tre fratelli, p. 37. DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 7-16 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18358 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. CLAUDIO LONGHI coscenico. Se n’è andato come gli algidi e umanissimi titani della sua ultima fatica, la Lehman Trilogy, in scena quella stessa sera in via Rovello: personaggi esaltati, fissati e di maniera, ricalcati dal copione di Massini, ma profilati con quel suo inconfondibile tratto spezzato, formatosi alla bottega dell’adorato Binswanger. Svelte silhouettes grottesche ritagliate da una fantasia di Bosch, o da un capriccio di Goya, incollate sulla piatta e rarefatta attesa, tutta metafisica, di un quadro di Magritte. Dai tempi leggendari dei Lunatici (1966), ormai mitico anno zero della sua carriera registica che lo aveva visto balzare agli onori delle cronache teatrali nazionali, fino a quella sera di febbraio, Luca era stato (ed era pervicacemente rimasto) l’enfant terrible (e, a tratti, l’enfant gâté) delle nostre scene: sempre, e comunque, l’enfant. Lo era ancora, a quasi ottantadue anni, non per la perniciosa abitudine tutta italiana di ritardare i processi di crescita, ma perché di fatto, in barba all’anagrafe, e a dispetto di ogni pascolismo edulcorato, Luca era rimasto, con tutta la violenza, la crudeltà e la trasgressività del caso, un bambino – meglio: un adolescente estroso e inquieto. In mancanza di una lucida comprensione di questa sua lampante schizofrenia, non si capirebbe la follia, geniale e ottusa, di circa mezzo secolo di progetti teatrali esorbitanti, vissuti à bout de souffle. Un ragazzo ‘favoloso’, una siepe, l’infinito… «Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude» (Leopardi, L’infinito, vv. 1-3): in fondo Luca e il suo teatro erano tutti lì, fissati, da sempre e per sempre, in questo icastico quadretto leopardiano. Da una parte un desiderio, quasi pantagruelico, di conoscere tutto – nel senso più fisico e radicale del termine – attraverso la scena; di collezionare e catalogare – sulle tracce di Giulio Camillo – l’universo intero in teatro; di nutrire la propria accesa fantasia di qualsivoglia ‘scrittura’ – da quella più ortodossamente teatrale a quella più lontana dalla scena («si può recitare tutto a teatro», era solito ripetere, «anche l’elenco del telefono») – ma con una evidente inclinazione per l’eccentricità, l’anomalia o la mostruosità. Dall’altra il limite (fisico ed economico), la barriera, la convenzione, o peggio ancora l’abitudine, il condizionamento – insuperabile – della realtà: quei confini, insomma, che Luca ha sfidato e calpestato e violato per tutta la vita e a cui ogni volta è testardamente tornato nella profonda e radicata convinzione che solo nel vincolo e nella gabbia l’artista trova la sua vera libertà. Non per nulla, al principio degli anni Novanta, proprio Nella gabbia di Henry James aveva attratto la sua curiosità e ne era nato un prezioso e intelligente divertissement, in cui, relegati i settanta privilegiati spettatori in una tribunetta montata in palcoscenico, al Morlacchi di Perugia, il teatro, per trasparente allegoria, si era fatto claustrofobica scena del liberissimo fluire del racconto. Dalla Käthchen von Heilbronn, naufragata sulle acque del lago di Zurigo nel 1972 e presentata finalmente al pubblico in 8 PER LUCA RONCONI una versione mutila e largamente approssimativa rispetto al disegno originale schizzato con Arnaldo Pomodoro, alle rocambolesche disavventure delle tournée di Orestea (1972-1974) e Utopia (1975), con recite continuamente bloccate o interrotte per problemi di sicurezza o difficoltà di allestimento; dalla messa in scena mai realizzata di Vida es sueño in un campo di grano nei dintorni di Brescia all’ipotesi degli ultimi anni Novanta di rappresentare il De rerum natura, in un travestimento di Edoardo Sanguineti, fuori dai palcoscenici tradizionali, o ancora ai tentativi ricorrenti, mai arrivati a buon fine, di metter mano alla Commedia della vanità di Canetti o all’Annibale di Grabbe, la teatrografia di Luca è piena, a ben vedere, di aborti o fallimenti o sogni impossibili rimasti nel cassetto, non meno significativi per capire il suo approccio alla scena dei grandi spettacoli che lo hanno reso famoso: la poetica di un puer, certo sempre senex per la profondità della sua cultura e la lucidità del suo sguardo, pronto a sacrificare qualunque cosa (o teatro) e chiunque (a cominciare da sé stesso), con una intransigenza quasi talebana, pur di dar forma alla propria prorompente immaginazione. E in quella irriducibile dialettica tra «siepe» e «ultimo orizzonte» appena evocata, si celava forse, Leopardi docet, uno dei segreti dell’arte di Ronconi: il suo incessante inseguimento, attraverso le lande drammaturgiche più estreme, dello «spettacolo infinito», di uno spettacolo, cioè, che «per le sue connotazioni spazio-temporali» fosse capace di sottrarsi, in essenza, «all’attenzione totale del pubblico».2 Di qui la caratteristica Sehnsucht di tutti gli spettacoli di Luca, pure i più parossisticamente irridenti: l’anelito o la nostalgia, che sempre vi si respirava, di un infinito impossibile. Di qui anche la sua irrisolta e irrisolvibile incertezza tra l’inesausta passione per la scena, luogo deputato di ogni esperienza e conoscenza possibili («il teatro è una forma complessa di conoscenza maturata attraverso l’esperienza» era un altro suo celebre adagio), e, a un tempo, il disagio del teatro, spazio fisico e mentale endemicamente afflitto da una cronica ‘inadeguatezza’, o incommensurabilità, a qualsivoglia oggetto sia in esso rappresentato. Difficile, a questo proposito, non pensare a Infinities (2002), labirintica e parzialissima sineddoche, per via tutta allusiva, de l’Infinito, universo e mondi in cui fluttuiamo. Il pencolare di Luca tra passione e disagio della scena era stato evidente fin dai suoi esordi teatrali, non già in veste di regista, ma di attore, quando Luigi Squarzina, suo maestro in Accademia, nel 1953 lo aveva scelto, appena ven- 2. Conversazione con Luca Ronconi (Roma, 10 marzo 1996), a cura di C. Longhi, in E. Sanguineti, ‘Orlando furioso’. Un travestimento ariostesco. Prima rappresentazione: Spoleto, 4 luglio 1969. Regia di Luca Ronconi, Bologna, Istituto per i beni artistici culturali e naturali della regione Emilia Romagna-Soprintendenza per i beni librari e documentari / Il nove, 1996, p. 300. 9 CLAUDIO LONGHI tenne, per vestire i panni di Mauro Bartoli nei suoi Tre quarti di luna. Arrivato alla ribalta dopo soli due anni di studi, contro i tre richiesti dagli statuti della scuola, Luca intraprende al fianco di Vittorio Gassman, sotto l’egida della prestigiosa ditta Teatro d’Arte Italiano, una carriera di interprete fortunata che nel volgere di una manciata d’anni lo porta a confrontarsi coi maggiori registi del panorama nazionale: oltre allo stesso Squarzina – riincontrato, dopo Tre quarti di luna, con Lorenzaccio (1954), Tè e simpatia (1955), La Romagnola (1959), La congiura (1960) –, Orazio Costa (Candida, 1953), Giorgio Strehler (Tre quarti di luna, 1955), Giorgio De Lullo (Il diario di Anna Frank, 1957) o Michelangelo Antonioni (Io sono una macchina fotografica, 1957). Una carriera promettente che lo vede, però, anche continuamente insoddisfatto; perennemente ombroso, taciturno e defilato, nonostante il favore di molti critici. Al fondo del suo stare in scena, infatti, si colgono sempre una riposta e acuta insofferenza nei confronti del teatro come è e una incontenibile voglia di immaginare un possibile teatro futuro. Lo strappo arriva, giusto giusto in capo a dieci anni, quando nel 1963 Luca, vincendo le sue esitazioni, smette le vesti d’attore e firma la sua prima regia per la compagnia Gravina-Occhini-Pani-Ronconi-Volonté: La buona moglie, sintesi delle due commedie goldoniane La putta onorata e La buona moglie, appunto, debuttata a Roma, al teatro Valle, il 23 dicembre. Allergico alle consuetudini e al bon-ton della società teatrale di quegli anni, per il suo debutto registico Luca rompe con tutte le tradizioni goldoniane conosciute: dalla placida e implacabile comicità di Baseggio, percorsa da brividi inquieti, agli stereotipati omaggi a un lezioso Settecento di maniera, caratteristici delle messe in scena più sciatte, al realismo arioso e sorprendente di Visconti. Il suo è un Goldoni aspro e nero, che puzza di un’efferata Italietta di provincia. Il fiasco è colossale e talmente inappellabile da far vacillare la vocazione teatrale del giovane regista. Ma dopo due prove in sordina (Il nemico di se stesso, per il teatro di Ostia Antica, nel 1965, e Commedia degli straccioni, a Portocivitanova Marche, nell’estate del 1966), la rivelazione arriva con i Lunatici il 12 agosto sempre del ’66. A contatto con il ribollente magma drammaturgico di Middleton e Rowley, la melanconia saturnina di Ronconi si incendia. Lo spettacolo non è meno crudo del Goldoni di tre anni prima. La coppia di protagonisti che lo porta in scena, i beniamini del pubblico televisivo Sergio Fantoni e Valentina Fortunato, è ridotta ad una sconcia caricatura di sé stessa. La recitazione, violentemente fisica, è acida e gridata. I gesti, legnosi ed eccessivi. Ma i tempi sono cambiati e questa volta l’intellighenzia teatrale plaude. Si scomoda Artaud e il suo ‘teatro della crudeltà’. A novembre, Luca è già tra i firmatari dell’appello Per un convegno sul nuovo teatro, pubblicato da Franco Quadri sulle pagine di «Sipario» (n. 247), e proprio il gran satrapo Franco diventerà negli anni il suo più sagace e lucido esegeta. Lungi dal risolversi in pulsione autodistruttiva, con i Lunatici l’avversione per i limiti del teatro si tra- 10 PER LUCA RONCONI sforma in energia rivoluzionaria, propulsiva per nuove sfide: nella marginalità accentratrice del regista, motore immobile della rappresentazione, deus ex machina continuamente presente e radicalmente assente, di fatto ormai diventato nel sistema teatrale italiano il vero depositario ed estensore del patto drammaturgico, a metà degli anni Sessanta, l’inquieto ed estroso Luca scopre dunque il proprio precario e solidissimo ubi consistam. Tre anni dopo, nel 1969, in tandem con l’imbattibile guastatore letterario Edoardo Sanguineti, in veste di Dramaturg, la più schietta vena creativa di Ronconi trova finalmente modo di sgorgare copiosa con Orlando furioso, la straordinaria ‘anatomia’ teatrale dell’omonimo poema ariostesco che, ab origine, per dirla con Calvino, «si rifiuta di cominciare, e si rifiuta di finire».3 In un estremo sforzo di adesione al dettato d’Ariosto, fittamente intrecciato in labirintico entrelacement, la scatola scenica è sottoposta dal regista a una torsione spasmodica che la manda in frantumi e la rappresentazione tracima sull’intero spazio, in un continuum indistinto e simultaneo che abbraccia ugualmente pubblico e attori. La chimera dello spettacolo infinito è alla sua prima rutilante oggettivazione. In fondo l’intero sterminato catalogo delle regie di Ronconi, nei suoi mille rivoli difficili da ridurre a unità, è figlio del big bang dell’Orlando e della sua trascinante e febbricitante foga utopica generata dalla negazione della misura. Una medesima ambizione enciclopedica a dilagare e a saturare, alla ricerca di un fine e di una fine perpetuamente rinviati, e uno stesso caparbio rigetto delle scelte scontate, dei modelli dati una volta per tutte, pervadono infatti le frequenti e stranianti incursioni di Luca nel teatro antico alla ricerca del «rito perduto»4 (Orestea, 1972; Die Bakchen, 1973; Die Vögel, 1975; Die Orestie, 1976; Baccanti, 1978; Pluto, 1985; Medea, 1996; Prometeo incatenato-Baccanti-Rane, 2002), così come i suoi affondi sulla scena contemporanea (Calderón, 1978 e 1993; Besucher, 1989; Davila Roa, 1997; Itaca, 2007; La modestia e Il panico, rispettivamente 2011 e 2013; Lehman Trilogy, 2015); il suo culto per le ‘favole filosofiche’ dei drammaturghi della Mitteleuropa (Al pappagallo verde e La contessina Mizzi, 1978; Commedia della seduzione, 1985; L’uomo difficile, 1990; Professor Bernhardi, 2005; Inventato di sana pianta, ovvero Gli affari del barone Laborde, 2007); la sua impietosa scintigrafia della crisi del dramma borghese nelle sue diverse e morbosamente seducenti facies ippocratiche svarianti da Ibsen (L’anitra selvatica, 1977; John Gabriel Borkman, versione televisiva, 1982; Spettri, 1982; Verso ‘Peer Gynt’, esercizi per gli attori, 1995; Nora alla prova da ‘Casa di bambola’, 2010) a Strindberg (Il sogno, 1983 e 2000; Danza macabra, 2014), da Pirandello (Die Riesen vom Berge, 3. I. Calvino, La struttura dell’‘Orlando’ (1974), in Id., Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1991, p. 78. 4. Cfr. F. Quadri, Il rito perduto. Saggio su Luca Ronconi, Torino, Einaudi, 1973. 11 CLAUDIO LONGHI 1994; Questa sera si recita a soggetto, 1998; In cerca d’autore. Studio sui ‘Sei personaggi’, 2012) a Čechov (Tre sorelle, 1989; Laboratorio per ‘Un altro gabbiano’, 2009) o a O’Neill (Strano interludio, 1990; Il lutto si addice ad Elettra, 1997); la sua sagace critica al realismo (Ignorabimus, 1986) e le sue ritornanti tentazioni mistiche (Dialoghi delle carmelitane, 1988; I fratelli Karamazov, 1998); le sue avvertite e curiose ricognizioni della letteratura (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, 1996; Memorie di una cameriera, 1997; Quel che sapeva Maisie, 2002; Pornografia, 2013), delle scienze (Infinities, 2002; Biblioetica, dizionario per l’uso, 2006; Lo specchio del diavolo, 2006) o del cinema (Lolita, 2001) alla ricerca di sempre nuove frontiere genuinamente ‘contemporanee’ del teatrale; la sua spontanea inclinazione al kolossal (Gli ultimi giorni dell’umanità, 1990; Progetto domani, 2006) e ancora le sue sistematiche esplorazioni del teatro per musica, ugualmente disposte ai commerci con Rossini (Il barbiere di Siviglia, 1975; Il viaggio a Reims, 1984; La Cenerentola, 1998) e alla dimestichezza con Wagner (L’oro del Reno, 1979; La Valchiria, 1980; Sigfrido, 1981; Il crepuscolo degli dei, 1981), allo studio dei classici del repertorio contemporaneo (Globokar, Traumdeutung, 1969; Stockhausen, Samstag aus Licht, 1984; Janáček, Il caso Makropulos, 1993 e Nono, Intollerance 1960, 2011), così come all’attenta meditazione sul lascito dei grandi maestri del melodramma barocco (Rossi, Orfeo, 1985; Monteverdi, Orfeo e Il ritorno di Ulisse in patria, 1998; L’incoronazione di Poppea, 2000; Händel, Giulio Cesare in Egitto, 2002). Ecco: il barocco. Il cangiante universo barocco, regno indiscusso di Circe e del pavone, con le sue ansie di ricapitolazione e di sistematizzazione e le sue stupefacenti e teatralissime Wunderkammer, resta lo spazio d’azione privilegiato di Luca. Un barocco saggiato nelle sue più varie declinazioni: dalle lussureggianti invenzioni elisabettiane, tra Shakespeare (Misura per misura, 1967 e 1992; Riccardo III, 1968; Le marchand de Venise, 1987; Re Lear, 1995; Sogno di una notte di mezza estate, 2008; Il mercante di Venezia, 2009) e colleghi (La tragedia del vendicatore di Cyril Tourneur, 1970; Una partita a scacchi di Thomas Middleton, 1973; Peccato fosse puttana di John Ford, 2003), alle abissali implosioni di Racine (Fedra, 1984), dalle spastiche visioni dell’antirinascimento italiano (Il candelaio, 1968 e 2001) alle austere pompe dei campioni della controriforma iberica (La vita è sogno, 2000) e su tutto il concettoso teatro di Andreini (La centaura, 1972 e 2004; Le due commedie in commedia, 1984; Amor nello specchio, 1987 e 2002). Strano alter ego, Lelio, attore-autore campione ‘dell’Arte’, del regista-drammaturgo Ronconi, sempre così dichiaratamente ostile alle antiche tradizioni dei ‘comici’ italiani in aperto spregio di mode registiche ampiamente diffuse, da Copeau a Mejerchol´d, tutte tese a rivalutare i tesori del professionismo ‘all’improvviso’ del nostro Bel Paese. In fondo la duplice Centaura di Luca, couplet di allestimenti rispettivamente firmati per l’Accademia d’arte drammatica di Roma nel 1972 e per il Teatro Stabile di Genova nel 2004, resta uno degli emblemi più limpidi della sua scena ‘smisurata’ ed eccezionale, quando non eccessiva. 12 PER LUCA RONCONI Nel grande teatro-mondo di Ronconi, la tragica antitesi leopardiana «siepe»/«orizzonte» non governa, però, le sole scelte drammaturgiche, ma innerva ogni aspetto dell’arte scenica, dalla progettazione degli spazi, continuamente giocata in montaggio sul doppio binario della suprema concentrazione e della massima dilatazione, alla concertazione della recitazione. La prosodia dell’attore italiano – innaturalmente esemplata, secondo Luca, sulla sintassi francese divenuta lingua ufficiale delle nostre ribalte tra Otto e Novecento attraverso la barbara pratica delle grossolane traduzioni a calco imposte dalla dura legge del mercato – è violentata e decostruita. La battuta – aperta e scomposta, fin dall’Orestea di Belgrado, secondo le regole della linguistica strutturalista – diventa oggetto di una vivisezione e di una ricucitura maniacali, nell’intento, ancora una volta impossibile, di far piazza pulita di ogni regola acquisita e risalire sperimentalmente al guizzo germinante del pensiero, al lampo che lega l’immagine concettuale alla parola, al cortocircuito folgorante che traduce l’impulso nervoso nell’inarcarsi della lingua. E con la stessa furia con cui distrugge e rifonda metrica e sintassi, Luca sovverte e riplasma l’articolazione, sminuzza e reimpasta i fonemi. Guardateli e ascoltateli gli attori che recitano nei suoi spettacoli, tutti intenti a mangiare le parole. Torna subito alla mente Gadda: «E in lingua nostra, che la parola si può stirare, contrarre e metastatare (palude, padule: femminile e maschile) secondo libidine, come la fusse una pasticca tra i denti».5 E quella stessa tragica antitesi disciplina anche le pratiche pedagogiche di Ronconi, perché Luca – oltre a essere per sua stessa ammissione ‘allievo’ di attori, in primis Marisa Fabbri – come i grandi ‘padri fondatori’ del primo Novecento è stato pure un ‘regista pedagogo’. Nessun sistema, alla sua scuola. «In oltre trent’anni di attività», aveva infatti spiegato nell’incipit della sua lectio magistralis, pronunciata in occasione del conferimento della laurea ad honorem in Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo, presso l’Università di Bologna, nel 1999, «mi è capitato in più di una circostanza di dichiarare di non essere – a differenza di altri miei ‘colleghi’ del passato e del presente – un ‘regista-teorico’: come spesso mi sono trovato ad osservare nel corso di interviste, dibattiti o altri appuntamenti», argomentava ancora, «il mio lavoro non nasce dall’applicazione di una teoria e nemmeno amo teorizzare ‘a posteriori’ su di esso o sul teatro – ho come l’impressione, infatti, che se lo facessi non sarei più in grado di cimentarmi in quell’operazione sempre nuova che è la messa in scena di un testo».6 Nessun ‘sistema’, dunque, per il Ronconi 5. C.E. Gadda, Lingua letteraria e lingua dell’uso (1942), ora in Opere di Carlo Emilio Gadda, iii. Saggi giornali favole e altri scritti, a cura di L. Orlando, C. Martignoni, D. Isella, Milano, Garzanti, 1991, vol. i, p. 491. 6. Testo trascritto da un frammento della registrazione video della lectio magistralis tenuta da Ronconi a Bologna in occasione del conferimento della laurea ad honorem in Discipline delle 13 CLAUDIO LONGHI ‘maestro’, ma solo – sulle tracce di Goethe – una sana e ‘delicata empiria’.7 In mancanza di un paradigma metodologico preordinato da consegnare al discente, il costante sforzo di Luca, nelle sue ‘lezioni’, era infatti quello di trasmettere all’allievo un ethos: quello stesso ‘comportamento’ appreso decenni prima in Accademia nei corsi del grande Orazio Costa, ossia l’arte di ‘scartocciare le patate’. Ronconi non insegna le regole della recitazione, ma costringe i giovani a confrontarsi con la loro «siepe», il testo, per liberare le potenzialità infinite dell’interpretazione – l’«ultimo orizzonte» della loro arte –, in un corpo a corpo selvaggio che non esclude nessun colpo basso. In un simile approccio alla didattica smaccatamente laboratoriale – di un laboratorio che è riflesso dell’antica officina – l’aula è soltanto l’altra faccia del palcoscenico e il palcoscenico dell’aula, le lezioni sono prove e le prove sono lezioni, ogni spettacolo è un po’ un saggio e ogni saggio è in fondo uno spettacolo. Dai primi corsi in Accademia dei tardi anni Sessanta, vivaio dei giovani interpreti dell’Orlando e di Orestea, alla scuola per attori fondata a Torino nel 1991 come palestra di nuovi interpreti per il Teatro Stabile, dai corsi di perfezionamento romani, propedeutici a Verso ‘Peer Gynt’ o a Questa sera si recita a soggetto, giù giù fino all’isola felice di Santa Cristina, la scuola/centro teatrale da lui creata nel 2002 insieme a Roberta Carlotto, la pedagogia di Ronconi si salda perfettamente con la sua prassi di metteur en scène e, messa in scena dopo messa in scena, generazioni di attori – dalla già ricordata Marisa Fabbri a Mariangela Melato o a Franco Branciaroli, da Franca Nuti a Massimo De Francovich o ad Annamaria Guarnieri, da Giovanni Crippa a Paolo Pierobon, da Maria Paiato a Francesca Ciocchetti o a Fausto Russo Alesi – hanno affinato nel lavoro con Luca i loro mezzi espressivi, talvolta in un gioco di mutuo e fecondissimo scambio tra compagni di strada, talaltra in un durissimo tirocinio condotto sotto la sua vigile sorveglianza, così come altre generazioni di attori – da Gabriella Zamparini a Mauro Avogadro o a Riccardo Bini, da Massimo Popolizio a Galatea Ranzi, da Manuela Mandracchia a Raffaele Esposito o a Simone Toni – si sono formate proprio sotto la sua guida. In ultimo, al di là del sacro temenos dell’esperienza estetica, la dialettica «siepe»/«orizzonte» orienta pure la carriera di Ronconi come amministratore della cosa pubblica. Dopo i sogni postsessantotteschi della cooperativa Teatro Libero, e intercalate alle tante esperienze da regista free lance da lui maturate, la direzione della Biennale Teatro di Venezia (1974-1977), l’avventura esal- arti, della musica e dello spettacolo il 29 aprile 1999, presso l’aula absidale di Santa Lucia, http:// www.almanews.unibo.it/98_99/Ronconi/Mpg/Ro003.mpg (ultimo accesso: 8 aprile 2015). 7. Cfr. J.W. Goethe, Massime e riflessioni (1983), a cura di S. Seidel, introd. di P. Chiarini, Milano, TEA, 1988, p. 136 (massima 565). 14 PER LUCA RONCONI tante e grottesca del Laboratorio di progettazione teatrale di Prato, stritolato dalle faide interne alla sinistra tra PCI e PSI (1976-1979), e a seguire la direzione artistica del Teatro Stabile di Torino (1989-1994) e del Teatro di Roma (1994-1998), fino all’estrema stagione alla guida del Piccolo Teatro di Milano al fianco di Sergio Escobar (1999-2015) sono altrettanti capitoli, spesso scritti a più mani con collaboratori d’eccezione quali Paolo Antonio Radaelli o Nunzi Gioseffi, di una critica serrata alla politica culturale nazionale, segnatamente di ambito teatrale, improntata a un netto rifiuto della ormai sempre più asfittica realtà del modello milanese del ‘teatro/servizio pubblico’ in vista di una appassionata perorazione dell’utopia del ‘teatro/valore’. Centrali, poi, nella sua visione del sistema teatrale, la difesa dell’idea di canone nazionale, a dispetto di ogni localismo, esemplata sui grandi modelli d’oltralpe a partire dalla Maison Molière, e la sua incessante ricerca di una ‘compagnia permanente’, chissà se mai davvero voluta. Beffardo gioco del destino, o del caso, che proprio il giorno delle sue esequie il MiBACT abbia comunicato la lista dei nuovi Teatri Nazionali, figli del decreto cultura di Massimo Bray. A petto di questa strana, appassionata militanza, tutta, però, giocata, si badi, tra le retrovie, senza mai spingersi all’aperta presa di posizione, al braccio di forza con il potere, sorge il legittimo sospetto che l’arcistrutturalista Ronconi, figlio di De Saussure e Roland Barthes, coltivasse nel suo raggelato formalismo, apparentemente alieno da ogni interesse civile, una vigile e fin quasi sovreccitata sensibilità politica: fa riflettere che coi suoi spettacoli – dal Candelaio, diretto per la prima volta nel 1968 mentre soffiavano i venti della contestazione, agli Ultimi giorni dell’umanità, portati in scena alla vigilia dello scoppio della guerra del Golfo nell’inverno del 1990 – Ronconi non abbia mai mancato un solo vero appuntamento con la storia. Un ragazzo ‘favoloso’, una siepe, l’infinito… Il teatro dell’adolescente Luca vive tra scatole o cataste di mobili – la scatola gialla del Pasticciaccio, la scatola bianca della Lehman Trilogy, le piramidi di tavolini e letti e trumeaux di Memorie di una cameriera – e porte. Sinistre intelaiature di porte, vuote come le sbigottite orbite del teschio, o ante abbandonate, gettate alla rinfusa quasi in mucchi di cupi sarcofagi, o porte da ascensore, spalancate e sigillate ermeticamente da silenziose coulisse. Porte come improvvisi varchi nella siepe, aperture intermittenti affacciate sull’infinito, sullo spazio misterioso dell’altrove. Forse il teatro di Luca è anche questo: un vertiginoso e metafisico teatro della morte. D’altronde l’amico Sanguineti non aveva decretato che «ogni teatro è un teatro anatomico»?8 E così, nella superficiale e piatta orizzontalità 8. E. Sanguineti, La philosophie dans le théâtre (1992), ora in Id., Il gatto lupesco. Poesie (19822001), Milano, Feltrinelli, 2002, p. 195. 15 CLAUDIO LONGHI del suo ininterrotto tallonamento dell’infinito, Luca finisce con l’imprimere una violenta svolta verticale alla sua scena. E il suo teatro scientifico, cinematografico, in costante ricerca della sintonia col suo tempo, sempre chino su di un presente-in-procinto-di-farsi-futuro, si ritrova improvvisamente un teatro inattuale, antico quanto l’uomo. Alla vigilia dello scoppio del secondo conflitto mondiale, Savinio annotava: «Il drammatismo ha bisogno di speciali condizioni mentali – limitazioni mentali, ostacoli mentali; e il nostro tempo ha abolito tutte le limitazioni mentali, ha abbattuto tutte le barriere mentali né traccia rimane più di quell’ineffabile muro contro il quale urtava la mente dell’uomo – e da quell’urto sprizzava il drammatismo come una negra scintilla».9 Proprio da queste pagine discende Alcesti di Samuele, il triumphus mortis di Alberto De Chirico, diretto da Ronconi, per il Teatro di Roma, nel 1999. La sera del 21 febbraio scorso, Luca è uscito di scena, ma non se ne è andato. È ancora lì, col suo consueto passo felpato ed elegante di flâneur del teatro, e scivola, secondo i suoi ben noti tracciati ortogonali, di porta in porta, a raccontarci, attraverso la memoria dei suoi incredibili spettacoli, dei segreti della scena e dei misteri dell’arte rappresentativa. Resta ancora con noi (e ci auguriamo per sempre), come gli algidi e umanissimi titani della Lehman Trilogy, la sua ultima fatica. Monday Lunch Intorno al tavolo tavolo di cristallo cristallo lungo quanto tutta la stanza sulle poltrone nere sembra il lunch del lunedì anche se è notte anzi fra poco l’alba. Dentro la stanza, il silenzio regna. Sei uomini anziani. Aspettano la notizia.10 9. A. Savinio, Nuova enciclopedia (1977), Milano, Adelphi, 19914, pp. 122-123 (voce Dramma). 10. Massini, Lehman Trilogy, cit., Parte terza. L’immortale, p. 325. 16 Sara Mamone DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO. IL TEATRO DEGLI UFFIZI DA BUONTALENTI AI PARIGI* 1. La recente scoperta di un manoscritto di Joseph Furttenbach, architetto tedesco a lungo residente in Italia nella sua fase di formazione, allievo dell’accademia di Giulio Parigi e testimone diretto dello spettacolo del 1608 nel teatro degli Uffizi, dà l’occasione per ripensare l’intera vicenda della scena medicea1 alla luce di quella preziosa testimonianza consuntiva che rivela dettagliatamente i meccanismi di funzionamento della complessa macchineria fiorentina. La pratica teatrale fiorentina si caratterizza precocemente non solo come messa a punto di un organismo drammaturgico che nasce dal recupero della drammaturgia antica ma anche come il proseguimento di una linea romanza che accompagna la drammatizzazione dei momenti salienti del calendario liturgico attraverso la messa in evidenza degli episodi più evocativi ed emozionanti, quali l’Annunciazione, il Natale, l’Ascensione, ecc. Questa spettacolarità romanza,2 a Firenze più che altrove, si vale delle competenze di un’organizzazione sociale fortemente incentrata sulla diffusione Il 14-15 novembre 2014 Jan Lazardzig ed Hole Rößler dell’Università di Amsterdam hanno organizzato un workshop focalizzato sulla scoperta da parte di Rößler di un manoscritto di Joseph Furttenbach; il codice (codex iconographicus 401 della Bayerische Staatsbibliothek München) sarà presto pubblicato sia nella versione originale in tedesco che nella versione inglese. Il presente saggio rielabora l’articolo presentato in quell’occasione col titolo The Uffizi Theatre: The Florentine Scene from Bernardo Buontalenti to Giulio and Alfonso Parigi e di prossima pubblicazione in Technologies of Spectacle. Knowledge Transfer in Early Modern Theater Cultures, a cura di J. Lazardzig e H. Rößler, Frankfurt a. M., Klostermann, 2016. Per ogni informazione sul progetto: http://www.holeroessler.de/furttenbach.html. 1. Strumento imprescindibile d’informazione resta Il luogo teatrale a Firenze. Brunelleschi Vasari Buontalenti Parigi, catalogo della mostra a cura di M. Fabbri, E. Garbero Zorzi, A.M. Petrioli Tofani, introd. di L. Zorzi [ordinatore] (Firenze, 31 maggio-31 ottobre 1975), Milano, Electa, 1975. 2. Cfr. L. Zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino, Einaudi, 1977, pp. 48 n.54 n.; 170 n.-174 n. Si vedano anche le riflessioni di S. Mazzoni, Ludovico Zorzi. Profilo di uno studioso inquieto, «Drammaturgia», xi / n.s. 1, 2014, pp. 9-137, in partic. p. 93 e relativa bibliografia. * DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 17-43 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18359 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. SARA MAMONE dei saperi tecnologici e dell’impiego precoce di ingegneri e architetti civili nella ricaduta della rappresentazione religiosa. Questa pratica aveva permesso «la sperimentazione di tecniche di scena maturate attraverso la competenza e l’esperienza acquisite quotidianamente nel campo della tecnologia muraria, meccanica, nella pratica e nell’esercizio di quegli antichi mestieri (dei funaioli, legnaiuoli, scalpellini, doratori, fabbri; ma anche polveristi, bombardieri) che avevano da tempo costituito i fondamenti di un’economia cittadina e rappresentato i campi di sperimentazione di attività artigianali di livello non inferiore alle arti “maggiori”».3 Così che, quando la maturazione umanistica recupererà l’idea del teatro antico e la sua drammaturgia, questa troverà immediatamente l’innesto dei saperi tecnologici nel nuovo tessuto spettacolare. Nel XV secolo l’impiego di maestranze artistiche del calibro di Masolino e di Filippo Brunelleschi, per aumentare il prestigio delle più famose chiese della città in occasione delle celebrazioni rituali, crea un terreno fertilissimo di competenze che potranno essere messe in campo nel secolo successivo al servizio di un’ideologia umanistica e signorile fondata sulla restituzione dell’antico funzionale alle esigenze di una nuova classe dirigente. Nel corso del primo trentennio del Cinquecento il patrimonio mitologico è stato convertito come base di autorizzazione per le prese del potere signorili e l’immenso patrimonio reinventato a scopi politici e autorappresentativi: il teatro assolve alla funzione primaria di esibire le capacità di governo della nuova aristocrazia. La base di questo nuovo modo di rappresentare affonda perciò le sue radici proprio nella lunga sperimentazione tecnologica delle sacre rappresentazioni.4 3. A.M. Testaverde, L’officina delle nuvole. Il teatro mediceo nel 1589 e gli ‘Intermedi’ del Buontalenti nel ‘Memoriale’ di Girolamo Seriacopi, «Musica e teatro. Quaderni degli amici della Scala», vii, 1991, 11-12, p. 71. Per una proficua integrazione documentale: T. Pasqui, ‘Libro di conti della commedia’. La sartoria teatrale di Ferdinando I de’ Medici nel 1589, prefaz. di A.M. Testaverde, Firenze, Nicomp, 2010. Per le competenze tecnologiche e l’uso della macchineria nelle rappresentazioni religiose a partire dalla fine del XIII secolo si veda N. Newbigin, Feste d’Oltrarno. Plays in Churches in Fifteenth-Century Florence, Firenze, Olschki, 1996. Limitatamente a una istituzione fiorentina di lunga durata si veda anche A.M. Evangelista, L’attività spettacolare della compagnia di San Giovanni Evangelista nel Cinquecento, «Medioevo e Rinascimento», xviii/n.s. xv, 2004, pp. 299-366. 4. Si veda a mo’ di esempio l’evoluzione di una tra le figurazioni macchinistiche di più vasta applicazione: la nuvola che, evidente tramite tra la terra e il cielo, fa da supporto per le ascensioni nelle rappresentazioni sacre e, procedendo con l’aiuto di una tecnologia sempre più complessa, diviene elemento portante di molta simbologia barocca nella quale al Salvatore e ai Santi dell’universo cristiano si sostituiscono gli dei della mitologia, tramite a loro volta delle figurazioni autorappresentative dei nuovi poteri signorili. Cfr. S. Mamone, Les nuées de l’Olympe à la scène: les dieux au service de l’eglise et du prince dans le spectacle florentin de la Renaissance, in Images of the Pagan Gods, a cura di R. Duits e F. Quiviger, London, The Warburg Institute, 2009, pp. 329-366. Per la sacra rappresentazione v. ora P. Ventrone, Teatro civile e sacra rappresentazione a Firenze nel Rinascimento, Firenze, Le Lettere, 2016. 18 DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO Senza soluzione di continuità si arriva quindi alla pratica macchinistica sul palcoscenico che, accogliendo con circa un secolo di ritardo il suggerimento brunelleschiano del luogo di rappresentazione unitario rispetto al frazionamento dei luoghi deputati, di fatto crea le basi del teatro cosiddetto moderno. La concentrazione frontale del luogo dell’azione rispetto al luogo della visione determina una netta rottura rispetto all’itineranza degli spettatori e crea le condizioni per la sperimentazione dello spazio privilegiato in cui organizzare tutti gli elementi dell’azione scenica. Assai precocemente in Firenze si determina un diverso interesse per l’allestimento dei testi drammatici rispetto a quei momenti di intrattenimento che possiamo comprendere nella definizione di ‘intermedio’ e che divennero ben presto la forma privilegiata dal pubblico, e quindi della magnificenza autorappresentativa del signore committente, e la miglior palestra per le esibizioni delle competenze tecnologiche dei suoi artisti-apparatori. Nella rappresentazione del 1539 nel secondo cortile di palazzo Medici per le nozze di Cosimo con Eleonora di Toledo compariva nel cielo un’Aurora con alle spalle la macchina del Sole che durante lo spettacolo si muoveva dando l’illusione dello scorrere del tempo.5 L’invenzione di Bastiano da Sangallo verrà poi ripresa nel 1542 dall’allievo Giorgio Vasari nell’esportazione a Venezia de La Talanta messa in scena da una compagnia della Calza.6 Ancora da studiare gli episodi relativi agli allestimenti nella sala del Papa del convento di Santa Maria Novella, sede dell’accademia Fiorentina (Il furto di Francesco d’Ambra nel 1544, La gelosia del Lasca nel 1550) e le prime prove nel salone dei Cinquecento di palazzo Vecchio, diventato residenza della famiglia regnante (I bernardi di Francesco d’Ambra nel 1548 e La gioia di Giovanni da Pistoia nel 5. «[…] ordinò [Bastiano da Sangallo] con molto ingegno una lanterna di legname a uso d’arco dietro a tutti i casamenti [della scena prospettica che rappresentava Pisa], con un sole alto un braccio, fatto con una palla di cristallo piena d’acqua stillata, dietro la quale erano due torchi [torce] accesi, che la facevano in modo risplendere, che ella rendeva luminoso il cielo della scena e la prospettiva in guisa, che pareva veramente il sole vivo e naturale; e questo sole […] avendo intorno un ornamento di razzi d’oro che coprivano la cortina, era di mano in mano per via di un arganetto tirato con sì fatt’ordine che a principio della commedia pareva che si levasse il sole, e che salito in fino al mezzo dell’arco scendesse in guisa, che al fine della comedia entrasse sotto e tramontasse» (G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architettori, in Le opere di Giorgio Vasari, con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, Firenze, Sansoni, 19062, to. vi, p. 442, Vita di Bastiano detto Aristotile da San Gallo). 6. Cfr. ivi, pp. 223-226; e v. G. Scocchera, Il programma e l’apparato. Contributi allo studio dell’allestimento della ‘Talanta’, in Antropologia e Transculturalismo. Roma e Venezia nel Rinascimento, «Teatro e storia», x, 1995, 17, pp. 365-402; da integrare, anche per la bibliografia, con L. Vallieri, Prospero Fontana pittore-scenografo a Bologna (1543), «Drammaturgia», xi / n.s. 1, 2014, pp. 347-368: 354 e nota 34. 19 SARA MAMONE 1550). Precedente al 1552 (anno di pubblicazione) è una strabiliante descrizione di Anton Francesco Doni riferita a un allestimento teatrale: udi’ dire d’una comedia, la quale aveva avuto bellissimi intermedii. Il primo fu che il palco s’alzò e sotto v’apparve una fucina di Vulcano; e al batter dei martelli s’udiva (e non si vedeva altro che gli uomini nudi che l’infocato strale battevano) una mirabil musica, dopo la quale si richiuse il palco. Dicevano ancóra che al secondo atto, essendo la scena sopra un perno che si voltava a poco a poco, che appena s’accorsero le brigate che la si volgesse, vi si vedde un teatro pieno di popoli e nel luogo del palco una battaglia d’alcune barchette in acqua, che facevano stupire in quella gran sala tutti gli udienti. Fu al terzo atto chiusa Venere e Marte sotto la rete con una musica d’amori concertata con variati strumenti ascosti, che l’armonia cavava i cuori dei petti per dolcezza alle persone. Al quarto atto dissero i galanti uomini che s’aperse il cielo e si vidde tutti gli dei a convito splendidissimo e ricco e tanto ornato d’oro, argento, vestimenti, ornamenti e gioie, che pareva impossibile essersi gli uomini imaginati tanta pompa: nel qual convito s’udirono molte sorte di concerti di musiche allegre e divine. Al quinto atto gli dei di cielo, di terra, di selve e di mare, con le ninfe loro, fecero su la scena diverse e mirabili danze. […] E univano gli atti, i salti, i passi, e ciascuno altro moto con le parole dei canti, che parte erano di sopra, parte dietro alle prospettive, e parte sotto terra. Nel cielo s’udivano storte, violini, cetere, cembanelle, arpicordi, flauti, cembali e voce di fanciulle; in terra violoni, liuti, clavicembali, viole a braccio e voci di tutte le parti; sotto terra sonavano tromboni, cornetti senza boccuccio, flauti grossi, e a voce pari, tutti i canti: talmente che queste musiche e questi intermedi furon giudicati più stupendi che si potesser far mai e che mai fosser fatti.7 Questa descrizione della commedia con «bellissimi intermedii» che, per la complessità macchinistica, avevo sempre trascurato ritendendola più frutto di fantasia che reale descrizione di un evento, deve invece essere attentamente studiata, alla luce di molte nuove acquisizioni che tendono ad anticipare cronologicamente l’importanza anche tecnologica degli intermezzi8 nell’economia complessiva della rappresentazione. Dovremo quindi registrare già a quest’altezza molte delle invenzioni che percorreranno come topoi l’intera vicenda del teatro illusionistico: innalzamento del palco e visione della Fucina di Vulcano, rotazione totale della scena su perni e apparizione prima di una folla poi di una piccola battaglia navale; gli Amori di Venere e Marte; l’apertura del cielo e l’apparizione del convito degli dei; la discesa degli dei tra danze e canti 7. In Opere di Pietro Aretino e di Anton Francesco Doni, a cura di C. Cordiè, Milano-Napoli, Ricciardi, 1976, to. ii, pp. 705-706. 8. Si ricordi il caso studiato da Vallieri, Prospero Fontana pittore-scenografo a Bologna (1543), cit., in partic. pp. 359-361. 20 DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO e, non ultima, la disposizione ‘orchestrale’ degli strumenti musicali tra Cielo, Terra e Inferi con l’uso del sottopalco. È stata avanzata l’ipotesi9 che la stupefacente descrizione possa riferirsi a un allestimento relativo proprio a uno di questi spettacoli dell’accademia Fiorentina e, realisticamente, alla prova matura di uno dei suoi più illustri membri, appunto quel Giorgio Vasari che, fatte le prime esperienze come allievo di Sangallo, si avviava in quegli anni a essere il più stretto collaboratore del granduca Cosimo, pronto per le successive prove degli spettacoli dinastici in occasione delle nozze del reggente Francesco con Giovanna d’Austria. La cofanaria del 1565, nel salone dei Cinquecento in palazzo Vecchio, fu infatti spettacolo cardine anche dal punto di vista della maturazione del luogo dello spettacolo e delle sue dotazioni scenotecniche.10 Fu anche la precoce prova di un ribaltamento nella gerarchia dei valori spettacolari nei quali la commedia rappresentata diventerà di fatto secondaria rispetto all’impegno degli intermezzi che, significativamente, saranno sei, incorniciando quindi i cinque atti e avendo perciò il ruolo cardine nella gerarchia della ricezione degli spettatori, aprendo e chiudendo l’intero allestimento. Giova qui ricordare come i sei intermezzi tra gli atti fossero legati da un filo conduttore unitario (premessa già matura per l’evoluzione nelle forme del melodramma): la favola di Amore e Psiche. Dalla descrizione che ne fa il Lasca11 il i intermedio si apre con la discesa di una nuvola su cui siede, su un carro trainato da due cigni e tempestato di gemme, Venere, accompagnata dalle tre Grazie e dalle Quattro Stagioni. Nella discesa il carro si allontana dal consesso degli dei celesti che restano al loro posto cantando soavemente mentre tra i cinque sensi anche l’olfatto viene sedotto da profumatissime essenze vaporizzate nell’aria. Anche Amore entra in scena scortato dalle personificazioni della Speranza, del Timore, dell’Allegria e del Dolore; accettato l’invito materno a far innamorare Psiche di un amo- 9. Cfr. A.M. Testaverde, Teorie e pratiche nei progetti teatrali di Giorgio Vasari, in Percorsi vasariani tra le arti e le lettere. Atti del convegno di studi (Arezzo, 7-8 maggio 2003), a cura di M. Spagnolo e P. Torriti, Montepulciano (Si), Le Balze, 2004, pp. 63-75, in partic. 66-67. 10. Per la descrizione della sala teatrale e del palcoscenico allestito verso il lato nord del salone stesso, oltreché per la descrizione dell’apparato di sala e per la scena prospettica, resta basilare la relazione di Domenico Mellini: Descrizione dell’apparato della comedia et intermedii d’essa; recitata in Firenze il giorno di S. Stefano l’anno 1565 nella gran sala del palazzo di sua eccellenza illustrissima nelle reali nozze dell’illustrissimo et eccellentissimo signore il signor don Francesco Medici principe di Fiorenza, et di Siena, et della regina Giovanna d’Austria sua consorte, Firenze, Giunti, 1566. Si vedano anche le considerazioni di Anna Maria Testaverde nel saggio qui presentato alle pp. 45-69. 11. Cfr. Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, Descrizione degl’intermedii rappresentati colla commedia nelle nozze dell’illustrissimo, ed eccellentissimo signor principe di Firenze, e di Siena, Firenze, s.n.t., 1566. 21 SARA MAMONE re umano, Cupido se ne esce di scena lanciando saette amorose tra il pubblico mentre il carro di Venere riguadagna il cielo con movimento ascendente. Nel ii intermedio le quattro aperture praticabili, «che per uso de’ recitanti s’erano nella scena lassate»,12 vedono l’entrata di Zefiro, della Musica, del Gioco, del Riso e di vari Amorini inneggianti alla bellezza di Psiche che aveva fatto innamorare Amore stesso. Nel iii «parve […] quasi che il Pavimento della Scena in sette piccioli Monticelli s’andasse alzando; onde si vide a poco, a poco uscire prima sette, e poi sett’altri Inganni»,13 mentre nel iv i monticelli vengono riassorbiti in sette piccole voragini da cui escono la Discordia, l’Ira, la Crudeltà, la Rapina, la Vendetta e due Antropofagi che, affiancati da due personificazioni del Furore con armi che celavano strumenti musicali, avrebbero accompagnato la moresca di chiusura d’atto.14 Il v intermedio, piuttosto complesso, è diviso in due parti. La prima accompagna il canto di Psiche, oppressa dalla Gelosia, dall’Invidia, dalla Preoccupazione e dallo Scorno che suonano meravigliosamente quattro violoni i cui archetti paiono trasformati in serpi.15 La seconda mutazione contempla l’apertura del palco con l’apparizione dell’«infernal cerbero» e appresso «con diversi Monstri si vide apparire Caronte con la sua barca»16 sulla quale Psiche fece la sua uscita di scena. L’ultimo intermedio è felicemente pacificatore e contempla un’ulteriore apertura del sottopalco da dove si vede «in un tratto uscire un verdeggiante Monticello tutto d’Allori, e di diversi fiori adorno, il quale avendo in cima l’alato Caval Pegaseo, fu tosto conosciuto essere il Monte d’Elicona».17 Psiche e Amore, finalmente ricongiunti e pacificati con Venere, scendono le pendici, accompagnati dal corteggio festoso di Amorini, Zefiro, Pan e Imeneo, e ponendo fine allo spettacolo con «un nuovo et allegrissimo ballo».18 Risulta ormai assestata la macchina scenica con movimenti complessi che stabiliranno a grandi linee il canone macchinistico del futuro. Sono presenti dispositivi ascendenti e discendenti: tra essi la nuvola del i intermedio (che in realtà apre lo spettacolo a mo’ di prologo). Viene usato il sottopalco con effetti illusionistici: i monticelli che emergono e le corrispondenti voragini che si inabissano, l’apparizione di Cerbero tra fuoco e fiamme e Caronte con la 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. Ivi, p. 7. Ivi, pp. 8-9. Cfr. ivi, p. 10. Cfr. ivi, p. 12. Ivi, p. 13. Ibid. Ivi, p. 14. 22 DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO sua barca. A sigillo dell’intero spettacolo, il monte Elicona sale dal sottopalco con in cima l’alato Pegaso. Sarà questa l’immagine topica che si affermerà in seguito divenendo il vero e proprio simbolo dell’intera macchineria del teatro barocco insieme allo sperimentato ‘ingegno’ delle nuvole. Si segnala già qui19 l’intervento tecnico del giovane Bernardo Buontalenti per le macchine più complesse, relative alla costruzione del cielo («a uso di mezza Botte con cortine di legname, tutto coperto di tele et dipinto con aria piena di nuvole, che girava in tondo, secondo che faceva tutta la Scena»)20 e la messa in opera dei ‘tirari del Cielo’ cioè l’insieme della macchineria verticale (salite, discese e, di lì a poco, anche il virtuosistico movimento in diagonale). La macchina delle nuvole ospita già in questa occasione quella moltitudine di dei celesti che diverrà vero e proprio marchio del grande architetto fiorentino, nonché banco di prova per tutti gli scenotecnici a venire. Di questo episodio, che si segnala sempre più come prototipico, va inoltre sottolineata l’invenzione del retropalco,21 cioè l’organizzazione del complesso degli spazi destinati all’azione che consente di razionalizzare la gestione degli impianti macchinistici e funzionali. Questo nuovo assetto segna anche la definitiva separazione tra gli spazi dell’azione e quelli della visione. Altro elemento pionieristico la disposizione strumentale in cui si precisa la distinzione tra gli strumenti «apparenti» e quelli «non apparenti», cioè nascosti, destinati a rivestire un ruolo sempre più rilevante nel meccanismo illusionistico. Nel v intermedio, opera dello Striggio, le allegorie della Gelosia, dell’Invidia, della Preoccupazione e dello Scorno, raccolti da terra «quattro Serpenti, che di essa si videro maravigliosamente uscire»22 e nei quali erano congegnati quattro violoni, percotendoli con verghe spinose che nascondevano gli archetti, accompagnarono il mesto canto di Psiche con tanta maestria «che si vide trarre a più d’uno le lagrime da gl’occhi».23 Nel 1569 in occasione della visita dell’arciduca Carlo d’Austria, fratello della granduchessa, i sei intermezzi de La vedova replicano la complessità scenotecnica già sperimentata nello stesso salone dei Cinquecento. In particolare il consesso finale degli dei conferma l’avvenuto consolidamento del topos. 19. Si veda al proposito A.M. Testaverde, Informazioni sul teatro vasariano del 1565 dai registri contabili, in Per Ludovico Zorzi, a cura di S. Mamone, «Medioevo e Rinascimento», vi/n.s. iii, 1992, pp. 83-95: 92-93. 20. Mellini, Descrizione, cit., p. 9. 21. Cfr. Zorzi, Il teatro e la città, cit., p. 105. 22. Il Lasca, Descrizione, cit., p. 12. 23. Ibid. E v. le riflessioni di G. Guccini, Loci sonori: i comici e l’invenzione del melodramma, in Drammaturgie dello spazio dal teatro greco ai multimedia, a cura di S. Mazzoni, «Drammaturgia», x, 2003, 10, pp. 141-200: 185 ss. 23 SARA MAMONE Dopo una lunga e complessa fase di incertezza, la ricchezza delle competenze scenotecniche, applicate a un uso ormai maturo dell’organismo drammaturgico anche nella sua valenza musicale, porta l’esperienza fiorentina alla sintesi del patrimonio tecnologico della scena e quindi al successivo passo della ‘messa a reddito’ di questi saperi nella razionalizzazione patrimoniale di un edificio apposito. Accanto ai contenuti, che resteranno neoplatonici per evidenti ragioni di autocelebrazione, il nuovo teatro degli Uffizi sancirà anche il definitivo trionfo tecnologico di un pragmatico modello.24 Toccherà comunque a Bernardo Buontalenti portare a compimento nel 1586 la laboriosa fase di strutturazione e destinazione degli spazi del complesso voluto da Cosimo, progettato inizialmente da Vasari e destinato principalmente alla efficienza del funzionamento amministrativo. Le complesse questioni riguardanti la sala, le sue evoluzioni e le differenti attribuzioni di paternità sono trattate in questa stessa sede editoriale da Anna Maria Testaverde.25 2. La nuova sala razionalizza comunque le esigenze di questa matura scenotecnica e, a partire almeno dalla metà degli anni Ottanta, consolida definitivamente questa destinazione. L’occasione fu data nel 1586 dalla emulazione dinastica nei confronti della corte estense grazie al matrimonio di Virginia de’ Medici (sorella del granduca) con Cesare d’Este. La commedia (L’amico fido di Giovanni de’ Bardi) non riveste più alcuna importanza, schiacciata dalla novità dell’apparato e soprattutto dalla ricchezza degli intermedi sempre più affermato nel gradimento del pubblico. A ben guardare però la novità risiede, oltre che nell’aspetto scenotecnico, anche nelle possibilità fornite dalla stanzialità. Un attento esame della macchineria inventata e posta in essere a Firenze negli episodi fin qui citati a partire dal 1539 mostra come venga messa in campo la tecnica della variatio più che della vera e propria invenzione. Sì che possiamo ipotizzare che la complessa macchineria registrata da Joseph Furttenbach nel già citato manoscritto inedito sia in realtà testimonianza anche di una tradizione precedente ai raggiungimenti scenotecnici da lui descritti e successivamente messi a frutto. Avremmo così non solo la preziosa descrizione dello spettacolo del 1608 ma la storicizzazione di oltre un sessantennio di storia scenotecnica. Le macchine descritte dal Doni ante 1552 già vedono in scena la fucina di Vulcano, le apparizioni del mare, il convito degli dei in cielo, 24. Cfr. S. Mamone, Il risparmio e lo spreco sotto lo sguardo di Callot, in Id., Dèi, semidei, uomini. Lo spettacolo a Firenze tra neoplatonismo e realtà borghese (XV-XVII secolo), Roma, Bulzoni, 2003, pp. 149-168. Diverso il caso degli aristocratici Olimpici e del loro struggente sogno di restituzione dell’antico: v. S. Mazzoni, L’Olimpico di Vicenza: un teatro e la sua «perpetua memoria» (1998), Firenze, Le Lettere, 20102. 25. Cfr. qui pp. 45-69. 24 DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO la spettacolare macchina ascendente con il monte Elicona e in cima il cavallo alato Pegaso, gli intermezzi non apparenti, la rotazione su «perno». L’apparato del ’65 conferma le tipologie: il movimento simmetrico ascendente e discendente sotto il piano del palco (monticelli che si trasformano in voragini), l’Inferno, la salita del monte Elicona. Il metodo operativo creato dal Buontalenti per la messa in scena sperimenta una maggior capienza della soffitta del teatro mediceo rispetto agli ambienti costruiti per il palcoscenico del teatro vasariano nel salone dei Cinquecento. Ciò consentì di accrescere la consistenza numerica delle macchine-nuvole sul palcoscenico degli Uffizi. Nella successiva prova del 1589 le ‘nuvole’ diventeranno ben sette stabilendo così il prototipo che permarrà per tutta la vicenda scenotecnica del teatro barocco recepita, a livello trattatistico, sia da Furttenbach che da Sabbatini,26 confermando la tipologia ormai canonica delle scene: il consesso degli dei in cielo; l’inferno aperto; la gran macchina del giardino; la scena di mare col carro di Nettuno; la scena di nuvole col carro discendente di Giunone; il coro di pastori e pastorelle. La maggior parte delle trovate scenotecniche è affidata alla praticabilità del piano del palco provvisto di botole e di canali di scorrimento. Ma l’innovazione più rilevante è legata al potenziamento delle macchine, in particolare quelle delle nuvole che aumentano anche la loro capienza potendo reggere così presenze di attori e cantori sempre più numerose. Le potenzialità del palcoscenico vengono sfruttate appieno solo nell’episodio del 1589 per gli intermezzi della Pellegrina in occasione delle nozze del granduca in carica, Ferdinando, con Cristina di Lorena. Si tratta di un radicale intervento di ristrutturazione che mira a rendere permanente il teatro di corte consentendo parimenti all’architetto di ottimizzare le sperimentazioni scenotecniche. La soluzione viene trovata aumentando la profondità del palcoscenico ampliato di circa 5 braccia (da m. 11,60 a m. 14,50).27 Come conseguenza si riorganizzò anche il piano28 predisponendolo con un numero di aperture e canali di scorrimento maggiore che consentissero la messa in valore delle «macchine saglienti, e di- 26. Cfr. J. Furttenbach, Newes itinerarium Italiae […], Ulm, Saur, 1627; Id., Architectura civilis, Ulm, Saur, 1628; Id., Architectura recreationis […], Augsburg, Schultes, 1640; Id., Mannhaffter Kunst-Kunst-spiegel […], Augsburg, Schultes, 1663; N. Sabbatini, Pratica di fabricar scene e machine ne’ teatri (1638), con aggiunti documenti inediti e disegni originali a cura di E. Povoledo, Roma, Bestetti, 1955. 27. Cfr. Testaverde, L’officina delle nuvole, cit., pp. 82, 91-92. 28. Da rilevare anche la complessità dell’assetto delle stanze di servizio: stanze dei pittori, stanza delle acconciature, le stanze dei costumi, la stanza dei doratori, la dispensa (la stanza buia con derrate per l’allestimento dei rinfreschi per i musici e per gli accademici, ecc.; cfr. ivi, p. 93). 25 SARA MAMONE scendenti dal Cielo, passanti per l’aria, e uscenti di sotto ’l palco».29 Parimenti si rese funzionale la verticalità dello spazio creando una partizione strutturale che consentisse la praticabilità di un livello di soffitta che verrà chiamato «Paradiso» e che avrà varie funzioni. Tra queste quella del ricovero delle macchine in riposo e del loro funzionamento nel corso dell’azione. Saranno appunto queste le macchine discendenti del «Cielo».30 Nel 1991 Anna Maria Testaverde ha pubblicato il Memoriale di Girolamo Seriacopi, nel quale il provveditore alle fortezze medicee registrava tutti gli interventi, gli acquisti, e gli ordini relativi alla trasformazione del teatro di corte. La studiosa aveva suggerito il nome di Furttenbach31 come possibile testimone di un assetto della sala non troppo dissimile da quello di questo 1589. Effettivamente, in base alle recenti acquisizioni e nel raffronto con i dati forniti dal Seriacopi, le indicazioni dell’architetto tedesco (esplicitamente riferibili al 1608 e anche ad allestimenti successivi) possono estendere il loro valore testimoniale à rebours fino a quella esperienza. L’aumento della volumetria consente l’introduzione contemporanea di meccanismi in movimento articolati su tre livelli: la compresenza sia di strutture aeree, sia di strutture mobili a terra, sia di quelle ascendenti dal sottopalco. Lo stupore registrato dagli spettatori e dai cronisti è il frutto della razionalizzazione delle funzioni complesse di questa nuova macchina scenica. Forse più ancora della stupefazione illusionistica vale la pena ricordare qui il dato materiale dell’organizzazione meccanica che la rende possibile e che risponde appieno all’innovazione buontalentiana nella tradizione tecnologica fiorentina. «Tante macchine, e della grandezza […] che noi diremo, si possano esser vedute uscir di terra, e irsene al Cielo, e venire in terra, e attraversare in qua, e ’n là quella scena, e sempre cariche di persone», commenta il relatore ufficiale De’ Rossi.32 La lunga fase organizzativa mette a disposizione dell’artista un bacino di duecentocinquanta macchinisti dai quali estrapolare volta a volta i circa cento manovratori necessari. Questi vengono suddivisi in squadre che, coordinate da caporali, vengono incaricate di svolgere rigorosamente i compiti assegnati e lungamente messi a punto nelle prove. La suddivisione dei compiti è organizzata nella razionalizzazione spaziale: nel i intermedio, ad esempio, ventidue 29. B. de’ Rossi, Descrizione dell’apparato e degl’intermedi fatti per la commedia rappresentata in Firenze. Nelle nozze de’ serenissimi don Ferdinando Medici, e madama Cristina di Loreno, gran duchi di Toscana, Firenze, Padovani, 1589, p. 17. 30. Per la definizione del «Paradiso» e il suo funzionamento v. Testaverde, L’officina delle nuvole, cit., pp. 94-98. 31. Rivedi nota 27. 32. De’ Rossi, Descrizione, cit., p. 34. 26 DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO addetti sostano sui ballatoi perimetrali per la manovra dei canapi e dei contrappesi per due nuvole; nel sottopalco la squadra di cinque macchinisti, incaricati della manovra delle medesime nuvole, muove l’argano.33 Si conferma quindi l’assestamento tematico conseguente all’assestamento macchinistico: «sette nugole all’aperture, cinque delle quali si movevano, e se ne venivano in terra, e due si rimanevan lassuso».34 Nel i intermedio, L’Armonia delle sfere, si realizza un gioco complesso di nuvole portanti, anche laterali, con la contemporanea apertura del cielo in tre parti. Si materializza uno sfondo di cielo stellato cui seguono la sparizione delle sette macchine-nuvole e la contemporanea chiusura del cielo. Il ii intermedio La contesa tra le Muse e le Pieridi è composto di ben cinque fasi: la trasformazione della scena in giardino; l’ascesa dal sottopalco del monte Parnaso su cui sono collocate le Ninfe Amadriadi; l’apparizione di grotte a seguito della rotazione dei periatti; la metamorfosi a vista delle Pieridi in gazze; la sparizione del monte nel sottopalco. Il iii intermedio, La lotta tra Apollo e Pitone, è articolato in quattro fasi: la prima vede ad apertura di sipario un bosco e una caverna che accolgono l’ingresso simmetrico laterale di cantori e ballerini; nella seconda fase si apre la caverna e appare la testa del drago; nella terza la macchina del drago dispiega le ali distese mentre simmetricamente il dio Apollo discende dal cielo; la quarta fase è articolata nel combattimento pantomimico tra il dio e il drago e nella successiva uscita di scena degli abitanti. Il iv intermedio, L’Inferno, è assai complesso ma al contempo replica tematiche già trattate: su un carro trasportato da una nuvola che si muove orizzontalmente la maga evoca i demoni dell’aria che scendono su una macchina-nuvola che si apre a semicerchio mostrando il loro consesso («[…] e arrivata al mezzo s’aperse, e fecesi un semicircolo […] con maraviglia di chi la vide: e non solamente potette nascer la maraviglia nel vedere così gran macchina aprirsi in aria, ma nel vederla così carica di persone»)35 e poi si richiude e risale in cielo mentre il palco si riempie di «scogli, d’antri, caverne piene di fuochi».36 La terza fase trasforma lo spazio scenico in mondo inferico: lateralmente il piancito si riempie di altissime rocce mentre il palco sprofonda e simmetricamente emerge l’Inferno con Lucifero dalle grandissime ali.37 Il meccanismo dello 33. La complessità della manovra è descritta minutamente in Testaverde, L’officina delle nuvole, cit., pp. 93-101. 34. De’ Rossi, Descrizione, cit., p. 60. 35. Ivi, p. 50. 36. Ivi, p. 51. 37. Per la fortuna della macchina scenica di Lucifero e per la sua diretta influenza nell’opera grafica di Jacques Callot e conseguentemente per la diffusione della figurazione in ambito euro- 27 SARA MAMONE sprofondamento e della simmetrica emersione è ormai ben assestato, e rimanda all’uso del sottopalco con effetti illusionistici già testimoniato dalla descrizione del Doni del 1552 e replicato nel 1565 con i monticelli che emergono mentre le corrispondenti voragini si inabissano. Già esibito anche il ‘numero’ dell’apparizione di Cerbero dal sottopalco, tra fuoco e fiamme. Il v intermedio si apre su una scena marina e ha come soggetto Anfitrite e la nave di Arione. Si articola in due sequenze indipendenti: nella prima il palco è trasformato in mare; emerge Anfitrite su una conchiglia e dopo il canto si immerge nelle acque col suo seguito. Appare subito in sequenza, ondeggiando in mezzo alla scena, una galea attrezzata di tutto punto «bene armata, e ben corredata»38 e con la ciurma in assetto («di quaranta persone carica, se ne venne ondeggiando in mezzo la scena, su la quale stette sempre in continuo moto»);39 fatto un mezzo giro volta la prua e si pone di fronte al palco dei principi, ammaina la vela in segno di reverenza mentre Arione, impersonato da Jacopo Peri, suona divinamente e finito il canto si tuffa in mare, portato quindi in salvo da un delfino. Nel vi intermedio, che fa da sigillo allo spettacolo, Gli dei donano ai mortali l’Armonia e il Ritmo. È il gran finale con le sette macchine-nuvole in piena attività a portare sulla terra il consesso degli dei che si uniscono ai mortali in un ballo conclusivo. Non manca nessun artificio seduttivo tra fumi, profumi e piogge d’oro. Non abbiamo altra notizia dell’uso del teatro degli Uffizi prima del grande apparato per le nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia nel 1600. Nel gran teatro si rappresenta Il rapimento di Cefalo di Gabriello Chiabrera con musiche di Giulio Caccini e uno stuolo numerosissimo di interpreti (pare fossero almeno cento). Dal punto di vista dell’efficienza macchinistica l’episodio rappresenta in qualche modo il punto di rottura nello sperimentalismo scenotecnico almeno per due ragioni: la prima va ricercata forse nel difficile adattamento reciproco delle complesse componenti (l’armonizzazione dei tempi dell’esecuzione musicale e quelli dell’esecuzione macchinistica); la seconda, a questa legata, sta forse nell’eccesso di ardimento tecnologico tentato da un apparato allestitorio granducale non in grado di opporsi all’avventurismo sperimentale del plenipotenziario del granduca, il fratello don Giovanni.40 peo, si vedano almeno le tavole delle Tentazioni di Sant’Antonio in cui l’incisore lorenese, allora testimone diretto e cronista grafico degli eventi spettacolari medicei, si rifà senza ombra di dubbio alla figurazione teatrale. Cfr. almeno D. Ternois, L’art de Jacques Callot, Paris, De Nobelé, 1962. Si veda anche S. Mamone, L’oeil théâatral de Jacques Callot, in Jacques Callot (1592-1635), a cura di P. Choné e D. Ternois, Paris, Klincksieck, 1993, pp. 203-229. 38. De’ Rossi, Descrizione, cit., p. 57. 39. Ibid. 40. Sulla figura del principe e sul suo ruolo nella organizzazione spettacolare medicea, si 28 DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO La pubblicistica ufficiale in questo caso si dimostra assai più sobria del solito lasciando alla descrizione dell’incaricato Michelangelo Buonarroti jr l’ostensione della magnificenza spettacolare.41 La fonte resta fondamentale anche se da leggersi più come intenzionale che non correttamente cronistica. È opportuno infatti riferirsi a voci meno tendenziose per avere chiara informazione del non felice esito tecnologico: «Per l’apparato scenico e gli intermedi meritò molta lode, ma il modo di cantarla venne facilmente a noia, oltre che non sempre il movimento delle macchine è riuscito felice»,42 così testimonia il legato pontificio Pietro Aldobrandini, confermando alcune difficoltà di relazione espresse con ancora maggior perentorietà da Emilio de’ Cavalieri: «Et se il signor don Giovanni avesse voluto un poco di parere da me circa le musiche della commedia, et anco da Bernardo sopra le cose appartenenti alle macchine credo che ogni cosa saria restata terminata e finita, et le musiche sariano state proporzionate al luogo e al teatro et sariano stati i danari spesi con più soddisfazione degli ascoltatori».43 Le puntuali indicazioni del Buonarroti sono comunque preziose per comprendere l’importanza di questo allestimento come cerniera tra il passato e il futuro, quasi intenzionale linea di demarcazione tra una sperimentazione ardimentosa e una successiva pressoché seriale reiterazione di schemi: «argomentare allor si potette, quello il sigillo dovere essere, che chiugga la porta della magnificenza d’ogni spettacolo per lungo tempo. Imperò che nessun movimento di macchine così traversanti circolarmente, e discendenti, e saglienti, come venenti inanzi, e chiudentisi per vari modi mancovvi, dismisurati pesi reggendo sopra».44 Interessante la piena valorizzazione del backstage a conferma di quanto la tecnologia fosse diventata valore esibitorio: veda S. Ferrone, Attori mercanti corsari. La commedia dell’Arte in Europa tra Cinque e Seicento (1993), Torino, Einaudi, 2011, pp. 143-199 (Don Giovanni impresario). 41. Cfr. M. Buonarroti Jr, Descrizione delle felicissime nozze della cristianissima maestà di madama Maria Medici regina di Francia e di Navarra, Firenze, Marescotti, 1600 (cito dall’esemplare conservato presso l’istituto Warburg). 42. Diario del viaggio fatto dal cardinal Pietro Aldobrandini nell’andare legato a Firenze per la celebrazione del sponsalizio della regina di Francia et in Francia per la pace, ms., Bibliothèque Nationale de Paris, Mss. Its. 1323, c. 37v. 43. La lettera di Emilio de’ Cavalieri al granduca Ferdinando, Roma, 7 ottobre 1600, ms., Archivio di stato di Firenze, Mediceo del principato, f. 899, cc. 415r.-417v., è stata pubblicata per la prima volta in A. Solerti, Laura Guidiccioni e Emilio de’ Cavalieri. I primi tentativi del Melodramma, «Rivista musicale», ix, 1902, pp. 818-820. Proprio come cerniera tra le acquisizioni del passato e il, relativo, consolidamento per il futuro, l’episodio è analizzato anche sotto questo aspetto in S. Mamone, Firenze e Parigi, due capitali dello spettacolo per una regina: Maria de’ Medici (1987), ricerca iconografica di S. M., fotografie di F. Venturi, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana, 19882, pp. 81-98 (p. 83 per la lettera). 44. Buonarroti jr, Descrizione, cit., p. 36. 29 SARA MAMONE Oltre che la diversità, e quasi contrarietà delle stesse macchine, e di loro aspetto; sì come della nugola dell’Aurora con quella della Notte, dell’apertura del Cielo con quella della Terra, e del Mare con le selve, e d’altre con altre; discoverse maggiormente l’arte, e la ’nvenzione squisita. E tante, e sì fatte furono, che quale avesse veduto l’ascoso luogo dove elle locate erano, e si maneggiavano […] quivi altresì avria veramente veduto, ciascuna apertura, o componimento picciolo, o grande di ferro, o legname a maraviglia rendere oprare con agevolezza non più creduta, benché per loro quantità ad usarli huomini moltissimi richiedessero, regolati in un certo modo da note, e terminazioni di musica, che ad ora ad ora delle macchine abbisognava.45 L’episodio pur non segnando ancora completamente il superamento dell’alternanza tra atti e intermezzi svaluta definitivamente la commedia recitata mentre i temi degli intermezzi vengono a essere una sorta di catalogo delle possibilità macchinistiche fino ad allora esperite. Ci troviamo quindi semmai di fronte a un organismo le cui due componenti (esecuzione musicale ed esecuzione macchinistica) si trovano di fronte a problemi inediti di armonizzazione. Per quel che qui ci riguarda (la complessa articolazione funzionale dell’intera macchineria) possiamo osservare come ormai la strumentazione sia collaudata (i tentativi di superamento non saranno particolarmente felici) costituendo anche un dato patrimoniale acquisito. A questo punto la macchineria diviene elemento mitopoietico essa stessa, costringendo l’invenzione poetica a subordinarsi alla preesistenza di un capitale macchinistico da mettere a frutto.46 E infatti la drammaturgia del Rapimento di Cefalo può anche essere letta come la prescrizione di un montaggio di pezzi di bravura: come i virtuosi anche la scenotecnica ha ormai il suo repertorio, le sue ‘arie di baule’. Il i intermedio infatti mette in scena Il monte Elicona con il cavallo Pegaso (fig. 1) che fa scaturire giochi d’acqua percuotendo la roccia con lo zoccolo; il soggetto è ormai canonico, almeno dalla rappresentazione del 1565 in palazzo Vecchio e, nella forma del monte che sorge dal sottopalco, presente anche negli allestimenti del 1586 e del 1589 nello stesso teatro degli Uffizi. Il palcoscenico esonda nell’alzata verso la platea con una decorazione di «salvatichi gradi, e massosi, che con arte rustica, e dissimulata, parevano aprire triplicata callaia alla sua salita».47 Collaudata anche la scomparsa del monte Elicona, con un meccanismo a caduta che rende velocissimo l’assorbimento dell’ingegno nel sottopalco. Il ii intermedio, la Scena marina con gli dei marini, tritoni e l’Orca è di tutta evidenza una semplice variazione della scena marina con Arione e i delfini 45. Ivi, pp. 36-37. 46. Cfr. S. Mamone, La macchina o l’indifferenza del mito, in Id., Dèi, semidei, uomini, cit., pp. 193-209. 47. Buonarroti jr, Descrizione, cit., p. 23. 30 DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO già elaborata e allestita con successo per il v intermedio de La Pellegrina (fig. 2). Pure sperimentata la sparizione del mare. Il iii intermedio, Il carro della Notte e l’apparizione dei segni zodiacali, evidenzia i precedenti mostrando la messa a frutto del patrimonio macchinistico e anche la reiterazione dei temi drammaturgici da questo dipendenti. Rupi, spelonche e rovine sono una variazione di quelle dell’Inferno nel iv intermedio de La Pellegrina, il frondoso bosco attraversato da un carro d’oro brunito che rappresenta La Notte tirato da due civette è sempre variazione del iv intermedio de La Pellegrina con il Carro della Maga (figg. 3-4). La risalita in un cielo sempre più oscuro nel quale appaiono i segni dello Zodiaco ripropone il tema dei pianeti precedentemente esibito nel i e nel vi intermedio de La Pellegrina. L’apparizione dei Sette Pianeti risale comunque assai indietro nel tempo, essendo già presente nella pionieristica macchineria delle quattrocentesche sacre rappresentazioni d’Oltrarno.48 iv intermedio Berecinzia. La dea della terra appare dalla metamorfosi di un monticello sorto dal pavimento da cui escono venti odorosi (variazione dell’intermedio infernale del 1589 oppure riuso delle due caverne rotanti del ii intermedio [fig. 5], per non riandare ai monticelli dell’intermedio del 1565). Discesa di nuvole e gara «con bel contrasto di macchine, e in giù e in su andanti e correntisi dietro»; qui non è necessario ricercare una precisa variazione nel patrimonio delle sette nuvole create da Buontalenti per La Pellegrina. Interessante notare l’attenzione a un altro elemento materiale perfezionato nel corso dell’esperienza apparatoria e cioè, tra le funzioni «non apparenti», quella della problematica aereazione della sala che aveva visto nell’allestimento del 1589 la creazione di sfiatatoi al soffitto celati da eleganti rosoni e che qui si potenzia con l’apertura di finestroni posti ai lati del palcoscenico (probabilmente quelli all’altezza del secondo piano del retropalco) da cui fuoriescono «Venti grandissimi e freschi» che «sfiatarono odorantissimi e sì gagliardi, che tutto il teatro conforto non piccolo ne ricevette, che sì calcato vi era».49 Il v intermedio prevede l’ormai canonico Consesso degli dei con Giove, assiso in trono sull’aquila movente le ali, che ordina a Mercurio e Cupido la fine degli amori di Aurora e Cefalo. Indi tutti gli dei risalgono su nuvole. Anche qui è superfluo citare corrispondenze puntuali con i precedenti usi della macchineria delle nuvole essendo il soggetto praticamente ineludibile a partire dall’allestimento dell’opera ante 1552 descritta dal Doni. vi intermedio. Per l’epilogo il palcoscenico «si trasformò in un magnifico, e gran Teatro di mezzo ovato di ordine dorico, che divisato per dorate colonne, 48. Rivedi nota 4. 49. Buonarroti jr, Descrizione, cit., p. 31. 31 SARA MAMONE e nicchie con loro statue d’oro, e corniciamenti faceva eguale corrispondenza al Teatro stesso».50 La mutazione straordinaria richiama vistosamente la non dissimile descrizione di De’ Rossi, relativa a un’apertura di scena precedente l’inizio vero e proprio della rappresentazione nell’episodio dell’89, con un clamoroso esempio di manierismo metateatrale. Al calare del sipario (cioè ad apertura della rappresentazione essendo il sipario a caduta) si era presentata «agli occhi di ciascheduno, tutta la sala uno anfiteatro perfetto (perciocché la Prospettiva, che era in faccia con la sua architettura corintia si congiugneva con l’Apparato, e per essa l’Anfiteatro aveva ’l suo fine)».51 La descrizione del De’ Rossi è piuttosto confusa e non trova precisi riscontri nelle descrizioni consuntive dei cronisti presenti allo spettacolo, ma ai nostri fini non si può non notare come essa corrisponda perfettamente (con un semplice cambio di stile architettonico: da corinzio a dorico) alla conclusione del Rapimento di Cefalo. Davanti a questa architettura si apre in proscenio un’enorme botola e emerge Il carro trionfale della Fama attorniato da sedici fanciulle rappresentanti le città del dominio granducale.52 Il virtuosismo tecnologico si accentua in un triplice movimento simultaneo: mentre il carro inizia la discesa nel sottopalco, dal medesimo emerge un grandissimo giglio rosso e dorato (emblema della città di Firenze) che si congiunge con la macchina discendente rappresentante la corona regale di Maria in una immagine compendiaria del nuovo stato della regina sposa. Saranno forse proprio le difficoltà di questi arditi movimenti a generare gli inconvenienti di funzionamento lamentati dai cronisti, segnando di fatto un arretramento dello sperimentalismo nell’episodio successivo del 1608 nel quale il macchinismo scenotecnico si attesterà sulle basi consacrate nel 1589. Ma non può sfuggire la ‘citazione’ che collega idealmente l’epilogo del 1600 con il prologo del 1608 per Il giudizio di Paride53 di Michelangelo Buonarroti jr rappresentato nel teatro granducale per le nozze di Cosimo II con Maria Maddalena d’Austria, scenografie di Giulio Parigi, spettatore attento Joseph Furttenbach. Per la visualizzazione di questo spettacolo siamo aiutati dalla ricca serie di incisioni di Remigio Cantagallina54 che affiancano la pubblicazione del testo 50. Ivi, p. 34. 51. De’ Rossi, Descrizione, cit., p. 16. 52. Ricordiamo che la figurazione delle fanciulle rappresentanti le città del dominio mediceo aveva già fatto bella mostra di sé nell’apparato di sala del secondo cortile di palazzo Medici in occasione della rappresentazione de Il Commodo per le nozze di Cosimo e Eleonora di Toledo. 53. Cfr. Michelangelo Buonarroti jr, Il giudizio di Paride favola del signor Michelagnolo Buonarroti. Rappresentata nelle felicissime nozze del serenissimo Cosimo Medici principe di Toscana e della serenissima principessa Maria Maddalena arciduchessa di Austria, Firenze, Sermartelli, 1608. 54. Le incisioni si trovano a Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, nn. 9576395765; 95766-95768. Per una descrizione delle tavole: Il luogo teatrale, cit., pp. 120-121, schede 8.30-8.35. 32 DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO del Buonarroti e che costituiscono l’elemento portante anche del manoscritto annotato di Furttenbach.55 Possiamo quindi procedere alla rapida descrizione di questi intermezzi che confermano l’uso reiterato di una macchineria collaudata che prevale nettamente sull’innovazione. A mo’ di ulteriore esempio restiamo proprio su questo i intermedio del Palazzo della Fama (fig. 6) il cui meccanismo aiuta a comprendere anche il funzionamento delle mutazioni del prologo e dell’epilogo del Rapimento di Cefalo: nel mezzo del palcoscenico «un grandissimo Palagio, tutto fatto a specchi, in luogo di bozzi, con spaziosi portici, ed altissima torre» in cima alla quale compare la Fama che mostra agli sposi la lunga schiera dei loro progenitori. Gli sposi entrano nel palazzo, il palazzo sparisce dalla scena e «la fama, restata in aria, cominciò a salire all’insù, e si nascose tra le nuvole, cantando».56 Nel ii intermedio Astrea scende sulla terra e riporta l’età dell’oro (fig. 7). La scena di «tutte nuvole» si giova senza dubbio della macchineria e della sequenza dei due intermezzi gemelli di apertura (il i, L’Armonia delle sfere) e di chiusura (il vi, Gli dei donano ai mortali l’Armonia e il Ritmo) dell’allestimento dell’89 mutando semplicemente l’iconologia. E sarà prezioso a breve il raffronto tra la spiegazione di Furttenbach, i dati forniti dal Diario di Seriacopi e la dettagliata descrizione delle feste commissionata a Camillo Rinuccini. In questa costante opera di riciclaggio57 non è azzardato pensare che lo sfondo di Firenze in apertura di scena sia nientemeno che l’ammiratissimo sipario dello Zuccari (fig. 8) che copriva la scena de La cofanaria del 1565 (e che viene verosimilmente prestato per la prima scena de Le nozze degli dei del 1637 nel cortile di palazzo Pitti per celebrare le nozze del granduca Ferdinando II con Vittoria della Rovere [fig. 9]). Così come le insegne di Flora, il leone che tiene il giglio, i costumi di Arno e delle sue Ninfe, l’aquila volante simbolo della casa d’Austria da cui proveniva la sposa, i sei globi rappresentanti l’insegna medicea fanno ormai parte di un assestato trovarobato. Anche il iii intermedio, Il giardino di Calipso (fig. 10), sembra trarre profitto, nella costruzione dei palazzi laterali, dalle grottesche del ii intermedio de La 55. Si rilegga a p. 17 l’avvertenza a queste pagine. 56. Questa e la citazione precedente sono in C. Rinuccini, Descrizione delle feste fatte nelle reali nozze de’ serenissimi principi di Toscana don Cosimo de’ Medici, e Maria Maddalena arciduchessa d’Austria, Firenze, Giunti, 1608, pp. 40-41. Su l’organizzazione dell’intero evento si veda ora A.M. Testaverde, Michelangelo Buonarroti il Giovane e le didascalie sceniche per il ‘Giudizio di Paride’, in Studi di storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone, a cura di S. Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 166-179 e relativa bibliografia. Quanto al nesso macchinistico tra il prologo e l’epilogo del Rapimento di Cefalo e, a ritroso, il ii intermedio della Pellegrina: Mamone, Firenze e Parigi, cit., p. 88. 57. Cfr. Mamone, Il risparmio e lo spreco, cit. 33 SARA MAMONE Pellegrina, La contesa tra le Muse e le Pieridi, oltre a corrispondere puntualmente alla descrizione fatta da De’ Rossi in quella occasione: «divenne tutta quanta la scena un vago giardino, che ricoperse in modo le case, che più non si vedeva alcun segno d’esse».58 Per la descrizione completa di questa mutazione si legga il resoconto ufficiale di Rinuccini.59 Se ne ritrova una riproduzione seriale, a opera di Alfonso Parigi, nella seconda mutazione de La liberazione di Ruggero dall’isola d’Alcina del 1625 a Poggio Imperiale (fig. 11). E anche nella tavola n. 21 del trattato Architectura recreationis (1640) del nostro Furttenbach (fig. 12). Nel iv intermedio, con la scena di mare de La nave di Amerigo Vespucci (fig. 13), assistiamo a una ardimentosa eroicizzazione di un soggetto non mitologico ma direttamente encomiastico nella celebrazione della gloria di un fiorentino illustre. Anche se a soggetto clamorosamente mutato (ma, a ben guardare, si tratta di un abile travestimento) entrano in scena le consolidatissime macchine: la nave di Amerigo è di tutta evidenza quella di Arione nel v intermedio de La Pellegrina (fig. 2) mentre l’intero assetto riproduce le quinte rocciose dello stesso intermedio della Pellegrina e il corpo centrale della scena altro non è se non la sintesi della macchina ascendente della montagna de La contesa tra le Muse e le Pieridi associata allo squarcio del cielo con la nuvola che regge il consueto consesso degli dei. Il v intermedio, La Fucina di Vulcano, mostra una rotazione completa della macchineria della prospettiva con la salita dal sottopalco della fucina di Vulcano (tema che risale addirittura agli intermedi descritti dal Doni).60 L’incisione di Cantagallina (fig. 14) mostra esplicitamente i tre livelli dell’apparato macchinistico con in basso la scena infernale, sul piano della scena i Ciclopi e in aria il carro-nuvola di Marte trainato da cavalli bai e condotto dalla Vittoria e dalla Gloria.61 La comparazione iconografica mostra chiaramente l’identità tra questa macchina e quella che nel iv intermedio de La Pellegrina sosteneva il Carro della Maga e di cui abbiamo testimonianza dal disegno buontalentiano (fig. 4), mentre l’incisione del medesimo intermedio (fig. 3), chiaramente compendiaria, mostra anche la visione dell’Inferno sorgente dal sottopalco tramite una macchina travestita da un enorme Lucifero. Il vi e ultimo intermedio, Il tempio della Pace, è un’apoteosi della macchineria, un concertato finale. Sono usati tutti i livelli dell’impianto macchinistico del teatro, rappresentati nell’incisione (fig. 15) con la abituale sintesi compendiaria che chiarisce visivamente l’uso del «Paradiso» inaugurato nella ristrut- 58. 59. 60. 61. De’ Rossi, Descrizione, cit., p. 37. Cfr. la descrizione del giardino in Rinuccini, Descrizione, cit., pp. 43-44. Cfr. nota 8. Si veda la ricca descrizione sempre in Rinuccini, Descrizione, cit., pp. 48 ss. 34 DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO turazione dell’89. La scena si apre su un ricco tempio e, inalterata, verrà poi riusata per il iii intermedio de La liberazione di Tirreno e Arnea (fig. 16) in occasione dei festeggiamenti per le nozze di Caterina de’ Medici con Ferdinando Gonzaga62 (1617) e nella scena finale de La Flora o vero Il Natale de’ fiori sempre di Andrea Salvadori (1628),63 dove fa la sua comparsa in cima alla fonte aerea «l’alato caval pegaseo» (fig. 17) de Il rapimento di Cefalo. Il patrimonio delle sette macchine-nuvole occupa l’intero cielo mentre i movimenti ascendenti (trono della Pace) e discendenti (la Pace sulla nuvola) richiamano inequivocabilmente l’assetto macchinistico del palcoscenico del Mediceo.64 3. Ci fermiamo a questo 1608, dopo il quale pare veramente di poter datare la conclusione della fase sperimentale e l’avvio di quella serialità che riprodurrà sui palcoscenici di tutta l’Europa delle corti le invenzioni e le realizzazioni macchinistiche fiorentine. Questo avverrà sia attraverso la ben nota disseminazione degli ingegneri fiorentini (Lotti e Baccio in Spagna, i Francini in Francia, Costantino de’ Servi in Inghilterra, Alessandro Pieroni e Baccio nell’area imperiale) sia attraverso la formazione dei talenti stranieri presso l’accademia di Giulio Parigi, in particolare Inigo Jones e Joseph Furttenbach. Complessa è la storia della circolazione dei disegni e del materiale tecnico necessari alla diffusione di un sapere che diventa sempre più richiesto come strumento di aggiornamento e prestigio. A questo compito adempiranno nel corso del Seicento i trattati di cui quello del Sabbatini è certamente il perno. L’amplissima diffusione di quest’ultimo ha forse messo in ombra i suoi debiti nei confronti della macchineria fiorentina, debiti che un primo esame del manoscritto di Furttenbach sembrano invece confermare. A questa altezza cronologica sono ormai risolte le problematiche tecniche e consolidate le tipologie 62. Cfr. A. Salvadori, Veglia della Liberation di Tirreno et Arnea, Autori del sangue Toscano. Il manoscritto si trova a Firenze, Biblioteca nazionale centrale, ms., Palatino 251, cc. 134r.-144v., Raccolta di poesie musicali dei secoli XVI e XVII. Per l’opera completa dell’importante personaggio si rinvia a D. Sarà, Andrea Salvadori e lo spettacolo fiorentino all’epoca della reggenza (1621-1628), tesi di laurea in Storia del teatro e dello spettacolo, Università degli studi di Firenze, Facoltà di lettere e filosofia, a.a. 1999-2000 (relatore: prof. Sara Mamone). A questo episodio si deve la celeberrima incisione di Jacques Callot che mostra l’interno del teatro (un esemplare è conservato a Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 8015 st. sc.). 63. A. Salvadori, La Flora o vero Il Natal de’ Fiori. Favola d’Andrea Salvadori, rappresentata in musica recitativa nel teatro del serenissimo gran duca per le reali nozze del serenissimo Odoardo Farnese e della serenissima Margherita di Toscana […], Firenze, Cecconcelli, 1628 (cito dal frontespizio). 64. Rinuccini, Descrizione, cit., p. 52: «uno eccelso, e ricco tempio, tutto d’oro, di superbissima architettura, e pieno di statue, e altri ornamenti sacri, nel quale a un tempo comparirono, e dal Cielo la Pace in una nugola, e di sotto terra il suo trono». 35 SARA MAMONE che divengono addirittura elemento vincolante per la drammaturgia.65 Come appare dall’azione di Michelangelo Buonarroti che per Il giudizio di Paride predispone «un piano ‘registico’ attento al coordinamento delle manovre sceniche con le azioni degli interpreti»;66 il vero problema da risolvere è quello dell’armonia di tutte le componenti, in particolare la sincronia del movimento delle macchine con le esecuzioni musicali e coreutiche. Problema per il quale l’unica soluzione suggerita da Buonarroti è quella di molte prove di palcoscenico: non mi par da indugiare a esercitar le macchine, e le musiche in sul luogo perché, come ho detto, ogni magistero vuol lunga, e diligente pratica, altrimenti le cose vanno per mala via e ne abbiamo gli anni passati, veduto l’esempio e questo è un gran viluppo, perché, essendosi fatte le invenzioni delli intermedi e le musiche ancora da diversi, ciascuno ha atteso al suo proprio, so che se non si viene presto in cognizione di quelle difficultà che si posson dar le macchine di questa con quella di invenzione, e il simile le musiche, ci potremmo trovar tanto tardi al procurar il rimedio che le difficoltà s’accrescessero.67 Pare di sentire da vicino gli insegnamenti sperimentali dell’amico Galileo e quasi un’anticipazione di quello spirito dell’accademia del Cimento che di lì a non molti anni farà proprio della sperimentazione il suo motto: «Provando e riprovando». Una coscienza registica più complessa si fa strada in questi anni, legata al nuovo genere melodrammatico e riassunta per noi, oltre che dalle preoccupazioni del Buonarroti, dal prezioso trattato de Il corago68 che intorno agli anni Trenta sistematizza le svariate necessità trovando in un’unica figura professionale («un mestiero») tutte le qualità necessarie alla sintesi. 65. Cfr. Mamone, La macchina o l’indifferenza del mito, cit. 66. Testaverde, Michelangelo Buonarroti il Giovane, cit., p. 169. 67. Lettera di Michelangelo Buonarroti a Curzio Picchena, Firenze, agosto 1608 (?), Archivio di stato di Firenze, Mediceo del principato, f. 6068, cc. 387r.-388r., cit. in Testaverde, Michelangelo Buonarroti il Giovane, cit., pp. 170-171. 68. Cfr. Il corago, o vero alcune osservazioni per metter bene in scena le composizioni drammatiche, a cura di P. Fabbri e A. Pompilio, Firenze, Olschki, 1983. L’opera, anonima, viene attribuita con ottime ragioni all’entourage rinucciniano. 36 DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO Fig. 1. Bernardo Buontalenti, Disegno per il prologo del Rapimento di Cefalo, 1600 (London,Victoria & Albert Museum, E 1187/1931). Fig. 2. Epifanio d’Alfiano (da Bernardo Buontalenti), Anfitrite e la nave di Arione, v intermedio della Pellegrina (1589), 1592, acquaforte (Firenze, Biblioteca marucelliana, I, 400). 37 SARA MAMONE Fig. 3. Epifanio d’Alfiano (da Bernardo Buontalenti), L’Inferno, iv intermedio della Pellegrina (1589), 1592, acquaforte (Firenze, Biblioteca marucelliana, I, 399). Fig. 4. Bernardo Buontalenti, L’Inferno, iv intermedio della Pellegrina, 1589, disegno a penna, bistro, acquerello e tracce di matita nera (Paris, Cabinet des dessins du Louvre, 867). 38 DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO Fig. 5. Epifanio d’Alfiano (da Bernardo Buontalenti), La contesa tra le Muse e le Pieridi, ii intermedio della Pellegrina (1589), 1592, acquaforte (Firenze, Biblioteca marucelliana, I, 400). Fig. 6. Remigio Cantagallina (da Giulio Parigi), Palazzo della Fama, i intermedio del Giudizio di Paride, 1608, acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 95763). 39 SARA MAMONE Fig. 7. Remigio Cantagallina (da Giulio Parigi), Astrea scende sulla terra e riporta l’età dell’oro, ii intermedio del Giudizio di Paride, 1608, acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 95764). Fig. 8. Federico Zuccari, Bozzetto preparatorio per il sipario della Cofanaria, 1565, disegno a matita nera, acquerello e tempera bianca su carta tinta marroncina (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 11074 F). Fig. 9. Stefano Della Bella (da Alfonso Parigi), Prima scena rapresentante Fiorenza, Le nozze degli dei, 1637, acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 102509). 40 DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO Fig. 10. Giulio Parigi, Il giardino di Calipso, iii intermedio del Giudizio di Paride, 1608, acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 95765). Fig. 11.Alfonso Parigi, Isola d’Alcina, seconda mutazione della Liberazione di Ruggiero dall’isola d’Alcina, 1625, acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 2304 st. sc.). Fig. 12. Johann Jacob Campanus (incisore), Scena di commedia (da Joseph Furttenbach, Architectura recreationis, Ulm 1640, tav. 21). 41 SARA MAMONE Fig. 13. Remigio Cantagallina (da Giulio Parigi), La nave di Amerigo Vespucci, iv intermedio del Giudizio di Paride, 1608, acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 95766). Fig. 14. Remigio Cantagallina (da Giulio Parigi), La Fucina di Vulcano, v intermedio del Giudizio di Paride, 1608, acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 95767). 42 DRAMMATURGIA DI MACCHINE NEL TEATRO GRANDUCALE FIORENTINO Fig. 15. Giulio Parigi, Il tempio della Pace, vi intermedio del Giudizio di Paride, 1608, acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 95768). Fig. 16. Jacques Callot (da Giulio Parigi), Il regno d’Amore, iii intermedio della Veglia della liberatione di Tirreno (1617), acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 8017 st. sc.). Fig. 17. Alfonso Parigi, Il fonte pegaseo col ballo dell’Aure, scena finale de La Flora, 1628, acquaforte (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 2300 st. sc.). 43 Anna Maria Testaverde L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI (1586-1637) La memoria visiva dei modelli realizzati nel 1975 per la mostra Il luogo teatrale a Firenze, diretta da Ludovico Zorzi, resta viva e condizionante nell’esegesi del cinquecentesco teatro degli Uffizi progettato per la corte medicea.1 Ritenuta già dai contemporanei espressione matura di una pratica scenica d’avanguardia altamente specializzata, quella duplice esperienza fiorentina di fine secolo (1586, 1589) ha alimentato l’humus della spettacolarità di corte europea, ponendosi a modello per le riflessioni teoriche e le realizzazioni pratiche di molti architetti, italiani e stranieri.2 1. Cfr. Il luogo teatrale a Firenze. Brunelleschi Vasari Buontalenti Parigi, catalogo della mostra a cura di M. Fabbri, E. Garbero Zorzi e A.M. Petrioli Tofani, introd. di L. Zorzi [ordinatore] (Firenze, 31 maggio-31 ottobre 1975), Milano, Electa, 1975. I modelli furono nuovamente esposti e commentati in Teatro e spettacolo nella Firenze dei Medici. Modelli dei luoghi teatrali, catalogo della mostra a cura di E. Garbero Zorzi e M. Sperenzi (Firenze, 1o aprile-9 settembre 2001), Firenze, Olschki, 2001. In partic. rinvio ad A.M. Testaverde, Il salone dei Cinquecento nel palazzo della Signoria: l’‘aula regia’. Integrazioni e aggiornamenti (ivi, pp. 157-159); Id., Palazzo degli Uffizi: il teatro mediceo. Integrazioni e aggiornamenti (ivi, pp. 196-198). Cfr. inoltre le riflessioni di S. Mazzoni, Ludovico Zorzi. Profilo di uno studioso inquieto, «Drammaturgia», xi / n.s. 1, 2014, pp. 9-137: 83-86. 2. La fortuna internazionale della tecnica scenica fiorentina è stata oggetto, presso l’Università degli studi di Firenze, di tesi e saggi condotti sotto la guida della prof. Sara Mamone. Cfr. almeno, tra le numerose referenze scaturite da quella ‘officina’, S. Mamone, Firenze e Parigi due capitali dello spettacolo per una regina. Maria de’ Medici (1987), Cinisello Balsamo (Mi), Silvana, 19882; A.M. Testaverde-S. Castelli, Le feste del Duca di Lerma nelle lettere degli ambasciatori fiorentini. Influenze fiorentine, in Représentation, écriture et pouvoir en Espagne à l’époque de Philippe II (1598-1621). Colloquio internazionale (Firenze, 14-15 settembre 1998), Firenze-Paris, AlineaPublications de la Sorbonne, 1999, pp. 49-68; C. Pagnini, Costantino de’ Servi, architetto-scenografo fiorentino alla corte d’Inghilterra (1611-1615), Firenze, Sef, 2006; S. Bardazzi, La furia iconoclasta dell’anno 1619. Le devastazioni nella cattedrale del castello di Praga nel resoconto in italiano di un anonimo cronista, «eSamizdat», v, 2007, 1-2, pp. 459-467. Già in un mio precedente studio (cfr. A.M. Testaverde, L’officina delle nuvole. Il teatro Mediceo del 1589 e gli ‘Intermedi’ del Buontalenti nel ‘Memoriale’ di Girolamo Seriacopi, «Musica e teatro. Quaderni degli amici della Scala», vii, DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 45-69 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18360 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. ANNA MARIA TESTAVERDE L’episodio convocato, tra i più noti e meglio documentati della pratica scenotecnica di Antico regime, necessita tuttavia di una tempestiva revisione. Oltre ad ampliare le informazioni documentarie non sarà inutile rivisitare le teorie trattatistiche che ispirarono la tipologia di quel teatro; e la questione è da contestualizzare nello strategico passaggio dal metamorfico apparato di taluni luoghi teatrali (si pensi al concetto di ‘sala d’apparato’, formulato da Elena Povoledo)3 ai primi edifici teatrali contemporanei (1580-1585, teatro Olimpico di Vicenza di Andrea Palladio e Vincenzo Scamozzi; 1588-1590, teatro scamozziano di Sabbioneta).4 Ancora. Ricostruire gli antecedenti scenotecnici del teatro granducale degli Uffizi chiarirà l’entità del patrimonio spettacolare ereditato da Bernardo Buontalenti ritenuto dalla storiografia artefice incontrastato del teatro di corte fiorentino, ma soprattutto depositario di ‘saperi’ maturati, fin dal suo esordio, anche al fianco di Giorgio Vasari. In occasione della citata mostra del 1975 fu realizzata la prima ipotesi di ricostruzione filologica della struttura temporanea ‘a uso di teatro antico’ impalcata nel 1565 dal Vasari nel salone dei Cinquecento in palazzo Vecchio in occasione delle nozze di Francesco dei Medici con Giovanna d’Austria (fig. 1). Giusta tale ipotesi l’impostazione longitudinale del vano della platea e della cavea allungata a forma di U avrebbe anticipato quella del futuro teatro degli Uffizi ritenuta, da Zorzi, «la modellazione pedissequa dell’anfiteatro di Boboli». In questa ottica, proseguiva lo studioso, «l’asse Cesariano-Palladio, rotante intorno alla cavea emiciclica (prodotto dell’iscrizione del circolo nel quadrato, e in un triangolo equilatero in esso, il cui vertice fissa il punto di fuga del 1991, 11-12) mi convinsi che un’indagine su Joseph Furttenbach, allievo dell’accademia degli architetti Parigi e a lungo residente a Firenze, avrebbe arrecato apporti significativi per una migliore conoscenza del teatro degli Uffizi. A tale fine sono state eseguite, sotto la mia guida, le traduzioni dal tedesco di tutti i capitoli dedicati al teatro nei trattati del Furttenbach. Cfr. S. De Gennaro, L’esperienza italiana nell’opera teorica e pratica di Joseph Furttenbach, tesi di laurea, Università degli studi di Bergamo, a.a. 2003-2004 (relatore: prof. Anna Maria Testaverde). E v., in questo numero di «Drammaturgia», il saggio di Sara Mamone. 3. La studiosa riteneva che sia la struttura vasariana fiorentina del 1565 che quella progettata da Vasari a Venezia nel 1542 fossero «conformi ai modi tipici del teatro da sala […] con una disposizione longitudinale delle assise, lungo le pareti maggiori dell’ambiente». Cfr. E. Povoledo, Vasari, Giorgio, in Enciclopedia dello spettacolo, Roma, Le Maschere, 1962, vol. ix, coll. 1466-471: 1467. Ipotesi ripresa in N. Pirrotta, Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi (1969), con un saggio critico sulla scenografia di E. Povoledo, Torino, Einaudi, 19752, p. 415. 4. Al riguardo si vedano i fondamentali S. Mazzoni, O. Guaita, Il teatro di Sabbioneta, Firenze, Olschki, 1985 e soprattutto S. Mazzoni, L’Olimpico di Vicenza: un teatro e la sua «perpetua memoria» (1998), Firenze, Le Lettere, 20102. Cfr. poi Id., «Oltre le pietre»: Vespasiano Gonzaga, Vincenzo Scamozzi y el teatro de Sabbioneta, in Teatro clásico italiano y español. Atti delle giornate di Sabbioneta (25-27 giugno 2009), a cura di M. del V. Ojeda Calvo e M. Presotto, València, Publicacions de la Universitat de València, 2013, pp. 11-52. 46 L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI proscenio)», rimaneva estraneo «alla riflessione degli architetti fiorentini sullo spazio scenico».5 Il teatro degli Uffizi sarebbe dunque la sintesi di esperienze romanze pregresse portate a piena maturazione dal Buontalenti, del quale tuttavia ancora sfuggono i principii ispiratori della sua idea di ‘teatro all’antica’. La questione si collega alla crux interpretativa del modello ipotizzato nel ’75 da Zorzi e Cesare Lisi, i quali, si badi, evitarono di progettare un apparato ispirato all’andamento curvilineo della cavea classica. La scelta fu chiarita a suo tempo in questi termini da Anna Maria Petrioli Tofani: «a causa dell’abitudine dei cronisti cinque e secenteschi di descrivere gli spettacoli ponendosi dal punto di vista dei principi, il Mellini non ci ha lasciato purtroppo alcuna notizia circa la forma del lato della sala opposto a quello del palcoscenico», anche se era presupponibile che «le due file di gradoni laterali dovessero a un certo punto incurvarsi fino a formare una specie di anfiteatro».6 Ritengo invece che la scarsa attenzione di Domenico Mellini, al pari di altri cronisti, per quella parte della sala sia motivata dalla curiosità per l’originalità tecnologica del palcoscenico, da lui descritto con ampi dettagli, mentre il rapido riferimento all’apparato «a uso di teatro antico»7 potrebbe significare la registrazione di una distribuzione del pubblico ormai consueta. Del resto, le nuove informazioni documentarie sulla costruzione del temporaneo teatro vasariano del ’65 hanno ribadito l’esigenza di rileggere l’episodio nel contesto speculativo delle teorie architettoniche vitruviane, un progetto condiviso anche da Stefano Mazzoni nel suo studio sul teatro Olimpico di Vicenza.8 La cultura trattatistica dell’architetto aretino e le sue personali esperienze di matrice vitruviana, compiute nell’ambiente veneto-padano,9 non furono da 5. L. Zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino, Einaudi, 1977, p. 120. 6. Il luogo teatrale a Firenze, cit., p. 96, scheda 7.8. 7. [D. Mellini], Descrizione dell’apparato della comedia et intermedii d’essa; recitata in Firenze il giorno di S. Stefano l’anno 1565 nella gran sala del palazzo di sua eccellenza illustrissima nelle reali nozze dell’illustrissimo et eccellentissimo signore il signor don Francesco Medici principe di Fiorenza, et di Siena, et della regina Giovanna d’Austria sua consorte, Firenze, Giunti, 1566, p. 4. 8. I documenti sulla costruzione del teatro provvisorio vasariano sono stati editi da A.M. Testaverde, Informazioni sul teatro vasariano del 1565 dai registri contabili, in Per Ludovico Zorzi, a cura di S. Mamone, «Medioevo e Rinascimento», vi/n.s. iii, 1992, pp. 83-95. L’ipotesi vitruviana è stata poi condivisa, anche in occasione seminariale, da Mazzoni, L’Olimpico di Vicenza, cit., p. 114. Devo agli anni di intenso lavoro con i colleghi fiorentini, con i quali ho trovato piena rispondenza interpretativa, la decisione di tornare a ri-scrivere la storia di questo teatro mediceo. Sulla teorizzazione vitruviana di Vasari segnalo la tesi di laurea, condotta sotto la guida di Stefano Mazzoni e Siro Ferrone, di G. Anastasio, Il teatro vasariano del 1565: nuove ipotesi di ricostruzione, Università degli studi di Firenze, a.a. 1996-1997. 9. Cfr. A.M. Testaverde, Teorie e pratiche nei progetti teatrali di Giorgio Vasari, in Percorsi vasariani tra le arti e le lettere. Atti del convegno di studi (Arezzo, 7-8 maggio 2003), a cura di M. Spagnolo e P. Torriti, Montepulciano (Si), Le Balze, 2004, pp. 63-75. Cfr. anche M. Dezzi 47 ANNA MARIA TESTAVERDE lui dimenticate. La sua più nota attività fiorentina di architetto-scenografo si distanziava ormai di un ventennio da quelle già maturate a Venezia dove era stato chiamato fin dal 1541 dal suo concittadino Pietro Aretino. Qui, è noto, aveva progettato per la Compagnia della Calza dei Sempiterni, in occasione della messa in scena della Talanta (1542), un teatro provvisorio lavorando con artisti che apprezzarono la sapiente qualità del suo intervento: «trovarono che il Vasari non solo era là innanzi arrivato, ma aveva disegnato ogni cosa, e non ci aveva se non a por mano a dipignere».10 L’esperienza fu condotta in collaborazione con l’esegeta vitruviano Tiziano Aspetti detto Minio,11 al quale i Sempiterni, nel campo di Santo Stefano, nella medesima giornata, avevano commissionato una sorta di theatrum templum con al centro un palco «in forma teatrale».12 Sempre al Minio, con ogni probabilità, i Sempiterni affidarono, in quel carnevale del ’42, la progettazione di una simbolica «machina del mondo» equorea (ed è lecito pensare che Vasari abbia visto quell’apparato).13 Bardeschi, L’apparire e l’essere. Gli apparati del 1565 per le nozze di Francesco de’ Medici con Maria Giovanna d’Austria: palazzo Vecchio, «Quaderni di teatro», iii, 1981, 12, pp. 173-200. 10. L’episodio è narrato nella Vita di Cristofano Gherardi, in G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architettori, in Le opere di Giorgio Vasari, con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, Firenze, Sansoni, 19062, to. vi, pp. 223-225 (p. 223 per la citazione). Sull’esperienza veneziana restano sempre validi gli studi di D. McTavish, Apparato dei Sempiterni, Venezia, per la commedia di Pietro Aretino, ‘La Talanta’, in Giorgio Vasari. Principi, letterati e artisti nelle carte di Giorgio Vasari, catalogo della mostra a cura di L. Corti et al. (Arezzo, 26 settembre-29 novembre 1981), Firenze, Edam, 1981, pp. 112-116; G. Scocchera, Il programma e l’apparato. Contributi allo studio dell’allestimento della ‘Talanta’, in Antropologia e Transculturalismo. Roma e Venezia nel Rinascimento, «Teatro e storia», x, 1995, 17, pp. 365-402; F. Mancini-M.T. Muraro-E. Povoledo, I teatri del Veneto, i. to. i. Venezia, teatri effimeri e nobili imprenditori, Venezia, Regione del Veneto, Giunta regionale-Corbo e Fiore, 1995, pp. 41-66. Una sintesi delle notizie sullo spettacolo, tratte dalle vasariane vite degli artisti, si legge in T.A. Pallen, Vasari on Theatre, Carbondale and Edwardsville, Southern Illinois University Press, 1999, pp. 92, 99-103. Sulla presenza a Venezia del Vasari e le sue relazioni artistiche in area veneta cfr. The Ashgate Research Companion to Giorgio Vasari, a cura di D.J. Cast, Farnham, Ashgate, 2014. 11. «Il medesimo Tiziano [Minio], quando il Vasari fece il già detto apparato per li Signori della Compagnia della Calza in Canareio, fece in quello alcune statue di terra e molti Termini». L’informazione è contenuta nella Vita di Jacopo Sansovino in Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architettori, cit., to. vii, p. 516. 12. «Nella giornata prescritta, fu la Piazza di Santo Stefano adobbata […] con palchi, o pogioli in giro, in forma di Teatro, e nel mezzo era innalzato un’eminente palco in forma teatrale». L’informazione è tratta da B. Giustinian, Historie cronologiche della vera origine di tutti gl’ordini equestri, e religioni cavalleresche […], Venezia, Combi e LaNoù, 1672, p. 114. Cfr. anche Scocchera, Il programma e l’apparato, cit., p. 376, nn. 42-43. 13. «La Sempeterna, nel celebrar la sua maggior festa, rappresentò in Canal Grande la machina del mondo, nel mezzo del quale cavuo & regalmente addobbato d’oro & di seta, furono 100 electissime gentildonne, le quali ballando al suono di ben cento stromenti musici, erano 48 L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI Vasari era giunto a Venezia dopo essere stato protagonista a Firenze di un attivo iter di apparatore fin dal carnevale del 1534, presso la Compagnia del Vangelista,14 al fianco del Bronzino, e poi, dal 1536, con Bastiano da Sangallo.15 Ed è economico ipotizzare, nel successivo ventennio toscano, alcuni suoi significativi contributi, come architetto-scenografo al fianco di altri artisti, per gli allestimenti teatrali nella sala del Papa, situata nel chiostro grande del convento di Santa Maria Novella, dove si riuniva l’accademia Fiorentina (1544, Il furto di Francesco d’Ambra; 1550, La gelosia di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca). Si aggiunga che l’attività teatrale dell’accademia di Cosimo I de’ Medici era proseguita nel salone dei Cinquecento ancor prima delle ristrutturazioni vasariane (1547-1548, I bernardi di Francesco d’Ambra; 1550, La gioia di Giovanni da Pistoia).16 Oltre all’operato teatrale vasariano restano poco conosciuti gli interventi, nel medesimo salone dei Cinquecento, di figure di spicco come Baldassarre Lanci da Urbino «architettore dell’illustrissimo di Fiorenza» e molto attivo come scenografo negli anni successivi.17 La lacunosa storia di quei decenni, qui tirate dolcemente da palaschermi & altri legni per lo corso dell’acqua» (F. Sansovino, Venetia citta nobilissima et singolare […], Venezia, Farri, 1581, p. 152). L’attribuzione al Minio è ribadita dal già citato Scocchera (rivedi nota precedente) e da L. Padoan Urban, Le feste sull’acqua a Venezia nel sec. XVI e il potere politico, in Il teatro italiano del Rinascimento, a cura di M. de Panizza Lorch, Milano, Edizioni di Comunità, 1980, p. 493. 14. Cfr. A.M. Evangelista, L’attività spettacolare della compagnia di San Giovanni Evangelista nel Cinquecento, «Medioevo e Rinascimento», xviii/n.s. xv, 2004, pp. 299-366: 326-327. La scarsità di studi riguardanti gli scambi culturali sottesi all’attività teatrale dell’aretino è stata rilevata anche da C. Conforti, Vasari architetto, Milano, Electa, 1993, pp. 68-69. La carenza di documentazione grafica teatrale di sicura mano vasariana è stata dibattuta e motivata da G. De Angelis D’Ossat, “Disegno” e “invenzione” nel pensiero e nelle architetture del Vasari, in Il Vasari storiografo e artista. Atti del congresso internazionale nel iv centenario della morte (Arezzo-Firenze, 2-8 settembre 1974), Firenze, Olschki, 1976, pp. 773-784; G. Marchini, Su i disegni d’architettura del Vasari, ivi, pp. 101-108; R. William, Art, Theory and Culture in Sixteenth-Century Italy: from Techne to Metatechne, Cambridge, Cambridge University Press, 1997. 15. Cfr. Il luogo teatrale a Firenze, cit., pp. 82-83, scheda 6.3.1. 16. Cfr. ivi, pp. 83-84, 94-95, schede 6.5.1.-6.5.6., 7.3.-7.5. Sull’uso della sala del Papa v. J. Bryce, The Oral World of the Early Accademia Fiorentina, «Renaissance Studies», 1991, 1, pp. 77-103. Per una sintesi sulle accademie teatrali fiorentine: S. Mazzoni, Lo spettacolo delle accademie, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da R. Alonge e G. Davico Bonino, i. La nascita del teatro moderno. Cinquecento-Seicento, Torino, Einaudi, 2000, pp. 869-904: 880-894 (con bibliografia). 17. Cfr. Il luogo teatrale a Firenze, cit., pp. 100-101, schede 7.15.-7.16.; Zorzi, Il teatro e la città, cit., pp. 210-212. Sull’attività del Lanci nel 1565, per la mascherata della Genealogia degli dei, v. ora A.M. Testaverde, Il ‘Libro delle figure delle maschere’. Note per i ricamatori della ‘Genealogia degli dei’, in La mascherata della ‘Genealogia degli dei’ (Firenze, carnevale 1566). Le ricerche in corso. Atti della giornata di studi (Firenze, 2 dicembre 2011), a cura di L. Degl’Innocenti, E. Martini, L. 49 ANNA MARIA TESTAVERDE rivisitata anche da Sara Mamone,18 è illuminata da uno spettacolo illustrato nel 1552 in un poco noto Dialogo dei Marmi (Lo svegliato) di Anton Francesco Doni, forse organizzato proprio dall’accademia Fiorentina. La minuziosa descrizione di macchine sceniche per intermedi e i soggetti proposti in palcoscenico svelano la qualità tecnologica della scenotecnica fiorentina anteriore alle più note messe in scena vasariane (e buontalentiane): udi’ dire d’una comedia, la quale aveva avuto bellissimi intermedii. Il primo fu che il palco s’alzò e sotto v’apparve una fucina di Vulcano; e al batter dei martelli s’udiva (e non si vedeva altro che gli uomini nudi che l’infocato strale battevano) una mirabil musica, dopo la quale si richiuse il palco. Dicevano ancóra che al secondo atto, essendo la scena sopra un perno che si voltava a poco a poco, che appena s’accorsero le brigate che la si volgesse, vi si vedde un teatro pieno di popoli e nel luogo del palco una battaglia d’alcune barchette in acqua, che facevano stupire in quella gran sala tutti gli udienti. Fu al terzo atto chiusa Venere e Marte sotto la rete con una musica d’amori concertata con variati strumenti ascosti, che l’armonia cavava i cuori dei petti per dolcezza alle persone. Al quarto atto dissero i galanti uomini che s’aperse il cielo e si vidde tutti gli dei a convito splendidissimo e ricco e tanto ornato d’oro, argento, vestimenti, ornamenti e gioie, che pareva impossibile essersi gli uomini imaginati tanta pompa: nel qual convito s’udirono molte sorte di concerti di musiche allegre e divine. Al quinto atto gli dei di cielo, di terra, di selve e di mare, con le ninfe loro, fecero su la scena diverse e mirabili danze.19 Dunque, nel 1565 l’allestimento vasariano nel salone dei Cinquecento avrebbe offerto un’eccellente opportunità di applicazione di soluzioni già collaudate, ma arricchite da sperimentazioni – proposte dal ‘protetto’ del principe Francesco, il Buontalenti – proiettate verso l’alienante spazialità del palcoscenico del teatro degli Uffizi. Si pensi alla sistemazione dei «cieli spezzati» sul palcoscenico (così li avrebbe definiti Nicolò Sabbatini nel suo trattato),20 i buontalentiani «tirari del Cielo», perfezionati per azionare il congegno della macchina-nuvola Riccò, «Studi italiani», xxv, 2013, fasc. 1-2, pp. 63-74. 18. Cfr. pp. 19-21; e v. S. Mamone-A.M. Testaverde, Vincenzio Borghini e gli esordi di una tradizione: le feste fiorentine del 1565 e i prodromi lionesi del 1548, in Fra lo «spedale» e il principe. Vincenzio Borghini. Filologia e invenzione nella Firenze di Cosimo I. Atti del convegno (Firenze, 2122 marzo 2002), a cura di G. Bertoli, R. Drusi, Padova, Il Poligrafo, 2005, pp. 65-77. 19. In Opere di Pietro Aretino e di Anton Francesco Doni, a cura di C. Cordiè, Milano-Napoli, Ricciardi, 1976, to. ii, pp. 705-706. Il testo è commentato in Testaverde, Teorie e pratiche di Giorgio Vasari, cit., p. 67. E v. qui, a pp. 20-21, quanto osserva Sara Mamone. 20. Per la definizione di ‘cielo spezzato’ e le modalità di realizzazione si vedano i capp. 4 (Come si deve fare il cielo della scena) e 37 (Modo di fare il cielo spezzato) in N. Sabbatini, Pratica di fabricar scene e machine ne’ teatri (1638), con aggiunti documenti inediti e disegni originali a cura di E. Povoledo, Roma, Bestetti, 1955, pp. 12-13, 101. 50 L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI a discesa verticale, di memoria quattrocentesca,21 proposta con accrescimenti dimensionali e azzardate manovre ‘a vista’. La notevole mobilità d’azione dei congegni, che richiedeva una solida struttura del palcoscenico, consentì di moltiplicare e rendere ancora più complesse le «uscite di sotto il palco» suscitando l’ironia sprezzante di Giovanbattista Cini nei confronti del neofita Buontalenti: «la calata del Cielo a Bernardo non riesce», con il rischio di effetti di «fantocciaggine».22 Il successivo progetto di teatro di corte, affidato al Buontalenti, dà avvio a una storia che è stata ricostruita, nelle sue complesse varianti, nel contesto del più noto progetto vasariano per la fabbrica degli Uffizi: un’avventura edificatoria contrassegnata da occasioni perdute e da interventi sconosciuti, segnali di scelte progettuali dettate da intenti della committenza ancora non pienamente chiariti. I rilievi e gli studi cartografici eseguiti per il progetto Grandi Uffizi,23 e le interpretazioni sull’attività vasariana dovute a Claudia Conforti, rivelano una edificazione del salone caratterizzata da ignote responsabilità progettuali.24 La trascrizione del Registro de’ 13 magistrati della fabbrica, conservato presso l’Archivio di stato di Firenze, ha confermato la responsabilità di Vasari nel ruolo di «Architectore»25 (il cantiere fu aperto, come puntualmente egli annota nel suo Diario, il 23 marzo 1560),26 ma la complessa e farraginosa struttura buro- 21. Cfr. Testaverde, Informazioni sul teatro vasariano del 1565, cit., p. 92. Per la macchinanuvola e per gli ‘ingegni’ di memoria brunelleschiana impalcati nei festeggiamenti delle confraternite fiorentine: N. Newbigin, Feste d’Oltrarno. Plays in Churches in Fifteenth-Century Florence, Firenze, Olschki, 1996, in partic. i documenti contenuti nel vol. ii, pp. 283-752; Id., Greasing the Wheels of Heaven. Recycling, Innovation and the Question of ‘Brunelleschi’s’ Stage Machinery, «I Tatti Studies. Essays in the Renaissance», iii, 2007, pp. 201-241. Sui rapporti tra le ‘macchine nuvole’ e l’arte coeva cfr. A. Buccheri, The Spectacle of Clouds, 1439-1656. Italian Art and Theatre, Farnham, Ashgate, 2014. 22. La lettera del Cini al Borghini si legge nel Carteggio artistico inedito di D. Vinc. Borghini, raccolto e ordinato da A. Lorenzoni, Firenze, B. Seeber, 1912, p. 46; e v. Testaverde, Informazioni sul teatro vasariano del 1565, cit., p. 93. 23. Cfr. Cantiere Uffizi, a cura di R. Cecchi e A. Paolucci, Roma, Gangemi, 2007. 24. Cfr. almeno, anche per la bibliografia pregressa: C. Conforti, Giorgio Vasari, Milano, Electa, 2010; Vasari, gli Uffizi e il Duca, catalogo della mostra a cura di C. Conforti, F. Funis, F. De Luca (Firenze, 14 giugno-30 ottobre 2011), Firenze, Giunti, 2011. Cfr. inoltre L. Satkowski, Giorgio Vasari Architect and Courtier, Princeton, Princeton University Press, 1993; Giorgio Vasari and the Birth of the Museum, a cura di M. Wellington Gahtan, Farnham, Ashgate, 2014. 25. Deliberazioni e partiti della fabbrica de’ 13 magistrati, a cura di C. Conforti, F. Funis, Roma, Gangemi, 2007, p. 16. 26. «Ricordo come a dì 23 di Marzo […] si cominciò la Fabrica de Magistrati alla Zecha in fiorenza che havevo fatto modello et dal Duca mi fu fatta provisione di scudi centocinquanta» (Il Libro delle Ricordanze di Giorgio Vasari, a cura di A. Del Vita, Arezzo, Casa Vasari, 1927, pp. 83-84). 51 ANNA MARIA TESTAVERDE cratica e i contrasti e le interferenze dei Tredici Provveditori imposero di razionalizzare le responsabilità e i tempi di esecuzione, tanto che già nel giugno 1561, su indicazione dello stesso Vasari, il duca Cosimo nominò un responsabile amministrativo, suo diretto interlocutore, affidandogli il compito di Provveditore generale: il tecnico-ingegnere Bernardo Puccini. Questi, forte di una solida esperienza nei cantieri bellici, aveva lavorato con il celebre ingegnere di corte Giovan Battista Belluzzi detto il Sanmarino, progettista militare, che ebbe un ruolo non secondario nella vittoria fiorentina contro Siena.27 Puccini riorganizzò lo staff operativo del cantiere degli Uffizi, nominando quale «sotto architettore» Dionigi di Matteo Nigetti.28 Il pragmatico sostegno di Puccini alla decisione del principe di economizzare nella realizzazione della grandiosa impresa degli Uffizi fu determinante per la progressiva emarginazione del Vasari nella conduzione del cantiere. E sebbene tra il 1564 e il 1565 l’ormai vecchio architetto fosse riuscito a condurre a termine con successo la costruzione del corridoio di collegamento con il palazzo della Signoria,29 nel 1569 fu estromesso dai lavori esecutivi a causa delle sue perplessità circa la statica del futuro salone per le adunanze delle magistrature allogato sopra la sede dei Nove Conservatori. Un rescritto del 18 luglio di quell’anno conferma che il duca aveva affidato la «commissione» al Vasari: Illustrissimo et Eccellentissimo Signor Principe Giorgio Vasari architetto a questa fabbrica è per commissione (come dice) haveva dal Illustrissimo Padre di quella, ci ha referito come e si facci il salone nuovamente ordinato sopra li Magistrati dalla banda di san Piero Scheraggio, che però si comincino a fare i pilastri che vi vanno, et si faccino lavorare i cavalletti et quelli altri legnami, acciò che si possa di mano in mano andar mettendo in opera secondo che la fabbrica harà la possibilità de i denari.30 27. Cfr. D. Lamberini, Il principe difeso. Vita e opere di Bernardo Puccini, Firenze, Giuntina, 1990; Id., Il Sanmarino: Giovan Battista Belluzzi architetto militare e trattatista del Cinquecento, Firenze, Olschki, 2007. 28. Cfr. Lamberini, Il principe difeso, cit., p. 152. 29. Sulla costruzione del corridoio di collegamento cfr. G. Cataldi, La fabbrica degli Uffizi ed il corridoio vasariano, «Studi e documenti di architettura», 1976, 6, pp. 105-144; Il corridoio vasariano agli Uffizi, a cura di C. Caneva, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana, 2002; F. Funis, Scavalcando il fiume: la costruzione del corridoio vasariano, Firenze 1565, in Architettura e tecnologia: acque, tecniche e cantieri nell’architettura rinascimentale e barocca, a cura di C. Conforti e A. Hopkins, Roma, Nuova Argos, 2002, pp. 58-75; F. Funis, Il corridoio vasariano: idea, progetto e cantiere, in Cantiere Uffizi, cit., pp. 377-391. 30. Archivio di stato di Firenze (d’ora in poi ASF), Magistrato di Nove, f. 3710, c. 173v.; cit. in J. Lessman, Studien zu einer Baumonographie der Uffizien Giorgio Vasaris in Florenz, Bonn, Rheinische Friedrich-Wilhelms Universität, 1975, p. 339, doc. 185. 52 L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI Ma le difficoltà economiche e l’impazienza di procedere in tempi più rapidi causarono la rottura dei rapporti operativi con il principe committente. Vasari, si è accennato, era perplesso circa la stabilità del salone: «il qual considerando alli tanti vani, et aperture che e vi son sotto, dice che quanto a lui pareva (come anco a noi parve) che il dar cottimo fussi pericoloso per molte ragioni che lui allegava», per le «mura grosse di questo salone».31 Un problema già sollevato dall’architetto con l’amico Vincenzo Borghini denunciando che «i cottimi e le scritte fanno rovinar le fabbriche».32 Il 17 agosto 1570 l’architetto aretino fu estromesso dal progetto: «Sua Altezza vuole che si dieno in cottimo a ogni modo, et quando ordina una cosa vuol essere ubbidito», scriveva il segretario Lelio Torelli confermando al duca la disponibilità del Puccini: «Bernardo Puccini nostro collega referì per ordine di Vostra Altezza come la mente sua era che il restante delle mura di questo salone si dessi in cottimo al mancho offerente».33 Dunque, fu proprio il progetto del salone, voluto da Cosimo in accordo con il Vasari e decollato nell’estate 1569, la causa del clamoroso allontanamento del suo progettista; e già l’anno seguente, lo ricorda Vasari stesso, «non si riscosse più» dai Magistrati della Fabbrica.34 Se la data di nascita del futuro teatro degli Uffizi si ancora con certezza all’agosto ’69, è difficile confermare che l’impianto strutturale della sala corrisponda a un progetto originario vasariano. L’affidamento dei lavori all’architetto-ingegnere Puccini (deceduto però nel 1578) potrebbe avere determinato significative modifiche e lavori frettolosi. Comunque sia, resta inattendibile l’ipotesi che sin dagli inizi si pensasse di costruire una sala teatrale all’interno degli Uffizi. Lo provano quei documenti archivistici che continueranno a menzionare il «Salone dove si raguna il Consiglio» suggerendo così, almeno per alcuni anni, la condivisione di tale spazio con le magistrature.35 Se nel 1576 il Residente veneto Andrea Gussoni ricordava l’intenzione principesca 31. ASF, Magistrato di Nove, f. 3710, cc. 178v.-179r. (in Lamberini, Il principe difeso, cit., pp. 244-245). 32. ASF, Carteggio d’artisti, ii, c. 76; cit. in Lessmann, Studien zu einer Baumonographie der Uffizien, cit., p. 333, doc. 170. 33. ASF, Magistrato di Nove, f. 3710, cc. 178v.-179r. (in Lamberini, Il principe difeso, cit., p. 245). 34. Il Libro delle Ricordanze di Giorgio Vasari, cit., p. 101. 35. Manca un’esatta ricostruzione dell’intero complesso architettonico. Prezioso per tale ricostruzione il Ristretto delle bellezze della città di Firenze di Giovanni de’ Bardi (già citato in Zorzi, Il teatro e la città, cit., p. 218 n. 146). Varie sono le copie del testo del Bardi: a Firenze (Biblioteca nazionale centrale, Palatino 917; Biblioteca riccardiana, ms. 2020) e a Siena (Biblioteca comunale degli Intronati, ms. A.vi.42). Il testo è ora edito: Giovanni de’ Bardi e il ‘Ristretto delle bellezze della città di Firenze’ per Cristina di Lorena, a cura di E. Carrara, Pisa, ETS, 2014. 53 ANNA MARIA TESTAVERDE di utilizzare la sala «per rappresentare commedie»,36 nel 1578 il cronista Lapini nel suo Diario ne ribadiva un diversificato uso collettivo.37 Il progetto vasariano del salone, pur condiviso con Cosimo de’ Medici, non conferma quindi l’uso di un’originaria destinazione teatrale stabile: forse l’estromissione dell’architetto dal cantiere, la morte del committente e l’avvicendarsi dei granduchi e dei fidati architetti ‘scrissero’ una storia diversa. Soltanto negli ultimi mesi del 1585 si confermava la trasformazione del «Salone dove si raguna il Consiglio» per «farci una comedia».38 A tal fine si accelerò il completamento delle aperture trabeate della loggia all’ultimo piano dell’edificio,39 si schermarono le invetriate lavorate da otto maestri veneziani e si iniziarono a sistemare «3 chiavistelli con 4 anelli per chiavistello e 3 toppe serviti a 3 finestre in sul corridoio che guardano nel salone».40 L’inaugurazione del teatro, è noto, ebbe luogo il 16 febbraio 1586 con la rappresentazione della perduta commedia L’amico fido, di Giovanni dei Bardi, inserita nel calendario celebrativo delle nozze di Virginia dei Medici con Cesare d’Este. Sebbene la descrizione di Bastiano De’ Rossi41 non registri la presenza di Giovan Battista Guarini è assai probabile che l’amico Bardi avesse già previsto l’inserimento di tre guariniani cori in versi per gli intermedi che non sembrano tuttavia essere stati eseguiti.42 Una preferenza verso il Pastor fido d’altra parte sarebbe stata ribadita nel 158943 36. «Al palazzo di Piazza dove abita [il granduca] fa una giunta di più di cinquanta stanze con una sala per rappresentare commedie, il pavimento della quale sarà più alto da un lato che da un altro acciocché non sia impedita la veduta a quelli che sono di dietro» (cit. in Zorzi, Il teatro e la città, cit., p. 107). 37. «A dì 29 di detto aprile, in martedì mattina a ore 13 ½ si cantò una Messa figurata nella sala grande nuova sopra li Magistrati; e finita si dette principio a nuovo squittinio» (Diario fiorentino di Agostino Lapini dal 252 al 1596, ora per la prima volta pubblicato da Gius. Odoardo Corazzini, Firenze, Sansoni, 1900, p. 199). 38. ASF, Guardaroba medicea, f. 114, c. 48d. 39. Cfr. Verso i nuovi Uffizi: progetti e realizzazioni recenti, catalogo della mostra a cura di M.A. Lolli Ghetti, A. Paolucci (Firenze, 12-19 aprile 1999), Firenze, Giunti, 1999, p. 14. 40. ASF, Guardaroba medicea, f. 114, c. 48d. 41. B. de’ Rossi, Descrizione del magnificentissimo apparato e de’ maravigliosi intermedi fatti per la commedia rappresentata in Firenze nelle felicissime nozze degl’illustrissimi, ed eccellentissimi signori il signor don Cesare d’Este, e la signora donna Virginia Medici, Firenze, Marescotti, 1586. 42. Cfr. V. Rossi, Battista Guarini ed il ‘Pastor fido’. Studio biografico-critico con documenti inediti, Torino, Loescher, 1886, p. 79. D’altra parte questi inserti guariniani sono registrati in uno schema progettuale delle feste fiorentine conservato a Venezia presso il museo Correr (fondo Cicogna 537). L’importanza del codice è già stata sottolineata da Mazzoni, L’Olimpico di Vicenza, cit., p. 79 nota 41. 43. Nel febbraio del 1588 Luca Cortile, in una lettera indirizzata al duca Alfonso II d’Este in Ferrara, ricorda che «Giovedì mattina mentre andavamo alla messa in occhio, Sua Altezza [Alfonso II d’Este] entrò in ragionamento di far recitare la comedia e mostrò di havere animo che si recitasse la Pastorale del Cavaliere Guarino, la quale mi disse che sperava di havere» 54 L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI quando, dopo ripetute e illusorie speranze, la scelta finale privilegiò invece il recupero di un testo (La Pellegrina di Girolamo Bargagli) con frettolose e opportune giunte encomiastiche.44 E giova ricordare lo strategico contributo del Guarini alla rappresentazione inaugurale dell’Olimpico di Vicenza.45 Nonostante la mancanza di documenti iconografici, la prolissità descrittiva del De’ Rossi testimonia la trasformazione del salone «a forma di Teatro, con sei gradi, che la circondavano intorno intorno».46 In questa prima versione, simile a «un giardino de’ più vaghi», il Buontalenti avrebbe dato vita all’atmosfera di un anfiteatro classico. Il confronto con l’anfiteatro classico torna anche nelle pagine che descrivono la nuova struttura commissionata per le nozze del 1589 tra il granduca Ferdinando I e Cristina di Lorena. Nel 1600 Michelangelo Buonarroti il Giovane specifica che «la forma di essa [cavea] nell’opposta faccia alla scena»47 era «in guisa di mezzo ovato» e nel 1608 la struttura era «a somiglianza del circo de’ Romani con gradi attorno».48 Le due versioni del teatro di corte degli Uffizi, pur presupponendo una commistione tra l’idea di ‘teatro classico’ e la romanza sala d’apparato, erano dunque state previste dalla committenza non nella residenza privata dei principi, ma in un edificio che poneva sotto il diretto controllo granducale le strutture economiche e amministrative dello stato. La posizione urbanistica strategica e la necessità di mantenere in loco i memorabili e complessi congegni scenici motivarono poi la stabilità di uso teatrale del grande vano, sempre più spesso definito «Salone della Commedia Grande». Il modello progettato da Zorzi nel 1975 è restato a lungo un punto di riferimento ineludibile (fig. 2). I dubbi dello studioso circa la struttura del palcosceni- (Archivio di stato di Modena [d’ora in avanti ASMO], Ambasciatori, Firenze, Luca Cortile, b. 28). Questa e altre lettere sono parzialmente trascritte e commentate in I. Fenlon, Preparations for a Princess: Florence 1588-89, in In cantu et in sermone. For Nino Pirrotta on his 80th birthday, a cura di F. Della Seta-F. Piperno, Firenze, Olschki, 1989, pp. 259-281. Si vedano anche le missive del Guarini indirizzate all’amico Bardi in Lettere del signor cavaliere Battista Guarini nobile ferrarese. Di nuovo in questa seconda impressione di alcune altre accresciute e dall’autore stesso corrette, Venezia, Ciotti, 1594, pp. 74-77. Sul Pastor fido basti qui rinviare a L. Riccò, «Ben mille pastorali». L’itinerario dell’Ingegneri da Tasso a Guarini e oltre, Roma, Bulzoni, 2004, passim. 44. Cfr. A.M. Testaverde, La scrittura scenica infinita: ‘La Pellegrina’ di Girolamo Bargagli, in Drammaturgia a più mani, «Drammaturgia», i, 1994, 1, pp. 23-38. 45. Cfr. Mazzoni, L’Olimpico di Vicenza, cit., passim. 46. De’ Rossi, Descrizione, cit., p. 2. 47. M. Buonarroti Jr, Descrizione delle felicissime nozze della cristianissima maestà di madama Maria Medici regina di Francia e di Navarra, Firenze, Marescotti, 1600, p. 22. 48. C. Rinuccini, Descrizione delle feste fatte nelle reali nozze de’ serenissimi principi di Toscana don Cosimo de’ Medici, e Maria Maddalena arciduchessa d’Austria, Firenze, Giunti, 1608, p. 33. 55 ANNA MARIA TESTAVERDE co (lasciato intenzionalmente neutro e privo di scenografie) e sull’impianto del vano rimasero irrisolti e tuttavia in seguito l’ipotesi di ricostruzione zorziana fu spesso pedissequamente ribadita.49 Altrettanto indiscussa rimase l’autorialità del Buontalenti, senza addurre gli opportuni confronti con le esperienze tentate sui palcoscenici di Ferrara, Mantova, Urbino e Bologna.50 E sono ancora insufficienti le riflessioni storiografiche sugli apporti in scena della contemporanea ingegneria meccanica e bellica,51 e certo non giova il silenzio della documentazione giustificato da quella segretezza ideologico-politica che ha sempre circondato i progressi tecnici. Le incertezze di Ludovico Zorzi cercavano chiarimenti, in quegli anni ormai lontani, nelle copiose informazioni contenute nel Memoriale di Girolamo Seriacopi, provveditore del Castello di Firenze e principale estensore di un inedito brogliaccio di lavoro dei ‘manufattori’ poi edito nel 1991.52 Il Memo49. Alludo specialmente all’erronea ricostruzione proposta da James M. Saslow nel suo pur premiato volume The Medici Wedding 1589: Florentine Festival as Theatrum Mundi, New HavenLondon, Yale University Press, 1996, pp. 78-83. Lo studioso propone un palcoscenico a coulisses, ignorando sia le ipotesi formulate dalla scrivente (1991) che i documenti iconografici scoperti da A.R. Blumenthal, Giulio Parigi’s Stage Designs: Florence and the Early Baroque Spectacle, New York-London, Garland, 1986, pp. 129-130. Gli inediti disegni, che consentivano di formulare ipotesi ben diverse, da me condivise, sono ora analizzati in A.M. Testaverde, Michelangelo Buonarroti il Giovane e le didascalie sceniche per il ‘Giudizio di Paride’, in Studi di storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone, a cura di S. Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 166-179 e figg. 1, 3. Le due diverse ipotesi di ricostruzione del teatro degli Uffizi sono opportunamente registrate in S. Mazzoni, Atlante iconografico. Spazi e forme dello spettacolo in occidente dal mondo antico a Wagner (2003), Corazzano (Pisa), Titivillus, 20084, tavv. 162 e 165. 50. Si veda ad esempio il bel saggio di L. Vallieri, Prospero Fontana pittore-scenografo a Bologna (1543), «Drammaturgia», xi / n.s. 1, 2014, pp. 347-369, che conferma la necessità di focalizzare gli studi su esperienze precedenti, in una fitta rete di sempre aggiornate relazioni. 51. Come ha sottolineato, tra gli altri, G. Adami, Scenografia e scenotecnica barocca tra Ferrara e Parma (1625-1631), Roma, L’Erma di Bretschneider, 2003, pp. 25-38. Ma per una riflessione filologica circa l’architettura militare e la scenotecnica buontalentiana v. C. Bino, L'ordine meccanico. Tecnica e sapienza nel teatro degli Uffizi di Bernardo Buontalenti, tesi di dottorato in Storia dello spettacolo, Università degli studi di Firenze, xiii ciclo, 2000, tutor: Sara Mamone e Stefano Mazzoni. Alla studiosa si deve inoltre una ipotesi di ricostruzione del teatro degli Uffizi del 1589, ispezionabile anche su YouTube (https://www.youtube. com/watch?v=exsIHLxaeqg), che non si discosta dall’impostazione del modello progettato da Zorzi. 52. Il registro fu scoperto da A. Warburg, I costumi teatrali per gli intermezzi del 1589: i disegni di Bernardo Buontalenti e il ‘Libro di conti’ di Emilio de’ Cavalieri. Saggio storico-artistico, «Atti dell’accademia del r. Istituto musicale di Firenze», xxiii, 1895, pp. 103-146. Lo studio sistematico di tale fonte fu poi avviato, sotto la guida di Ludovico Zorzi, da F. Berti, Studi su alcuni aspetti del diario inedito di Girolamo Seriacopi e sui disegni buontalentiani per i costumi del 1589, in Il teatro dei Medici, a cura di L. Z., «Quaderni di teatro», ii, 1980, 7, pp. 157-168; Id., I bozzetti per i costumi, in La scena del principe, catalogo della mostra a cura di E. Garbero, A.M. Petrioli Tofani, L. 56 L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI riale ha consentito di seguire in itinere le fasi costruttive della seconda versione del teatro di corte e di proporre una nuova ipotesi di ricostruzione (fig. 3): una proposta critica che cercava di risolvere le incongruenze dovute spesso alla mancanza di documentazione e a una eccessiva fiducia nelle descrizioni dei relatori ufficiali, non di rado in contrasto con le osservazioni dei cronistispettatori presenti. Di più. Le decisioni del granduca Ferdinando I dei Medici aprono nuovi orizzonti di ricerca sulla ‘veridicità’ dell’evento dell’89 e sulle sue scelte personali originarie che, se realizzate, avrebbero scritto una differente storia dello spettacolo fiorentino. Nel febbraio 1588 Ercole Cortile, ambasciatore estense a Firenze dal 1575, in una lettera ad Alfonso II d’Este, confidava al suo signore la volontà di Ferdinando di inviare presso la corte di Urbino il fidato Giovanni dei Bardi «a vedere quella [commedia] che si reciterà presto là, per veder la maniera del recitare, sì anco l’apparato», per ricavarne eventuali modelli: Si dice che il Gran Duca pensa a maritarsi presto, et si è data commissione di metter all’ordine una commedia, come dicono qui Regia, et il Signor Giovanni da Vernia anderà per odine del Gran Duca a Urbino a vedere quella che si reciterà presto là, per veder la maniera del recitare, sì anco l’apparato, et il Fortuna che negozia qui quando occorre per il Signor Duca d’Urbino disse che esso il signor Giovanni ha dato conto di questa sua gita, et non sa con che garbo vi voglia andare, non avendo servitù col Signor Duca, et manco amicizia di que’ paesi, et parerà strano che vada di là di questa maniera […] ha detto a me esso Signor Giovanni che l’apparato ha da essere il più superbo che si sia fatto mai in nessuna parte, et che si starà al manco otto mesi a metterlo in ordine.53 Gli esiti di quella ‘missione’ restano ancora poco noti e non sappiamo a quale modello urbinate il granduca intendesse fare riferimento.54 La volontà di realizzare nell’arco di «otto mesi» un nuovo teatro di corte, con «il più superbo apparato che si sia fatto mai in nessuna parte», accelerò lo smontamento dell’arZorzi [ordinatore] (Firenze, 1980), Firenze, Edizioni medicee, 1980, pp. 361-363. Infine, il registro fu trascritto integralmente in Testaverde, L’officina delle nuvole, cit., pp. 176-249. 53. ASMO, Ambasciatori, Firenze, Ercole Cortile, b. 28 (lettera del 28 febbraio 1588, cit. in Fenlon, Preparations for a Princess, cit., p. 266 n. 16). 54. Cfr. Bino, L'ordine meccanico, cit., p. 77. Sull’attività teatrale alla corte urbinate, rinvio a F. Piperno, L’immagine del duca. Musica e spettacolo alla corte di Guidobaldo II duca d’Urbino, Firenze, Olschki, 2001; Id., Spettacoli a Pesaro nel 1621 per nozze Medici-Della Rovere: sulla autonomia progettuale di una corte periferica, in «Lo stupor dell’invenzione». Firenze e la nascita dell’opera. Atti del convegno internazionale di studi (Firenze, 5-6 ottobre 2000), a cura di P. Gargiulo, Firenze, Olschki, 2001, pp. 87-103; P. Davidson, The Theatrum for the Entry of Claudia de’ Medici and Federigo Ubaldo della Rovere into Urbino, 1621, in Court Festivals of the European Renaissance: Art, Politics and Performance, a cura di R. Mulryne, Aldershot, Ashgate, 2002, pp. 311-334. 57 ANNA MARIA TESTAVERDE redo buontalentiano della prima versione del teatro degli Uffizi. La vendita dei materiali venne affidata alla Guardaroba granducale, in occasione dei festeggiamenti per le feste patronali di san Giovanni.55 In quei mesi il Cortile riferiva che il granduca «pensava di voler mutare parecchie volte la prospettiva di scena». Ciò avrebbe imposto anzitutto il perfezionamento del palcoscenico e Ferdinando non era convinto di affidare il lavoro al ‘mitico’ Buontalenti, avendo a sua disposizione un altro abile architetto, l’urbinate Francesco Paciotto.56 Due artisti rivali: [il granduca] pensava di voler mutare parecchie volte la prospettiva di scena; et anco l’apparato della sala, et che le succederebbe facilmente poiché aveva il Pacchiotto et Bernardo delle Girandole, che fanno a gara a chi può far meglio, et che chi voleva esser ben servito in simil cose, bisognava haver uomini che s’invidiassero l’un l’altro; perché ciascuno procura di far conoscere più il suo valore; ma il Pacchiotto è il principale et si mostra che nelle cose di Bernardo vi sono molti errori, come nella fabbrica di Livorno.57 Il Paciotto, allievo di Girolamo Genga, già al servizio di Cosimo I e di Ferdinando I come esperto tecnico-militare per Livorno, fu a Firenze fino all’aprile 1589, allontanandosi poco dopo alla volta di Mantova.58 Appartenente a una famiglia al servizio dei Della Rovere (Felice Paciotto, il segretario di Guidobaldo, fu un attivo drammaturgo di corte), Francesco vantava esperienze scenotecniche di alta qualità. Sebbene un suo intervento diretto nell’allestimento fiorentino del 1589 non sia attestato, il Medici ne apprezzava il talento, la fama e le esperienze tecniche esperite alla corte urbinate. Le sue competenze scenotecniche e la sua probabile consulenza meriterebbero ulteriori indagini, anche per ritessere quell’ipotetico filo conduttore dei rapporti tra ‘tecnici della scena’ che avrebbe poi portato alla pubblicazione del trattato di Nicolò Sabbatini. Si ponga mente, ad esempio, a eloquente riscontro, al progetto (fig. 4), riferito al teatro del Sole allestito nel salone della corte di Pesaro, forse per le nozze del 1621 tra Ubaldo della Rovere e Claudia dei Medici, assegnato variabilmente alla mano del Sabbatini o a quella dell’Aleotti. Il riferimento all’exemplum fiorentino è ormai ampiamente condiviso dagli studiosi di quel 55. Per il riuso dell’arredo del teatro nei festeggiamenti del 1588 si veda la Lettera all’illustrissimo eccellentissimo signor don Pietro Medici di Valerio Ruggieri sopra la festa fatta dal duca di Carroccio nella festività di San Giovambatista, Firenze 1588. 56. Sul personaggio: N. Ragni, Francesco Paciotti, architetto urbinate (1521-1591), Urbino, Accademia Raffaello, 2001; A. Coppa, Francesco Paciotto architetto militare, Milano, Unicopli, 2002. 57. Lettera di Ercole Cortile al duca Alfonso II d’Este, Firenze, 25 giugno 1588 (ASMO, Ambasciatori, Firenze, Luca Cortile, b. 28, cit. in Fenlon, Preparations for a Princess, cit., p. 270 n. 29). 58. Cfr. Coppa, Francesco Paciotto architetto, cit., p. 103. 58 L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI teatro i quali rinviano «alle soluzioni del Buontalenti per la sala medicea degli Uffizi», soprattutto per l’andamento curvilineo dell’apparato.59 La decisione di assegnare all’esperto Buontalenti la nuova versione del teatro degli Uffizi risultò vincente. Le modalità dei suoi interventi per il nuovo arredo del salone e soprattutto l’organizzazione tecnico-macchinistica, pensata per un più ampio palcoscenico, permisero di realizzare una struttura per l’udienza più ridotta, a vantaggio della spazialità della scena. Lo prova il Memoriale del Seriacopi. La soluzione storiografica di talune incongruenze presupponeva una partizione del teatro in tre sezioni (andito-foyer; cavea con gradoni; palcoscenico), ma richiedeva soprattutto un ulteriore studio architettonico degli ambienti circostanti il salone. Per quanto riguarda l’impianto semiellittico della cavea e l’incerta collocazione dell’andito con soprastante balcone, è stato proficuo comparare il progetto con una ‘idea’ di teatro formulata nel 1598 da Giorgio Vasari il Giovane (fig. 5), un cortigiano che molto aveva meditato sui manoscritti e sui disegni del Puccini.60 Il foglio propone un originale impianto ottagonale pensato, come specifica l’architetto, «imitando gli Antichi» e «facendo la presente pianta d’un gran Salone, o vero stanzon» per recitarvi «commedie, tragedie […] poi che anche le giostre e simili tornei cavallereschi si possono fare».61 L’ipotesi vasariana (solo proposta o effettivamente realizzata?) è una reinterpretazione dell’idea di anfiteatro ‘degli Antichi’ inscritta nel vano rettangolare di un salone. Per il lato di accesso al teatro, Vasari jr proponeva sul lato breve del vano il congiungimento delle due ali laterali della cavea mediante una struttura balconata sopraelevata («un ricetto») riservata al pubblico maschile: «haviamo fatto due scale acciò gli uomini possono salire, e scendere, senza impedire le donne, e per non fare confusione si sono fatti i gradi attorno anco per loro».62 Tale soluzione fa meglio comprendere l’ubicazione di quel «balcone de’ più degni» situato sopra il portale di accesso al teatro degli Uffizi e destinato nel 1589 ai musici. Già nel 1600 (per le nozze di Maria dei Medici) il balcone-palco ospitava i più impor- 59. Cfr. F. Mariano, Lo spazio del teatro nelle Marche, in Il teatro nelle Marche: architettura, scenografia e spettacolo, a cura di F. M. Scritti di F. Battistelli, F. M., A. Pellegrino, Jesi-Fiesole, Banca delle Marche-Nardini, 1997, p. 64. La pianta è stata poi ampiamente discussa in Adami, Scenografia e scenotecnica barocca, cit., pp. 74-75. 60. Cfr. Testaverde, L’officina delle nuvole, cit., p. 87. Per un ‘medaglione’ dell’architetto: L. Olivato, Profilo di Giorgio Vasari il Giovane, «Rivista dell’Istituto nazionale d’archeologia e storia dell’arte», n.s., xvii, 1970, pp. 181-229. 61. G. Vasari il Giovane, La città ideale. Piante di chiese (palazzi e ville) di Toscana e d’Italia, a cura di V. Stefanelli, introd. di F. Borsi, Roma, Officina, 1970, pp. 153-154. 62. Ivi, p. 154. 59 ANNA MARIA TESTAVERDE tanti dignitari, la Regina Madre e alcuni ambasciatori «steteno in su un palcho sopra la porta della detta sala»).63 Nella medesima occasione, ma in posizione distanziata, al piano alto della galleria, assistevano allo spettacolo il Nunzio apostolico con altri ambasciatori residenti affacciati «alle finestre della Galleria».64 La chiusura di questo «balcone», trasformato poi in palco segreto chiuso da una grata, potrebbe essere stata realizzata nel 1610 quando la Guardaroba saldò la fattura di «una gelosia fatta nel Salone della Comedia dove ha a stare el Gran Duca a sentire la commedia; è de albero con la sua guancia e fondo trafforato, el suo sportello tessuto di regoli e accomodata e confitta dove ha stare».65 Il palco segreto viene nuovamente descritto in uno degli ultimi spettacoli allestiti negli anni prossimi alla chiusura del teatro quando, nel 1624, per la Rappresentazione di Sant’Orsola, il relatore precisa la dislocazione del pubblico: Madama S.a con la Principessa di Urbino con le sue filliuole et dame era a vedere sopra la porta di detta sala in luogo incognito e non visibile da nessuno; et il Cardinale de’ Medici con il Cardinal Capponi erono a una finestra della galleria con lo strato rosso a vedere, et l’ambasciatore di Modena et di Lucca et quel di Venezia stettono all’altre finestre a vedere.66 La distribuzione degli spettatori chiarisce definitivamente la sinora fraintesa organizzazione spaziale del teatro: nel secondo piano degli Uffizi, in galleria, si aprivano tre finestre (prototipi dei futuri palchetti del ‘teatro all’italiana’) riservate a una parte degli ospiti illustri, mentre in ‘platea’, al centro della curvatura della cavea, era allogato una sorta di ‘palco reale’, soprastante l’accesso al salone, raggiungibile da scale interne ancora visibili nelle primissime piante degli Uffizi (secolo XVIII). E non sarà inutile pensare al teatro Farnese di Parma. Tale assetto è ora confermato da una inedita preziosa pianta (fig. 6) conservata presso l’Archivio di stato di Modena tra le carte che descrivono una topica diatriba circa le ‘precedenze’ e le dislocazioni gerarchiche dei diplomatici invitati alla citata rappresentazione teatrale del 1624.67 Il disegno, seconda testimonianza iconografica dopo quella di Callot (fig. 7), accompagna un gruppo di lettere: 63. Così il diarista Tinghi (cito da A. Solerti, Musica, ballo e drammatica alla corte medicea dal 1600 al 1637. Notizie tratte da un ‘Diario’ con appendice di testi inediti e rari, Firenze 1905; rist. anast. Bologna, Forni, 1969, p. 26). 64. Ibid. 65. ASF, Guardaroba medicea, f. 308, ins. 2, c. 160r. 66. Così ancora il Tinghi (in Solerti, Musica, ballo e drammatica alla corte medicea, cit., pp. 174-175). 67. Spetta alla musicologa K. Harness (Echoes of Women’s Voices: Music, Art, and Female Patronage in Early Modern Florence, Chicago, University of Chicago Press, 2006, p. 15) il reperimento del documento, ma la studiosa non ne ha colto né l’importanza né la preziosa unicità. 60 L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI Adì 7 ottobre 1624 Il Signor Conte Cesare Molza ambasciatore di Modona in Firenze fu invitato dal Gran Duca per una […] del Signor Filippo Nicolini […]. Per il quale invito andò l’ambasciatore e fu accompagnato dal Signor Cavalier Staffa cameriero del Gran Duca, ritrovandovisi nel medesimo tempo li Signori ambasciatori lucchesi ordinario e straordinario, che tolto in mezo l’ambasciatore di Modona se n’andarono in galeria, dove dal signor Cavalier Staffa fu applicata la terza finestra che guarda nel teatro al signor ambasciatore di Modona con quelli di Lucca. Allora il Signor ambasciatore di Modona domandò al Signor Staffa per chi dovevano servire le altre due finestre, rispose la prima per li signori Cardinali Medici e Capponi e la seconda per Monsignor Nuncio, e con lui il residente di Venezia.68 Il segretario mediceo Curzio Picchena ribadiva la forza della tradizione nella sistemazione di invitati e pubblico: Sappia dunque Vostra Altezza che quando si fanno feste nella sala grande, si sogliono assegnare due finestre, che rispondono nella Galleria, una al Nuncio e l’altra alli due ambasciatori per servirsene a loro piacimento e lasciarvi accostare chi a loro piacesse. Il Nuncio per non star quivi solo ha menato seco talvolta qualche personaggio forestiero o un frate o un amico, sì come questa volta vi invitò il residente di Venezia, senza che loro Altezze se ne siano impacciate punto. Quello non è luogo pubblico, anche le finestre restano tanto alte che dal piano della sala difficilmente si scorgono quelli che vi sono, onde si può dire che veggono e non sono veduti.69 In prossimità dello spettacolo furono nuovamente mutati ordine e precedenze: ottobre 1624 Serenissimo padrone colendissimo Intesi poi che a Palazzo vi era ordine di dare nella sala della rappresentatione all’ambasciatrice mia con carega di veluto il primo luogo e così l’esortai andarsene, com’ella fece qual fu conforme l’intentione trattata […]. Aggiungo per qualificata consideratione che il signor Nuncio non si trovò mai nel tempo che si fece la rapresentatione col residente a quelle finestre, ma se ne stato sempre con li cardinali, restando solo il residente a quella finestra e produsse causa che il popolo considerò assai questa novità.70 L’affinità della sconosciuta pianta modenese del teatro degli Uffizi con una cavea di forma poligonale (fig. 6) – assai simile al disegno-progetto del nipote del Vasari (fig. 5) a suo tempo messo a opportuno confronto con l’incisione del Callot (fig. 7) – sollecita nuove ipotesi ricostruttive. Al nuovo impianto 68. ASMO, Ambasciatori, Firenze, Cesare Molza, b. 53, ins. 18, cc. 35r.-v. 69. Ivi, c. 36r. 70. Ivi, c. 42r. 61 ANNA MARIA TESTAVERDE della sala e alla sua accertata partizione sarà aggiunta la ricostruzione dell’assetto ‘misto’ del palcoscenico ancora organizzato con il sistema dei periaktoi, ma con binari scorrevoli nel fondale.71 L’organizzazione delle scene ruotanti, già studiata su disegni di Michelangelo Buonarroti il Giovane per l’allestimento de Il giudizio di Paride del 1608,72 risponde poi ai modelli registrati nelle pagine trattatistiche dell’architetto tedesco Joseph Furttenbach.73 In quello scorcio di Seicento la cinquantennale storia del teatro degli Uffizi stava ormai divenendo, a livello europeo, un modello tecnico ‘museale’ visitato dagli ospiti cittadini;74 un exemplum da descrivere su pagina, certo, ma tecnologicamente superato dalle sperimentazioni di architetti non direttamente allievi del Buontalenti. La ‘cristallizzazione’ del sistema macchinistico, divenuto ormai tecnologicamente obsoleto ed economicamente inaccettabile, ne decretò il saltuario utilizzo e quindi un inevitabile disuso. In prossimità dell’ennesimo evento spettacolare nuziale mediceo (1637, nozze di Ferdinando II con Vittoria della Rovere) l’allestimento delle Nozze degli dei fu trasferito nel cortile della residenza dinastica di palazzo Pitti. La scelta venne allora imputata alla gran calura estiva e alla pessima acustica dell’ormai desueto teatro degli Uffizi.75 L’ordine di smontare completamente il fastoso teatro di corte giunse il 10 dicembre 1636 quando il segretario Benedetto Guerrini ne dette incarico al marchese di Sant’Agnolo del Castello di Firenze: «Il Serenissimo Padrone ha comandato che io dica a V.S. Ill.ma che faccia disfare la sciena della Comedia che sta nel salone Reale et con q.sto la reverischo, De’ Pitti, lì x di dicembre 1636».76 Il 14 dicembre si motivava lo smantellamento e la necessità di recuperare i materiali ancora utilizzabili per l’apparato nel cortile di Pitti: Ill.mo Sig.re P.ne ill.mo Il Serenissimo Gran Duca ha comandato che io scriva a V.S.A. Ill.ma che dia ordine dalla Fortezza sia somministrato tutto quello faccia di bisogno per servitio della nuova festa da farsi nel cortile, secondo di mano in mano domanderà l’ingegniere Parigi non solo di legnami, ferramenti et altro ma delle maestranze ancora et che tutto fassi con ogni vantaggio facendo pagare dal Camarlengo delle Fortezze il danaro che an- 71. Cfr. Testaverde, L’officina delle nuvole, cit., pp. 98-101. 72. Cfr. Testaverde, Michelangelo Buonarroti il Giovane e le didascalie sceniche per il ‘Giudizio di Paride’, cit., figg. 1 e 3. 73. Cfr. ancora Testaverde, L’officina delle nuvole, cit., passim (e v. qui il saggio di Sara Mamone). 74. Cfr. ivi, p. 151. 75. Cfr. ivi, p. 152. Le motivazioni sono riferite nella relazione ufficiale, per la quale si veda: [F. de’ Bardi], Descrizione delle feste fatte in Firenze per le reali nozze de serenissimi sposi Ferdinando II gran duca di Toscana, e Vittoria principessa d’Urbino, Firenze, Zanobi Pignoni, 1637, p. 24. 76. ASF, Fabbriche medicee, f. 127, c. 209r. 62 L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI derà bisognando e che i ferramenti e legnami della scena vecchia che si disfa, si salvino tutti i buoni per uso della presente festa et si tenga conto a chi si consegnano e tutto fassi conforme al solito dell’altra volta che si è fatto simil festa e la reverisco. De’ Pitti, lì 14 dicembre 1636 Di V.A. Ill.mo Devotissimo e Obbligatissimo Benedetto Guerrini -Il Provveditore Generale delle fortezze eseguisca quanto vi vien comandato da S.A.S. in virtù di questo biglietto. Data in Firenze li 15 dicembre 1636. Gio. Medici Generale.77 Si chiudeva così, nel dicembre 1636, una memorabile esperienza scenotecnica, lasciando in disuso l’antico salone fino alla sua trasformazione ottocentesca in area politica e museale.78 La residenza di Pitti apriva nuovi scenografici luoghi teatrali per gli ospiti più illustri e riservava al pubblico familiare e d’invitati le sale interne della maestosa Versailles fiorentina. Appendice ASMO, Ambasciatori, Firenze, Cesare Molza, b. 53, ins. 18. c. 43r. Disegno della pianta del teatro degli Uffizi A scena B scenetta per li signori deputati alla sopraintendenza alla representatione C banchi per il popollo D gradi pieni di dame E gradi pieni di gentilomini F Arciduchessa G Arciduca H ambasciatore dell’Imperatore I don Louis Bracco ambasciatore cattolico L Gran Duca M ambasciatore di Spagna N principe don Lorenzo O principessa Margaritta P principessa Anna 77. Ivi, c. 209v. 78. Cfr. R. Mangione, Documenti sul riuso del teatro Mediceo degli Uffizi (1740-1848), «Annali del dipartimento di storia delle arti e dello spettacolo» della Università di Firenze, n.s., x, 2009, pp. 187-245. Il saggio rielabora un importante lavoro compiuto, in ambito di tesi, presso l’Università di Firenze, sotto la guida del relatore, il prof. Stefano Mazzoni. 63 ANNA MARIA TESTAVERDE Q principe Gio Carlo R principe Francesco S principe Mattias T principe Leopoldo V ambasciatore di Modena X ambasciatori di Lucca, moglie dell’ambasciatore vecchio 1 donna Isabetta d’Instain prima dama dell’arciduchessa 2 signora Niccollina 3 signora marchesa Virginia Malaspina 4 sig.ra...... 5 s.ra..... ∩ signor card. Medici ∩ signor card. Capponi Nuntio Residente di Venezia Ambasciatore straordinario di Lucca Ambasciatore di Modena Ambasciatore ordinario di Lucca Cancelli dentro quali stava la Gran Duchessa con la principessa d’Urbino. c. 54v. La domenica doppo desinare si stette discorrendo aspettandosi l’ora della rapresentatione che si principiò all’Ave Maria. Nel qual teatro erano accomodati su gradi divisi con tavole [dallo] oltre da ducento cinquanta dame, la metà per parte contigue alla scena, poi i rimanente de’ gradi pieni di gentiluomini, la maggior parte forestieri, per mezzo su le banche de gentiluomini mariti di quelle dame, poi altri della città, ma con spatio che stessero larghi senza tomulto. L’arciduchessa con tutti i Principi et dame di palazzo stavano inanzi della scena su careghe per l’ordine infrascritto. Serenissima signora Arciduchessa Serenissimo signor Arciduca Serenissimo Gran Duca Eccellentissimo principe Savelli ambasciatore cesareo Eccellentissimo duca di Pastrana ambasciatore cattolico Eccellentissimo don Louis Bravo ambasciatore cattolico all’Arciduca Eccellentissimo signor Principe Lorenzo c. 55r. Tutti i soprascritti sedevano per ordine del pari in careghe di valuto cremisino. Innanzi di quelli sedevano del pari in seggiole più basse assai Eccellentissima signora principessa Margarita Eccellentissima signora principessa Anna figliuole della serenissima Arciduchessa Eccellentissimo signor principe Gio Carlo 64 L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI Eccellentissimo signor principe Francesco Eccellentissimo signor principe Mattias Eccellentissimo signor principe Leopoldo figliuoli della serenissima Arciduchessa Ambasciatore di Modona Ambasciatore di Lucca Duchessa di Vernich, restò vuoto questo luogo perché non vi venne Marchesa Virginia Malaspina Donna Isabetta De Stain dama maggiore della Serenissima Signora Signora Signora Alle finestre della galleria stavano vedendo la rapresentatione li signor cardinali Capponi et Medici et signor Nuntio, ambasciatore di Modena et di Lucca ordinario et straordinario et residente di Venetia. Madama la Gran Duchessa stava nascosta in certi canzelli dirimpetto alla scena, avendo con lei la signora Principessa d’Urbino. Questa festa parve a’ principe e dame et a tutti li ispettatori troppo breve per la vaghezza sua e per l’esquisita qualità de’ musici, quale terminò doppo le tre ore di notte con universale applauso. 65 ANNA MARIA TESTAVERDE Fig. 1. Ipotesi di ricostruzione dell’apparato teatrale realizzato da Giorgio Vasari nel 1565 nel salone dei Cinquecento in palazzo Vecchio a Firenze (Ludovico Zorzi-Cesare Lisi 1975. Provincia di Firenze). 66 L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI Fig. 2. Ipotesi di ricostruzione del fiorentino teatro Mediceo degli Uffizi con l’apparato buontalentiano del 1589: veduta della sala (Ludovico Zorzi-Cesare Lisi 1975. Provincia di Firenze). Fig. 3. Ipotesi di ricostruzione in pianta del teatro Mediceo degli Uffizi, versione 1589 (Annamaria Testaverde-Saverio Balli 1990. Da Testaverde 1991, p. 28, fig. 7). 67 ANNA MARIA TESTAVERDE Fig. 4. Nicolò Sabbatini (?), Teatro del Sole: sala temporanea allestita nel 1621 nel salone di corte di Pesaro, disegno (Pesaro, Biblioteca oliveriana, ms. 387, vol. x, c. 173). Fig. 5. Giorgio Vasari il Giovane, Pianta di stanzone, 1598, disegno (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 4576 A). 68 L’AVVENTURA DEL TEATRO GRANDUCALE DEGLI UFFIZI Fig. 6. Pianta del teatro degli Uffizi di Firenze, 1624, disegno (Modena, Archivio di stato, Ambasciatori, Firenze, Cesare Molza, b. 53, ins. 18, c. 43r.). Fig. 7. Jacques Callot (da Giulio Parigi), Interno del teatro Mediceo degli Uffizi: i intermedio della Veglia della liberatione di Tirreno (1617), incisione (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 8015 st. sc.). 69 Caterina Pagnini ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’ (1604-1611) 1. Profilo di una regina: una storiografia avversa Seconda dei sette figli di Federico II, re di Danimarca e Norvegia, e di Sophia di Mecklenburg-Güstrow, Anna (fig. 1) nasce nel 1574 nel castello reale di Skanderborg situato nella regione dello Jutland centrale; insieme alla sorella maggiore Elisabetta e al terzogenito Cristiano, futuro re di Danimarca, è personalmente istruita dalla madre, donna di carattere indipendente e combattivo, nonché amante della cultura e importante mecenate di artisti. Una figura che rappresenterà per la giovane principessa danese un modello indimenticabile per il suo futuro di regina. Nel 1589, infatti, a diciassette anni, Anna viene data in sposa al giovane re di Scozia e Irlanda, Giacomo VI Stuart; seguendo le vicende dinastiche del suo consorte, da tempo designato ufficiosamente alla successione al trono d’Inghilterra da Elisabetta I, nel 1603 viene incoronata regina di Inghilterra, Scozia e Irlanda a fianco del marito, da allora in poi Giacomo I di Inghilterra, Scozia e Irlanda (fig. 2).1 Sin dal regno di Elisabetta I il masque, genere spettacolare ‘ibrido’, inizia a configurarsi come l’intrattenimento ‘per la corte’ e ‘della corte’ e riceverà la sua definitiva codificazione in età giacobina. Gli studiosi di area anglofona si sono concentrati prevalentemente sulla ricognizione metaforico-letteraria di questa forma spettacolare intesa come instrumentum regni per la glorificazione del sovrano e della sua politica, con particolare attenzione alla ormai consolidata prassi del masque del periodo carolino (1625-1642).2 Tutto questo sulla 1. Pubblico qui una prima stesura dei risultati scientifici, in parte conseguiti e in parte in via di approfondimento documentario, bibliografico e iconografico, sulla figura di Anna di Danimarca. Si tratta quindi di un work in progress attualmente mirato sulle fonti conservate presso gli archivi italiani, in partic. l’Archivio di stato di Firenze (d’ora in poi ASF) e che poi si focalizzerà sui fondi archivistici londinesi. 2. La produzione saggistica di area anglofona sul masque del periodo elisabettiano, giacobino e carolino è estesissima; basti qui ricordare i lavori fondanti di E.K. Chambers, The Elizabethan Stage, Oxford, Oxford University Press, 1923, 4 voll.; E. Welsford, The Court Masque. A DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 71-88 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18361 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. CATERINA PAGNINI scia di una radicata storiografia anti-giacobina che, sviluppatasi a partire dalla fine della dinastia regnante Stuart, con la decapitazione di Carlo I (30 gennaio 1649), ha svilito per secoli la figura di Giacomo I, sia dal punto di vista politico che culturale. Un giudizio negativo che ha coinvolto non soltanto l’operato del monarca ma tutto l’apparato delle sue corti, ufficiali e ‘residenziali’, con particolare accanimento nei confronti di quelle satellitari dei suoi favoriti, prima Robert Carr, conte di Somerset e poi George Villiers, duca di Buckingham; entrambi personaggi controversi che, con le loro alterne vicende politiche e personali, hanno non poco contribuito al prolungato e ingiustificato discredito nei confronti del regno di Giacomo I, solo recentemente rivalutato.3 Study in the Relationship between Poetry and the Revels, Cambridge, Cambridge University Press, 1927; A. Nicoll, Stuart Masques and Renaissance Stage, London, Harrap, 1937; G.E. Bentley, The Jacobean and Caroline Stage, Oxford, Clarendon Press, 1941-1968, 7 voll.; D. Bergeron, Twentieth Century Criticism of English Masques, Pageants and Entertainments: 1558-1642, San Antonio, Trinity University Press, 1972; R. Strong, Art and Power: Renaissance Festivals, 14501650, Woodbridge, Boydell, 1984 (1a ed. 1973); S. Orgel, The Illusion of Power: Political Theatre in the English Renaissance, Berkeley, University of California Press, 1975; D. Lindley, The Court Masque, Manchester, Manchester University Press, 1984; J. Peacock, The Stuart Court Masque, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», lvi, 1993, pp. 183-208. Tra i più recenti studi: The Politics of the Stuart Court Masques, a cura di D. Bevington e P. Holbrook, Cambridge, Cambridge University Press, 1998; J. Astington, English Court Theatre 1558-1642, Cambridge, Cambridge University Press, 1999; The Cambridge History British Theatre, i. Origins to 1660, a cura di J. Milling e P. Thomson, Cambridge, Cambridge University Press, 2004; Localizing Caroline Drama: Politics and Economics of the Early Modern English Stage, 1625-1642, a cura di A. Zucker e A.B. Farmer, New York, Macmillan, 2006; D. Lewcock, Sir William Davenant, the Court Masque and the English Seventeenth Century Scenic Stage, c1605-c1700, Amherst, Cambria Press, 2008; K. Curran, Marriage, Performance and Politics at the Jacobean Court, Farnham, Ashgate, 2009; B. Ravelhofer, The Early Stuart Masque: Dance, Costume and Music, Oxford, Oxford University Press, 2009; G. Heaton, Writing and Reading Royal Entertainments, Oxford, Oxford University Press, 2010; R. Dutton, The Oxford Handbook of Early Modern Theatre, Oxford, Oxford University Press, 2011; L. Shohet, Reading Masques: The English Masque and Public Culture in the Seventeenth Century, Oxford, Oxford University Press, 2011. 3. Della riabilitazione politica e culturale di Giacomo I e della sua corte si è ampiamente trattato in C. Pagnini, Costantino de’ Servi, architetto-scenografo fiorentino alla corte d’Inghilterra (1611-1615), Firenze, Sef, 2006, pp. 19-52, cui si rimanda per ulteriori approfondimenti e per la bibliografia. In questa sede vale la pena citare il volume di G.P.V. Akrigg, Jacobean Pageant or The Court of King James I, New York, Atheneum, 1978, uno dei primi saggi scientifici che propone una buona ricostruzione del regno del sovrano britannico, affiancandone i tratti politici alle tendenze culturali, sociali e spettacolari. Inoltre si citano i più recenti W.B. Patterson, King James VI and I and the Reunion of Christendom, Cambridge, Cambridge University Press, 1998; J. Travers, James I: the Masque of Monarchy, London, The National Archives, 2003; A. Stewart, The Cradle King: a Life of James VI and I, New York, St. Martin’s Press, 2004; James VI and I: Ideas, Authority and Government, a cura di R.A. Houlbrooke, Aldershot, Ashgate, 2006; K.P. Walton, Leanda de Isle. After Elizabeth: the Rise of James of Scotland and the Struggle for the Throne 72 ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’ Nelle maglie di questa consolidata tendenza storiografica per più aspetti deviata e deviante è stata inglobata anche la consorte del sovrano Stuart, di volta in volta delineata come una figura inconsistente, capricciosa e superficiale ed eccessivamente frivola e mondana per il suo cosiddetto ‘sproporzionato’ interesse nei confronti degli intrattenimenti (revels) di corte.4 Anche Roy Strong, nel suo autorevole studio sulla vita del primogenito di Anna e Giacomo, il principe Enrico Stuart, definisce la regina madre in termini poco lusinghieri, liquidando in poche righe il suo ruolo nella famiglia reale: «On the whole of England, «The Journal of British Studies», xlvi, 2007, 1, pp. 170-171; J. Rickhard, Authorship and Authority. The Writings of James VI and I, «English Historical Review», cxxvii, 2012, pp. 173-175. 4. La bibliografia su Anna di Danimarca è piuttosto scarna; la prima ‘pionieristica’ monografia sulla regina risale al 1970, un lavoro che, sebbene tracci un profilo biografico piuttosto dettagliato, si focalizza principalmente sui tratti familiari e sul contesto della corte, quasi ignorando l’attività politica, culturale e spettacolare della regina (cfr. E.C. Williams, Anne of Denmark. Wife of James VI of Scotland: James I of England, Harlow, Longmans, 1970). Il contributo fondamentale è quello dello studioso shakespeariano Leeds Barroll che nella sua ‘biografia culturale’ dedicata alla regina inglese delinea un profilo politico e culturale finalmente adeguato (cfr. L. Barroll, Anna of Denmark, Queen of England. A Cultural Biography, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2001, preceduto dal contributo preparatorio Id., The Court of the First Stuart Queen, in The Mental World of the Jacobean Court, a cura di L. Peck, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, pp. 191-208). Lo studio di Barroll ha aperto nella produzione scientifica anglofona una strada che è stata, in anni recenti, oggetto privilegiato per gli studi di gender che, pur apportando notevoli contributi alla restituzione del personaggio, tendono a spostare i diversi approfondimenti sempre in direzione della medesima prospettiva storiografica neo-femminista: si veda lo studio di B. Kiefer Lewalski, Enacting Opposition: Anne of Denmark and the Subversions of Masquing, in Id., Writing Women in Jacobean England, Cambridge, Harvard University Press, 1993, pp. 15-43, e cfr. i più recenti C. McManus, Women on the Renaissance Stage. Anna of Denmark and Female Masquing in the Stuart Court (1590-1619), Manchester, Manchester University Press, 2002; C. Thomas, Politics and Culture – The Role of Queen Anna of Denmark at the Jacobean Court, https://www.academia.edu/1023265/Politics_and_Culture_ the_Role_of_Queen_Anna_of_Denmark_at_the_ Jacobean_Court (ultimo accesso: 15 luglio 2015); oltre a Curran, Marriage, Performance, and Politics at the Jacobean Court, cit., che, pur essendo un saggio scientifico di ‘moderna’ concezione, non prende in considerazione la derivazione fiorentina della cultura rinascimentale della corte di Giacomo, Anna e Enrico. Più inquadrati sul versante politico della corte giacobina e sul ruolo strategico giocato dalla consorte di Giacomo I i saggi di D. Stevenson, Scotland’s Last Royal Wedding: the Marriage of James VI and Anne of Denmark, Edinburgh, Donald, 1996 e di L. Roper, Unmasking the Connections between Jacobean Politics and Policy: the Circle of Anna of Denmark and the Beginning of the English Empire 1614-1618, in High and Mighty Queens of Early Modern England, a cura di D. Barret-Graves, New York, Macmillan, 2003, pp. 45-59. Fra gli studi non pubblicati è degna di menzione, perché focalizzata sull’analisi dei masques organizzati dalla regina Anna, la dissertazione dottorale di K.L. Middaugh, The Golden Tree: The Court Masques of Queen Anna of Denmark, discussa nel 1994 alla Case Western Reserve University. Si veda inoltre Pagnini, Costantino de’ Servi, cit., passim. 73 CATERINA PAGNINI Anna lived for pleasure, passing her time moving from one of the palaces assigned to her to the next […]. She deliberately avoided politics, devoting herself instead to dancing, court entertainments, and the designs and decoration of her houses and gardens».5 Il giudizio è da imputarsi principalmente a due fattori; l’errata assunzione, nella maggior parte delle ricostruzioni storiche, del ruolo accentratore di Giacomo I, emblema di un potere monarchico egemonico e di una corte centripeta e monolitica; la seconda e conseguente considerazione, che egli monopolizzasse tutti i settori dell’attività di corte e, da qui, che la regina Anna, avendo un’influenza irrilevante nella vita e nella gestione della household reale, non fosse un soggetto interessante per gli studi. L’indifferenza critica nei confronti della regina è stata ulteriormente rafforzata dalla tendenza della maggior parte delle biografie giacobine a concentrarsi prevalentemente sul periodo successivo al 1614, ossia sugli ultimi anni di vita della reale consorte (morta nel 1619), quasi ignorando la prima decade del regno considerata esclusivamente dal fuorviante punto di vista dell’anticipazione degli avvenimenti cruciali e delle crisi politiche degli anni successivi. 2. Firenze e Londra: i rapporti politici e culturali fra i Medici e gli Stuart Dall’analisi delle fonti documentarie e bibliografiche di matrice anglosassone finora reperite,6 viene invece a delinearsi un personaggio esemplare e poliedrico, molto distante dalla figura distaccata, passiva e frivola proposta da un certo tipo di storiografia. In tal senso è fondamentale, per la corretta restituzione del ruolo strategico che la regina Anna ebbe nella prima fase del regno degli Stuart, focalizzare l’attenzione sul rapporto politico e culturale intercorso fra la corte inglese di Giacomo I e la corte fiorentina dei Medici, prima quella del granduca Ferdinando I (dal 1603, anno della citata incoronazione di Giacomo I a re d’Inghilterra), poi quella di Cosimo II (dal 1609, morte del granduca). La base di partenza per questo processo di ‘riabilitazione’ storiografica affonda le radici nella ricognizione dei fondi Mediceo del principato e Miscellanea medicea dell’Archivio di stato di Firenze, in particolare delle filze che raccolgono le corrispondenze dei residenti fiorentini alla corte di Giacomo I: tutte 5. R. Strong, Henry Prince of Wales and England’s Lost Renaissance, New York, Thames & Hudson, 1986, p. 16. «Anna visse esclusivamente per il divertimento, passando il tempo a spostarsi da un palazzo all’altro […]. Evitò deliberatamente gli affari politici, dedicandosi invece alla danza, agli intrattenimenti di corte, alla ristrutturazione e alla decorazione delle sue residenze e ai giardini» (mia la traduzione). 6. Cfr. nota 1. 74 ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’ fonti primarie prevalentemente inedite e non valutate al giusto da quella storiografia anglosassone che pur tende alla restituzione di questo personaggio d’importanza non secondaria per la cultura e la storia europea del Seicento.7 Dalle lettere degli ambasciatori e dei residenti medicei alla corte londinese, che cominciano a frequentare le sale dei palazzi reali fin dalla ascesa al trono di Giacomo I, la regina Anna si delinea da subito come uno dei più importanti interlocutori dei visitatori stranieri, diplomatici o artisti; perfettamente calata nelle dinamiche politiche, molto attiva nella proposta spettacolare e nella creazione di quel modello di corte rinascimentale tanto ambito dallo stesso re ma soprattutto dalla regina stessa e dal primogenito Enrico.8 L’asse Londra-Firenze e viceversa è decisivo per delineare un quadro di interazioni strategiche a livello storico, culturale e spettacolare che vede come protagonisti da una parte i granduchi medicei, Ferdinando I e Cosimo II con le granduchesse Cristina e Maria Maddalena e dall’altra la casa reale degli Stuart, nella quale possiamo attribuire un ruolo predominante ad Anna e a Enrico, oltre che alla principessa Elisabetta, futura sovrana di Boemia in seguito al matrimonio con il principe palatino del Reno Federico V.9 La fitta rete di relazioni può essere circoscritta con profitto agli anni che vanno dal 1603 al 1614-1615, successivi alla morte del principe ereditario Enrico e che videro la partenza di Elisabetta per la sua nuova patria; questo periodo non a caso in parte coincide con la permanenza a Londra dell’architetto mediceo Costantino 7. Per il regesto completo delle filze del fondo Mediceo del principato che contengono le corrispondenze dei residenti fiorentini a Londra cfr. C. Pagnini, «Begli Umori Capricciosi». Fiorentini alla corte d’Inghilterra: l’attività del residente mediceo Ottaviano Lotti (1603-1614) e la vicenda di Costantino de’ Servi, architetto, scenografo, pittore (1611-1615), tesi di laurea in Storia del teatro e dello spettacolo, Università degli studi di Firenze, Facoltà di lettere e filosofia, a.a. 2001-2002 (relatore: prof. Sara Mamone), cui si rimanda anche per la trascrizione integrale delle lettere (vol. ii). 8. Sulla numerosa presenza italiana a Londra si vedano i sempre attuali G.S. Gargano, Scapigliatura italiana a Londra sotto Elisabetta e Giacomo, Firenze, Battistelli, 1923 e Relazioni di ambasciatori veneti al Senato. Tratte dalle migliori edizioni disponibili e ordinate cronologicamente, i. Inghilterra, a cura di L. Firpo, rist. anast. Torino, Bottega d’Erasmo, 1965 (registrate anche in Calendar of State Papers and Manuscripts, relating to English Affairs, existing in the Archives and Collections of Venice […], a cura di R. Brown et al., London, Longman-Roberts-Green, 18641947, voll. x-xv, 1603-1619). Per la migrazione di residenti, ambasciatori e artisti fiorentini nelle più importanti corti d’Europa si veda anche S. Bardazzi, Sguardi fiorentini sull’Impero. Notizie dei residenti fiorentini presso la corte cesarea a Praga e Vienna da Massimiliano II a Ferdinando II, tesi di laurea in Storia del teatro e dello spettacolo, Università degli studi di Firenze, Facoltà di lettere e filosofia, a.a. 2003-2004 (relatore: prof. Sara Mamone). 9. Sul matrimonio fra Elisabetta e Federico: Strong, Henry Prince of Wales, cit., pp. 73-79. Sui festeggiamenti per le nozze cfr. Pagnini, Costantino de’ Servi, cit., pp. 239-263. 75 CATERINA PAGNINI de’ Servi, al servizio di Anna e di Enrico dal 1611 al 1615.10 Di tale complessa ‘macchina’ di relazioni politico-culturali furono principali artefici i residenti, gli ambasciatori e gli artisti medicei che interagirono direttamente con la regina Anna, con il principe Enrico, con la principessa Elisabetta e con i più importanti funzionari della corte, fra cui Robert Cecil, I conte di Salisbury, segretario di stato sia di Elisabetta I che di Giacomo I, e sir Thomas Chaloner, tutore di Enrico; fra questi solerti funzionari granducali vanno messi in valore Alfonso Montecuccoli, primo dei residenti medicei alla corte Stuart in missione diplomatica per conto di Ferdinando I in occasione dell’incoronazione del nuovo re; Andrea Cioli, una delle figure più importanti della segreteria medicea; e, fra i più politicamente risolutivi, Ottaviano Lotti inviato da Cosimo II alla corte inglese per curare le negoziazioni in vista di un possibile matrimonio fra il principe erede Enrico Stuart e la principessa Caterina de’ Medici, sorella del granduca.11 Non è un caso che uno dei primi ritratti storici di Anna, appena arrivata in Inghilterra come regina consorte, venga delineato dalle fonti archivistiche fiorentine, in un lungo dispaccio di Montecuccoli alla segreteria granducale scritto da Winchester e datato 29 ottobre 1603; un documento che mostra la regina in una luce diversa da quella tradizionale e che svela uno spirito curioso ed eclettico, una personalità desiderosa di contatti culturali, già proiettata attivamente nella politica dello scambio dei doni, fondamentale per i rapporti diplomatici dell’Europa delle corti: Hoggi il giorno 29 ho havuto Udienza privata dalla Maestà della Regina e perché le havevano già fatta condurre la cassa, venuta di Parigi segretamente […] ho trovata Sua Maestà di tutto molto soddisfatta, e in particulare di alcune Immagini di Santi che dice Sua Maestà che vi erano. È ben vero che alcune figurine si sono trovate rotte, ma Sua Maestà mi dice che le farà accomodare facilmente; e con l’occasione di queste santissime immagini ha liberamente Sua Maestà proceduto a dirmi e a confessarmi di essere Cattolica e di non desiderare altro che l’esaltazione della Santa madre Chiesa e che sia pregato Iddio che la conservi in questo buon proposito, e che non resta ne i propositi che occorrono fare grandi offizi con il Re sopra di questo, ma che bisogna 10. Per l’esperienza londinese dell’architetto fiorentino: ivi, passim, in partic. pp. 153-310. 11. Per Ottaviano Lotti: ivi, in partic. pp. 103-152 e Id., Ottaviano Lotti residente mediceo a Londra (1603-1614), «Medioevo e Rinascimento», xvii/n.s. xiv, 2003, pp. 323-408. Sulle trattative per il matrimonio fra Enrico e Caterina: J.D. Mackie, Negotiations between King James VI and I and Ferdinand I […], London-New York, Milford for St. Andrew University-Oxford University Press, 1927; R. Strong, England and Italy: the Marriage of Henry Prince of Wales, in For Veronica Wedgwood These: Studies in Seventeenth-Century History, a cura di R. Ollard e P. Tudor-Craig, London, Collins, 1986, pp. 59-87; Id., Henry Prince of Wales, cit., pp. 42-80; Pagnini, Costantino de’ Servi, cit., pp. 130-152. 76 ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’ che vadia molto circospetta. Io in questo, pigliando cuore di essortarla e confermarla in questi buoni pensieri, le donai le scatoline delle Immagini in nome di Madama Serenissima con la scrittura che havevano fatta tradurre in Franzese e soggiunsi che Sua Maestà non cessasse mai di raccomandarsi alla Beatissima Vergine, che si avvedrebbe che i suoi pensieri haverebbono felicissima fine e Sua Maestà disse di farlo continuamente e il Presente le fu estremamente accetto […]. Soggiunse Sua Maestà che desiderava che Madama le mandasse da Firenze una Dama che fusse buona per acconciarle la testa e io le dissi che ne havrei avvisata l’Altezza Vostra.12 Sette anni più tardi il residente Lotti si intrattiene nella Galleria dei ritratti con la regina, ormai ambientatasi nelle sue residenze e con la household ben organizzata, perfettamente a suo agio nelle questioni politiche e diplomatiche più delicate (le trattative con le corti d’Europa per il matrimonio di Enrico), verso le quali non esita ad assumere apertamente posizioni perentorie e in contrasto con la volontà del consorte: Nel passeggiare Sua Maestà nella sua solita Galleria piena di ritratti, e fra i quali ella metterà hora quelli dei Serenissimi Patroni, ella dando d’occhio al ritratto di Madama Arabella parlò compassionevolmente della miseria di lei; e voltatasi poi a quello della Regina di Spagna, me lo mostrò, e mostrò ancho quello della piccola Infanta. Onde io, che vivo con ansietà di rendere humilissimo servitio presi arditamente occasione e dissi: Io vedo quella Piccola Principessa Regina d’Inghilterra, se la poca età non l’impedisca; rispose Sua Maestà: Non so quello che sarà, ma l’età non può già guastare, perché molto più tempo ha il Re mio marito di me che il Principe d’Inghilterra dell’Infanta di Spagna. Non ha dubbio che Sua Maestà piega a quella banda, ma nel ragionare mostra più desiderio che speranza della conclusione. Io soggiunsi: Si dice per cosa certa che il Marescial Lavardino viene anch’egli per trattare di dare Madama di Francia al Principe d’Inghilterra; risentitamente rispose Sua Maestà: Perdio che ciò non sarà mai e ne maledirei mio figliolo in eterno. Perché Madama, domandai io: Perché non mi piace, rispos’ella, e perché io non voglio Figliole d’uno che ha haver quattro moglie. Noi, soggiunse ella, tratteremo più facilmente con il Granduca vostro Signore, e io che mi feci lontano dal quel pensiero, mostrai di cadere all’improvviso in una estrema allegrezza e dissi: Se ciò seguirà mai, faccio voto di visitare il Sepolcro Santissimo, e seguitai: Veda Vostra Maestà quanto è benedetta da Iddio quella Serenissima Casa, che gli Imperatori, tutti i Gran Re di Christianità, ogni Principe supremo brama di congiungersi seco, veda per esempio il Governo delle due Regine di Francia di Casa Medici, e quello della presente particolarmente, se vuole conoscere con perfetto amore 12. Alfonso Montecuccoli alla segreteria granducale, Winchester, 29 ottobre 1603, ASF, Mediceo del principato, f. 4186, cc. n.n. Per la trascrizione integrale del doc. si veda Pagnini, «Begli Umori Capricciosi», cit., vol. ii, doc. 11. Riguardo alla fede cattolica della regina, che Giacomo I le permise di praticare a corte e di cui molto veniamo a sapere dalle corrispondenze dei residenti medicei, cfr. l’appendice documentaria in Barroll, Anna of Denmark, cit., pp. 162-172. 77 CATERINA PAGNINI di madre e di moglie, e questa bontà si deve cercare e lasciare ogn’altra cosa oltre che si sa quanto quella felicissima Casa sia feconda di prole, e Vostra Maestrà potrà guadagnare una nuora e una servitrice, se mai si unisse a questa, di che io voglio ogni giorno pregare Sua Maestà (e Vostra Maestà, soggiunsi io, può bene honorar me povero humilissimo servo per amore de’ miei Serenissimi Padroni, e per l’affetione che le Altezze le portano può accennarmi qualcosa). All’hora che si comincerà a ragionare di dare moglie al Serenissimo Principe e la Maestà Sua che accettò in buonissima parte tutto quel che io dicevo, mi promesse di farlo, e io lo spero e godo estremamente per i miei disegni d’esser arrivato a questo punto, perché Sua Maestà è liberissima nel parlare bisogna pertanto che io vada sempre procacciando occasione di rivedere la Maestà Sua.13 3. Gli Stuart sovrani di Inghilterra: una corte policentrica Per comprendere la complessa realtà in cui Anna si inserisce al suo arrivo in Inghilterra e che le permetterà di ritagliarsi un ruolo di primo piano nelle vicende del regno, si consideri che la corte giacobina, specialmente quella del primo decennio, non si fonda sulla sola personalità del sovrano, ma sulle diverse componenti sociali e politiche che ne definiscono il polimorfismo: i nobili della corte, l’aristocrazia terriera, i mercanti delle più importanti città del regno, le corporazioni di stampo tardo-medievale ma ancora influenti nella politica londinese: tutti elementi interattivi e competitivi che, a dispetto della retorica sull’autorità assoluta e accentrante del sovrano, sono alla base della società strutturandola come un organismo policentrico, multiforme e centrifugo (fig. 3). Lo stato giacobino, è noto, è rappresentato da tre corti ‘fisiche’ cui si riferiscono diverse residenze: quella del re, Whitehall Palace a Londra (figg. 4-5)14 13. Ottaviano Lotti a Belisario Vinta, Londra, inserto del 26 gennaio 1610 [ma 1611], ASF, Mediceo del principato, f. 4189, cc. n.n. Le trattative per il matrimonio di Enrico Stuart si leggono in Pagnini, Costantino de’ Servi, cit., pp. 130-152. 14. Whitehall Palace, in origine York Place, di proprietà del cardinale Wolsey, fu acquisito nel 1530 da Enrico VIII che lo fece ampliare. Giacomo I, al suo arrivo a Londra come nuovo monarca, lo ristrutturò commissionando a Inigo Jones, fra il 1619 e il 1622, la realizzazione della Banqueting House; e si sa che Carlo I affidò a Rubens la decorazione della volta del salone, culminante nell’Apoteosi di Giacomo I (cfr. R. Strong, Britannia Triumphans: Inigo Jones, Rubens and Whitehall Palace, London, Thames & Hudson, 1980). Prima dell’incendio del 1698, che portò alla sua quasi totale distruzione, Whitehall era il più grande palazzo reale europeo, quasi una cittadella dentro la città di Londra, con più di millecinquecento stanze e una struttura piuttosto irregolare dovuta ai numerosi interventi di ampliamento susseguitisi per volontà dei diversi monarchi. Cfr. G.S. Dugdale, Whitehall through the Centuries, London, Phoenix House, 1950; S. Thurley, Whitehall Palace. An Architectural History of the Royal Apartments, 1240-1698, New Haven, Yale University Press, 1999; E. Sheppard, The Old Royal Palace of Whitehall (1902), rist. anast. Charleston, Nabu Press, 2010. 78 ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’ oltre alle residenze di campagna di Royston e Theobalds; quella della regina, prima Somerset House (fig. 6) (denominata successivamente Denmark House)15 e poi Greenwich Palace (fig. 7);16 infine quelle dell’erede al trono, a St. James, Richmond e Woodstock.17 Con l’avvento della casa Stuart per la prima volta dai tempi di Enrico VIII è prevista una residenza dedicata alla corte della regina, con ruoli e cariche espressamente creati per cortigiani maschi e femmine e soprattutto, per quanto qui interessa, con una gestione separata della produzione spettacolare. La recente storiografia anglosassone di gender propende a vedere in Anna e nella sua corte una sorta di ‘fronte’ femminista avverso, sia politicamente che culturalmente, alla corte patriarcale di Giacomo I;18 senza addentrarsi in tali problematiche, a nostro avviso storicamente estranee e decontestualizzate, è proficuo analizzare l’influenza di Anna sulla spettacolarità giacobina e sulla codificazione del masque. È suo senz’altro il maggior impulso dato alla struttura definitiva del masque come spettacolo rappresentativo della corte giacobina e carolina: suoi sono i più importanti masques della prima decade del regno di Giacomo I, anni fondamentali per la genesi e il definitivo sviluppo del ‘genere’. 15. Somerset House, sul lato sud dello Strand lungo il corso del Tamigi, era stata la residenza privata della principessa Elisabetta Tudor nei mesi precedenti alla sua incoronazione (1558). Con la ascesa al trono di Giacomo la residenza fu assegnata alla regina consorte Anna che la fece ampliare da Inigo Jones. Cfr. N. Webster, Somerset House: Past and Present, London, Unwin, 1905; J. Newmann-A. Hornak, Somerset House: Splendour and Order, London, Scala Books, 1990. 16. Greenwich Palace, nel Kent, a sud della Torre di Londra lungo il Tamigi, vide la nascita di Enrico VIII e delle figlie Maria ed Elisabetta, future regine d’Inghilterra, che la elessero a residenza privata anche durante gli anni dei rispettivi regni. Sotto Giacomo I il palazzo e il suo parco furono assegnati alla consorte Anna. Tra il 1614 e il 1617 la regina commissionò a Inigo Jones la completa ristrutturazione del palazzo e la costruzione, a sud, di un nuovo edificio; l’architetto, appena rientrato dal suo grand tour italiano e quindi ben consapevole dei principi architettonici del classicismo filtrati dai modelli romani, rinascimentali e palladiani, costruì quello che oggi è l’unico edificio rimasto del complesso di Greenwich, la Queen’s House, ispirata alla villa medicea di Poggio a Caiano; il nuovo pavillon venne portato a termine, dopo l’interruzione dei lavori nel 1618 per la malattia e la morte della regina Anna (1619), solo dopo il 1629, quando Carlo I assegnò la residenza alla consorte Henrietta Maria. Cfr. P. van der Merwe, The Queen’s House: Greenwich, London, Scala, 2012. 17. Sulle residenze reali inglesi, in partic. su quelle della dinastia Stuart: N. Williams, Royal Homes of Great Britain from Medieval to Modern Times, London, Lutteworth Press, 1971 e J.E. Adair, The Royal Palaces of Britain, New York, Potter, 1981. 18. Cfr. McManus, Women on the Renaissance, cit. 79 CATERINA PAGNINI 4. Una regina in scena: i ‘Queen’s Masques’ (1604-1611) Anna è la principale figura di riferimento per la spettacolarità della corte giacobina, fondamentale mediatrice fra lo spettacolo dei dilettanti, i nobili che agiscono in scena nei masques, e quello del teatro dei professionisti, a partire dagli attori, coinvolti nelle parti recitate e danzate (specialmente nell’antimasque), dai poeti di corte, Samuel Daniel o Ben Jonson, con i quali la regina interagisce attivamente per lo sviluppo della trama del masque, e dallo scenografo, Inigo Jones, cui la regina dispensa volentieri consigli e direttive sui costumi e anche sulle entrate in scena.19 Fondamentale per lo sviluppo dell’interazione fra il teatro dei professionisti e quello dei dilettanti è proprio l’introduzione dell’antimasque presentato per la prima volta da Ben Jonson il 2 febbraio 1609 in occasione dell’allestimento di The Masque of Queens: una delle più fertili collaborazioni con Jones e un’evoluzione importantissima nella storia della spettacolarità inglese (figg. 8-9). Qui Jonson segue l’esplicita richiesta della regina Anna che dimostra ancora una volta la sua vocazione teatrale, ben sapendo che il successo di una forma spettacolare reiterata è affidato alla varietà della forma stessa: «Her Majesty (best knowing, that a principal part of life, in these Spectacles, lay in their variety) had commanded me to think on some Dance, or Shew, that might precede hers, and have the place of a foil or false Masque».20 Ampliando lo schema base della rappresentazione con il prologo dell’antimasque, Jonson trasforma lo spettacolo tradizionale in un doppio masque impiegando due diverse compagnie di masquers, con prevalenza, nella prima, di esecutori professionisti; per il debutto della sua innovazione drammaturgica Jonson sceglie di presentare in scena l’entrata danzante di un gruppo di streghe, personaggi grotteschi che hanno il compito di introdurre, per contrasto, con il loro aspetto bizzarro, la gestualità enfatizzata e l’abbigliamento stravagante, la magnificenza e il tono aulico del vero e proprio masque (l’episodio della House of Fame) che segue subito dopo: «Twelve Women, in the habit of Hags, or Witches, sustaining the Persons of Ignorance, Suspicion, Credulity […] the Opposites to good Fame, should fill that part; not as a Masque, but a Spectacle of strangeness, producing multiplicity of Gesture».21 19. Queste pratiche consuete sono documentate dai libretti di Daniel e di Jonson. Si vedano le introduzioni autoriali ai masques di Samuel Daniel e Ben Jonson in Court Masques: Jacobean and Caroline Entertainments 1605-1640, a cura di D. Lindley, Oxford, Oxford University Press, 1995. 20. Ivi, p. 35. «Sua Maestà (ben sapendo che il successo di questi spettacoli sta nella varietà) mi comandò di pensare a qualche danza, o spettacolo, che potesse precedere il suo masque e avesse la funzione di antagonista o falso-masque» (mia la traduzione). 21. Ibid. «Dodici donne, in costume da streghe, introducendo le personificazioni della 80 ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’ Non c’è dubbio che sotto l’egida della reale consorte vengano prodotti i masques dell’era giacobina che codificano definitivamente il genere, confermando l’indipendenza delle scelte della regina e la sua attività spettacolare ben identificata e volutamente distinta da quella del re; come il figlio Enrico ella ama le commedie che si rappresentano nei teatri pubblici, è protettrice di compagnie di attori e si dedica alla danza che pratica con particolare talento sia negli intrattenimenti privati che sulla scena di corte. L’ufficio dei Queen’s Revels testimonia il ruolo attivo di una sovrana ‘rinascimentale’ che produce spettacoli per se stessa e per le sue dame (Queen’s and Ladies’s masques). Perciò può essere affiancata all’esempio, di non molto precedente, di Margherita Gonzaga, figlia di Guglielmo Gonzaga duca di Mantova e di Eleonora d’Austria e terza moglie di Alfonso II d’Este, duca di Ferrara. Margherita, dal suo arrivo nella capitale estense, propone alla corte per più di un ventennio, dal 1571 al 1597, la tipologia del ‘ballo delle dame’ o ‘ballo della Duchessa’, un appuntamento spettacolare di grande rilievo e risonanza, con vasto impiego di mezzi allestitori.22 Dopo gli intensi anni trascorsi alla corte scozzese, durante i quali Anna ebbe modo di farsi notare per il suo impegno politico e per le sue frequenti e poco gradite ‘incursioni’ nelle decisioni del consorte reale,23 è in Inghilterra che Anna può dedicarsi a soddisfare il suo interesse per lo spettacolo, inteso come tramite metaforico-politico autocelebrativo, creando un polo di attrazione, se non opposto, diverso dalla corte del re e ‘seme’ forte della sua ideologia volutamente ‘alternativa’ al potere del sovrano. Fin dal suo arrivo a Londra la regina imposta il calendario spettacolare inglese in modo che l’allestimento dei suoi spettacoli, i citati Queen’s Masques, coincida con l’appuntamento più importante delle feste annuali: la notte dell’Epifania (Twelfth Night) che dal 1604, anno della prima rappresentazione di un masque di Anna, diventa l’evento rappresentativo più dispendioso.24 Da Ignoranza, del Sospetto e della Credulità […], opposte alla buona Fama, eseguono il Prologo, non come un masque, ma uno spettacolo bizzarro, con molteplicità di gesti» (traduzione mia). Su The Masque of Queens: Pagnini, Costantino de’ Servi, cit., pp. 168-198. 22. Si vedano, ad esempio, il Gran ballo del carnevale del 1582, a soggetto pastorale, per otto dame in ruoli di ninfe e pastori e il Ballo armato del 1594, per dodici dame, di cui sei in effigie di guerriere. Cfr. M. Padovan, Il Ballo della Duchessa. Margherita Gonzaga coreografa e ballerina (15791597), in Le lombarde in musica…, Roma, Colombo, 2008, pp. 41-53 e Id., Il Cinquecento, in Storia della danza italiana dalle origini ai nostri giorni, a cura di J. Sasportes, Torino, edt, 2011, pp. 48-52. 23. Il periodo di Anna come regina di Scozia è uno dei più significativi dal punto di vista politico. La sua ricostruzione storiografica è servita non poco alla rivalutazione del personaggio storico per quanto riguarda la fase inglese. Cfr. Williams, Anne of Denmark, cit., pp. 1-68; Barroll, Anna of Denmark, cit., pp. 14-35. 24. Cfr. Pagnini, Costantino de’ Servi, cit., pp. 168-198. 81 CATERINA PAGNINI questa data, per sette anni, la regina mette in scena l’apoteosi della dinastia, unificatrice dei tre regni e portatrice di pace e armonia; una strategia autocelebrativa alla quale prende attivamente parte in qualità di masquer: in scena come protagonista e valente esecutrice delle danze teatrali di corte, tra le ‘quinte’ come ispiratrice dell’allestimento, dei costumi e della drammaturgia. Gli eventi in programma sono i più attesi dalla corte e dai visitatori stranieri che si contendono la possibilità di essere ammessi agli spettacoli: The Vision of the Twelve Goddesses, rappresentato nel palazzo di Hampton Court, l’8 gennaio 1604, su libretto di Daniel e con scene di Jones;25 The Masque of Blackness, messo in scena il 6 gennaio 1605 a Whitehall Palace, che sancisce la prima delle successive e numerose collaborazioni fra Jonson, autore del libretto, e Jones per le scene e i costumi (figg. 10-11); The Masque of Beautie, il 10 gennaio 1608 allestito a Whitehall Palace, dove i due autori, per volontà della regina, portano a termine il disegno drammaturgico e il messaggio politico del masque precedente (fig. 12); The Masque of Queens, rappresentato il 2 febbraio 1609 sempre a Whitehall, uno degli intrattenimenti di corte più complessi ed elaborati, di cui Anna cura personalmente i dettagli dell’allestimento (figg. 8-9);26 Thetys Festival, portato in scena a Whitehall nel giugno del 1610, su libretto di Daniel e scenografie di Jones, offerto dalla regina per la ‘Creazione’ del primogenito a principe di Galles (fig. 13); l’ultimo Queen’s Masque, Love Freed from Ignorance and Folly, allestito ancora a Whitehall il 3 febbraio del 1611, di nuovo con la collaudata collaborazione di Jonson e Jones, di ispirazione neoplatonica.27 Dopo la morte del principe Enrico, scomparso nel 1612 all’età di diciotto anni molto probabilmente per una febbre tifoide,28 Anna smette di produrre spettacoli e si ritira nelle sue residenze private con le dame più fidate del suo seguito (fig. 14); intanto alla corte di Giacomo, scomparso l’erede al trono, 25. Già dalla sua prima esperienza sulla scena regale Anna svelò la propria ‘ideologia’ spettacolare indicando a Inigo Jones la fonte dei costumi di scena nel guardaroba della defunta regina Elisabetta. Cfr. S. Daniel, The Vision of the Twelve Goddesses, con una introd. di E. Law, London, Quaritch, 1880, p. 13 (ora in https://archive.org/details/visiontwelvegod00danigoog, ultimo accesso: 15 luglio 2015). 26. Abbiamo già visto (cfr. supra) come per questo masque Ben Jonson inserisca per la prima volta l’antimasque. 27. Per l’anno 1611 la data dell’Epifania fu riservata alla rappresentazione del masque Oberon The Fairy Prince, uno spettacolo programmatico voluto da Giacomo I per celebrare il primogenito, nuovo principe di Galles. 28. La morte del principe ereditario, sul quale la nazione aveva riposto le più fervide speranze di un regno illuminato, getta l’Inghilterra e la corte di Giacomo I nel più grande sconforto, che viene puntualmente riferito dai residenti medicei alla segreteria granducale. Cfr. Strong, Henry Prince of Wales, cit., pp. 220-226; Pagnini, Costantino de’ Servi, cit., pp. 149-151. 82 ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’ cominciano a prendere campo i favoriti del re, prima Robert Carr e poi George Villiers.29 Negli anni seguenti, tuttavia, vengono ancora allestiti diversi intrattenimenti nei palazzi della sovrana, non più partecipante allo spettacolo ma piuttosto attiva in un ruolo di mediazione e di patrocinio: fra le produzioni a Greenwich House si ricorda Cupid’s Banishment (4 maggio 1617), attribuito a Robert White, interpretato dalle giovani allieve, pupille della regina, della scuola di Deptford. Il prologo dedicatorio indirizzato alla contessa di Bedford sancisce la definitiva uscita della regina dalle ‘scene’ dell’organizzazione spettacolare, anche a causa delle sempre più gravi condizioni di salute. Morì a soli quarantaquattro anni, Anna. Era il 2 marzo del 1619.30 29. Su questa fase politica successiva alla morte del principe Enrico si vedano: Williams, Anne of Denmark, cit., pp. 133-142, 166-176; Akrigg, Jacobean Pageant, cit., pp. 190-226; S.J. Houston, James I, New York, Longman, 1995, pp. 42-55; Pagnini, Costantino de’ Servi, cit., pp. 264-310. 30. Sugli ultimi anni di vita della regina Anna cfr. Williams, Anne of Denmark, cit., pp. 192-205. 83 CATERINA PAGNINI Fig. 1. John de Critz il Vecchio, Anne of Denmark, 1605, dipinto (London, National Portrait Gallery, NPG 6918). Fig. 2. Anonimo, King James I of England and VI of Scotland and Anne of Denmark, s.d., incisione (London, National Portrait Gallery, NPG D25686). 84 ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’ Fig. 3.Willem van de Passe, King James I and His Royal Progeny, 1625-1630, incisione (London, National Portrait Gallery, NPG 9808). Fig. 4. Wenceslaus Hollar, Palatium Regis prope Londinum ‘vulgo’ White-hall, 1647 ca., incisione (London, Metropolitan Archives). Fig. 5. Pianta del Palazzo di Whitehall nel 1680, 1807, stampa (London, British Library, Cartographic, Port. 11 65). 85 CATERINA PAGNINI Fig. 6. Wenceslaus Hollar (da), Old Somerset House, 1670 ca., stampa (da «The Mirror of Literature, Amusement, and Instruction», xiii, 1829, 365, p. 241). Fig. 7. Inigo Jones, Progetto per la Queen’s House a Greenwich, 1615 ca., disegno (London, RIBA 30693). 86 ANNA DI DANIMARCA E I ‘QUEEN’S MASQUES’ Fig. 8. Inigo Jones, Queen Anne as Bel-Anna Queen of the Sea for ‘The Masque of Queens’, 1609, disegno (Devonshire, Chatsworth House Collection). Fig. 9. Inigo Jones, Headdress for Queen Anne for ‘The Masque of Queens’, 1609, disegno (Devonshire, Chatsworth House Collection). Fig. 10. Inigo Jones, Queen Anne as the Daughter of Niger for ‘The Masque of Blackness’, 1605, disegno (Devonshire, Chatsworth House Collection). Fig. 11. Inigo Jones, Costume of a Torchbearer for ‘The Masque of Blackness’, 1605, disegno (Devonshire, Chatsworth House Collection). 87 CATERINA PAGNINI Fig. 12. Inigo Jones, Lady Masquer for ‘The Masque of Beautie’, 1608, disegno (Devonshire, Chatsworth House Collection). Fig. 13. Inigo Jones, Queen Anne as ‘Thetys for Thetys Festival,’ 1610, disegno (Devonshire, Chatsworth House Collection). Fig. 14. Marcus Gheeraerts il Giovane, Anne of Denmark, 1612, dipinto (London, The National Portrait Gallery, NPG 4656). 88 Françoise Siguret LA LUMIÈRE ET LE TEMPS SUR LA SCÈNE BAROQUE : POETIQUE & PRATIQUE*1 I. Le Temps Voilà des années que je m’intéresse au problème de l’articulation de la lumière et du temps au théâtre, sur la scène renaissante et baroque. Il faut revenir à ce point de départ qui est la redécouverte d’Aristote par les humanistes ; la Poétique va ouvrir de longs débats chez les doctrinaires au sujet de la recommandation d’Aristote qui suggère d’inscrire la tragédie, « pour autant que cela soit possible, dans une révolution de soleil » (i.e. pour nous une révolution de la terre autour du soleil). Ce concept deviendra en France, au XVIIe siècle, la règle sacro-sainte des « vingt-quatre heures ». De là, deux remarques : Première remarque : Aristote exprimait la durée en termes de lumière, selon la vision cyclique d’un temps qui n’appartenait qu’aux dieux, offrant aux hommes pour repère le lever du soleil ; l’effacement des mythes et l’entrée des hommes dans l’Histoire, ouvrira un temps linéaire qui se fera par décompte et défilement d’heures dans la division abstraite du jour et de la nuit. Or le théâtre antique se jouait à ciel ouvert ; c’est dire que toute l’action se déroulait de jour et la tragédie (ou plutôt les trois tragédies et la pièce satyrique proposées au concours dramatique) commençaient à l’aube pour s’achever au couchant, soit 8 à 10 heures de spectacle : tout ce qui s’était passé de nuit dans la fable, était assumé par le langage des acteurs ou l’intervention d’un messager ou d’un personnage qui narrait les faits que les autres n’avaient pas vus et dont il disaient avoir été témoins. Dans le cadre d’un temps obligé, contraint, l’elocutio ou « traduction de la pensée par des mots » qui porte le discours dramatique, doit révéler au spectateur, de façon directe ou métaphorique, les énoncés relatifs à Comunicazione fatta a Firenze (teatro della Pergola) il 3 aprile 2014 nel quadro del Convegno internazionale di studi del Dottorato di ricerca interuniversitario ‘Pegaso’ in Storia delle arti e in Storia dello spettacolo. Ringrazio Siro Ferrone, Renzo Guardenti, Sara Mamone e Marzia Pieri che mi hanno invitato. * DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 89-96 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18362 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. FRANÇOISE SIGURET tout le temps (et donc le lieu) qui échappent au présent de la représentation. Seconde remarque : tout ce qui appartient au mélodrame, à la pastorale et aux arts de cour ( feste teatrali) : ballets, opéras, tournois, et autres défilés de chars qui empruntent des sujets mythologiques, tout cela se trouve voué au temps cyclique, plus ou moins divisé en âges infinis, empruntés à Hésiode dans sa Théogonie : Or / Argent / Bronze et Fer qui ne disent rien d’une durée réelle et ne sont que des images suggérant les étapes décadentes de l’humanité dans le temps. À ces âges infinis du macrocosme correspondent les quatre âges indéterminés de la vie humaine : enfance, jeunesse, maturité, vieillesse, rapportés au retour des saisons, du printemps de l’enfance à l’hiver de la vieillesse. Contenue entre deux levers de soleil, cette révolution apparente du soleil semblait, aux yeux d’Aristote, emprisonner une action dont les bornes suffisaient à l’attention du public pour le temps où il se trouvait assis au théâtre. Il insiste sur les limites de la perception : de même que l’œil ne peut saisir dans son champ de vision qu’une certaine éntendue qui fasse sens, de même la fable doit recevoir une étendue telle que la mémoire la puisse saisir (Chap. 7, §1450-51). Aristote précise bien que cette limite donne une idée raisonnable de la mesure. Arrivée à l’âge de Descartes l’expression « dans une révolution du soleil » est sans doute une idée raisonnable mais qui doit s’énoncer rationnellement : la règle dite des vingt-quatre heures sera aux yeux des théoriciens français, au début du XVIIe siècle, une règle d’or obligée parce qu’elle forçait à une certaine vraisemblance de l’action qui interdisait que l’on vît au théâtre un roi nourrisson au premier acte devenu un vieillard barbu au cinquième. Ingegneri (1608) avait aussi clairement soutenu cette argumentation. Mais nous sommes passés d’un temps-lumière à un temps-chrono, celui de la clepsydre du tribunal dont Aristote se moquait. Au début du XVIIe siècle français, une génération de jeunes poètes dramatiques, désirant un théâtre ouvert comme l’étaient ceux d’Italie, d’Espagne et d’Angleterre, ne voulaient rien entendre à cela et prirent pour arbitre Chapelain, expert en la matière ; dans une célèbre et longue lettre de 1630, Chapelain chercha à convaincre ces jeunes “libertaires” en leur montrant que l’œil fini ne pouvait embrasser qu’un nombre restreint de choses dans un temps donné pour les conduire à l’esprit, c’est-à-dire au jugement. Les limites aristotéliciennes constituaient donc une sorte de parcours parfait et symbolique du processus dramatique, emprisonnant l’action humaine, née et échue à l’aube, dans le cercle exemplaire parcouru par la lumière-temps ; l’aventure du berger Endymion en constitue une image canonique. Et l’on comprend que la pastorale s’en soit emparée. La tragédie moderne qui s’ouvre in medias res et s’achève par une mort violente, est centrée au contraire sur un moment de crise, c’est-à-dire de rupture de l’Histoire, et dès lors vingt-quatre heures suffisent à l’action. 90 LA LUMIÈRE ET LE TEMPS SUR LA SCÈNE BAROQUE Rappelons pourtant que jusqu’à la fin du XVIIe siècle le temps n’est pourtant pas compté, dans les spectacles baroques (le feste teatrali), selon le déroulement de l’horloge qui règle la tragédie, mais plutôt à l’antique, selon les quatre temps (un temps qui est aussi un rythme) qui présidaient aux quatre âges du monde, aux quatre âges de l’homme, aux quatre saisons de l’univers et de l’année. Dans l’année liturgique qui ordonnait la vie de tous, le retour des quatre temps et leurs vigiles (Noël, Pâques…) marquaient de fait l’entrée dans les quatre saisons. Les 24 heures du jour étaient, elles aussi, divisées en quatre parties : de 6 heures du matin à midi, de midi à 6 heures du soir, pour le jour, de 6 heures du soir à minuit et de minuit à 6 heures du matin, pour la nuit, et d’ailleurs les mots nous en ont laissé la trace : mezzo/giorno, mezza/notte, mi/di, mi/nuit. Par exemple, quand le narrateur de La Calandria rapporte à son correspondant que la représentation a commencé « a un hora de notte » il est pour nous, 7 heures du soir. C’est sur ce découpage archaïque, mais familier, de quatre temps et donc de quatre vigiles que fut composé, en 1608, le divertissement allégorique de Francesco Cini intitulé Notte d’amore, pour les noces de Côme de Médicis et Marie-Madeleine d’Autriche ; autrement dit, chaque tableau désigné comme vigile donc comme avant-coureur du suivant, est entraîné par la Nécessité, du début de la nuit à l’aube, dans la poursuite inéluctable d’un temps cosmique, accéléré pour les besoins du spectacle. Ce mot de vigile appartient donc à la représentation cosmique de la scène. Les spectateurs, appelés veglianti1 parce qu’ils participent à la veillée festive de la supposée nuit d’amour des époux princiers, sont entraînés eux aussi par le retour rythmique des ballets suivant chaque acte de la fable “cosmique”. Prenons pour exemple la seconde vigile de notre Endymion, qui se déroule de 9 heures du soir à minuit. Le décor est un “beau jardin”. Arrive la Lune avec son cortège « d’étoiles blondes », puis Endymion. Le narrateur de la fête les décrit rapidement : « La Lune chasseresse, toute argentée, avec le croissant sur la tête. Endymion, vêtu en berger, avec un habit riche et bizarre, et sur la tête, un astrolabe. » (Ne pas oublier cet étrange détail, encore qu’au cours des mêmes fêtes, le quatrième intermède du Jugement de Paris soit intitulé Le Navire d’Amerigo Vespucci, référant aux mêmes navigations). Puis descend un cortège d’étoiles blondes et autres créatures célestes. Cette scène de l’Endymion est le clou du spectacle, au sommet de la nuit. Après quelques 1. Le mot français veilleur est réservé maintenant aux veilleurs de nuit, chargés de surveillance de bâtiments et d’usines ; il ne correspond plus à cet aspect festif des veillées anciennes des campagnes, réunions de voisins isolés où l’on chantait et dansait : de là est demeuré longtemps dans les parlers locaux le mot de veilleux. 91 FRANÇOISE SIGURET vers, les divinités descendent de la scène pour danser dans le théâtre avec les veglianti. Se fondent alors le temps cosmique et le temps humain. L’instant de passage de la terre au ciel, après le bal, est toujours signalé par la chute du rideau et la vue éphémère d’une perspective. Ce divertissement qu’animaient de nombreuses figures allégoriques : la Nuit, les Étoiles, les Heures, les Songes, les Cupidons, le Silence, l’Oubli… et probablement quelques machines qui marquaient une lumière/temps comme le char de la Lune ou de l’Aurore, ce divertissement aurait pu sombrer lui-même dans l’oubli, n’eût été Benserade promu poète des Ballets de la cour de France, qui en fit le fameux Ballet de la Nuit, dansé pour le Carnaval, dans la salle du Petit-Bourbon le 23 février 1653, dans une scénographie de Torelli. Ce spectacle resté célèbre par son immense déploiement à partir du modèle florentin, avec sa trentaine d’Entrées, raffinées ou grotesques, ses dizaines de danseurs, la beauté des lumières et des costumes, les imbrications de théâtre dans le théâtre, comprenait, entre autres, l’épisode d’Endymion à l’ouverture de la troisième partie « de minuit jusques à 3 heures avant le jour ». Mais la suprême merveille de la soirée fut l’Entrée du Roi, à la fin du Ballet, après le passage de l’Aurore. Le jeune Louis, Apollon de quinze ans, « représentant le soleil levant », portait un éblouissant costume d’or et de pierreries ; un soleil était peint ou brodé sur son juste au corps et s’affichait comme sa figure emblématique. Ses escarpins, ses genoux, étaient ornés de soleils ; les poignets, les épaulières, le colletin de cette armure apollinienne n’étaient que flamboiements de rayons ; sa tête enfin, couronnée de rayons sur ses cheveux blonds, semblait porter majestueusement le dernier plumet de la Nuit. L’air grave du visage royal laissait entendre que cette magnifique soirée fut bien comme la dernière veillée d’armes du chevalier. Le roi, en septembre, avait atteint sa majorité et, après les désordres de la Fronde et le retour de Mazarin le 3 février, cette apothéose intronisait le jeune souverain et le discours du livret qui devait être lu en son nom, présentait déjà l’« Astre des Rois » comme « Maître de l’Univers ». II. La Lumière À la Renaissance, en Italie, le théâtre, loin d’être offert à ciel ouvert, va se trouver enfermé au fond d’une grande salle de palais, ce qui impose la résolution pratique d’un problème poétique : il faut éclairer l’espace de la scène qui n’est en somme qu’une caverne. La scène et la salle ne font qu’une, sous un même ciel de plafond, parfois étoilé, qui rappelle encore l’amphithéâtre antique. Sont alors installées des rangées de lustres montées sur poulies afin qu’on puisse les descendre pour les allumer, les moucher, les recharger, avec les problèmes connus d’éblouissements, de gêne, de coulures brûlantes, de fumée noire et 92 LA LUMIÈRE ET LE TEMPS SUR LA SCÈNE BAROQUE de mauvaises odeurs si les bougies sont de suif… On ajoute à cela, derrière la rampe du bord de scène, une rangée de lampions avec ou sans réflecteur ; ceuxci éclairent sans être vus et sans gêner. Il y a donc une condition nécessaire mais pas forcément suffisante de cette combinaison de lustres et lampions qu’évoque le Corago en termes de lumiere et lume(i), quand il parle d’alluminare ou d’illuminare la scène. Privé de cela, le théâtre tout entier n’est qu’un chaos bruissant de voix confuses, faute d’être rapportées à des corps distincts, un chaos voué aux « instincts animaux » d’un public qui ne profite que trop de la confusion ! Tenons pour preuve les précautions de Serlio dans la disposition des hommes et des femmes, jeunes et vieilles, sur les gradins de la salle, pour ne rien dire des anecdotes salaces du populaire Hôtel de Bourgogne, seul et très médiocre théâtre de Paris où les spectateurs étaient debout au parterre. Ainsi la lumière jaillissant du Chaos comme au premier jour de la Création, affine les êtres (en rapportant corps et voix à des êtres distincts), les mœurs (la civilité l’emporte sur la grossièreté) et les âmes (la grâce du spectacle et son urbanitas font obstacle aux ténèbres de l’esprit et les redressent même par effet de catharsis). Cette lumière-là est donc primordiale et comme l’éternelle lumière de Dieu ou des dieux, qui offre à un public les conditions mêmes de la représentation. Elle est la luce de ce microcosme théâtral. Calderón disait dans son Gran teatro del mundo : « Senza luce, non c’è festa ». Serlio ajoutera à cette lumière essentielle toutes sortes de lampions accrochés partout, dans les rues du décor, derrière des bassins colorés, ou sur le toit des palais, doublées ou non de miroirs. Ces lumières-là qui sont des lumi, peuvent avoir toute sorte de noms dans les premiers écrits ou traités qui s’intéressent au problème que pose la lumière dans ce qui est appelé la « poésie représentative » : fiaccole, frugnoli, fuochi, torze, lampade et toute la famille des chandelles (candelle), variations dictées par le support portant ces éclairages (du flambeau au lampion), la matière qui les composent (cire, huile, résine) et l’usage qu’on en fait. Quand il a été possible de circuler librement dans le décor sur le plan incliné continu de la scène, la lumière fut disposée derrière les périactes ou le long des portants, tout autour des nuées, et des chars célestes. Avec Buontalenti et les fêtes de 1589, l’illumination sera devenue une technique parfaitement au point, capable même de produire des variations de l’intensité lumineuse. Mais au fil du temps, le public exigeant toujours davantage, ce furent les effets spéciaux des éclairs, de l’arc-en-ciel, et des gloires finales, et l’intrusion des machines-lumière (chars du soleil et de la lune). Qui plus est, les décors eux-mêmes, stucchés de faux marbres pouvaient aussi être peints voire entièrement dorés, comme le palais du fondale d’Atys, et bien d’autres palais d’Apollon ; enfin des perles de verroterie colorée à l’imitation des pierres précieuses, et de petits miroirs, fixés sur les costumes ou dans les coiffures, accrochaient et reflétaient la lumière par éclats éphémères : toutes ces lumières-là, 93 FRANÇOISE SIGURET secondaires, appartiennent aux merveilles du décor, et pour tout dire à la magnificence du prince, mais n’ont pas d’absolue nécessité. Et pourtant, si l’éclairage primordial soumet le spectateur à l’évidence du visible sans laquelle il n’est point de fête, c’est bien cet éclairage secondaire qui provoquera, en ce même spectateur, l’effet de stupor qu’achèvera l’hypotypose parfaite du tableau final de la gloire du prince, tant de fois rapportée dans les relations de spectacles. Cet effet de suprême delectatio et admiratio, au-delà desquelles l’œil relaie nécessairement la parole interdite, conduit le public à l’éternel ravissement des fêtes princières. Ainsi comme on parle en linguistique de la double articulation du langage en termes de signifiant et signifié, je parlerai d’une double articulation de la lumière. L’une durable, obligée, fixe et visible, englobe la scène et la salle : ce sont les lumiere dont de nombreuses gravures nous ont laissé l’image ; elles constituent un ornement de l’architecture et vont de pair avec elle. L’autre lumière, celle des lumi, est au contraire, éphémère et aléatoire, d’ailleurs toujours cachée derrière les éléments des décors et des machines, ou se voit reflétée et démultipliée dans les éclats des chevelures et les soies, taffetas et satins des costumes ; elle appartient au décor. Cette double articulation dont le spectateur n’a pas conscience mais qui va justement le piéger, permet de saisir à la fois le réel (ce que l’on voit) et la représentation du réel (ce qui fait sens comme chose vue) de façon d’autant plus troublante que le support dramatique scénique est complexe. Qu’en est-il en France ? il y eut, ici et là, dès le seizième siècle, dans les milieux humanistes et/ou italianisants, un “théâtre âu chateau” mais dont on sait peu de chose quant aux représentations théâtrales ; celles des collèges, mieux connues, firent bientôt la réputation des Jésuites. Mais il n’y eut longtemps, dans toutes les villes du royaume, pour réunir un public tant royal que populaire, que les grands Mystères médiévaux, réalisés à ciel ouvert dans un théâtre en rond, et récités dans ou devant des mansions ou sortes de loges aménagées sommairement, selon les scènes qu’elles acceuillaient. À Paris, les Confrères de la Passion, responsables de l’organisation de ces jeux, souvent dotés de “mises en scènes” spectaculaires, durent se transporter sur la scène plate de l’Hôtel de Bourgogne après l’interdiction légale des mystères en 1548. Par indigence, ils n’ont rien fait pour que le théâtre en salle s’améliorât : ils installèrent le décor à compartiments, hérité des mansions, et ne connurent jamais, en matière de lumière, que des lampions fumeux. Il nous a donc fallu importer deux reines florentines puis un cardinal-nonce-ministre pour que cet art de la scène prenne son splendide essor. C’est en effet, avec l’Entrée de Catherine de Médicis et Henri II à Lyon, le 27 septembre 1548, qu’un public français découvrit la scène à l’italienne avec La Calandria de Bibbiena qui avait été jouée à Urbino en 1513, à Rome en 94 LA LUMIÈRE ET LE TEMPS SUR LA SCÈNE BAROQUE 1514 et 1515, avec une scénographie de Peruzzi et le décor de l’Urbs romaine, à Mantoue en 1521, avec une salle à l’antique décorée des Triomphes de César de Giulio Romano. À Lyon, le « magnifique cardinal de Ferrare, primat des Gaules et archevêque de Lyon » (Brantôme), Hyppolite d’Este, avait fait aménager une salle à grand frais et invita une troupe florentine et son décorateur pour la représentation de cette œuvre célèbre. Le décor perspectif, tel que l’on n’en avait jamais vu, représentait Florence pour flatter la reine, et cela émerveilla le public français qui se crut à Florence, étant assis à Lyon. Mais ce qui l’émerveilla plus encore fut la traversée de la scène par l’Aurore sur un char tiré par deux coqs de carton superbement emplumés et qui chantaient en se répondant, tandis que le char s’élevait. Puis arrivaient Apollon et les Quatre Âges de l’humanité pour introduire quatre intermèdes, et la comédie s’achevait par l’entrée de la Nuit sur son char tiré par deux hiboux. Pittoresques et spectaculaires, ces chars de l’Aurore et de la Nuit étaient importants dramatiquement puisqu’ils marquaient avec la naissance et la tombée du jour, le début et la fin de la comédie, à une époque où, comme je le disais au commencement, les humanistes commentaient la Poétique d’Aristote. Enfin, presque un siècle après La Calandria, en 1635, s’ouvrit à Paris un théâtre public nouveau, pas encore vraiment à l’italienne, appelé le Marais ; il comportait deux scènes, une grande dessous, avec un plancher incliné, et une autre scène, plus petite, au-dessus. Pour la représentation de la Médée de Corneille, le décor utilisait des coulisses perspectives, peignant un palais à l’antique, et au dénouement de la tragédie, surgissait, sur la petite scène masquée de nuées, le char de Médée tirée dans le ciel par deux dragons. Toutefois, après cette tentative baroque, le théâtre tragique, héroïque, de Corneille fut un théâtre de la virtù romaine, rapporté en vers sonores et martelés : la tragédie française était un théâtre de la parole, avec des effets élocutoires que renforçait une déclamation pompeuse et cadencée. Pourtant, à la demande de Mazarin, Corneille retourna à la tragédie “à machines” et composa une Andromède jouée en 1650, avec une mise en scène de Torelli. Si d’ordinaire l’action spectaculaire conduisait aux machines, ici ce furent les machines dispendieuses de l’Orfeo de Rossi, chanté, trois ans plus tôt, dans le théâtre du Palais-Cardinal, qui dictèrent l’invention ; le poète écrivait dans l’Argument de l’œuvre que c’était « un drame fait pour les yeux. » Le théâtre de son rival, Racine, dans la seconde moitié du XVIIe siècle, fut au contraire, un théâtre dont seules la rhétorique et la poésie suggèrent toutes les nuances des passions humaines et de leurs fantasmes, un théâtre de l’hypotypose qui exaspère la vision de l’esprit, les yeux du “dedans”, non ceux du “dehors” fascinés par les machines de la scénographie. Par exemple, quand le jeune Néron, dans Britannicus, évoque l’enlèvement nocturne de Junie à la lumière des flambeaux, cela est sans doute infiniment plus efficace pour toucher 95 FRANÇOISE SIGURET l’âme du spectateur que la vision de Zeus descendant des cintres dans une machine éclatante conduite par un aigle, pour ravir une nymphe qui danse dans un pré avec ses compagnes ! Dans la tragédie classique, le support discursif doit compenser le spectacle constitué par les éléments du décor qui trompent l’œil captif et surpris : toute la construction de la scène et l’implantation des châssis par l’artifice illusoire de la perspective, la peinture desdits châssis, et les effets des machines ne sont bien que des trompe-l’œil. Dans les deux cas, la lumière primordiale demeure comme condition impérieuse d’une mimesis, mais ce qui change c’est la représentation de la lumière comme condition circonstantielle, particulière, d’une sémiosis, le donné à voir étant finalement un donné à entendre. Chez Racine l’œil écoute, comme disait Claudel et l’image se creuse dans le texte, au rythme régulier, envoûtant de la déclamation de l’alexandrin ; dans le spectacle des machines, l’œil est sidéré et l’image se fige dans un éclat ; c’est un théâtre de la merveille. Seul le mouvement, le changement fera sens, ficelé par un livret assez mince et une musique expressive. Chez Racine, c’est le sens qui nous laisse méditer sur les passions de l’homme dans l’Histoire : à cela la piètre ordonnance de la luce suffit. Enfin, ajoutons que dans la fable mythologique du spectacle baroque, nous sommes instruits du sens par l’Allégorie, cet autre discours adressé au public, porté par des figures et la multiplicité imprévue, désordonnée des lumi, dans une sorte de mouvement perpétuel des créatures et des choses entre le Ciel et la Terre, où finalement le temps humain n’est rien, ni l’Histoire. Si le cycle des jours et des nuits, des mois, des saisons, des années, si les Heures et les minutes mêmes envahissent la scène, de façon invraisemblable, ce n’est pas pour contraindre une action qui ne se raconte que par les forces mouvantes des dieux, et des Allégories, mais c’est, d’une part, pour montrer la grandeur et l’immortalité du prince (Cosimo/cosmo est le même mot), et d’autre part, pour faire tourner et montrer la machine du monde dans sa moindre précision et s’assurer de son mouvement perpétuel. Ainsi l’on voit au musée des sciences de Florence de formidables machines rondes à manivelles, entre les astrolabes et les lunettes, de Vespucci à Galilée, offertes comme des théâtres prêts à s’ébranler. Les deux gloires médicéennes retournent alors de l’Histoire au mythe, entre les songes d’Endymion de Cini et ceux du Guerchin : au XVIIe siècle, la science, la poésie, la peinture, le spectacle sont autant de machines à rêver et à explorer le monde et la nuit, comme pour se rassurer : « Eppur si muove ! » À l’époque où l’on redécouvrira l’héliocentrisme, la rationalisation de la pensée ramènera le soleil, premier moteur de la fable du monde, dans l’espace de la fable théâtrale. Dans le microcosme humain, l’Histoire n’aura de sens qu’à partir de ce soleil souverain et le mouvement perpétuel de la terre autour de lui. Le temps n’est qu’un accident de la lumière. 96 Paologiovanni Maione «IL POSSESSO DELLA SCENA»: GENTE DI TEATRO IN MUSICA TRA SEI E SETTECENTO Il parnaso degli artisti dediti all’arte canora è affollato da sedicenti creature prive di magistero e professionalità, secondo una disparata documentazione seisettecentesca i virtuosi di voce sono sprovvedute creature che proditoriamente calcano le sacre tavole.1 Sbandate e smarrite sembrano aggirarsi in uno spazio che violentano, con la loro vituperosa presenza, con il solo fine di raggirare un pubblico ‘distratto’. Al centro dell’ignominiosa accusa sono, naturalmente, le esponenti del gentil sesso che fomentano un’inarrestabile immaginazione tesa a screditare l’Arte a vantaggio di interessi tutt’altro che leciti messi in pratica dalle belle ‘sirene’ dal discutibile canto.2 Al di là dell’idolatria per un 1. Sulla figura del cantate si vedano, tra l’altro, gli scritti di S. Durante, Il cantante, in Storia dell’opera italiana, a cura di L. Bianconi e G. Pestelli, iv. Il sistema produttivo e le sue competenze, Torino, EDT, 1987, pp. 347-415 e J. Rosselli, Il cantante d’opera. Storia di una professione (16001990) (1988-1989), trad. it. a cura di P. Russo, Bologna, il Mulino, 1993, corredati di ricca e utile bibliografia. Le donne dedite allo spettacolo erano assiduamente oggetto di fiere critiche come può evincersi dalla ricca documentazione presente in F. Taviani, La Commedia dell’Arte e la società barocca. La fascinazione del teatro, Roma, Bulzoni, 1969 (rist. anast. ivi, 1991). 2. Una disamina sui costumi e la professionalità delle cantanti in età moderna, in area napoletana, si delinea attraverso le pagine di B. Croce, I teatri di Napoli. Secolo XV-XVIII, Napoli, Luigi Pierro, 1891, passim (l’opera è stata più volte ristampata, con aggiunte e modifiche, presso la casa editrice Laterza di Bari; della quarta ediz. si è avuta una ristampa a cura di G. Galasso presso Milano, Adelphi, 1992); U. Prota-Giurleo, Breve storia del teatro di corte e della musica a Napoli nei secoli XVII-XVIII, in F. De Filippis e U. P.-G., Il teatro di corte del palazzo reale di Napoli, Napoli, L’arte tipografica, 1952, pp. 17-146; F. Cotticelli e P. Maione, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli». Materiali per una storia dello spettacolo a Napoli nel primo Settecento, Milano, Ricordi, 1996, pp. 179-192; P. Maione, Giulia de Caro «seu Ciulla» da commediante a cantarina. Osservazioni sulla condizione degli «Armonici» nella seconda metà del Seicento, «Rivista italiana di musicologia», xxxii, 1997, 1, pp. 61-80; Id. e F. Seller, Vita teatrale a Napoli tra Sette e Ottocento attraverso le fonti giuridiche, in Salfi librettista, a cura di F.P. Russo, Vibo Valentia, Monteleone, 2001, pp. 83-95; P. Maione e F. Seller, I virtuosi sulle scene giuridiche a Napoli nella seconda metà del Settecento, in Fonti d’archivio per la storia della musica e dello spettacolo a Napoli tra XVI e XVIII secolo, a cura di P. M., Napoli, Editoriale Scientifica, 2001, pp. 477-486; Id., «Mena vita onestissima»: le DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 97-108 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18363 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. PAOLOGIOVANNI MAIONE esclusivo gruppo di ammirate cantatrici dall’inarrivabile perfezione belcantistica – un olimpo serialmente abitato da adamantine muse non sempre dalle specchiate virtù morali –3 il mondo della scena armonica è popolato da orecchianti alla ricerca di favori e agiatezze da ottenere con poco sudore. La lunga ombra del meretricio le investe inesorabilmente e la leggerezza dei costumi è il marchio che suggella questo esercito di inadeguate canterine: sono questi i requisiti che comunque rendono ‘sorelle’ tutte coloro che intraprendono l’insidioso percorso della scena.4 Le virtù luciferine sembrano trionfare su quelle artistiche e la stessa letteratura per la scena si ostina ad accreditare un mondo affollato da vacillanti artiste, il noviziato delle commedianti si esaurisce in pochi precetti tra cui quello musicale sembra arrestarsi dinanzi a una generica propensione all’arte canora. La librettistica settecentesca racchiude preziose istruzioni per quell’esercito di fanciulle abbagliate dagli agi teatrali, le qualità performative hanno poco valore al cospetto di un ‘personale’ vivace e spiritoso. Eppure la fanciulla disegnata da Trinchera ne La simpatia del sangue mostra una crepa nell’abusata visione se con modestia ostenta una certa preparazione destinata più che alla scena teatrale a quella del mondo; Nina alle osservazioni di Checchino sui costumi del tempo risponde con grande sapienza: Checchino […] oggi per le femine il ballo è uno elemento necessario, per far cascare al vischio cotesti mattarelli Ganimedi, che stimano virtù torcere i piedi. Nina Checchino mio, chest’è la dota nosta, e mperzò da che nasce ogne ciantella, vo’ lo Masto d’abballo, e de Cappella. Checchino E che saprai tu ancora solfeggiare? Nina Saccio, quanto me vasta, pe no spasso.5 cantarine alla conquista della scena, in Dibattito sul teatro. Voci, opinioni, interpretazioni, a cura di C. Dente, Pisa, ETS, 2006, pp. 123-134; P. Maione, Giulia de Caro: from whore to impresario. On cantarine and Theatre in Naples in the second half of the Seventeenth Century, in Online-Tagungsbericht zum Symposium: Das Eigene und das Fremde - Beziehungen zwischen verschiedenen Musikkulturen, Universität Innsbruck, Österreich, a cura di K. Drexel e R. Lepuschitz, 2013 (http://www.uibk. ac.at/musikwissenschaft/forschung/publikationen/daseigene/maione.pdf. Ultimo accesso: 20 dicembre 2015); P. Maione, Gli impieghi delle virtuose tra alcova e palcoscenico, in corso di stampa. 3. Si veda ad esempio B. Croce, Un prelato e una cantante del secolo decimottavo. Enea Silvio Piccolomini e Vittoria Tesi. Lettere d’amore, Bari, G. Laterza & F., 1946. 4. Cfr. S. Di Giacomo, La prostituzione in Napoli nei secoli XV, XVI e XVII, s.l., Del Delfino, 1968. 5. P. Trinchera e L. Leo, La simpatia del sangue, Napoli, A spese di Nicola di Biase, 1737, iii 7. 98 GENTE DI TEATRO IN MUSICA TRA SEI E SETTECENTO Le doti esibite da Nina in un’arietta esemplificativa del suo ‘modesto’ talento inducono Checchino ad avviare un altro dialogo esemplare in materia di avviamento al palcoscenico: Checchino Perché tu non t’adatti a recitare? Nina Recetà? arrassosia! Lo rrecetà è arredutto a na meserea Pecché na Cantarinola Ave da sta soggetta a ccierte ffuorfece, Che non sanno la storta, e la deritta, E metteno lo piecco a ttutte quante. Io recetare? leva, passa nnante. Checchino Alle chiacchiare badi? […] Ch’il cantar sul Teatro è gran fortuna. Nina Pecché? Checchino Perché così fra gl’Ascoltanti Le femine ragunano gl’Amanti; Vedi quante tapine Si sono poste in salto, e in signoria Solo per dire un’aria in su la Scena, Vedi quante figliole, uscite appena, Pelano Cicisbei… oh fossi io donna, Che averei l’abiltà, Di spogliar tutta intiera una Città. Nina T’aggio creddeto a chesto, e se io avesse No po’ de scola toja, potria fa assaje, Ma io songo na locca. Checchino Non importa, Nina mia, il Teatro è una gran scuola: Tu sei bella figliola, Non mancheranno chi portarti avanti, Chi sbatterti le mani, Chi dirti viva, e bravo, Bravo tre volte, bravo cento volte, Oh cara… oh figlia, e all’ora Affacciar ti potrai dentro le Scene, Per vedere l’applauso da chi viene. Nina Già mme ne faje venire lo golio. Checchino Recita, che sarà la tua fortuna, Innamorar farai mille merlotti.6 6. Ibid. 99 PAOLOGIOVANNI MAIONE La sorte del cavalcar la scena per ‘raccogliere’ privilegi da cavalieri in preda a tempeste ormonali occulta il magistero di molte che probabilmente dissimulano l’arte per pudore o per assecondare la visione dei più. Tra le stelle del firmamento canoro a subire infamie sull’inadeguatezza tecnica spicca nella seconda metà del Seicento l’intraprendente «Commediante Cantarinola Armonica, Puttana» Giulia de Caro che solo grazie alle pagine musicali destinatele trova il giusto riscatto.7 La riabilitazione della bistrattata artista è possibile grazie a quel repertorio dichiaratamente affrontato sulle scene, luogo in cui era impossibile millantare o mentire. Ciulla dalla formazione assai complessa che si consuma tra il Largo di Castello, in un clima coloratamente oleografico e foscamente inquietante, e la città eterna, in un misterioso tirocinio, è dedita sia alla pratica di attrice che a quella di canterina. L’esperienza da commediante è da ascriversi a un ruolo marginale all’interno di una gerarchia professionale: la de Caro esercita il lavoro di commediante al Largo di Castello, attirando con la sua arte avventori per i medici ciarlatani. Dunque il suo ruolo di commediante sembra esaurirsi in un’esperienza irrilevante, non comparendo, almeno per il momento, al seguito di compagnie di professionisti. È poi la ricerca di un’ufficialità professionale che la spinge a compiere il salto di qualità nel mondo del belcanto. I lunghi viaggi intrapresi per Roma portano a formulare l’ipotesi di un pellegrinaggio verso un addottrinamento nell’arte del canto; l’Urbe santa è la fucina di una schiera di cantanti provette e la de Caro compie il suo percorso di virtuosa presso questo laboratorio canoro. L’esibita competenza tra scene dissimili comporta un’esperienza performativa decisamente variegata e non del tutto eccezionale.8 La tecnica vocale di molti è forgiata nel corso di un apprendimento ancora dai risvolti misteriosi ma segnato, da quanto si sa, da un itinerario formativo scrupoloso; un ruolo non secondario, ha negli ambienti settecenteschi della commedia per musica, il maestro di cappella Giovanni dell’Anno che lega a sé diversi interpreti con contratti che prevedono una sua partecipazione negli utili dei propri discenti anche se non è da escludere un suo coinvolgimento 7. Per Giulia de Caro si rinvia a A. Broccoli, Del Fuidoro e del Muscettola, «La Lega del Bene» i, 1886, 10 (pp. 4-7), 11 (pp. 7-8), 12 (pp. 6-8), 13 (pp. 5-6), 14 (p. 8), 15 (pp. 5-6); Croce, I teatri di Napoli, cit., pp. 167-180; U. Prota-Giurleo, I teatri di Napoli nel ’600. La commedia e le maschere, Napoli, Fiorentino, 1962, pp. 293-303; Di Giacomo, La prostituzione in Napoli, cit., pp. 147-153; Maione, Giulia de Caro «seu Ciulla», cit.; Id., Giulia de Caro: from whore to impresario, cit.; Id., Giulia de Caro «Famosissima Armonica» e ‘Il bordello sostenuto’ del signor don Antonio Muscettola, Napoli, Luciano, 1997. 8. A tal proposito si veda F. Cotticelli e P. Maione, «Abilitarsi negli impieghi maggiori»: il viaggio dei comici fra repertori e piazze, in Europäische Musiker in Venedig, Rom und Neapel (1650-1750), a cura di A.-M. Goulet e G. zur Nieden, «Analecta Musicologica», 2015, 52, pp. 326-346. 100 GENTE DI TEATRO IN MUSICA TRA SEI E SETTECENTO attivo nell’arruolamento degli allievi presso le sale cittadine.9 La bottega canora di dell’Anno mostra sempre più le sue ingerenze con le imprese teatrali che vanno dall’assumersi in prima persona le responsabilità dei suoi protetti – è il caso di Andrea Masnò per il quale si obbliga a restituire l’onorario «in caso di mancanza» –10 sino alla preparazione dei ruoli che interpreteranno impartendo loro lezioni – è questo il caso, ampiamente documentato, di Teresa Palma dalla quale percepisce il cinquanta per cento dei suoi proventi.11 La convenzione intercorsa tra il virtuoso Nicola de Simone e l’adepta Maria Antonia da Ponte, che usufruisce gratuitamente di lezioni per quattro anni, prevede per la cantante l’obbligo di devolvere al maestro gli eventuali onorari che percepirà nel lasso del quadriennio dalle pubbliche rappresentazioni.12 Allo stesso criterio remunerativo si ispira il patto a cui pervengono Rosa Rogas e Paula Fernandez per Giuseppa Fernandez sempre con dell’Anno: al fine 9. Informazioni su dell’Anno si desumono da Cotticelli e Maione, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», cit., p. 188; Id., Le carte degli antichi banchi e il panorama musicale e teatrale della Napoli di primo Settecento: 1732-1733, «Studi pergolesiani. Pergolesi Studies», 2006, 5, p. 50, con cd-rom allegato (Spoglio delle polizze bancarie di interesse teatrale e musicale reperite nei giornali di cassa dell’Archivio del Banco di Napoli per gli anni 1732-1734), passim. 10. Cfr. Cotticelli e Maione, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», cit., p. 188. 11. Si veda Spoglio delle polizze bancarie di interesse teatrale e musicale reperite nei giornali di cassa dell’Archivio del Banco di Napoli per gli anni 1726-1737, progetto e cura di F. Cotticelli e P. Maione, «Studi pergolesiani. Pergolesi Studies», 2015, 9, cd-rom: Archivio storico del Banco di Napoli, Banco di San Giacomo, giornale copiapolizze, matricola 779, partita estinta il 28 febbraio 1731 («A Francesco Fischetti duc. venti.1.5; E per esso a Carlo, e Teresa Palma Padre, e Figlia, et essi sono à compimento de duc. Cento, che l’altri per detto complimento l’ave ricevuti in più, e diverse volte, et essi duc. Cento sono metà delli duc. 200= li spettano per aver favorito in recitare nel Teatro nuovo nelle passate quattro opere fatte in detto Teatro dal mese d’Aprile 1730= per tutto l’ultimo del passato Carnevale del Corrente anno 1731=, che l’altri duc. 100= per detto compimento spettano pagarsi a Giovanni dell’Anno, come appare dall’istromento rogato per mano di Notar Francesco Antonio d’Atri di Napoli, benche detto dell’Anno ne hà ricevuti d’essi duc. 11.25= per mano di Carmine Perillo, con dichiarazione che detta Teresa resta intieramente sodisfatta si per detta Causa, come anche per l’abiti, scarpe, calzette, ed altro occorso in detta recita di dette quattro opere; […] E detto pagamento lo fà in nome, e parte di Giovanni Fischetti Impressario di detto Teatro») e ivi, matricola 1031, partita estinta il 27 marzo 1732 («A Pietro Antonio Torres d. diecisette 2.10 e per esso all’appaldatore del Teatro Nuovo sopra Montecalvario a complimento di d. 120 […] e [per esso] a Carlo e Teresa di Palma e sono a conto dell’onorario che […] si deve a detta Teresa per la quarta recita delle quattro opere dalla medema appresentate [sic] nel Teatro Nuovo di questa città terminata nel scorso Carnevale corrente anno 1732 […] e per essi a Giovanni dell’Anno maestro di Cappella e sono a complimento del terzo che a lui spetta del’onorario di essa sudetta Teresa della quarta opera da essa rappresentata nel Teatro Nuovo nel Carnevale del corrente anno 1732 intitolata lo Castello Saccheiato […] e con detto pagamento resta detto Giovanni intieramente sodisfatto così di detta quarta opera come del altre tre rappresentate da essa in detto Teatro»). 12. Cfr. Cotticelli e Maione, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», cit., p. 188. 101 PAOLOGIOVANNI MAIONE di proseguire le lezioni «per darsi poi alle recite de Teatri tanto in questa città di Napoli quanto fuori»,13 si promette «la mettà di tutto il lucro […] di quello pervenirà da venti opere diverse, che doverà detta Giuseppa recitare», con una particolare assistenza alla prima recita.14 Comunque coloro che decidevano di votarsi alla commedia sapevano che Nce vuol’autre che mutrea, e bona voce. […] Nce vo’ talento, pratica, Grazia ne’ gesti, portamento proprio Nel maneggiar gli affetti: ove bisogna Usar caricatura, ed isfugirla Ove raffredda; e finalmente agire Coi movimenti degli occhi, e del volto.15 La girandola di competenze elencata ne La commediante rivela la sopraffina conoscenza detenuta dai cantanti del tempo, talvolta provenienti da esperienze acquisite in altre ‘botteghe’. Al teatro della Pace di Napoli nella stagione 17451746 compare nel ruolo di prima donna Anna Cavalluccio che nella stagione successiva sarà in forze al Fiorentini nella «Compagnia de’ Comici» diretta dal capocomico Domenico Antonio di Fiore che all’improvvisa alterna alcuni ‘Componimenti Drammatici per Musica’; la prima donna si esibisce con una troupe in cui gli altri comici si cimentano nel genere musicale mostrando così la labile linea di demarcazione tra i due ambiti spettacolari.16 Probabilmente anche Laura Monti – dalle eclettiche competenze come segnalato dal contratto stilato nel 1727 con l’impresario del teatro dei Fiorentini in cui si richiede all’artista di «Recitare in musica, e fare la parte da servetta […], e […] fare tutti quelli stravestimenti, che respettivamente necessiteranno […], et ogn’altro, così d’huomo, come da donna, e così di scherma, come di ballo, e sonare» –17 13. Ibid. 14. Ibid. 15. Anonimo e N. Conforto, La commediante, Napoli, Carlo Cirillo, 1754, i 3. 16. Per la presenza della cantante nella compagnia cfr. il sito http://www.operabuffa.turchini.it dove sono riportati i libretti in cui compare tra le interpreti: http://www.operabuffa. turchini.it/operabuffa/libretti/Giancocozza-0.jsp e http://www.operabuffa.turchini.it/operabuffa/libretti/FraLoSdegno-0.jsp (ultimo accesso: 15 dicembre 2015). Su di Fiore si veda: F. Cotticelli, Neapolitan Theatres and Artists of the Early 18th Century: Domenico Antonio Di Fiore, in Theater am Hof und für das Volk. Beiträge zur vergleichenden Theater-und Kulturgeschichte. Festschrift für Otto G. Schindler, a cura di B. Marschall, Vienna, Böhlau, 2002 («Maske und Kothurn», 48. Jahrgang, Heft 1-4), pp. 391-397. 17. La testimonianza si legge nell’incartamento conservato all’Archivio di stato di Napoli, Affari diversi della Segreteria dei Viceré, fascio 1778, executado 16 ottobre 1727. 102 GENTE DI TEATRO IN MUSICA TRA SEI E SETTECENTO poi passata da questa giovanile specializzazione nei ruoli di ‘servetta’ – carriera coronata dall’incursione sulle tavole regie nell’indelebile figura della Serpina pergolesiana de La serva padrona di Gennaro Antonio Federico – a quella di ‘primo uomo’ –18 che sicuramente richiese una rimodulazione della propria vocalità e una riformulazione delle proprie attitudini sceniche –, propone un’ignota nascita al mestiere: nel ’27 dichiarava di avere una lunga consuetudine con la pratica teatrale e dai repertori risulta presente in appena tre produzioni tra il ’22, in cui apparve come Schiavottella ne’ Li zite ngalera, e l’anno della sua dichiarazione sulla militanza scenica,19 per cui bisogna ipotizzare la comparsa non documentata sia in compagnie armoniche – ma a tutt’oggi non trapela un simile coinvolgimento – che in quel misterioso mondo dell’Arte assai avaro di testimonianze palesi. Di maestranze duttili e ‘conversioni’ alle dissimili pratiche teatrali è costellato questo primo scorcio del Settecento, ballerine rivelatesi cantanti – si rammentano almeno Antonia Novara che appare inizialmente sotto l’egida di Tersicore (di sicuro nel 1734)20 per poi votarsi a Euterpe come si deduce dai libretti del ’38 quando al Nuovo appare ne Lo secretista e ne La Rosa e poi al Fiorentini nel ’42-’43,21 e Girolama Lori anch’essa danzatrice conclamata nel 173522 ma prima ‘sirena’ al Fiorentini dal 1731 al 1733 e nel ’32 al Nuovo –23 e commedianti in bilico tra canto e prosa mostrano uno spaccato alquanto insolito. Esemplare, in questo panorama di contaminazioni e migrazioni, appare la «compañía de Trufaldines» organizzata a Venezia dall’ambasciatore spagnolo Pedro Cebrián y Agustín conte di Fuenclara per volontà di Carlo di Borbone da poco insediatosi sul trono delle due Sicilie:24 nell’agosto del 1735 inizia un’articolata trattativa tra il ministro Montealegre e il diplomatico in stanza nella Serenissima per provvedere ai desiderata del giovane monarca per il quale in tempi strettissimi viene allestita una ‘musicalissima’ «Com.a de Histriones» 18. Cfr. A. Palomba e L. Leo, La fedeltà odiata, Napoli, a spese di Domenico Langiano, 1744, in cui compare nei panni di Rinaldo. 19. Cfr. C. Sartori, I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800, Cuneo, Bertola & Locatelli, 1990-1992, 5 voll., nn. 25412, 5480, 6713. 20. Cfr. Cotticelli e Maione, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», cit., pp. 182 e 222 nota 122. 21. Si veda Croce, I teatri di Napoli, cit., p. 365, nonché Sartori, I libretti, cit., nn. 21417, 20134, 2784, 19791. 22. Cfr. Cotticelli e Maione, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», cit., p. 222 nota 122. 23. Si veda ivi, pp. 379-381 e 388. 24. L’articolata trattativa è documentata all’interno del fondo Ministero degli affari esteri custodito presso l’Archivio di stato di Napoli, fascio 2215, il primo incartamento è datato Napoli, 16 agosto 1735. 103 PAOLOGIOVANNI MAIONE diretta dal grande Arlecchino Gabriele Costantini che nella vorticosa contrattazione reclama che il «Rey […] les ha de dar la iluminaz.n y musica». D’altronde già si concordava sulla presenza «enla Comp.a delos Comicos […] otras personas que hazen su parte en los entremeses de Musica» per cui l’orchestra avrebbe soddisfatto non solo le esigenze sceniche delle «comedie e opera» ma anche quelle degli artisti destinati a esibirsi negli intermezzi.25 La troupe, come si apprende da una prima lista, è così composta: La compagnia, che Esebisce Gabriele Constantini per Servizio di S. M. Re delle Sicilie si è come Segue. P.ma Donna la Sig.a Cattarina Cattoli 2.a Donna la Sig.a Madalena Vidini 3.a Donna la Sig.a _ _ _ P.mo Amoroso il Sig.r Zorlini 2.° Amoroso il Sig.r Gandini 3.° Amoroso Il Sig.r _ _ _ P.mo Vecchio Il Sig.r Antonio Fioretti P.mo Zanne Il Sig. Andrea Neleca 2.° Vecchio Il Sig.r Giuseppe Monti 2.° Zanne Il Sig.r Gabriele Constantini Per Intermezzi La Consorte del Sud.to Sig.r Gandini Il Sig.r Andrea Nelva Ballarino Il Sig.r Antonio Constantini.26 Nel 1732 a Livorno coinvolti ne Il trionfo di Galba o Il Nerone detronato,27 «divertimento teatrale per musica», sono la primadonna Cattoli come Poppea, Antonio Fioretti nel ruolo di Nerone, Giuseppe Monti in quello dell’Ombra e Andrea Nelva nella parte di Tiridate; quest’ultimo appare anche impiegato, l’anno precedente, a Lodi come Astolfo ne Il Coralbo («Drama per musica» di Francesco Spanò detto Silvio su musica di anonimo)28 e nel ’35 a Milano ne Il Porsignacco.29 Sorprendente invece è la vita scenica di Teresa Gandini30 – annotata come «Consorte del Sud.to Sig.r Gandini» – la quale risulta scritturata 25. Cfr. ivi, incartamento 169, Napoli, 20 settembre 1735. 26. Cfr. ivi, incartamento 174, Napoli, 4 ottobre 1735. 27. Cfr. Sartori, I libretti, cit., n. 23988. 28. Cfr. ivi, n. 6646. 29. Cfr. ivi, n. 15910. 30. Sull’artista si veda la scheda contenuta nell’aggiornatissimo portale dell’Archivio Multimediale degli Attori Italiani all’indirizzo amati.fupress.net - http://amati.fupress.net/ S100?idattore=1896 (ultimo accesso: 15 agosto 2015). 104 GENTE DI TEATRO IN MUSICA TRA SEI E SETTECENTO nel ’33 a Livorno dove veste i panni di Pollastrella negli Intermezzi musicali tra Pollastrella e Parpagnacco,31 nel 1734-1735 a Milano in quelli di Dulcinea in un anonimo Intermezzo musicale32 e di Grilletta ne Il Porsignacco,33 per poi vestire nel 1738, a Napoli, come primo uomo, le vesti di Riccardo nell’Inganno per inganno («Commedia per musica» di Gennaro Antonio Federico e musica di Nicola Logroscino)34 e di Lelio ne L’Odoardo («Commedia per musica» tratta da La finta sorella di Bernardo Saddumene intonata da Niccolò Jommelli)35 e ancora di Ortensio nel ’39 ne L’Ortensio («Commedia per musica» di Federico musicata da Giovan Gualberto Brunetti),36 e nel ’44 di Leandro ne Il Leandro («Commedia per musica» di Antonio Villani composta da Logroscino).37 L’eclettica artista si voterà poi definitivamente alla scena della commedia incontrando sulla sua strada anche Goldoni prima di partire, forse proprio in polemica con l’avvocato veneziano, per la corte di Dresda.38 La padronanza scenica enunciata dal proscenio del Fiorentini ne La comediante fa tesoro di un’antica pratica attoriale che aveva trovato già in Perrucci il suo maggiore cantore, le regole dell’Arte rappresentativa non sfuggono ad un’attenta disamina di tutti quei requisiti ‘corporei’ destinati al magistero rappresentativo in cui l’individuo doveva avere la consapevolezza e il controllo del suo ‘agire’.39 La professione dei commedianti è retta da una ferrea tecnica per soddisfare alle richieste dell’esigente mercato dello spettacolo, la domanda esige personale altamente specializzato munito di doti disparate: gestualità, mimica, vocalità, fisicità concorrono alla realizzazione di personaggi compositi dove canto danza musica, associati ai requisiti performativi, contraddistinguono un prodotto eclettico e raffinato. Gli artisti assecondano le temperie performative disegnate da Perrucci al tramonto del XVII secolo con vigile attenzione osservando le regole dell’‘arte’ 31. Cfr. Sartori, I libretti, cit., n. 13435. 32. Cfr. ivi, n. 13462. 33. Cfr. ivi, n. 15910. 34. Cfr. ivi, n. 13182. 35. Cfr. ivi, n. 16896. 36. Cfr. ivi, n. 17567. 37. Cfr. ivi, n. 14166. 38. Cfr. S. Ferrone, La Commedia dell’Arte. Attrici e attori italiani in Europa (XVI-XVIII secolo), Torino, Einaudi, 2014, pp. 220, 345. 39. Per il trattato si veda A. Perrucci, Dell’arte rappresentativa premeditata, ed all’improvviso. Giovevole non solo a chi si diletta di rappresentare, ma a’ predicatori, oratori, accademici e curiosi. Parti due […], Napoli, M.L. Mutio, 1699, ma si veda ora Id., A Treatise on Acting, From Memory and by Improvisation - Dell’arte rappresentativa premeditata, ed all’improvviso (Napoli 1699), edizione bilingue a cura di F. Cotticelli, T. F. Heck e A. Goodrich Heck, Lanham, Md. & London, Scarecrow Press Inc., 2008. 105 PAOLOGIOVANNI MAIONE nei minimi dettagli, nulla sfugge ai poeti ‘pratici’ pronti a secondare le efficaci norme dettate dall’autorevole abate la cui vita è trascorsa tra tutte le scene possibili in un viaggio che si conclude con la summa teorica;40 dissimulano una conoscenza raffinata tutta racchiusa in un’esperienza che si manifesta nelle pieghe testuali, la mimica e la gestualità suggerite dal succedersi dei versi rivela implicite didascalie per corpi eloquenti finalizzate a un ‘diletto’ onnicomprensivo che «con la pronuncia, gesti, ed azzioni»41 esprima «i sentimenti dell’animo a chi ascolta, con modo, e garbo, avendo gran forza di persuadere l’espressione al vivo».42 «La pronunciazione è una eloquenza del corpo […] divisa in due parti, che sono la voce ed il gesto, delle quali una per l’orecchio, l’altra per l’occhio movono gli affetti dell’animo, e vi penetrano»43 raccomanda il ‘dottor Andrea’ che con sicuro piglio aggiunge che «il gestire accompagnando la voce, come è proprio dell’oratore, così è anche del rappresentante, che poco in ciò dall’oratore differisce, ed essendo il gestire un muto parlare, alle volte più esprime un atto muto ed un gesto che la parola istessa».44 Le occorrenze, per coloro che calcano il teatro del mondo ma soprattutto per quelli che approntano il loro apparire, devono tener conto di quei principi impliciti che rendono efficace il ‘mostrarsi’ con ‘sprezzatura’ per cui «il volto si muta con gli affetti, a cui obbediranno gli occhi, le palpebre, le guance, le ciglia, e la bocca; la maggior espressione però la faranno gli occhi. Le ciglia sono viziose allora che stanno sempre immobili, e viziose quando troppo si muovono, sicché la mediocrità l’è necessaria; incurvarle ed increspar la fronte si fa negli atti di meraviglia, ma con modo che non ecceda i termini, perché allora o è cosa da stolto, o da buffone; ristrette significano mestizia, dilatate allegrezza, rimesse vergogna, ed il sopraciglio del decemviro Capuano dimostrava la sua severità e superbia»45 mentre «i gesti con tutte due le mani si fanno, o quando s’inalzano al Cielo per adorarlo, o quando s’abbassano per supplica- 40. Su Andrea Perrucci si veda F.C. Greco, Teatro napoletano del ’700. Intellettuali e città tra scrittura e pratica della scena, Napoli, Pironti, 1981; Id., Ideologia e pratica della scena nel primo Settecento napoletano, «Studi pergolesiani. Pergolesi Studies», 1986, 1, pp. 33-72 (cfr. anche Id., La scrittura teatrale: dalla letteratura alla scena, «Critica letteraria», xiv, 1986, 51, fasc. ii, pp. 225274). Di grande suggestione è anche Id., Drammaturgia e scena a Napoli da Belvedere a Federico, «Studi pergolesiani. Pergolesi Studies», 1999, 3, pp. 117-155. Si veda inoltre l’Introduzione di F. Cotticelli a Perrucci, A Treatise on Acting, cit., pp. xii-xx e la bibliografia alle pp. 205-209. 41. Ivi, Parte i, Al lettore, p. 3. 42. Ibid. 43. Ivi, Parte i, Regola ix, p. 51. 44. Ivi, Parte i, Regola xi, p. 57. 45. Ivi, p. 58. 106 GENTE DI TEATRO IN MUSICA TRA SEI E SETTECENTO re; quando si gestisce nel mezo si dimostra, e quando si distendono s’invoca»46 e «s’accompagni il gestire col verisimile, e nelle dimostrazioni, volendo dire questi occhi, questa testa, etc. l’accenni, e non l’affetti toccandoli, ma con un semplice moto di dita. Volendo dire “son ligato”, “son stretto”, “son cieco”, medesimamente procuri d’accennarlo come di passaggio, perché l’affettazione deve come il fistolo e la rabbia sfuggirsi. Così dimostrando cielo, inferno, mare, terra, alberi, e che so io, gli dia il gesto proporzionato».47 L’attenzione al dato performativo non sfugge neanche a colui che sarà messo, con malevolenza, all’indice da una genia di ‘riformatori’ della scena musicale; Metastasio con disappunto assiste alla degenerazione della scena – di cui è accusato! – quando osserva con disprezzo le maestranze canore ormai poco aduse all’arte attoriale: I nostri eccellenti cantori vergognandosi d’assomigliarsi agli uomini, de’ quali prendono il nome, anelano unicamente di gareggiar con le calandre, coi zufoli e coi violini: e quando riesce loro di aver conseguito un sì grande oggetto, solleticano per pochi momenti più con la meraviglia che col piacere l’orecchio e non il core degli spettatori, obbligati poi ad evitare la noia di tutto il resto dello spettacolo con la disattenzione, coi cicalecci e con l’ingiurioso strepito meritato.48 «Deh non perdete, caro fratello, il calor naturale nel deplorar la decadenza de’ nostri teatri. Già è tale che o debbono finire o correggersi. Attori che suonano, invece di rappresentar cantando, non possono lungamente sussistere sulla scena. I buffi ed i ballerini che s’ingegnano oggidì di recitare ridurranno in polvere cotesti rosignuoli inanimati, come già visibilmente succede».49 E nell’elogiare una compagnia di comici, che ‘incanta’, pregusta «il piacere peccaminoso della vendetta contro i nostri rosignoli eroici che, vergognandosi di recitare, sono spolverizzati dai buffi e da’ ballerini».50 In effetti negli anni in cui fioriva il magistero metastasiano c’era un nugolo di cantanti che fondava la propria perizia anche sulle doti performative; un caso assai vicino a Metastasio è quello della Marianna Benti Bulgarelli – la sua maniacalità sull’uso dello spazio scenico si deduce dall’epistolario del poeta ce46. 47. 48. 1954, 5 1764. 49. 1764. 50. 1764. Ivi, p. 60. Ivi, p. 61. In Tutte le opere di Pietro Metastasio, a cura di B. Brunelli, Milano, Mondadori, 1943voll., lettera n. 1375, missiva inviata a Napoli a Giuseppe Santoro, Vienna, 26 marzo Ivi, lettera n. 1360, missiva inviata a Roma a Leopoldo Trapassi, Vienna, 30 gennaio Ivi, lettera n. 1387, missiva inviata a Roma a Leopoldo Trapassi, Vienna, 28 maggio 107 PAOLOGIOVANNI MAIONE sareo.51 Ma esemplificativo di tale urgenza scenica appare il ritratto fornito da Arteaga della primadonna Vittoria Tesi annoverata tra i più ‘celebrati cantori’:52 La prima fu Vittoria Tesi Fiorentina discepola del Redi, e del Campeggi, la quale ad una inflessione di voce sommamente patetica, ad una intonazion perfettissima, ad una pronunzia chiara, netta, e vivacemente sonora, ad un portamento di persona simile a quello della Giunone d’Omero seppe unire possesso grande della scena, azione mirabile, espressione sorprendente de’ diversi caratteri doti, che la resero la prima Attrice del secolo.53 La scrittura vocale si plasma alle esigenze della ‘scena’ e diviene gesto ‘sonoro’ per una genia di artisti dalle molteplici potenzialità rette da una disciplina solida e rigorosa in cui la scrittura poetico-musicale fa tesoro delle predisposizioni dei singoli per allestire pagine efficaci. Gli spettatori riconoscono gli svariati codici usati con fantasmagorica abilità e entrano nel gioco ordito dagli uomini della scena partecipando e godendo, così, dell’«onesto divertimento». 51. Per la Benti Bulgarelli si rinvia a R. Candiani, Pietro Metastasio da poeta di teatro a ‘virtuoso di poesia’, Roma, Aracne, 1998, ad indicem e Id., La cantante e il librettista: il sodalizio artistico del Metastasio con Marianna Benti Bulgarelli, in Il canto di Metastasio, a cura di M.G. Miggiani, Bologna, Forni, 2004, 2 to., to. ii, pp. 671-699. 52. Per la Tesi oltre Croce, Un prelato e una cantante del secolo decimottavo, cit., si rinvia ad A. Ademollo, Le cantanti italiane celebri del secolo decimottavo: Vittoria Tesi, «Nuova antologia», xii, 1889, 3, pp. 308-327. 53. S. Arteaga, Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente, Venezia, Carlo Palese, 1785, to. ii, p. 43. 108 Anna Scannapieco I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO. PRIMI APPUNTI Alla Signora Angela Cicuzzi Comica, Ballerina, e che si diletta ancora del Canto Bene a te si conven d’Angelo il nome, S’anco d’Angelo hai tu forme, e virtudi. E se per belle vie fatiche, e sudi, Merti cinte d’alloro aver le chiome. […] Tu nell’arte di Roscio hai chiaro il vanto; Tu leggiadretto il piè movi nel ballo: Tu canora la voce isciogli al canto. 1. Correva il 1782, quando Francesco Bartoli, con questi versi sgangherati, adempiva il suo ufficio plutarcheo anche nei riguardi di Angela Cicuzzi, nome a noi altrimenti oscuro, fra i moltissimi, altrettanto oscuri, che animarono l’affollata fauna spettacolare settecentesca. L’afflato poetico suggellava, nel caso specifico, la compilazione di una voce in cui il «Plutarco dei comici italiani»1 aveva già rimarcato – in prosa – come il nuovo Angelo delle scene veniva riscuotendo l’entusiastico plauso delle platee per la sua «molta inclinazione allo studio dell’Arte Comica ed anche a quello del Ballo, e […] Canto».2 Al trittico 1. Così nella definizione di A. D’Ancona, Viaggiatori e avventurieri, Firenze, Sansoni, 1911, rist. con prefaz. di E. Bonora, ivi, 1974, p. 109. 2. F. Bartoli, Notizie istoriche de’ comici italiani che fiorirono intorno all’anno MDL. fino a’ giorni presenti, Padova, Conzatti, 1782, to. i, p. 171 (rist. anast. Bologna, Forni, 1978). Angela era figlia di Regina Cicuzzi (poi Mantovani e poi Marchesini) che, sempre a detta del Bartoli (ivi, to. ii, p. 25), si formò nella celebre compagnia di Gabriello Costantini, su cui cfr. da ultimo F. Doménech Rico, La Compañía de los Trufaldines y el primer teatro de los Caños del Peral, Madrid, Universidad Complutense de Madrid, 2005, pp. 184-204 e passim; e in questa stessa sede editoriale v. lo scritto di P. Maione, «Il possesso della scena»: gente di teatro in musica tra Sei e Settecento. DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 109-128 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18364 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. ANNA SCANNAPIECO di mescidate virtù performative, peraltro, doveva probabilmente aggiungersi l’ulteriore risorsa di un trasformismo acrobatico, come suggerisce una fortuita scheggia documentaria rimasta racchiusa nelle memorie del Galeati, che in data 20 gennaio 1790 veniva descrivendo l’offerta spettacolare della compagnia allora attiva nel bolognese teatro Marsigli-Rossi. Qui, la primadonna – la nostra Angela – «vi faceva nove personaggi differenti, cantava, ballava, parlava in spagnuolo, francese, tedesco, veneziano, latino e bolognese».3 Dunque, psaltria, musica e perita ludi scaenici: Angela Cicuzzi avrebbe ben potuto rappresentare quel prototipo di faemina scaenica fomentatrice di insana libidine, scortum per eccellenza, il cui ritratto, nei primi decenni del Seicento, era stato disegnato dallo sguardo acuto di un gesuita spagnolo.4 Eppure no: comediante, canterinola, armonica, ma non puttana,5 la Cicuzzi. Siamo pur sempre al traguardar del secolo dei lumi, e un’attrice così versatile, «un buon ingegno» che – secondo l’accorto elogium del Bartoli – «si applica volentieri alla lettura de’ libri onesti», poteva sorprendere gli spettatori del tempo soprattutto con la «bontà dei suoi costumi che – concludeva il biografo – possono servir di mo- 3. Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna, D.M. Galeati, Diario e memorie varie di Bologna dall’anno 1550 al 1796, ms., B. 91, vol. xii, cc. 22-31 (il passo in questione è cit. in G. Cosentino, Il teatro Marsigli-Rossi, Bologna, Tipografia A. Garagnani e figli, 1900, pp. 180-182). Il Galeati qui descrive le recite tenute, a partire dal 6 gennaio 1790, dalla compagnia di Giovanni Marchesini e Gregorio Cicuzzi, in cui Angela agiva come prima donna. La rappresentazione di cui si discorre a testo era Il centauro d’abisso, protettore di Adelaide principessa di Belpoggio, condannata a morte dal fratello, assistito da Proserpina, e avvocato in propria causa con Arlecchino condannato alla galera per spia. Analogo trasformismo performativo la Cicuzzi doveva esercitare in un’altra rappresentazione, La principessa Amalia figlia del gran re Zoroastro, tradita da Pantalone scellerato regicida, precipitato nel mare da Brighella sicario crudele, e pescata semiviva da Arlecchino pescator fortunato e poi lacchè. 4. Si tratta, com’è noto, di Pedro Hurtado de Mendoza e del suo De Comœdiis quando sint scandalum (sez. xxviii.3 delle Scolasticae et morales disputationes, 1631). Questo il passo di riferimento: «Accedit faeminis periculum aliud minime levius, saepe illae sunt apprime pulchrae, elegantes corporis habitu et vestium, dicaces, salaces, psaltriae, musicae: peritae ludi sceanici, quae omnia ita in libidinem abripiunt spectatores, ut a multis adamentur in sane, qui eas auro et argento oppugnant, qui in earum victum, vestes et supellectiles profusus faciunt sumptus»; la sezione iniziava richiamando la definizione di scorta (‘sgualdrine’) che già san Giovanni Grisostomo aveva dato delle donne di teatro ( faeminae scaenicae). Traggo le citazioni da F. Taviani, La Commedia dell’Arte e la società barocca. La fascinazione del teatro, Roma, Bulzoni, 1969, pp. 86-87 (rist. anast. ivi 1991). 5. «Comediante Canterinola Armonica Puttana» è la definizione elargita nei suoi Giornali di Napoli da Vincenzo D’Onofrio (alias Innocenzo Fuidoro) alla straordinaria personalità di Giulia de Caro, su cui, dopo il capitolo dedicatole da Croce nei Teatri di Napoli (con particolare riferimento alla prima ediz: Napoli, Luigi Pierro, 1891), si veda ora il fondamentale contributo di P. Maione, Giulia de Caro «Famosissima Armonica» e ‘Il bordello sostenuto’ del signor don Antonio Muscettola, Napoli, Luciano, 1997. 110 I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO dello all’onesto contegno delle fanciulle sue pari, che hanno per la via del Teatro incamminati i loro passi». Se lasciava cader le spoglie meretricie, come quelle di una griffe ormai fuori mercato, Angela Cicuzzi tuttavia continuava a interpretare la cifra stilistica più distintiva della tradizione attorica dell’Arte: quell’impasto di diversi linguaggi performativi in cui, dal miliare contributo di Nino Pirrotta (1955) alla recentissima ‘summa’ di Siro Ferrone (2014), è stato riconosciuto uno dei fattori genetici della Commedia dell’Arte.6 Uno dei fattori genetici e – si può aggiungere subito – uno dei connotati più duraturi, anche se reso alquanto indistinto, segnatamente nella sua fenomenologia settecentesca, da quello che fu il progredire settoriale delle competenze professionali nella realtà dei processi in atto;7 e reso pressoché irriconoscibile dalla lunga egemonia, nella successiva ricognizione storico-critica, di una prospettiva troppo incline ad assolutizzare gli elementi di discontinuità e, di conseguenza, ad annichilire quelli di continuità. Solo il rinnovarsi dell’approccio ermeneutico e un uso più consapevole delle fonti stanno inducendo a riconoscere come in realtà, anche nel Settecento, la labilità dei confini professionali aveva facilitato l’eclettismo di cantanti-attori o attori-cantanti capaci di passare da un genere all’altro, assecondando una memoria per così dire ‘genetica’ del mestiere; o a documentare come, proprio nel Settecento, avesse avuto rinnovato luogo una straordinaria convivenza di generi pronti ad aiutarsi vicendevolmente, in un processo di contaminazioni gravido di futuro.8 In tale prospettiva, prestare ascolto alla testimonianza offerta dall’exemplum di un’Angela Cicuzzi, e cercare di sondare la versatilità professionale delle comiche sulla scena italiana settecentesca, potrebbe riservare qualche sorpresa. 6. Cfr. N. Pirrotta, Commedia dell’arte e opera (1955), in Id., Scelte poetiche di musicisti. Teatro, poesia e musica da Willaert a Malipiero, Venezia, Marsilio, 1987, pp. 147-171; S. Ferrone, La Commedia dell’Arte. Attrici e attori italiani in Europa (XVI-XVIII secolo), Torino, Einaudi, 2014 (in partic. pp. 110-126). Per quanto riguarda l’arco temporale intermedio, mi limito a segnalare il progetto, promosso da Gerardo Guccini e dal gruppo di lavoro del centro teatrale «la Soffitta» su L’arte dei Comici. Invenzioni e pratiche di un teatro multimediale (Bologna, 26 gennaio-16 maggio 2004), i cui riscontri editoriali si leggono nel numero 10 di «Culture teatrali» (primavera 2004). 7. Sul tema, d’obbligo il riferimento a S. Durante, Il cantante, in Storia dell’opera italiana, a cura di L. Bianconi e G. Pestelli, iv. Il sistema produttivo e le sue competenze, Torino, EDT, 1987, pp. 347-415. 8. Cfr. P. Fabbri, I comici all’opera: le competenze musicali dell’attore, «Culture teatrali», 2004, 10, pp. 47-54; F. Cotticelli-P. Maione, Le carte degli antichi banchi e il panorama musicale e teatrale della Napoli di primo Settecento: 1732-1733, «Studi pergolesiani. Pergolesi Studies», 2006, 5, pp. 21-54 (dei medesimi autori si veda anche «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli». Materiali per una storia dello spettacolo a Napoli nel primo Settecento, Milano, Ricordi, 1996, in partic. il cap. iv). 111 ANNA SCANNAPIECO 2. Ma quali sono i ‘numeri’ reali delle comiche nel Settecento italiano? Davvero innumeri, davvero acrobate, ballerine, cantanti, impresarie, oltre che naturalmente attrici, le comiche del Settecento italiano? Non tutte, ça va sans dire; ma un più che significativo drappello sì. La recensione che qui propongo – e che intende essere solo preambolo e stimolo a più sistematiche indagini – consente di affermarlo con un buon grado di fondatezza. Cominciamo ad allineare qualche dato puramente quantitativo (numeri letterali, se non proprio veri), enucleato a partire dalla prima – e per tanti versi ancora unica – ‘anagrafe’ dei comici settecenteschi, le Notizie istoriche di Francesco Bartoli, e perfezionato in base al riscontro di altre fonti.9 a. Del novero complessivo degli attori, la componente femminile ricopre circa il 35%: un dato significativo di per sé, se volessimo divertirci a rapportarlo alla sedicente evoluzione dei tempi moderni e alle ‘scene’ più significative dell’Italia d’oggi (per esempio quella dell’attuale Parlamento, dove la rappresentanza femminile risulta lievitata al 30%, ma appena il 16% vi riveste le cosiddette key positions). Il dato è naturalmente ancora più significativo se rapportato al mercato teatrale dell’epoca, in cui l’organico delle compagnie – sostanzialmente per l’intero arco del secolo – era strutturalmente sbilanciato sulla componente maschile in forza della presenza delle maschere, secondo una relazione che si attestava almeno sul raddoppiamento numerico degli attori rispetto alle attrici. b. Di questo 35%, per oltre un terzo (42 su 134)10 è possibile appurare l’espressione di una professionalità multipla: si tratta cioè di comiche che nel corso 9. Per la demografia attorica settecentesca, le Notizie di Bartoli costituiscono una fonte eccezionale, dato che proprio ad attori/attrici di quel secolo è dedicata la grande maggioranza delle voci: senza peraltro dimenticare la necessità di esercitare una doverosa critica delle fonti anche nei confronti di questo pilastro della storiografia teatrale, per cui mi sia permesso rinviare a A. Scannapieco, Noterelle gozziane (in margine al teatro di Antonio Sacco e di Carlo Gozzi). Aggiuntavi qualche schermaglia, «Studi goldoniani», xi n.s. 3, 2014, pp. 101-123; non sempre, oltretutto, il Bartoli dà notizia, per le singole attrici registrate, della varietà delle loro prestazioni performative. Impossibile enumerare tutti gli strumenti integrativi: a titolo d’esempio, oltre ai classici repertori di Colomberti e Rasi, o alla formidabile enciclopedia in progress dell’Archivio Multimediale degli Attori Italiani (http://amati.fupress.net), si considerino la storiografia teatrale di singoli centri cittadini (dal Croce dei teatri napoletani al Ricci di quelli bolognesi al Brunelli di quelli padovani), o di singoli teatri (come quella del teatro Regio di Torino, coordinata da Alberto Basso, o sul San Benedetto di Venezia, ad opera di Francesco Passadore e Franco Rossi), gli scritti autobiografici e i carteggi di eminenti protagonisti della civiltà teatrale (e non) settecentesca (da Goldoni a Gozzi a Casanova), i diari privati (dal bolognese Galeati al padovano Gennari) e i repertori musicali come quello sui libretti di Claudio Sartori. 10. Le attrici lemmatizzate da Bartoli sono in realtà centoventitré (escludendo le due figlie di Carlo Veronesi, Anna e Camilla, perché entrambe attive solo in Francia); sulla base di altre 112 I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO della loro carriera intrecciarono alla prestazione attorica anche quella canora e/o quella coreutica, quando non addirittura assunsero funzioni capocomicali, circostanza quest’ultima che – come vedremo – assume un rilevo storico-critico eccezionale, travalicando i pur estesi confini della storia del teatro e dello spettacolo e sollecitando, per dirla in breve, nuovi interrogativi sull’identità giuridica e l’effettivo potere contrattuale delle donne in epoca di Ancien régime. c. A quantificare in uno schema di massima la varia fenomenologia di tale versatilità professionale muliebre, si possono enucleare le seguenti categorie e la relativa incidenza ‘demografica’: i. Comiche ‘tersicoree’. 15, di cui 5 anche canterinole (segnalate con asterisco), e tra quest’ultime una anche impresaria (indicata con doppio asterisco): * Gaetana Bassi, *Marianna Bassi, *Angela Cicuzzi, **Elisabetta D’Afflisio Moreri, Maria Donati, *Luigia Lapy Belloni,11 Maddalena Raffi Marliani, Teodora Raffi Medebach,12 Teodora Ricci Bartoli, Angiola Ricci Cesari, Marianna Ricci Rotti, Adriana Sacco Lombardi Zanoni, Chiara Benedetti Simonetti, Teresa Zanoni, Marianna Zanotti Barilli. ii. Comiche canterinole. 24, di cui 6 anche ‘tersicoree’ e 4 anche impresarie: Agnese Amurat,13 Anna Barbieri Colombini, Antonia Bianchi Zanarini, Rosa Brunelli Zanarini Baccelli, Chiara Cardosi,14 Rosa Costa, Antonia D’Arbes Grandi, Marta Davia, Giovanna Farussi Casanova,15 Giuseppa Fineschi, Rosa Foggi,16 Teresa Gandini,17 Giulia Gritti Pizzamiglio, fonti ho aggiunto gli undici nomi di Agnese Amurat, Anna Baccherini, Marta Colleoni, Teresa Consoli, Antonia Ferramonti, Rosa Lombardi, Matilde Maiani, Rosa Pontremoli, Angiola Ricci, Caterina Ricci e Marianna Ricci. 11. Le poche attestazioni canore di questa attrice-ballerina sono documentate dal solo Sartori (C. Sartori, I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800, Cuneo, Bertola & Locatelli, 1990-1992, 5 voll., n. 8489 e n. 22996). 12. Non da Bartoli, ma da fonte goldoniana ci son note le virtù ‘tersicoree’ della Medebach. 13. È nome, non registrato dal Bartoli, ma di fonte goldoniana (Mémoires e Memorie italiane), da accogliere con più di una riserva, dal momento che nulla sappiamo della sua professione propriamente attorica, e pochissimo di quella canora. 14. Delle prestazioni canore della Cardosi, attrice molto affermata sulle scene del secondo Settecento, abbiamo solo un fuggevole cenno in Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. i, p. 154. 15. Bartoli non menziona le sue prestazioni canore, limitandosi a segnalare che «recitò da prima Donna con molta intelligenza» (ivi, p. 160). 16. Servetta fiorentina formatasi nella compagnia Roffi, di cui è documentata una presenza anche al Fiorentini di Napoli (1788, comp. Giovanni Grassi: cfr. Croce, I teatri di Napoli, cit., pp. 630-631); il suo impegno musicale, non menzionato da Bartoli, può essere molto vagamente desunto solo in base a documentazione Sartori (n. 18576). 17. Anche in questo caso, ben più significativo, Bartoli non dà alcuna notizia dell’attività musicale dell’attrice. Si veda di séguito a testo. 113 ANNA SCANNAPIECO Anna Lampredi, Caterina Manzoni, Margherita Valentini. Si vedano inoltre, nel gruppo i., Gaetana Bassi, Marianna Bassi, Angela Cicuzzi, Elisabetta D’Afflisio Moreri, Luigia Lapy Belloni; e nel gruppo iii., Elisabetta D’Afflisio Moreri, Maria Grandi, Anna Moretti, Faustina Tesi. iii. Comiche ‘impresar ie’. 12, di cui 8 solo tali: Antonia A lbani, Maddalena Battaglia, Caterina Berti, Rosa Camerani, Giustina Campioni Cavalieri, Marta Colleoni, Teresa Consoli, Regina Cicuzzi Mantovani Marchesini,18 Maria Grandi; 3 anche canterinole: Maria Grandi, Anna Moretti, Faustina Tesi; una infine impresaria canterinola e “tersicorea”: Elisabetta D’Afflisio Moreri. Ancorché forse superfluo, sarà preliminarmente da sottolineare la relatività dei dati e delle percentuali, nonché l’inevitabile margine di arbitrarietà implicito nel costringere in comparti nettamente perimetrati quella che dovette essere una fluidità performativa solo occasionalmente documentata; a tacere della disomogeneità delle testimonianze superstiti, che lasciano trapelare il diverso ordine di grandezza o di continuità con cui concretamente si espresse la versatilità professionale delle nostre comiche. Siamo probabilmente di fronte alla punta di un iceberg che resta irrimediabilmente sommerso, e dunque imperscrutabile. Tuttavia, pur con ogni cautela, si possono interrogare i dati affluiti alla superficie, lasciare che dialoghino – o forse litighino – con il già noto. Propongo dunque alcune considerazioni di massima per ciascuna delle categorie enucleate in precedenza. 3. Il consistente manipolo delle comiche ‘tersicoree’ lascia innanzitutto intravedere le radici dell’addestramento professionale di alcune delle massime protagoniste della scena attorica poi ‘riformata’, e cioè Teodora Raffi Medebach e Maddalena Raffi Marliani, entrambe formatesi e a lungo attive come ballerine di corda nella stimata compagnia del – rispettivamente – padre e fratello Gasparo, entrambe non solo dotate di virtù acrobatiche ma capaci anche di «danzare a terra con somma grazia», come riconoscerà lo stesso Goldoni;19 18. Bartoli segnala la sua attività capocomicale solo all’interno della voce dedicata alla figlia, Angela Cicuzzi. 19. C. Goldoni, Memorie italiane. Prefazioni e polemiche III, a cura di R. Turchi, Venezia, Marsilio, 2008, p. 288; l’espressione è in realtà riferita alla sola Teodora, ma lo stesso Goldoni dice di Maddalena che «era una copia fedele della Teodora» (ibid.). All’apprendistato della Raffi Marliani come ballerina di corda dedica molte pagine la stilizzazione romanzesca che dell’attrice realizzò Pietro Chiari nella sua Commediante in fortuna (1755; se ne veda la moderna ediz. per le cure di V.G.A. Tavazzi, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2012). 114 I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO radici che per certo saranno state metabolizzate e messe a frutto nello stile rappresentativo delle due attrici, e probabilmente anche nella drammaturgia dei due principali poeti di compagnia che scrissero per loro, Carlo Goldoni e Pietro Chiari.20 In secondo luogo, è facile riconoscere un tratto distintivo della formazione presumibilmente abituale, e il relativo itinerario professionale, previsti per le donne attive nelle grandi compagnie della tradizione dell’Arte: cioè l’avvio precoce dell’attività lavorativa, nella forma che doveva essere più congrua alla prima età puberale, quella appunto della danza. Non a caso come ballerine esordiscono, ancora ragazzine, molte delle attrici della compagnia Sacco. La precoce messa a frutto della forza lavoro femminile può essere osservabile anche in contesti diversi, come dimostra il caso di quattro figlie di Emilia Gambacciani Ricci, attrice di solida formazione ed esperienza:21 Angiola, Marianna, Teodora e Caterina erano figlie d’arte, ma non esordirono nella professione della madre perché esercitò maggior peso quella del padre Antonio, ballerino che le addestrò nel proprio mestiere, rendendole immediatamente ‘spendibili’ sul mercato: appena quattordicenne, ad esempio, figura nel corpo di ballo del San Benedetto – il più prestigioso teatro musicale veneziano dell’epoca – la futura musa di Carlo Gozzi, Teodora Ricci Bartoli, e vi rima20. Tanto per rimanere a un livello di superficie, basti considerare come sul profilo della Marliani Goldoni ideò il personaggio della ballerina Olivetta nella Figlia obbediente (1752), o come alla Medebach protagonista eponima della Pastorella fedele (1754) Chiari riservasse, nella scena 4 dell’atto ii, un salto acrobatico «dalla montagna nel fiume» (su cui, a quasi trent’anni di distanza, ancora si intrattiene compiaciuta la memoria di Bartoli). 21. Fu infatti attiva nella compagnia Sacco e poi in quella Medebach. Di origine pisana, e appartenente – come da testimonianza del Bartoli – «ad una civilissima Famiglia», venne fatta oggetto di un ritratto infamante da Carlo Gozzi, in un brogliaccio che documenta la preistoria testuale delle Memorie inutili, e che merita in parte citare: «L’Emilia fu bella femmina, e cattiva Comica. […] fece ammaestrare le sue cinque figlie. Quattre furono Ballerine, e una Cantatrice [Maddalena, che non cito a testo perché la sua professione esclusiva fu appunto quella della cantante]. Soprattutto ha fatto loro capire il mestiere di spogliare delle sostanze gl’appassionati, l’arte di non curar la vergogna; la massima filosofica di non avere amicizia per nessuno mostrando d’averne moltissima per tutti, e la fortezza di considerare i tradimenti gloriose imprese da donne di spirito. I ricordi della vecchia Ava Clarice [madre di Emilia], e l’esempio materno furono scola efficace, e il sangue viziato a’ puttanesimi delle Madri, passa assolutamente per eredità nelle vene delle figliuole» (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Gozzi, 11.1/6, c. 62r., cit. in F. Soldini, Rapporti tra Carlo Gozzi e gli attori nella corrispondenza e nelle carte autobiografiche. Un episodio significativo: Teodora Ricci nelle pagine inedite delle ‘Memorie inutili’, in Carlo Gozzi entre dramaturgie de l’auteur et dramaturgie de l’acteur: un carrefour artistique européen. Atti del convegno (Parigi, 23-25 novembre 2006), a cura di A. Fabiano, «Problemi di critica goldoniana», xiii, 2006 [ma 2007], p. 61). Bartoli invece, che di Teodora Ricci – com’è noto – fu marito, riferì che ella «fu onestamente educata, e sotto gl’insegnamenti dell’Ava sua materna imparò a leggere, ed a scrivere». 115 ANNA SCANNAPIECO ne per tre anni consecutivi, prima di scoprire e di temprare le proprie inclinazioni attoriche.22 Non per tre anni, ma per oltre un decennio, sulle scene del medesimo «nobilissimo» teatro, esercita la sua ormai consolidata professione di ballerina Maria Donati,23 figlia di gente del mestiere più che figlia d’arte (il padre era un «apparatore»), e la esercita agendo in coreografie di artisti di grido (da Charles Lepicq a Gasparo Angiolini, da Jean Favier a Giuseppe Canziani). Nel suo caso, la trasformazione in commediante – sollecitata dalle virtù maieutiche di un mattatore delle scene del secondo Settecento, il «Comico impareggiabile» Giuseppe Maiani24 – avviene solo al dischiudersi degli anni Ottanta, suscitando grandi aspettative, e si incardina per circa un quindicennio nell’attività di primarie compagnie (Lapy e Pellandi).25 22. Le prestazioni propriamente attoriche della primogenita (Angiola) furono in realtà limitate all’età più giovane, allorché, come riferisce il Bartoli «recitò da fanciulletta molti Prologhi, e piccole parti nelle Commedie del Chiari», per poi abbracciare esclusivamente la professione coreutica; Caterina, «di molta abilità nell’arte del Ballo», morì ad appena vent’anni; Marianna invece, dopo essersi formata giovanetta, come Angiola, nella compagnia Medebach, figura in vari corpi di ballo di opere rappresentate a Venezia negli anni Sessanta, ma è probabile che agisse, soprattutto a séguito dell’ingaggio della sorella Teodora (1771), anche nella compagnia Sacco, dato che nel 1779 sposò Giovanni Battista Rotti, il Pantalone, dal ’69, della troupe. Per quanto riguarda Teodora, terzogenita, classe 1749, il marito ricorda solo che «cresciuta in età, fece vedersi nelle Danze dell’Opere Musicali in compagnia della sua sorella Caterina [classe 1753], e custodita dalla predetta sua Ava [Clarice: cfr. n. 21] ne’ viaggi intrapresi per varie Città di Lombardia, e della Toscana». Dal repertorio del veneziano teatro di san Benedetto, sappiamo invece che figurò anche nel corpo di ballo di questo teatro, e nelle seguenti stagioni: carnevale 1763-1764, carnevale 1764-1765, ascensione 1765, carnevale 1765-1766 (cfr. F. Passadore-F. Rossi, Il teatro San Benedetto di Venezia. Cronologia degli spettacoli 1755-1810, Venezia, Fondazione Levi, 2003). Sarebbero passati altri tre anni prima che Teodora intraprendesse la professione attorica ottenendo un ingaggio presso la compagnia di Pietro Rossi (1769), dove fu istruita nell’arte e presa in sposa da Francesco Bartoli. 23. In base al repertorio di Passadore-Rossi, Il teatro San Benedetto di Venezia, cit., sappiamo che la Donati figura nel corpo di ballo del San Benedetto nelle seguenti stagioni (quando rilevante, segue tra parentesi il nome del coreografo): ascensione 1767, carnevale 1767-1768, autunno 1768, carnevale 1768-1769, ascensione 1769, estate 1769 (Lepicq), ascensione 1771 (idem), autunno 1771, carnevale 1771-1772, carnevale 1772-1773 (Angiolini), carnevale 1774-1775 (Favier), estate 1776 (Canziani), carnevale 1777-1778 (Canziani), carnevale 1778-1779 (Favier). 24. Figlio di Francesco, uno dei pilastri della compagnia del San Luca ai tempi di Goldoni, in cui venne formandosi Giuseppe stesso, insieme alla sorella Matilde: oltre al vivo ritratto che ce ne ha lasciato Bartoli, mi sia permesso rinviare alle osservazioni dedicategli nel Commento a C. Goldoni, La buona madre, a cura di A. Scannapieco, Venezia, Marsilio, 2001, p. 279; ma si vedano soprattutto quelle elaborate da Marzia Pieri nell’ediz. di C. Goldoni, Artemisia, a cura di M. Pieri, Venezia, Marsilio, 2015, in partic. pp. 51-56. 25. Merita stralciare qualcuna delle più significative note dalla voce dedicatale dal Bartoli: «Oggi [1782] si è veduta comparire sulle Comiche Scene con inaspettata, e pro- 116 I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO I casi delle sorelle Ricci e di Maria Donati sembrano suggerire come, anche in anni di ascendente fortuna dell’arte coreutica, l’approdo alla professione attorica potesse per le donne rappresentare una tappa più alta, o comunque – a vario titolo – più gratificante, della loro realizzazione artistica (e in tal senso esse sembrano raccontare il recto della caricaturale parabola di Felicita, l’allieva della goldoniana Scuola di ballo [1759] che appena può getta alle ortiche ogni ambizione tersicorea e si fa commediante);26 ma, in tutti i casi, propongono con evidenza – credo – il dato di una professionalità attorica che si nutre di altre abilità performative: pregresse sì, ma evidentemente non obliterabili nel successivo evolvere della carriera. D’altronde, di attrici che portavano in scena le loro risorse coreutiche, e le accompagnavano altresì con quelle canore, ci racconta non solo Angela Cicuzzi, l’exemplum da cui abbiamo preso le mosse: infatti, tra le sue ‘consorelle’, merita una menzione almeno Marianna Bassi, esperta di recitazione ballo e canto, «tre pregi [che] adoperati tutti anche in una sola sera sopra il Teatro, destavano la meraviglia, e gli applausi negli Uditori». La quale Marianna, appena ventenne, «quando […] incominciarono i suoi meriti ad essere portati dalla Fama per ogni dove», morì (1769). «Non era bellissima – ricorda ancora Bartoli –, ma aveva grazie non poche, e potevasi dir di lei: “Nobil d’aspetto, e di beltà modesta, / Modi, e maniere, avea soavi, e piane”».27 «Fort jolie» l’aveva invece giudicata Giacomo Casanova, che «avec plaisir» l’aveva vista danzare in un teatro di Augusta, ancora tredicenne, e che nei giorni successivi era facilmente trapassato dal tenerla «sur ses genoux […] en innocente» al farne digiosa comparsa, effetto d’alcune utili instruzioni avute da Giuseppe Majani. […] è assai ben vista dal Pubblico per il suo bel modo d’esprimere le parti appassionate, e per la grazia con cui ella rappresenta altri caratteri, e sostenuti, e piacevoli ancora. […] Se a così rapidi, e felici principj devono corrispondere in egual modo gli avanzamenti, noi potremo in questa giovane Attrice sperar di veder risorta la fama delle Comiche valorose, o mancate alla Professione, o vicine alla lor decadenza. Lo studio indefesso della Donati, la sua instancabile volontà d’affaticarsi, e le varie doti dalla Natura impartitele, ci fanno un certo pronostico, che non siano per riuscir vane le nostre, e le sue ben collocate speranze» (Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. i, p. 198). Dal punto di vista della sua effettiva carriera, sappiamo che fu ingaggiata dalla compagnia Lapy (in cui appunto agiva ancora il «Maianino», il maieuta della Donati) a partire dall’anno comico 1780-1781, e militò poi in quella Pellandi dal 1786-1787 al 1792-1793 (cfr. O. Giardi, I comici dell’arte perduta. Le compagnie comiche italiane alla fine del secolo XVIII, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 175, 225, 227); le grandi aspettative degli esordi dovettero peraltro andare deluse, dato che nel 1790 figurava ancora come seconda donna (cfr. B. Brunelli, I teatri di Padova. Dalle origini fino alla fine del secolo XIX, Padova, Angelo Draghi, 1921, p. 252). 26. Si vedano in particolare la scena 1 dell’atto iii e la scena 6 dell’atto v (C. Goldoni, La scuola di ballo, a cura di A. Nari, Venezia, Marsilio, 2014, pp. 105-109 e 142). 27. Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. i, p. 112. 117 ANNA SCANNAPIECO conoscenza biblica, in uno spettacolo-bacchanale che non mancò di eccitare gli stessi genitori della «petite».28 4. Quella delle comiche canterinole è, forse non a caso, la categoria più rappresentata, e anche più facilmente oggetto di fraintendimenti quando non di rimozioni storico-critiche. A tal proposito, non si può non considerare come la resistenza inerziale di alcuni clichés storiografici (pur dovuti a emeriti maestri, da Croce e Della Corte sino a Folena) abbia trasformato alcune notevoli occasioni di riconsiderazione documentaria e critica in occasioni sostanzialmente mancate. Penso in particolare alla produzione goldoniana per i comici del San Samuele, di recente riproposta nell’ambito dell’Edizione nazionale con volumi di indubbio pregio, e al cui riguardo abbiamo tuttavia sentito ancora evocare come cifra genetica e limite strutturale «il ricorso non a cantanti professionisti, bensì ad attori abituati a esibirsi quasi esclusivamente nella commedia all’improvviso, […] privi di spiccate doti canore», o a «professionisti dello spettacolo, capaci di stare in scena con disinvoltura, dotati di spiccate doti comunicative, abili nell’affrontare spavaldamente i repertori più vari ma privi di un’istruzione musicale».29 Come se a nulla ancora valessero alcune fondamentali acquisizioni di merito e di metodo: a cominciare dai contributi di Franco Piperno, inflessibile nel contrastare la vulgata dei «buffi» come «esecutori raccogliticci e privi di scuola»,30 o dalla maturata consapevolezza che la grandezza artistica dei cantanti poteva accompagnarsi a una mediocre alfabetizzazione musicale31 (o anche a un completo analfabetismo, tutt’oggi non privo di clamorosi riscontri: si pensi a un Pavarotti, che non leggeva la musica, e imparava le parti solo con l’aiuto di un maestro che gliele infilava nella memoria).32 O come se a nulla potessero valere talune ricognizioni documentarie che, pur ineludibili, sono state affatto trascurate, con tutte le conseguenze interpre28. Cfr. J. Casanova de Seingalt, Histoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original suivi de textes inédits, édition présentée et établie par F. Lacassin, Paris, R. Laffont, 2009, vol. ii, pp. 721-727 (le citazioni a testo alle pp. 721-722, 723, 727). 29. Le citazioni sono tratte rispettivamente da G.G. Stiffoni, Introduzione a C. Goldoni, Intermezzi e farsette per musica, a cura di A. Vencato, Venezia, Marsilio, 2008, p. 20 e A. Vencato, Introduzione a C. Goldoni, Drammi musicali per i comici del San Samuele, a cura di A. V., Venezia, Marsilio, 2009, pp. 59-60 (i corsivi sono miei). 30. Cfr. in partic. F. Piperno, Buffe e buffi (considerazioni sulla professionalità degli interpreti di scene buffe ed intermezzi), «Rivista italiana di musicologia», xviii, 1982, 2, pp. 240-284 (la citazione a p. 241). 31. Cfr. Durante, Il cantante, cit., p. 369 n. 32. Sono debitrice all’amico e maestro Eduardo Rescigno di questa suggestione (come di molte altre). 118 I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO tative del caso. Si consideri, per limitarsi all’esempio più macroscopico, che una delle interpreti degli intermezzi goldoniani per il San Samuele (citata peraltro dallo stesso autore, e in termini non di sprezzante sufficienza, come d’ordinario in casi consimili)33 era stata Rosa Costa, un’attrice, come ci informa il Bartoli, «che possedeva ancora l’abilità di cantare» e che aveva fatto il suo apprendistato con «lo strepitoso Argante» (così nella definizione di Goldoni), e cioè Antonio Franceschini, direttore della compagnia comica più accreditata nella Venezia degli anni Trenta.34 Ebbene, la Rosa Costa che viene ingaggiata dalla compagnia Imer per subentrare alla Passalacqua (su cui torneremo a breve) è probabilmente la medesima artista che a partire dall’anno successivo avrebbe avviato a Napoli una fortunata carriera di soprano: nel 1737, già divenuta «virtuosa di camera del duca di Montemari», interpreta al Fiorentini il protagonista eponimo del Flaminio di Federico-Pergolesi; e l’anno successivo, «nel Grande Real Teatro di San Carlo», è Partenope nel «bellissimo prologo» ideato dal Carasale in occasione dei festeggiamenti per le nozze e il compleanno di Carlo di Borbone, a corredare l’allestimento dell’Artaserse di MetastasioVinci (del prologo, e non dell’opera, diede ammirata descrizione la «Gazzetta di Napoli»).35 Nel giro di un lustro (1737-1742), bilanciandosi tra repertorio 33. «Presero [i comici del San Samuele, nel 1736] la Rosina Costa, giovane, non bella, ma spiritosa, che sapeva un poco di musica, ed aveva una voce angelica e un’abilità sorprendente» (Goldoni, Memorie italiane, cit., p. 256). 34. Cfr. ivi, p. 234. Il Franceschini fu celebre innamorato e direttore della compagnia del San Luca; Bartoli indica in termini molto generici l’appartenenza della Costa alla sua compagnia, e sembra basarla sostanzialmente su un’unica fonte (espressamente citata), e cioè la celebre stampa padovana della tragicommedia (con vari inserti musicali) La clemenza nella vendetta (1736), nel cui elenco di personaggi-interpreti, la Costa figura nella triplice veste di «Cingara Indovina, che canta», «Madama della Sol Re Virtuosa di Camera della Reg.[ina]» ed «Eurilla Figlia del mag. Sacerdote», secondo le mansioni di una «terza donna» (a séguito di Vittoria Miti e Marta Bastona Focari; la servetta era Felice Bonomi) che giostrava in ruoli minori le sue virtù soprattutto canore. Anche in considerazione dei sommovimenti che si sarebbero prodotti di lì a poco nella compagnia del San Luca, con la partenza di Franceschini per Dresda, è ragionevole ipotizzare che la Costa abbia accettato, nell’autunno di quello stesso anno, l’ingaggio presso il San Samuele. Le considerazioni che fanno séguito a testo, e che conservano un carattere inevitabilmente ipotetico, sono basate sull’identificazione operata da Claudio Sartori tra la Rosa Costa interprete della Clemenza nella vendetta e quella interprete di tutte le altre opere cui si farà riferimento (cfr. Sartori, I libretti, cit., vi. Indici, to. ii, pp. 210-211). 35. «[21 gennaio 1738] «Ieri, [...], degnossi la maestà sua all’imbrunir dell’aria di passare al R. teatro per ascoltarvi il nuovo dramma L’Artaserse, […], nella qual congiuntura il direttore capitano D. Angelo Caresale, per contrassegno della sua venerazione, sul bel cominciamento dell’opera fece rappresentare un bellissimo prologo da cinque personaggi, che, figurando la Notte, Venere, Amore, Partenope e il Sebeto, cantavan le laudi del re e della sposa reale. Compariva intanto un bosco con campagna e colline e a destra miravasi Partenope vestita in R. foggia, assisa sopra un’aureo seggio sopra scalini in atto di dormire e intorno ad essa varie ninfe 119 ANNA SCANNAPIECO serio e repertorio buffo, la Costa sarà presente in ben diciotto allestimenti da Napoli a Venezia (passando per alcuni centri toscani), e in svariati anni successivi continuerà la sua carriera in paesi di area germanica.36 Un caso, insomma, che sembra acclarare, nel Settecento inoltrato, il profilo esemplare del cantante modello quale era stato delineato, nei primi decenni del secolo precedente, dal Corago: «Sopra tutto per esser buon recitante cantando bisognerebbe esser anche buono recitante parlando, onde aviamo veduto che alcuni che hanno avuto particolar grazia in recitare hanno fatto meraviglie quando insieme hanno saputo cantare».37 Esempio macroscopico – e tuttavia mai, a quanto mi consta, rilevato – quello della Rosa Costa, e che non deve per questo indurre a facili quanto inutili generalizzazioni; ma che senz’altro può legittimamente invitare a riconoscere come, anche in pieno Settecento, avesse vigore la pluralità performativa dei comici e come, in taluni casi, desse anche dormendo agiate sopra vari sassi. A sinistra osservavasi il Sebeto che, ancor dormendo, appoggiato era alla sua urna da cui chiare e limpide acque scorrevano e, intorno a lui, anche sorpresi da sonno, vari pastori faceanli corona. In aria a sinistra vedevasi la notte in un carro a quattro ruote tirato da due neri cavalli, vestita ella di azzurro sparso di stelle d’oro, coronata di fiori di papavero; a destra scorgeasi un altro carro da due colombe tirato, entro cui locata era Venere, coronata di rose e di mirto, e sulla cui testa splendea una lucidissima stella. Fra tutti però ammiravasi il carro d’amore, tirato da quattro cavalli bianchi, in cui era esso Amore con ali bianche, turcasso ed arco e con facella accesa in mano e nel tempo stesso scorgevasi spuntare nell’orizzonte la lucente Luna, il di cui globo scorgevasi ingombrato dall’effigie della maestà di Maria Amalia, sposa reale del nostro sovrano; il tutto per festeggiare il fortunatissimo e festevol giorno del compleanno di sua maestà ed alludere al real maritaggio contratto dalla maestà sua con la R. sposa Maria Amalia Walburga nostra signora. Nel fine del qual prologo tra li viva del coro e strepitoso sparo di mortaretti e cannoni, furono da sopra il cielo del teatro da volanti amorini sparsi per tutta l’udienza copiosi sonetti allusivi ad un giorno cotanto felice» (A. Magaudda-D. Costantini, Musica e spettacolo nel Regno di Napoli attraverso lo spoglio della «Gazzetta» [1675-1768], Roma, ISMEZ, 2009, pp. 162-163 e 186; a p. 538 dell’Appendice in pdf contenuta nell’allegato cd-rom si legge il passo citato della «Gazzetta di Napoli». Cfr. anche Croce, I teatri di Napoli, cit., pp. 338-339). 36. Tuttti i dati sono desunti dal repertorio di Sartori. Pur avendo, verosimilmente, interpretato i tre intermezzi goldoniani del 1736 (Monsieur Petiton, La bottega da caffè, L’amanate cabala), la Costa non è degna neanche di una menzione nel citato contributo di Gian Giacomo Stiffoni (cfr. supra, nota 29). 37. Il corago, o vero alcune osservazioni per mettere bene in scena le composizioni drammatiche (inizio sec. XVII), a cura di P. Fabbri e A. Pompilio, Firenze, Olschki, 1983, p. 91. Merita citare anche la considerazione immediatamente successiva: «Intorno a che alcuni muovono questione se si deve eleggere un musico non cattivo che sia perfetto recitante o pure un musico eccellente ma di poco o nessun talento di recitare, nel che si è toccato con mano che sì come ad alcuni pochi molto intendenti di musica sono più piaciuti l’eccellenti cantatori quantunque freddi nel recitamento, così al co[mun]e del teatro sodisfazione maggiore hanno dato i perfetti istrioni con mediocre voce e perizia musicale» (ibid.). 120 I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO luogo alla specializzazione di una competenza tra le altre, resa possibile proprio dalla genetica versatilità della formazione attorica.38 D’altronde, l’ampia estensione della categoria delle comiche canterine consente di individuare molteplici fenomenologie della loro carriera. Si possono, ad esempio, riscontrare tragitti professionali esattamente inversi a quello di una Rosa Costa. Al riguardo, i due casi più significativi chiamano in causa attrici rimaste – a vario titolo – celebri solo per i loro trascorsi goldoniani: Elisabetta D’Afflisio Moreri e Teresa Gandini. Il prolungato esercizio di quest’ultima sulla scena musicale (tra il 1733 e il 1744) – rimosso dal Bartoli e per sommi capi riesumato dal Rasi – è stato puntualmente richiamato di recente da Paologiovanni Maione, e quindi si offre alle nostre valutazioni senza il bisogno di ulteriori indugi documentari;39 pare tuttavia utile affiancare la notizia che quando la Gandini approda a Napoli e, a partire dal ’38, si esibisce en travesti negli spettacoli musicali dei Fiorentini (duettando peraltro con la prima donna Rosa Costa),40 risulta anche attiva nel teatrino di corte, animato dalla celebre compañía de los Trufaldines diretta dall’Arlecchino di Spagna Gabriello Costantini.41 E forse non è un caso che il medesimo 1744, in cui Carlo di Borbone decreta «que se despida la compagnia de Trufaldines»,42 sarà anche l’ultimo anno in cui la Gandini risulta impegnata sulla scena musicale, e non solo di Napoli. Da questo momento in poi, infatti, la carriera della comica – probabilmente sovrastata dagli interessi del suo «legittimo procuratore»,43 cioè il collerico e violento marito Francesco (che non 38. Un altro caso singolare, in direzione inversa, sembra costituito da Marta Davia che, formatasi nella celebre compagnia del ciarlatano Bonafede Vitali (detto l’Anonimo), si distinse poi a lungo, in qualità di prima donna a vicenda con Marta Bastona Focari, nella compagnia del San Luca; poco prima di ritirarsi dalla carriera, fu interprete di spicco nelle prime veneziane, 1751 e 1752, di due drammi giocosi goldoniani, Il conte Caramella e Le pescatrici, affiancando una star del calibro di Serafina Penni (anche in questo caso, il relativo volume dell’Edizione nazionale non ha fornito nuove indicazioni, se non la designazione erronea di «Francesca» in luogo di «Marta»: cfr. M. Bizzarini, Introduzione a C. Goldoni, Drammi comici per musica, ii. 1751-1753, a cura di A. Vencato, Venezia, Marsilio, 2011, p. 18). 39. Cfr. qui il saggio di Maione, pp. 97-108. 40. Al Fiorentini le due artiste calcano assieme la scena sia nell’Odoardo (inverno 1738: la Costa nel ruolo di Lavinia e la Gandini in quello di Lelio), sia nell’Ortensio (carnevale 1739: la Gandini nel ruolo del protagonista eponimo, la Costa in quello di Lavia). 41. Cfr. Croce, I teatri di Napoli, cit., p. 405. Il dato, di grandissimo rilievo, è sinora sfuggito agli studiosi, probabilmente perché nel documento citato da Croce si parla di una «Teresa Gantini» (e non «Gandini») e soprattutto del suo marito «Francesco» (e non come si è sempre pensato «Pietro»: per cui cfr. infra a testo e note 42-43). Su Costantini e la compañía de los Trufaldines, si veda la n. 2. 42. Cfr. Croce, I teatri di Napoli, cit., p. 412. 43. Si rinviene ad esempio la sottoscrizione «Francesco Gandini come legittimo procuratore di Teresa mia moglie» in un documento del 28 novembre 1750, relativo alla compagnia 121 ANNA SCANNAPIECO ha niente a che fare con Pietro, il celebrato Brighella trasformista con cui viene sempre confuso)44 – risulterà incanalata nella professione attorica, e specie dopo l’approdo a Venezia: qui infatti viene ingaggiata al San Luca, tempio del teatro comico cittadino, e vi consegue presto il titolo di prima donna. Ha come partner una star del calibro di Antonio Vitalba, ed è tenuta a concertarsi con altri gloriosi esponenti della tradizione dell’Arte, dal Pantalone Rubini all’Arlecchino Cattoli: lo fa, come ricorda il Bartoli, «con immensa bravura […] in tutto ciò che all’Arte Comica per dovere si aspetta», una bravura ovviamente memore del duraturo e versatile esercizio sulle scene napoletane. Una cognizione così matura e sperimentata dei segreti dell’Arte (in cui – a detta sempre del Bartoli – si distingueva anche la «brillante energia infinitamente lodevole» dispiegata nell’interpretazione delle «cose studiate»),45 che sarebbe stata per certo messa a frutto da un Carlo Goldoni, se tra i due non si fosse interposta la brutalità dispotica del «legittimo procuratore» della Gandini, troppo preoccupato che la visibilità della moglie – e il capitale che recava in seno – potesse essere scalfito dalla rivoluzione delle convenzioni rappresentative avviata dal nuovo poeta di compagnia. Sicché il capitale in questione fu dirottato a Dresda e la compagnia del San Luca si trovò privata della «miglior femmina di questo mondo».46 Per tanti versi, ancora più istruttivo il caso di Elisabetta D’Afflisio Moreri. Per riuscire oggi a scorgere il suo profilo artistico dovremmo impegnarci a scoperchiare la pietra tombale sotto cui la seppellì il risentimento di un suo amante corbellato, Carlo Goldoni. Stizzito ancora in tarda età, ne immortalò il fisico rinsecchito, l’incarnato «pâle et jaunâtre», malamente coperto dal belletto, la «phisionomie grimaciere»… e, naturalmente, la mediocrità artistica.47 Il romanzetto teatrale della Passalacqua, che adesca il poeta di compagnia per del San Luca: cfr. Venezia, Biblioteca di Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42.f.8/1, Scritture e Lettere dall’anno 1733 sino 1764 attinenti alli accordi con li Sig.ri Comici per dover recitare nel Teatro di San Salvador, c. 26. 44. Avevo già segnalato il dato in Noterelle gozziane, cit., p. 102 n., ma devo rinviare ancora ad altra sede la sua distesa documentazione. 45. Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. i, p. 252. 46. «Come mai la prima donna, ch’era la miglior femmina di questo mondo ha avuto cuore di abbandonarci così?», chiede il Florindo Francesco Falchi nell’Introduzione per la prima sera dell’autunno dell’anno 1755, volendo acclimatare il pubblico alla difficile situazione in cui versa la compagnia all’indomani della ‘fuga’ dei Gandini; e Celio gli risponde: «Che potea fare la poverina? Ella ha dovuto accondiscendere al marito suo» (C. Goldoni, Introduzioni, Prologhi, Ringraziamenti. Prefazioni e polemiche II, a cura di R. Turchi, Venezia, Marsilio, 2011, p. 125). 47. C. Goldoni, Mémoires, p. i, chap. 38, in Id., Tutte le opere, a cura di G. Ortolani, Milano, Mondadori, 1935, vol. i, p. 172 (dove si rimarca anche la «voix fausse» e la «maniere monotonne»). 122 I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO goderne i favori, e nel frattempo si sollazza con il primo uomo della troupe (il ben più seducente Antonio Vitalba), continua – comprensibilmente – a incantare tutti (lo stesso Luigi Rasi ne trasse materia per uno dei suoi più sapidi monologhi);48 un po’ meno quel Don Giovanni Tenorio in cui il poeta corbellato volle fare le sue vendette, lasciandoci di fatto una delle sue prove più infelici. Se tuttavia si prova a leggere lo stesso Goldoni in controluce, si riesce a ravvisare qualche elemento di più attendibile storicizzazione. Circa un decennio prima dei Mémoires, dalla prefazione al tomo xiv dell’edizione Pasquali, a proposito della nostra Elisabetta aveva potuto infatti scrivere: faceva di tutto passabilmente, e niente perfettamente. Cantava, ballava, recitava in serio e in giocoso, tirava di spada, giocava la bandiera, parlava vari linguaggi, era passabile nella parte di Servetta, e suppliva passabilmente negl’Intermezzi.49 Facendo la debita tara alla stilizzazione rancorosa (che risuona sensibilmente nella marca iterativa e nel trasparente fonosimbolismo della sibilante doppia), si intravede il profilo compiuto di quella ‘multimedialità’ ch’era cifra distintiva della drammaturgia dell’Arte.50 Figlia, anche professionalmente, del napoletano Alessandro D’Afflisio, «innamorato di merito», prima di essere ingaggiata dalla compagnia Imer per la duplice mansione di servetta e interprete degli intermezzi, Elisabetta aveva maturato una non irrilevante esperienza sui teatri musicali, e non solo su quelli ‘meticciati’ della commedia pe’ mmuseca, ma anche su quelli ‘blasonati’ dei drammi seri, figurando in compagnia di illustri virtuosi (da Giacoma Ferrari a Pietro Baratti).51 E se per il «bonheur» del poeta di compagnia («pas de rancune», beninteso)52 la Passa48. Cfr. L. Rasi, Il libro dei monologhi, Milano, Hoepli, 1891, pp. 113-128. 49. Goldoni, Memorie italiane, cit., p. 246 (il corsivo è mio); per la datazione (1776-1777) del to. xiv dell’ediz. Pasquali cfr. A. Scannapieco, Scrittoio, scena, torchio: per una mappa della produzione goldoniana, «Problemi di critica goldoniana», vii, 2000, pp. 216-217. 50. Profilo non a caso trascritto ‘in chiaro’ nella voce dedicata da Bartoli all’attrice, derivata sicuramente dalla pagina goldoniana: «Esercitavasi nel Ballo con molta grazia; aveva qualche intelligenza della Musica, e fece talvolta spiccare in essa la sua abilità, cantando in Musicali Operette, ed Intermezzi. Giocava assai bene la Bandiera, e sapeva colla spada schermire a meraviglia» (Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. i, p. 1). 51. Dal repertorio di Sartori si evince che la D’Afflisio aveva fatto parte del cast de La forza d’ammore, «commedia pe museca», al teatro Nuovo di Napoli nel 1732 (n. 10829); l’anno successivo è registrata la sua presenza a Corfù, nell’allestimento del Geronte tiranno di Siracusa (n. 11576); per altri due drammi seri – Eurene (n. 9394a) e Semiramide riconosciuta (n. 21542) – la ritroviamo a Brescia nel carnevale 1735. E nell’autunno di questo stesso anno esordirà sulle scene del San Samuele, come nuovo ingaggio della compagnia Imer. 52. «Pour mon bonheur, la Passalacqua avoit été renvoyée: je n’avois pas de rancune; mais je me portois mieux quand je ne la voyois pas» (Goldoni, Mémoires, cit., p. i, chap. 40, p. 184). 123 ANNA SCANNAPIECO lacqua era stata poi «renvoyée» dal San Samuele, in compenso, già nel 1741, sarebbe stata assunta dal ben più prestigioso San Luca, come parte fissa e non semplicemente stipendiata, con un contratto della durata di otto anni.53 Qui si sarebbe fatta apprezzare anche nell’interpretazione di ruoli tragici,54 e per certo la sua reputazione dovette rendersi ascendente e ben consolidata, dato che venne poi proposta alla corte di Napoli come «prima donna» in una «compagnia di Comici Lombardi, compagnia senza paragone», a sostituire quella del celebre Arlecchino Costantini. Il progetto non andò in porto per il maturato disinteresse della corte verso tale tipo di intrattenimento,55 e della presenza dell’attrice sulle scene meridionali c’è rimasto solo il ricordo di una spettacolare quanto drammatica caduta nell’esecuzione di un volo al Santa Cecilia di Palermo; evento che se a noi oggi rimarca un’altra risorsa abituale della ‘multimedialità’ dell’Arte – quella del virtuosismo acrobatico –, è stato per solito assunto solo a simbolico, tragico suggello della carriera dell’attrice. In realtà, l’ultimo documento archivistico a noi noto della sua vicenda artistica, ce la restituisce in un’altra veste ancora, quella del tutto inattesa di direttrice di compagnia in area lombarda.56 Come servetta acrobata – e ugualmente vittima di una precipitosa caduta, al San Samuele, per un guasto nell’attrezzeria – aveva d’altronde esordito uno dei più rilevanti capocomici del secondo Settecento, Faustina Tesi, la «Ristori dell’epoca», nella definizione tutt’altro che demenziale di un Luigi Rasi. Del marito, a cui doveva quei rudimenti nell’arte comica che con «perspicace talento» e «instancabile applicazione»57 aveva messo presto a massimo frutto, si era rapidamente disfatta: mal tollerava l’incuria di un compagno che si ridu- 53. Cfr. Venezia, Biblioteca di Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42.f.8/1, Scritture e Lettere, cit., cc. 5-6: il contratto è sottoscritto in data 8 ottobre 1741 e prevede la durata di otto anni (dal 1742 al 1749). Per la differenza tra parti fisse e stipendiati, cfr. A. Scannapieco, Carlo Goldoni direttore e ‘salariato’ dei suoi comici, «Studi goldoniani», ix n.s. 1, 2012, pp. 27-37. 54. Valga in tal senso una testimonianza del Bartoli: «Essendo l’anno 1744. in Venezia a recitare nel Teatro S. Luca al servizio de’ Nobili Uomini Signori Fratelli Vendramini ebbe da Bartolommeo Vitturi Cittadino Veneziano una Tragedia intitolata: Berenice Regina d’Armenia, la quale fu posta in Scena; ed Elisabetta vi sostenne egregiamente il carattere eroico di quella gran Donna» (Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. i, pp. 1-2). 55. Cfr. Croce, I teatri di Napoli, cit., p. 422 (da cui anche la citazione a testo). 56. Si tratta di una supplica presentata da «Elisabetta da Flisio detta la Passalacqua», in data 10 dicembre 1748, per avere in gestione il teatro di Parma nel carnevale successivo; nella relativa autorizzazione si fa espresso riferimento alla «compagnia di detta Donna» (il documento, conservato presso l’Archivio di stato di Milano e senz’altro bisognoso di ulteriori verifiche, è citato in L. Rasi, I Comici italiani. Biografia, Bibliografia, Iconografia, Firenze, Fratelli Bocca, 1897, vol. i, p. 10). 57. Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. ii, p. 247. 124 I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO ceva a guitto di provincia. Già prima donna, aveva deciso di studiare musica, e per oltre un lustro – tra 1764 e 1771 – era riuscita a spendersi in questa nuova veste, giungendo finanche a fregiarsi del titolo di «virtuosa del duca di Brunswich [Brunswick-Wolfenbüttel]».58 Era poi tornata al teatro di parola, subito accolta dalle primarie compagnie: ma né la Medebach, né la Paganini, né la Rossi riuscirono a contenere il suo «inquieto spirito intollerante, e focoso».59 La «Megera» – così nel sintetico epiteto di Antonio Piazza, gentiluomo come sempre – «sapea conciliarsi sì bene l’odio di tutti, che veniva universalmente chiamata la Furia del teatro comico», ma, a detta del medesimo, era solo una «donna di merito, che avea la disgrazia di farsi odiare da tutto il mondo».60 Merito e inflessibile rigore, nell’esercizio e nella concezione stessa della professione, che la «costrinsero» – così, significativamente, il Bartoli – a formare una compagnia propria che, dal 1776 e sino alla morte (1781), condusse «con decoro, avendo occupate buonissime Piazze, come Bologna, Parma, Trieste, Milano, Brescia e Mantova, con altre di minor conto».61 Per salvare le convenienze – di vario tipo – si era messa a fianco un giovane amante (Cristoforo Merli, modesto primo innamorato), ma si guardò bene dal vincolo coniugale, e mantenne sempre, chiara e inequivocabile, la direzione della compagnia:62 58. Tale figura negli allestimenti cremonesi della Sposa fedele e degli Uccellatori (entrambi del 1769: n. 22446 e n. 24190 del Sartori, cui si rinvia anche per tutti gli altri elementi richiamati sinteticamente a testo). 59. Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. ii, p. 248. 60. A. Piazza, L’attrice (Il teatro, ovvero fatti di una veneziana che lo fanno conoscere, 1777-1778), a cura di R. Turchi, Napoli, Guida, 1984 (le citazioni, rispettivamente, alle pp. 56, 51 e 54). 61. Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. ii, pp. 248-249. 62. Direzione esercitata – ricordava sempre Bartoli – con «quell’alterezza subitanea, ed improvvisa, che la faceva essere fastidiosa co’ compagni, e poco rispettosa con il pubblico istesso». Una preziosa tessera documentaria dell’inflessibilità nella conduzione della troupe è stato rintracciata nell’archivio parmense da Paola Cirani: dopo che la sua compagnia era stata ingaggiata per i teatri di Parma e Colorno (dov’era la residenza estiva della corte) per la stagione autunnale del 1776, la Tesi licenzia su due piedi il secondo amoroso, Luigi Delicati, e giunge a fare istanza presso il sovrano affinché l’attore abbia proibito l’accesso nel territorio parmense per tutto il periodo di soggiorno della compagnia, istanza che Don Ferdinando accoglie senz’altro (P. Cirani, Musica e spettacolo a Colorno tra XVI e XIX secolo, Parma, Zara, 1995, pp. 72-73). Sulle ragioni profonde che animavano i «collerici trasporti» della Tesi, sempre Bartoli ha tracciato considerazioni non facilmente liquidabili come effetti della retorica dell’elogium: «questi suoi collerici trasporti hanno però l’origine da un buonissimo sentimento, e da quel zelo, per cui vorrebbe che ognuno operasse con estrema cura nell’esecuzione de’ proprj doveri, se si parla de’ Compagni suoi, o de’ personaggi che ella stipendia; e se del Pubblico si ragiona, un eguale amore della sua professione la fa trascendere in orgogliose dimostrazioni, a motivo di qualche non curanza ch’ella veda trovarsi negli uditori per lei, sentendosi alzar la voce in tempo ch’ella recita, e distraerle così quella lode che fervidamente ambisce di poter guadagnarsi» (Bartoli, Notizie istoriche, cit., to. ii, pp. 249-250). 125 ANNA SCANNAPIECO sicché lo stesso Bartoli, nel piano editoriale del suo opus, la qualifica – unica insieme a Maddalena Battaglia – «Direttrice della sua Compagnia». Siamo già – insensibilmente, e non a caso – trapassati nella categoria delle comiche impresarie, ma varrà la pena ricordare almeno un’altra tipologia riscontrabile nell’affollata schiera delle comiche canterinole: quella ben testimoniata dal caso (non unico) di Antonia D’Arbes Grandi, in cui arte attorica e arte canora andarono intrecciate lungo tutta la carriera artistica. Figlia d’arte per eccellenza, Antonia era tuttavia stata avviata dal padre, il celeberrimo Pantalone Cesare D’Arbes, all’educazione musicale e canora, e il matrimonio con Tommaso Grandi – un eccellente primattore, con pronunciate risorse ‘multimediali’ (era o sarebbe stato anche ballerino, cantante e autore drammatico) – aveva spinto la sua formazione ad ampliarsi sul versante recitativo, per poi presumibilmente lasciarla a sua volta influire su quella del marito: sicché per entrambi può essere tenuto nel conto di traguardo, almeno simbolico, l’allestimento del Pygmalion, il rivoluzionario melologo di Rousseau, dapprima a Milano nell’originale francese (1775) e poi a Venezia nella traduzione dell’abate Perini (1777).63 5. Per quanto sia, forse, il capitolo più fruttuoso, alle comiche impresarie non potremo che dedicare i ristretti margini di una conclusione, la più provvisoria possibile – un finale aperto per destino e convenienza. Valga innanzitutto la considerazione di un dato meramente numerico e nominale: solo due – come si è già accennato – sono le comiche a cui Bartoli, nell’elenco delle voci allegato al manifesto promozionale dell’opera, attribuisce il titolo di «Direttrice della sua Compagnia»; le controparti maschili, invece, sono trentuno, distinte in antichi (otto), moderni (dieci), viventi (undici), viventi ma alienati dall’arte (due); agli uomini, inoltre, la qualifica associata è sempre e solo quella di Capo Comico. Il dato numerico viene in realtà corretto nella redazione concreta delle singole voci, dal momento che, come s’è visto, le Notizie istoriche consentono, per via diretta o meno,64 di individuare mansioni 63. Cfr. i n. 18680 e n. 18701 del repertorio del Sartori. Com’è noto, con la scène lyrique del Pygmalion (composto nel 1762, andato per la prima volta in scena a Lione nel 1770, poi nel 1772, con prodigiosa affluenza di pubblico, all’Opéra di Parigi, e infine, 1775, alla Comédie Française), Rousseau aveva inaugurato un nuovo genere rappresentativo, il melologo, cioè un testo poetico declamato da uno o più attori sulla base di un accompagnamento musicale cui si alternano brani orchestrali; sulla sua fortuna italiana, cfr. G. Morelli-E. Surian, ‘Pigmalione’ a Venezia, in Venezia e il melodramma nel Settecento. Atti del convegno internazionale di studio (Venezia, 24-26 settembre 1973), a cura di M.T. Muraro, Firenze, Olschki, 1981, vol. ii, pp. 147-167. Per molti versi analogo a quello di Antonia D’Arbes Grandi è il caso di Giulia Gritti Pizzamiglio. 64. Nel repertorio di Bartoli non c’è riferimento all’attività impresariale di Regina Cicuzzi ed Elisabetta D’Afflisio Moreri; non sono proprio menzionate, inoltre, le comiche- 126 I ‘NUMERI’ DELLE COMICHE ITALIANE DEL SETTECENTO capocomicali in ben dodici attrici settecentesche, di cui solo una non vivente: il che ci porterebbe al paradosso – non è beninteso mia intenzione accreditarlo – di un numero di capocomiche coeve a Bartoli maggiore del corrispettivo maschile. È evidente che, in molti casi, si tratta di entità non comparabili: alcune attrici possono assumere funzioni capocomicali in brevi segmenti della loro carriera, o in mercati periferici, o perché subentrano alla morte del titolare della ‘ditta’ in quanto mogli divenute vedove: ma, per quanto ridimensionato e ridotto alle sue reali proporzioni, il dato non può continuare a essere eloquente se rapportato a un contesto storico-giuridico in cui aveva pieno vigore di legge il deficit di capacità, radicato nell’identità di genere, che escludeva le donne dalla sfera pubblica e dall’esercizio di officia e munera, e in cui lo statuto di ‘proprietario’ entrava in collisione con quello di minus habens.65 E forse l’acribia storiografica di Bartoli, al di là delle sue stesse intenzioni, registra i connotati di un fenomeno emergente,66 che si rispecchia già nella scelta lessicale – e sia pur usata con estrema parsimonia – del titolo di direttrici, in luogo di quello di capocomiche: la differente denominazione rendeva omaggio al principio della distinzione della gerarchia dei generi e dei ruoli, ma anche all’affermarsi di nuove identità, giuridiche (di fatto) non meno che artistiche.67 impresarie Marta Colleoni e Teresa Consoli, su cui si intrattiene invece a lungo Colomberti (e, di riflesso, Rasi). 65. Valga per tutte la testimonianza del repertorio giuridico tardosettecentesco dell’avvocato padovano Marco Ferro: «Gli uomini, per la prerogativa del loro sesso, e per la forza del loro temperamento, sono naturalmente capaci di ogni sorte d’impieghi e di obbligazioni; al contrario le femine, a motivo della debolezza del loro sesso, e della loro naturale delicatezza, sono escluse da molti ufficii, e dichiarate incapaci di certe obbligazioni» (M. Ferro, Dizionario del diritto comune, e veneto, che contiene le leggi civili, canoniche e criminali, Venezia, Fenzo, 1778-1781, 10 to.; la citazione è tratta dal to. v [1779], s.v. femmina). Sulla problematica in oggetto, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, cfr. S. Feci, Pesci fuor d’acqua. Donne a Roma in età moderna: diritti e patrimoni, Roma, Viella, 2004. 66. Fenomeno che peraltro non aveva mancato di avere anticipazioni nel secolo precedente, come attesta almeno il caso di una Giulia de Caro (1646-1697), al cui riguardo ha però osservato Siro Ferrone: «Non è da escludere che la fama di teatrante malavitosa le derivasse non solo dalle azioni commesse ma anche dalla pratica manageriale: donne cantanti e attrici si erano viste oramai da tempo, ma non così sfrontate da pretendere di occupare addirittura il ruolo di ‘impresarie’ e non solo in Napoli ma anche tra Napoli e Venezia. Fu un’eccezione, Giulia De Caro» (Ferrone, La Commedia dell’Arte, cit., p. 59). 67. L’identità giuridica, almeno sotto il profilo formale, avrebbe notoriamente dovuto attendere tempi molto lunghi; ma è tutta da meditare la circostanza per cui la trattatistica italiana di fine Ottocento riconoscesse, proprio in materia teatrale, una virtuosa ‘legislazione di fatto’ che avrebbe dovuto incidere sulla ridefinizione normativa della giurisprudenza in materia: «Il principio della libertà nelle industrie e nei commerci, che vedemmo applicarsi indistintamente anche nelle materie teatrali, doveva eliminare dalle nostre leggi una disposizione che vieti d’affidare alle donne la direzione di compagnie teatrali; ed abbiamo anzi in pratica l’esempio di 127 ANNA SCANNAPIECO distinte attrici, quali la signora Ristori, la signora Sadowschi, la Duse ed altre, che diressero per molto tempo le loro compagnie drammatiche, mostrando col fatto come sieno poco fondate le pretese ragioni di convenienza e le apprensioni di pericoli che determinarono altre legislazioni a contrarie misure» (E. Rosmini, Legislazione e giurisprudenza dei teatri, terza ediz. riveduta e corretta dall’autore, Milano, Hoepli, 1893, p. 32, corsivo originale; si veda anche la sez. ii del cap. v, p. ii, dedicata alle Scritture delle donne maritate, dove l’autore, obtorto collo, è costretto a riconoscere il vincolo dell’autorizzazione maritale nella misura in cui l’impegno professionale della donna confligga con i suoi, assolutamente prioritari, «doveri di moglie e di madre»; mentre è riconosciuta «piena capacità e libertà di obbligarsi alle nubili e alle vedove» [ivi, rispettivamente alle pp. 395 e 393]). 128 Franco Perrelli IL MULO DI LESSING 1. «Ed ora, per questa volta, basta con la Mérope!». Così conclude Lessing il capitolo l del primo volume della Drammaturgia d’Amburgo (1767-1769), rendendosi ben conto che l’analisi serrata e incrociata della Merope di Scipione Maffei (1713) e della Mérope di Voltaire (1736-1738) aveva occupato decine di pagine delle sue cronache (a partire dal capitolo xxxvi): «un settimo» – è stato calcolato dal Robertson –1 di un’opera che, non senza ironia, l’autore aveva immaginato che i suoi lettori potessero desiderare «varia, divertente e allegra come può essere soltanto una rivista di teatro».2 Lessing si era soffermato tanto su due indubbi e discussi successi teatrali del XVIII secolo: la Merope italiana era stata rappresentata a Modena nel giugno del 1713 da Elena Balletti e Luigi Riccoboni, con precisi intenti di riforma e regolarizzazione scenica, non estranei a certi ideali dell’Arcadia; quella francese, nel febbraio del 1743 da les Comédiens du Roi, protagonista Mlle Dumesnil. Il confronto fra i due testi, la contrapposizione fra stile italiano e stile francese, se non addirittura fra Verona e Parigi, avevano sollevato sonore polemiche e, per di più, sul lavoro di Voltaire s’era posato il sospetto del plagio in relazione alla Merope del Maffei (un’ipotesi cui Lessing avrebbe dato peraltro ampio credito). Tuttavia, ciò che interessava prioritariamente l’autore della Drammaturgia d’Amburgo era sciogliere nodi teorici strategici sia relativi alla tragedia di Euripide sia alla Poetica di Aristotele. Maffei, dopo tutto, si era impegnato, con Merope, a restare nell’ambito di un aristotelismo che non fosse soffocato, alla francese, da regole vincolanti, bensì sostenuto dai principi di verità e di natura, con un accento particolare «sul diletto e il piacere che accompagnano la rappresentazione scenica del- 1. J.G. Robertson, Lessing, Maffei and Calepio, «The Modern Language Review», xiii, 1918, 4, pp. 482-483. 2. G.E. Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, a cura di P. Chiarini, Roma, Bulzoni, 1975, pp. 234, 231 (rip. facsimile dell’ediz. Bari, Laterza, 1956). DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 129-139 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18365 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. FRANCO PERRELLI la tragedia». Era qualcosa che, in parte, confliggeva con l’intento riformatore lessinghiano sì «di dilettare il proprio pubblico, ma […] innanzitutto […] di spronarlo ad esercitare le proprie capacità di critica nei confronti di quanto rappresentato sulla scena».3 L’attenzione lessinghiana per la Merope finiva per essere quindi tutt’altro che circoscritta e celava nientemeno che l’obiettivo d’individuare propriamente «ciò che dovrebbe e non dovrebbe esserci in una tragedia».4 Dopo tutto, se la Merope di Maffei costituiva, per generale riconoscimento ed effervescenza polemica, un modello di rinascita del tragico nel XVIII secolo (tanto da essere copiata da Voltaire), la questione da trattare superava ogni proposito di mera erudizione e aveva anche a che fare con l’essenza e il destino del dramma moderno. 2. L’analisi di Lessing prendeva spunto, in prima battuta, dalla rappresentazione amburghese della tragedia di Voltaire, il 7 luglio 1767, e metteva subito in evidenza che il testo di Mérope, in Francia, aveva riscosso un successo così fanatico da avere imposto «l’artificio in luogo della naturalezza»5 ed elogi tanto esagerati da aver fatto ritenere addirittura sopportabile la perdita di un antico Cresfonte, tragedia greca di analogo argomento, della quale si possiedono solo frammenti: «meglio, esso non è più perduto: Voltaire ce lo ha restituito», ironizza il critico tedesco.6 Nel capitolo xxxvii, Lessing, soffermandosi per l’appunto sulle fonti dichiarate (sulla scorta della non sempre impeccabile erudizione del tempo) dallo stesso Maffei, per la sua tragedia nella Lettera dedicatoria del 10 giugno 1713 al duca Rinaldo I di Modena – dopo aver menzionato Pausania, Apollodoro e Igino –, sottolinea che anche «Aristotele, nella sua Poetica, ricorda un Cresfonte in cui Merope riconosce il proprio figlio [Egisto o anche Telefonte] nel momento in cui sta per ucciderlo, credendolo l’assassino del figlio medesimo. […] È vero» – aggiunge Lessing – «che Aristotele nomina questo Cresfonte senza citare l’autore, ma poiché troviamo ricordato un Cresfonte di Euripide in Cicerone e in molti altri scrittori antichi, egli non poteva che riferirsi all’opera di questo poeta».7 Stabilito ciò e data la circostanza che Aristotele (come Lessing ricorderà anche in seguito) definisce, nonostante qualche riserva, Euripide «tragicissi- 3. P. Scotton, La poetica della ‘Merope’ nella ‘Drammaturgia’ amburghese di Lessing. Pubblico e catarsi, in «Mai non mi diero i Dei senza un egual disastro una ventura»: la ‘Merope’ di Scipione Maffei nel terzo centenario (1713-2013), a cura di E. Zucchi, Milano-Udine, Mimesis, 2015, pp. 152 ss., 158-159. 4. Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 231. 5. Ivi, p. 177. 6. Ivi, p. 175. 7. Ivi, pp. 178-179. 130 IL MULO DI LESSING mo fra tutti i poeti tragici»,8 il passo relativo al Cresfonte – a detta anche di vari commentatori – avrebbe attribuito a questo tipo di tragedia a lieto fine (appunto come la Merope di Maffei) la peculiarità di porsi come un vero e proprio modello poiché la stessa Poetica sancisce che, in una tragedia, è «meglio se chi agisce non fa e viene a sapere dopo aver agito; la situazione non è ripugnante e il riconoscimento ha un effetto di sorpresa. La situazione migliore è però […] come quando nel Cresfonte Merope sta per uccidere suo figlio, e non lo uccide perché lo riconosce, o come nell’Ifigenia la sorella sta per uccidere il fratello, o nell’Elle il figlio riconosce la madre quando sta per consegnarla».9 Il passo aristotelico scatena in Lessing una puntuta discussione che si dirama dall’apparente contraddizione che la Poetica, oltre alla peripezia a lieto fine, sancisce pure che «una buona trama tragica non deve avere uno scioglimento lieto, ma funesto».10 In questo caso e di norma, Lessing s’impegna a risolvere le difficoltà teoriche, interpretando Aristotele in una chiave laica e invitando, nello specifico, critici e drammaturghi a considerare flessibilmente le sfaccettature di una fabula scenica: «se essa non vi concede altro che o la migliore peripezia, o la migliore trattazione della catastrofe, cercate quale elemento dell’alternativa vi offra vantaggi maggiori, e scegliete».11 È un fatto però che il Cresfonte di Euripide intriga non poco Lessing, tanto da spingerlo a una sorta d’ipotetica ricostruzione di questa tragedia perduta, fermo che il tema di Merope, a suo avviso, in base alla relativizzazione del citato passo della Poetica, «non può essere considerato senz’altro una perfetta favola tragica» (quantomeno con la benedizione dell’autorità di Aristotele), perché le lodi del filosofo «non si riferiscono all’intera favola, ma solo a una singola parte della stessa».12 Era quindi un’iperbole insostenibile quanto scritto da Voltaire, nella Lettre à M. Maffei, nella quale – in cortocircuito con un riferimento plutarcheo – si sosteneva che Aristotele, nella Poetica, aveva esaltato il coup de théâtre euripideo del riconoscimento di Merope e di suo figlio come «il momento più interessante di tutta la scena greca», smentita peraltro da altri mirabili (e sempre relativi) casi di riconoscimento in un autore come Euripide, «che ha fatto uso frequentissimo della peripezia a finale tragico».13 8. Ivi, p. 188. E cfr. Aristotele, Poetica, a cura di G. Paduano, Roma-Bari, Laterza, 20119, 1453a 29-30. 9. Ivi, 1454a 4-9. 10. Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 180. 11. Ivi, pp. 185-186. 12. Ivi, p. 186. 13. Ivi, pp. 187-188. 131 FRANCO PERRELLI 3. I pochi frammenti del Cresfonte euripideo non c’illuminano sulla struttura di questo dramma e, per Lessing, un ulteriore problema sorge addirittura con il titolo, che rimanda a un protagonista che dovrebbe essere defunto da tempo quando il figlio (Epito o Telefonte, a seconda dell’attribuzione del nome) rientra in possesso del suo regno: «Ora, si è mai sentito che una tragedia s’intitoli dal nome di un personaggio che non vi compare affatto?».14 Tuttavia, se Maffei ha tratto la sua materia – come afferma – dalla Favola 184 ovvero dalla «miniera» o «repertorio di argomenti tragici» di Igino, non è escluso che si possa tentare di farci un’idea della tragedia perduta di Euripide, sebbene quel ricco materiale vada trattato con cautela, presentandosi piuttosto indifferentemente sia derivato dalla tradizione sia dalla materia tragica.15 Per quanto riguarda Maffei, Lessing gli dà atto che non intendesse ricostruire il Cresfonte, anzi, allontanandosi dal «preteso impianto euripideo», che puntasse su un’unica situazione particolarmente commovente, affrontando il tema della madre che amava il proprio figlio tanto da volerne vendicare l’assassinio con le proprie mani. Così aveva messo in assoluto rilievo nella tragedia «l’amore materno in generale» ovvero una «passione piena di purezza e virtù, escludendo ogni altro affetto».16 Per Lessing è comunque assai verosimile che Euripide si rivelasse superiore nel trattamento della leggenda di Merope sia rispetto a Maffei sia rispetto a Voltaire. Infatti, sull’ipotetica traccia di Igino, il servo cui il figlio di Merope era stato affidato, le avrebbe annunciato la sua scomparsa: poco prima ella aveva udito, appunto, che era arrivato uno straniero, il quale si vantava di averlo ucciso, e che questo straniero riposava placidamente sotto il suo tetto. Ella afferra la prima cosa che le capita fra le mani, corre piena d’ira verso la stanza di lui, il vecchio le si precipita appresso: e il riconoscimento avviene proprio nell’istante in cui il delitto avrebbe dovuto compiersi. Tutto ciò era molto semplice e naturale, molto umano e commovente! Insomma, con logica e tecnica drammatica più serrata, Euripide sarebbe stato certo in grado di far fremere gli ateniesi per Egisto, senza poter provare un sentimento d’orrore per Merope. Essi tremavano per lei stessa, che una scusabile precipitazione minacciava di trasformare nell’assassina del proprio figlio. Al contrario, Maffei e Voltaire mi fanno tremare soltanto per la sorte di Egisto, giacché io sono così indignato con la loro Merope, che quasi vorrei concederle di portar a compimento il suo gesto. E così fosse! Se ella può prender 14. Ivi, pp. 187 ss. (189 per la citazione). 15. Ivi, pp. 189-190. 16. Ivi, p. 192. 132 IL MULO DI LESSING tempo per la vendetta, avrebbe potuto prenderlo anche per condurre delle indagini. […] Non vorrei sbagliarmi di grosso, ma ad Atene l’avrebbero fischiata.17 Lessing – sempre appoggiandosi a Igino – ha motivo di ritenere che, in Euripide, Egisto, pur cauto a svelarsi alla madre per i più imponderabili motivi drammatici, a differenza di quello moderno (che capita a Messene sconosciuto a sé stesso e per caso), fosse perfettamente consapevole della propria identità e nutrisse un preciso intento di vendetta. Gli elementi di oscurità e di casualità con cui Maffei ha trattato l’azione del personaggio hanno conferito a tutta la sua tragedia «un carattere confuso, ambiguo e romanzesco». Lessing ipotizza invece che, nel testo di Euripide, lo spettatore apprendesse da Egisto stesso la sua vera identità; e più egli era certo che Merope si apprestava a uccidere il proprio figlio, tanto più grande doveva essere il terrore che lo afferrava, tanto più dolorosa la pietà alla quale egli si preparava, nel caso che il proposito di Merope non venisse frustrato a tempo. In Maffei e Voltaire, al contrario, noi congetturiamo soltanto che il presunto assassino sia il figlio stesso, e il nostro terrore si raccoglie tutto nel preciso istante in cui è destinato a dissolversi.18 Secondo Lessing, Euripide, quindi – con una tecnica superiore e aliena dall’effimero coup de théâtre dell’agnizione patetica all’acme delle opere di Maffei e di Voltaire –, avrebbe trattato in chiaro l’identità di Egisto, traendo da ciò un effetto di terrore e soprattutto di pietà più protratto e assai più intenso attorno al personaggio di Merope. 4. Lessing approda così ai cruciali capitoli xlviii e xlix, nei quali s’impegna in una definizione più puntuale dell’eccellenza di quello che Aristotele aveva incoronato come il «più tragico di tutti i poeti tragici».19 Preliminarmente, Lessing ci offre un’ampia citazione del «migliore dei critici francesi», Denis Diderot, tratta da Sulla poesia drammatica del 1758.20 Nel capitolo xi di quest’opera, relativo a «cosa sostiene e rafforza l’Interesse» in teatro, Diderot fissa un piccolo (e dichiarato) paradosso sul dramma: «tutto deve essere chiaro per lo spettatore. Confidente di ogni personaggio, informato di ciò che è avvenuto e di ciò che avviene, ci sono cento momenti in cui non si ha niente di meglio da fare che informarlo con precisione di ciò che accadrà». Pertanto: 17. 18. 19. 20. Ivi, pp. 220-221. Ivi, pp. 222-223. Ivi, pp. 226, 229. Cfr. ivi, pp. 224-225. 133 FRANCO PERRELLI Sono così lontano dal pensare con la maggior parte di coloro che hanno scritto di arte drammatica, che si debba nascondere allo spettatore lo scioglimento, che non penserei di accollarmi un’impresa molto al di sopra delle mie forze, se mi mettessi a scrivere un dramma in cui lo scioglimento fosse annunciato dalla prima scena, e dove attingessi l’interesse più vivo proprio da questa circostanza. Di conseguenza, «per una occasione in cui è opportuno nascondere allo spettatore un avvenimento importante prima che accada, ce ne sono molti altri in cui l’interesse chiede il contrario. […] Non piangerò che un istante colui che sarà colpito e abbattuto in un momento. Ma» – si domanda Diderot – «come mi sento, se il colpo si fa attendere, se vedo il temporale formarsi sulla testa mia o di un altro, e restarvi a lungo sospeso?». Insomma, «tutti i personaggi si ignorino, se volete, ma lo spettatore li deve conoscere tutti». Un dramma in cui «tutto ciò che concerne i personaggi è noto» può porsi all’origine «delle emozioni più vive» e il modello «geniale» di tale dramma sta in Euripide, «il poeta greco, che rimandò fino all’ultima scena il riconoscimento di Oreste e di Ifigenia». A questo punto, Diderot chiede: «Perché certi monologhi hanno così grande effetto? Perché mi informano dei segreti disegni d’un personaggio, e questa confidenza mi coglie in un istante di timore o di speranza». Per Diderot, tutto deve essere chiaro sin dal principio per lo spettatore e vanno evitati i colpi di scena: «Che lo spettatore sia al corrente di tutto, e i personaggi si ignorino se è possibile; che, soddisfatto di ciò che è presente, io possa augurarmi vivamente ciò che seguirà; che un personaggio me ne faccia desiderare un altro; un episodio mi affretti verso il seguente; che le scene siano rapide; non contengano che cose essenziali all’azione, e io sarò interessato». Concludendo: «L’ignoranza e la perplessità eccitano la curiosità dello spettatore, e la mantengono viva; ma sono le cose note e sempre attese che lo turbano e lo agitano. Questo è un espediente sicuro per tener sempre presente la catastrofe».21 Anche per Lessing la sorpresa resta affidata alle reazioni degli interpreti sulla scena, non a quella degli spettatori, il cui interesse va orientato non su cosa, ma su come la tragedia si sviluppi. Questi spettatori devono vivere nell’illusione scenica perché possano attingere una vera catarsi. Infatti, scopo essenziale del poeta tragico, che ha per mira di suscitare pietà, è essenzialmente quello di non distruggere il principio dell’«illusione scenica».22 Per Lessing, la posizione di Diderot, che presuppone alla base dell’autentica dinamica drammatica una forte componente diegetica, elettivamente affidata alla forma narrativa 21. D. Diderot, Teatro e scritti sul teatro, a cura di M. Grilli, Firenze, La Nuova Italia, 1980, pp. 268 ss. 22. Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 201. 134 IL MULO DI LESSING del monologo, dà effettiva sostanza all’eccellenza di Euripide su Maffei e su Voltaire, autori nei quali «Egisto è un enigma per sé e per il pubblico». In Euripide, per contro, gli spettatori avrebbero conosciuto Egisto sin dal principio e si sarebbe così creata una giusta tensione drammatica, dove Maffei e Voltaire non sono in grado di realizzare altro che una tragedia fatta di «una “serie di piccoli artifici”, i quali riescono a provocare soltanto una sorpresa di breve durata».23 Del resto, «Euripide era così sicuro del fatto suo, che quasi sempre indicava in precedenza al pubblico la meta a cui voleva condurlo. Anzi» – aggiunge Lessing –, «sarei molto incline a prendere, da questo punto di vista, le difese dei suoi prologhi, che oggi dispiacciono tanto ai moderni critici», 24 e qui viene richiamato un famoso trattato classicista del 1657, la Pratique du théâtre dell’Abbé d’Aubignac, 25 che, nel primo capitolo della parte iii, si esprime duramente contro l’uso del prologo fatto da Euripide (a differenza di Eschilo e Sofocle, che «hanno sempre trattato benissimo il loro soggetto nel corso dello sviluppo drammatico»), specie quando mette in gioco un dio onnisciente che spiega non solo il passato, ma anche il futuro, non accontentandosi d’istruire lo spettatore dell’antefatto, necessario all’intelligenza del dramma, ma mettendo al corrente dello scioglimento e della catastrofe completa, di modo che tutti gli avvenimenti siano previsti: si tratta di una pecca assai rilevante assolutamente opposta a questa attesa o sospensione [attente ou suspension] che deve sempre regnare in teatro, distruggendo tutte le attrattive di un dramma, che consistono quasi sempre nella sorpresa e nella novità. Per Lessing, all’opposto, non solo andavano benissimo i prologhi, ma persino le rivelatrici liste dei personaggi con il doppio nome, che era proprio quanto Maffei (assieme agli argomenti riassuntivi), per parte sua, riteneva distruttivo della sorpresa drammatica.26 L’autore tragico, per il critico tedesco, non deve inseguire effetti effimeri ed epidermici, ma avere di mira una catarsi che incida profondamente e non casualmente sullo spettatore in quanto educazione alla compassione e alla «trasformazione delle passioni in disposizioni virtuose».27 Per Lessing, la tragedia è essenzialmente socratica e, in un’accezione euripidea, si esprime nel «conoscere l’uomo e noi stessi; essere attenti ai nostri sen23. Ivi, p. 225. 24. Ivi, pp. 225-226. 25. Abbé d’Aubignac, La pratique du théâtre, Amsterdam, Bernard, 17152, pp. 146-147. Mia la traduzione. 26. Cfr. P. Trivero, Tragiche donne: tipologie femminili nel teatro italiano del Settecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000, pp. 14-15. 27. In F. Perrelli, Poetiche e teorie del teatro, Roma, Carocci, 2015, p. 135. 135 FRANCO PERRELLI timenti; indagare e amare la natura per le vie più piane e più brevi; giudicare ogni cosa secondo la sua destinazione».28 5. L’uso spregiudicato dell’elemento diegetico, considerato da critici prestigiosi una vera e propria minaccia per l’efficacia drammatica, diventava per Lessing una qualità: Euripide sapeva che, con questo espediente, poteva «raggiungere una perfezione molto più alta». Infatti, «si riprometteva di ottenere la commozione, che desiderava suscitare, non tanto da quello che sarebbe accaduto, quanto dal modo [in cui] l’avvenimento si sarebbe verificato». Un dio onnisciente, che neanche partecipa all’azione, ma si rivolge al pubblico «mescolando in tal modo il genere drammatico con quello narrativo» è poi davvero – nei termini di una rappresentazione teatrale – così inconcepibile? E finalmente – chiede Lessing –, che significa la mescolanza dei generi? I trattati di precettistica letteraria li distinguano pure con la maggior esattezza possibile; ma se un genio, per raggiungere più alti scopi, mescola in una sola opera alcuni di essi, dimentichiamo il trattato e indaghiamo, piuttosto, se questi più alti scopi sono stati raggiunti. Cosa mi importa se un lavoro di Euripide non è né tutto racconto né tutto azione drammatica? Chiamiamolo un ibrido: a me basta che questo ibrido mi diletti e istruisca più di tutte le regolarissime produzioni dei vostri impeccabili Racine, o come altrimenti si chiamano. Il mulo, pur essendo un incrocio fra il cavallo e l’asino, non è forse uno dei più utili animali da soma?…29 Quella di Euripide – per Lessing – non è (come credono i suoi detrattori) un’«arte drammatica ancora nella culla», bensì qualcosa di maturo e neanche troppo eccentrico rispetto a certe norme: «È chiaro, infatti, che tutte le tragedie, dei cui prologhi [i critici] tanto si scandalizzano» – Jone, Ecuba – «sarebbero perfette e perfettamente comprensibili anche senza di essi»; il punto è che Euripide non è affatto interessato all’incertezza e all’aspettativa del pubblico e, quando «Aristotele definisce Euripide il più tragico dei poeti tragici, non ha in mente il fatto che la maggior parte delle sue opere si conclude con una catastrofe». Aristotele non pensava, infatti, a tragedie piene d’orrori e a Euripide riconosceva la qualità d’«indicare in precedenza agli spettatori l’infelicità che si stava per abbattere sui suoi personaggi, per ispirare agli spettatori stessi pietà anche quando i personaggi meno pensavano di meritarla».30 28. Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 229. 29. Ivi, pp. 226-227. 30. Ivi, pp. 227 ss. 136 IL MULO DI LESSING 6. Non si creda che la lunga discussione sulla Merope e soprattutto il serrato confronto di Lessing con Euripide e un Aristotele liberato dai ceppi del regolismo classicista,31 con un’esplicita apertura alla diegesi nel dramma, si limitino in prospettiva a creare solo più o meno fantasmatiche rifrazioni in Alfieri,32 restando circoscritti al pur cruciale ambito estetico del XVIII secolo. L’irradiazione prospettica anzi, pur non apparendo così immediata, è assai ampia e rilevante. Dopo la corposa (e commerciale) fase del teatro ottocentesco di matrice scribiana, che, nel 1909, Adolphe Thalasso descriveva come la stagione in cui, superando «il movimento dalla vita», s’impone una superficiale «vita dal movimento», vale a dire una transizione imponente, fra il 1815 e il 1880, dalla commedia di carattere a quella d’intreccio, integrata da vezzi melodrammatici,33 giunti nell’area della crisi del dramma moderno tracciata da Peter Szondi, potremmo schematizzare che si diramano due strade. Una sofoclea, essenzialmente riconducibile a Ibsen, ma un’altra fangosa, una «mulattiera» (se ci si consente di riprendere i termini di Walter Benjamin) in direzione del dramma dell’ultimo Strindberg e della «drammaturgia non-aristotelica» di Brecht,34 che si configura nella sostanza euripidea, proprio in forza dell’analisi di Lessing. La linea ibseniana della tragedia moderna, fondata sul riaffiorare del passato in vista della catastrofe, è stata assai presto riconosciuta come sofoclea (e si può ipotizzare con l’avallo dello stesso autore). Infatti, già Henrik Jæger, nel 1888, in un’importante monografia sul drammaturgo norvegese (scritta a stretto contatto con lui), aveva individuato la «formula» del suo dramma in un «metodo analitico», che presentava analogie con la tragedia di Sofocle, rielaborata modernamente da Schiller, venendo a costituire un’opera che si avvia da quello che sarebbe il punto conclusivo di un dramma comune. Tutte le ultime opere di Ibsen non sono altro che delle grandi catastrofi finali. La situazione è pienamente definita prima che il dramma cominci; tutti i momenti critici sono alle spalle e scopo del dramma è solo illuminare la situazione data fino alle conseguenze più remote. […] [Ibsen] ha scoperto il potere del dramma analitico di rendere un quadro naturalista in una forma drammatica. Il drammaturgo norvegese aveva in tal modo surclassato le potenzialità della «peculiare forma artistica dell’epoca moderna», il grande romanzo ottocente31. Cfr. ivi, p. 412. 32. Cfr. Trivero, Tragiche donne, cit., p. 35; G.P. Marchi, Voltaire, Lessing e Alfieri di fronte alla ‘Merope’ di Scipione Maffei, «Studi italo-tedeschi», xxiii, 2002, p. 145. 33. Cfr. A. Thalasso, Il ‘Teatro libero’ di Antoine, a cura di G. Liotta, Bologna, PressCoper Service, 1989, pp. 6 ss. 34. Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1955), Torino, Einaudi, 19725, pp. 129-130. 137 FRANCO PERRELLI sco: «Mentre il dramma ordinario» – osserva Jæger – «non può che offrire un cenno delle condizioni psicologiche, il dramma analitico è in grado di rendere un ricco e dettagliato ritratto dell’anima; può anche consentire ai personaggi di divulgare i loro pensieri più segreti, e questo senza ricorrere al monologo o ad altri improbabili stratagemmi».35 La competizione fra romanzo e dramma, per un autore (a differenza di Ibsen) impegnato sui più vari fronti della scrittura (e non solo) come Strindberg, viene consumata nella contaminazione pressoché genetica dei generi. In una lettera del 6 maggio 1907, indirizzata al suo traduttore tedesco Emil Schering, nel segno creativo dei suoi sperimentali drammi da camera, Strindberg affermava infatti: il segreto di tutti i miei racconti, novelle, favole è che sono dei drammi. Infatti, quando i teatri mi furono interdetti per lunghi periodi, pensai di scrivere i miei drammi in forma epica – a uso futuro. […] Ora sono convinto che con una concezione più libera e più nuova del dramma si possono anche prendere in considerazione i racconti esattamente come sono! Sarebbe una novità! – Le scene mutano, ma non è altro che l’ubiquità di Shakespeare, le riflessioni dell’autore diventano monologhi. Ma si potrebbe anche inserire un nuovo personaggio (corrispondente al coro dei greci) e potrebbe essere – il Suggeritore, semivisibile, che legge le descrizioni (paesaggi, ecc.) e racconta o riflette, mentre la scena cambia. […] Tutte le forme non sono oggi consentite?36 È storicamente assodato che August Strindberg fu un assiduo lettore sia di Euripide sia di Lessing37 e, sebbene non si possano definire nel caso specifico del documento riportato dei nessi immediati, non ci sentiremmo di negare ch’esso sia il frutto teorico, oltre che dei fermenti avanguardistici del principio del XX secolo, anche dello sdoganamento lessinghiano della «mescolanza dei generi». Chi ha invece recepito, ai fini dell’elaborazione della sua teoria del teatro epico, diretti impulsi sia da Diderot sia da Lessing (per non menzionare lo stesso Strindberg) è Bertolt Brecht.38 Walter Benjamin ha sottolineato come nel teatro brechtiano la posizione rilassata e critica del pubblico combaci con quella del lettore di un romanzo, del tutto opposta a quella che abbiamo consuetamente di uno spettatore di teatro ovvero «un uomo che segue un succedersi di eventi, profondamente teso in tutte le sue fibre». 35. H. Jæger, Henrik Ibsen 1828-1888. A Critical Biography (1888), New York, Blom, 19722, pp. 267 ss. Traduzione mia. 36. A. Strindberg, Vita attraverso le lettere, a cura di F. Perrelli, Ancona-Milano, Costa & Nolan, 1999, pp. 358-359. 37. Cfr. F. Perrelli, Strindberg: la scrittura e la scena, Firenze, Le Lettere, 2009, pp. 45-46, 87. 38. Cfr. R. Critchfield, The Mixing of Old and New Wisdom: On Lessing’s Nathan der Weise and Brecht’s Der kaukasische Kreidekreis, «Lessing Yearbook», xiv, 1982, pp. 161-162. 138 IL MULO DI LESSING Un principio essenziale che dovrà poi strutturare il teatro epico sarà l’«estrema trasparenza» del «congegno artistico»; d’altra parte, Brecht mira a privare i contenuti drammatici «del loro carattere di sorpresa ad effetto», comportandosi «nei confronti della trama come il maestro di ballo nei confronti dell’allieva; la prima cosa da fare è snodarle le articolazioni fino al limite estremo», con una fondamentale sostituzione dello stupore all’immedesimazione.39 Insomma, mutatis mutandis, quello che d’Aubignac rimproverava a Euripide. Del resto, Paolo Chiarini ha definito il teatro epico (con espressione lessinghiana) «un ibrido, un “innaturale” connubio di elementi eterogenei», sottolineando come Brecht rigetti «la classica distinzione fra narrazione e dramma elaborata da Goethe e Schiller nel loro carteggio del 1797» (ed ereditata, tra l’altro, da Lukács), appoggiandosi esattamente al Lessing che difende Euripide nei passi della Drammaturgia d’Amburgo su cui ci siamo soffermati. Una parte consistente della «rivoluzione copernicana» rappresentata dalla teoria di Brecht sta così in quel passaggio del Breviario di estetica teatrale del 1948, nel quale il drammaturgo contesta proprio «la distinzione fatta da Schiller fra il rapsodo, che ha da trattare il suo soggetto del tutto passato, e il mimo che deve trattarlo come del tutto presente»; l’interprete deve sapere sin dal principio quale sarà il fine della rappresentazione, serbando «una serena libertà» e dimostrando di saperne molto di più del suo stesso personaggio, straniando quindi e facendo saltare ogni presupposto di finzione illusiva, privilegiando soprattutto «la connessione degli avvenimenti».40 È vero che Lessing e Brecht condividono il principio che il dramma non debba avere solo una componente di diletto, ma individuarsi in special modo per «il suo valore conoscitivo e la conseguente necessità che […] istruisca lo spettatore»,41 tuttavia il paradosso critico che affiora a conclusione del nostro discorso è che l’apertura in senso illuministico della Poetica e, segnatamente, la lettura lessinghiana di Euripide, che attinge il rimescolamento del «genere drammatico con quello narrativo» o – come scrive Chiarini42 secondo Brecht – il ripudio delle «“zone di rispetto” che la retorica ha assegnato ai diversi livelli di stile», finisce con il dare sostanza a esiti intenzionalmente antiaristotelici. E, in fondo, il grande sovvertitore, dietro le quinte, si rivela, una volta di più, Euripide, di fronte al quale – aveva a suo modo ragione Nietzsche – bisogna sempre stare in guardia. 39. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., pp. 127 ss. 40. P. Chiarini, Brecht, Lukács e il realismo, Roma-Bari, Laterza, 1970, pp. 89 ss.; B. Brecht, Scritti teatrali, Torino, Einaudi, 19743, p. 135. 41. Scotton, La poetica della ‘Merope’ nella ‘Drammaturgia’ amburghese di Lessing, cit., p. 162. 42. Chiarini, Brecht, Lukács e il realismo, cit., p. 91. 139 Alessandro Tinterri SILVIO D’AMICO E LA NASCITA DEL BURCARDO Di padre in figlio era il titolo originariamente pensato per questa nota sulle origini del Burcardo, anche se qui si tratta più del padre che del figlio. Padre e figlio, Silvio e Alessandro d’Amico, condividevano la grande passione per il teatro e un interesse non erudito per la sua storia. La passione in Silvio d’Amico era alimentata da una frequentazione dei teatri, che travalicava il dovere professionale, in suo figlio Sandro si traduceva in un piacere non meno intenso e gratuito, affrancato dall’obbligo professionale. Entrambi si adoperarono per il teatro e la sua storia, al fine di dotare di strumenti adeguati la storiografia teatrale, una disciplina tardivamente accolta nell’Università italiana. Sicuramente agli occhi di Silvio d’Amico doveva apparire un curioso paradosso, non meno inaccettabile del ritardo nell’introduzione della regia nel nostro teatro, il fatto che proprio l’Italia, culla, con la Grecia antica, del teatro occidentale, non potesse vantare un’adeguata considerazione del teatro in ambito accademico e storiografico. E a colmare questa lacuna si adoperò con energia non inferiore a quella impiegata nella battaglia per l’affermazione anche in Italia di un teatro di regia. Se a questo scopo fu da lui concepita l’Accademia nazionale d’arte drammatica e, adatto alla bisogna, quello strumento didattico che è la sua Storia del teatro drammatico,1 ripetutamente aggiornata dal figlio Sandro, per un più vasto progetto storiografico fondò l’Enciclopedia dello spettacolo.2 Entrambi poi, padre e figlio, furono all’origine di due istituzioni preposte alla conservazione e allo studio del nostro passato teatrale: il Burcardo di Roma e il Museo biblioteca dell’attore di Genova. Se più nota è la parte avuta 1. Cfr. S. d’Amico, Storia del teatro drammatico, Milano-Roma, Rizzoli & C., 1939-1940, 4 voll. 2. Roma, Le Maschere, 1954-1968, 11 voll. (rist. Roma, Unedi-Unione editoriale, 1975). Alessandro d’Amico fu redattore capo dell’EdS dal 1954 (vol. i) al 1957 (vol. iv). Si vedano da ultimo, anche per la bibliografia, le pagine di Stefano Mazzoni (Ludovico Zorzi. Profilo di uno studioso inquieto) e di Francesca Simoncini (Il ‘sistema’ AMAtI fra tradizione e multimedialità), in «Drammaturgia», xi / n.s. 1, 2014, rispettivamente pp. 74-75 e nota 376, 317-318. DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 141-150 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18366 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. ALESSANDRO TINTERRI da Alessandro d’Amico nella creazione dell’ente genovese,3 meno risaputo, e perciò meritevole di approfondimento, il ruolo di Silvio d’Amico nella nascita della Raccolta teatrale della S.I.A.E. Ma, prima di inoltrarci a esaminare l’apporto di Silvio d’Amico, occorre soffermarci, sia pur brevemente, su un’altra figura fondamentale di studioso amante del teatro: Luigi Rasi. La Biblioteca e raccolta teatrale della S.I.A.E., comunemente denominata per brevità il Burcardo, prendeva il nome dall’antico palazzetto in via del Sudario, a due passi dal teatro Argentina a Roma, una suggestiva costruzione, un ibrido architettonico, misto di tardo gotico tedesco e motivi rinascimentali, fatto erigere nella seconda metà del Quattrocento dal prelato alsaziano Johannes Burckardt, impiegato presso la corte pontificia. Significativa per molti aspetti è la storia della formazione di questa importante raccolta teatrale, il cui nucleo costitutivo è rappresentato dalla collezione di Luigi Rasi, figura chiave nella storia del collezionismo teatrale. Attore di origini e cultura borghesi, Rasi era nato a Ravenna il 20 giugno 1852. Dopo il liceo, le difficoltà economiche della famiglia lo costrinsero a rinunciare all’università per cercarsi un impiego, presto abbandonato per entrare in arte nel 1872, con il ruolo di secondo amoroso e secondo brillante, nella compagnia di Fanny Sadowsky, diretta da Cesare Rossi. Ma già sul finire del 1873 doveva lasciare il teatro per il servizio militare, che fece a Lecce sino al 1877. Durante tutti questi anni e anche in seguito, parallelamente all’attività artistica, che poté riprendere nel 1878, continuò a coltivare gli studi classici (simile in questo a un’altra singolare figura di attore, Cesare Dondini). Tuttavia, nel 1881, incaricato della direzione della R. scuola di recitazione a Firenze, abbandonò le scene per dedicarsi all’insegnamento e tornare a recitare solo saltuariamente, affiancando, tra gli altri, Tommaso Salvini nel Saul di Alfieri e nell’Otello di Shakespeare, e per un certo periodo Eleonora Duse, alla quale dedicò un suo studio.4 Oltre a ciò, Rasi si fece appassionato collezionista di stampe, libri e documenti, tutti concernenti il teatro e la sua storia, conducendo per anni ricerche 3. Su Alessandro d’Amico, con il quale ho avuto la ventura e il privilegio di lavorare per oltre venticinque anni, mi sia consentito rinviare a un mio precedente contributo, Alessandro d’Amico o dell’ascolto, http://drammaturgia.fupress.net/recensioni/recensione1.php?id=4490 (data di pubblicazione sul web: 13 aprile 2010); sul ruolo da lui avuto nella creazione del Museo biblioteca dell’attore di Genova rimando al mio intervento La sua parte di storia, «Ariel», n.s., i, 2011, 1, pp. 59-64 (numero monografico dedicato a Alessandro d’Amico e Luigi Squarzina due maestri). 4. Cfr. L. Rasi, La Duse, Firenze, Bemporad & figlio, 1901 (ed. mod., con una postfazione di M. Schino, Roma, Bulzoni, 1986). Per le altre notizie si veda il numero monografico della rivista «Ariel», vi, 1991, 1, dedicato a Luigi Rasi e la Scuola di recitazione di Firenze. 142 SILVIO D’AMICO E LA NASCITA DEL BURCARDO negli archivi, compulsando cataloghi antiquari, intrattenendo carteggi. Due furono i frutti di tale passione e di tanta mole di lavoro: I Comici italiani5 e la collezione teatrale all’origine del Burcardo. Se si considerano la genesi di questa collezione e la sue motivazioni, colpisce la lucidità del progetto culturale illustrato da Rasi in una conferenza dal titolo Della costituzione di un museo dell’arte drammatica.6 Insoddisfatto dell’esistente e volendo por mano a un catalogo il più possibile esaustivo dei comici italiani dal tempo della Commedia dell’Arte, si diede alacremente da fare e, mentre da un lato nella scuola di via Laura formava nuove generazioni di attori, dall’altro si adoperava per ricostruire la memoria di quelli passati: E allora per tutto un decennio fu uno scorrere inquieto, vertiginoso di cataloghi di ogni specie e di ogni paese, un accumularsi di litografie, di incisioni, di disegni originali, di tele, di opere a stampa: una ridda gaia e fantastica di Arlecchini e Pantaloni, e Brighelli e Dottori, che mi rafforzavano nella mia fede, e mi erano pungolo sempre nuovo e gradito a continuare nella vita aspra, per poter finalmente attingere la vetta sperata e sospirata.7 L’agognata «vetta» era ai suoi occhi il contributo al «risveglio» degli studi storici sul teatro di prosa italiano, attraverso la revisione e l’aggiornamento delle Notizie istoriche de’ comici italiani, storico dizionario di Francesco Bartoli, stampato a Padova nel 1781-1782. Nel rinnovato interesse degli studiosi, soprattutto intorno alla Commedia dell’Arte, Rasi aveva visto, infatti, una conferma di quell’eccellenza dei comici italiani che costituiscono il filo rosso della nostra tradizione teatrale, il cui primato si può idealmente estendere «fino al giorno in cui la grande trinità Adelaide Ristori, Tommaso Salvini, Ernesto Rossi, imperò sovrana in tutto il mondo, alla quale dopo trenta e più anni di gloria è succeduta nel trono Eleonora Duse».8 La consapevolezza di una tradizione storica e insieme la coscienza della natura effimera dell’arte dell’attore convinsero Rasi ad accarezzare «l’idea del Museo dell’arte drammatica italiana»,9 alla quale, nel 1903, cioè nel momento in cui pronunciava la conferenza, diceva di pensare ormai da vent’anni: 5. Cfr. L. Rasi, I Comici italiani. Biografia, Bibliografia, Iconografia, Firenze, Bocca-Lumachi, 1897-1905, 2 voll. 6. Della costituzione di un museo dell’arte drammatica. Conferenza del prof. Luigi Rasi, in Atti del congresso internazionale di scienze storiche (Roma, 1-9 aprile 1903), viii. Atti della sezione IV: Storia dell’arte musicale e drammatica, Roma, Tipografia della R. accademia dei Lincei, 1905, pp. 139-155. 7. Ivi, p. 140. 8. Ivi, p. 141. 9. Ivi, p. 139. 143 ALESSANDRO TINTERRI Se dell’arte del comico, che è fra le più nobili e le più grandi di tutte le arti, come quella che in un attimo dà le sensazioni più profonde a una moltitudine pendente estatica dalle labbra o dal gesto di un uomo o di una donna, non rimane più traccia, fuorché nella fredda, pallida notizia tramandataci oralmente da’ contemporanei, che va poi attenuandosi, alterandosi, trasformandosi nel suo passar di bocca in bocca, di generazione in generazione, perché non serberem noi raccolte in un tempio sacrato alla storia di quell’arte le memorie di coloro, davanti a’ quali e noi e i nostri avi palpitammo, e palpiteranno i nostri nipoti tornando a vivere con essi, rievocando nella nostra mente le grandi ore godute per virtù del loro genio, o ricostruendo nella nostra fantasia quelle godute da’ nostri antichi? Se la indifferenza di essi trascinò con l’ala inesorabile del tempo gran parte di quelle memorie nell’oblio, moltissime ancor ne rimangono ad attestar la grandezza nostra nel regno del teatro.10 Orgoglioso del patrimonio che era riuscito a raccogliere e consapevole del suo valore, nel 1912 Rasi diede alla stampe il Catalogo generale della raccolta drammatica italiana di Luigi Rasi, un volume di 630 pagine, stampato a Firenze in centocinquanta esemplari.11 In mancanza di maggiori garanzie materiali, il suo intento era di conservare a futura memoria almeno la traccia dell’impresa di un uomo solo che nutriva qualche legittima preoccupazione sulla sorte della sua collezione: Sia la Raccolta teatrale, che son venuto formando con tanto amore e in così lungo tempo, collocata in Italia o all’Estero; o sia, com’è accaduto pur troppo a quasi tutte le raccolte di chi non ebbe intento di speculazione (Taylor, Filippi, Sapin, Vitu, Sarcey informino, e primo di tutti il Soleinne), venduta alla spicciolata, ho creduto opportuno per la storia del nostro teatro comico e un po’ anche per mia soddisfazione darne fuori un catalogo relativamente completo in un esiguo numero di esemplari (150), che fosse per gli studiosi, per le biblioteche e i professionisti librai un indispensabile ferro del mestiere.12 Seguiva il catalogo ragionato dell’intera raccolta, catalogata per tipologie e suddivisa in due grandi sezioni: l’una comprendente l’iconografia, l’altra dedicata a biografia e bibliografia. L’iconografia era a sua volta suddivisa in due gruppi: riproduzioni (ritratti; maschere, buffoni, scene; manifesti illustrati; fotografie; plastica) e originali (ritratti; maschere, buffoni, scene; plastica). La seconda sezione, biografia e bibliografia, era articolata in tre gruppi: opere a stampa (libri, opuscoli; programmi, elenchi; poesie, epigrafi; fogli volanti in 10. Ivi, pp. 148-149. 11. Cfr. Catalogo generale della raccolta drammatica italiana di Luigi Rasi, Firenze, L’arte della stampa-Successori Landi, 1912. 12. Ivi, p. ix. 144 SILVIO D’AMICO E LA NASCITA DEL BURCARDO seta), opere manoscritte (lettere; scritture; autografi diversi; manoscritti) e oggetti vari. Nel 1911 Aldo Ravà, che a Venezia si stava adoperando alla creazione di un museo teatrale presso la casa di Goldoni, aveva incontrato Rasi a Firenze e ne aveva ottenuto l’adesione al progetto veneziano, ma la morte colse Rasi a Milano il 9 novembre 1918, prima del concretizzarsi dell’impresa. Già nel dare l’annuncio della morte Silvio d’Amico s’interrogava sul destino della collezione Rasi, dal momento che il neocostituito Museo teatrale alla Scala non aveva potuto, per mancanza di fondi, assicurarsene l’acquisizione. Da allora il critico romano prese a seguirne passo dopo passo le vicende, a partire dalla notizia dell’avvio della trattativa per il suo acquisto da parte della Società degli autori, all’epoca avente sede ancora a Milano,13 sino alla sua definitiva collocazione nel palazzetto romano. Nella sua impresa Rasi era stato mosso dalla volontà di innalzare gli statuti professionali della categoria degli attori, nel momento in cui gli autori, spesso a loro contrapposti nella difesa dei rispettivi interessi di categoria, si riunivano e si rafforzavano, anche grazie alla tenace azione di Marco Praga, sotto l’egida di una propria società di rappresentanza. Per un curioso caso della storia, la sorte avrebbe affidato proprio alla Società degli autori le cure della collezione che intendeva celebrare l’arte dell’attore. Il destino della collezione Rasi s’intrecciava con la battaglia di D’Amico per la riforma del teatro italiano e il dibattito prese talvolta i toni della contrapposizione fra Milano e Roma. D’Amico si fece via via sostenitore di diverse soluzioni e in primo luogo espresse la speranza di una collezione Rasi annessa a una Scuola di recitazione di santa Cecilia riformata e appoggiata a sua volta a un teatro Argentina, che costituisse il cuore pulsante dell’attività drammatica della capitale. Passò qualche altro anno e la S.I.A.E., che nel frattempo aveva acquisito la collezione Rasi dietro pagamento della somma concordata di 100.000 lire, si era trasferita da Milano a Roma, mentre le casse del materiale continuavano a sostare in un magazzino. Nel 1928, poco prima di morire, la vedova Teresa Sormanni Rasi incaricò Renato Simoni di far pervenire alla S.I.A.E. la somma di 50.000 lire perché nell’erigendo museo venisse allestita una sala inti- 13. S. d’Amico, Per il museo teatrale di Luigi Rasi, «L’idea nazionale», 20 marzo 1919: «Dal momento che, nonostante le ciarle strombazzate su tutti i giornali circa il prossimo interessamento dello Stato al Teatro d’arte in Roma, alla riforma della Scuola di Recitazione in Roma, alla creazione d’un Teatro in Musica in Roma, ecc. ecc., il competente Ministero non si è nemmeno sognato di assicurare a Roma questo Museo, non resta che fare il possibile perché almeno esso rimanga a disposizione degli studiosi a Milano. Che almeno i mecenati e i ricchi di buon gusto siano meno sordi del Governo e corrispondano all’appello per la creazione di questo nuovo e necessario istituto nazionale: il Museo del Teatro Italiano». 145 ALESSANDRO TINTERRI tolata al marito. Iniziava allora a profilarsi la soluzione del Burcardo e Silvio d’Amico non mancò di manifestare le proprie perplessità: «Per ora, il Museo è modesto, e non offre grandi attrattive se non a un’esigua minoranza di studiosi: i quali accorreranno soprattutto alla sua biblioteca […]. Ma il palazzetto del Burcardo, gioiello d’architettura, è quanto di più disadatto possa pensarsi per una biblioteca».14 L’obiezione di D’Amico non era priva di fondamento e mirava a rilanciare la proposta di una collocazione del museo nell’attiguo teatro Argentina. Si trattava di una soluzione lungimirante che puntava a istituire uno stretto legame tra il teatro operante e la sua storia. A favorire questa crescita Silvio d’Amico si adoperò in prima persona, dimostrando un reale interesse alla sostanza del progetto e non una visione puramente strumentale, destinata a venir meno con l’affievolirsi delle prospettive da lui caldeggiate. Quando nel 1932 si arrivò finalmente all’inaugurazione, negli articoli con cui salutò l’evento Silvio d’Amico dimostrò di avervi riflettuto a lungo, sino ad avere ben ponderate e precise idee, com’era suo costume, sull’argomento in questione: «una Biblioteca teatrale l’aspettano tutti: storici e critici, autori e buongustai, registi e scenografi. Ma una biblioteca fornita a dovere; ossia inizialmente provvista di tutto l’essenziale, dai sussidi archeologici ai manuali di messinscena futurista; e metodicamente aggiornata, dalla passione di qualcuno, magari di uno solo, ma che ami queste cose».15 Quanto al Museo, il critico sosteneva essere un lusso la sterile esposizione di cimeli destinati a suscitare l’ammirazione, più o meno feticistica, del visitatore, mentre si diceva convinto della bontà di un progetto dai contenuti didattici e, dunque, ben provvisto di autografi e contratti, manifesti e locandine, maschere e costumi, ma, soprattutto materiali iconografici, cioè, stampe, bozzetti, figurini, fotografie: L’importante si è che il Museo non venga costituito a caso, raccogliendo cioè quello che càpita dalla buona ventura, dalle offerte di questo o di quello, dall’amicizia di X o dalla benevolenza di Y. Il Museo va costituito seguendo un piano preordinato; col proposito di documentare, in tutt’i suoi aspetti, quello che fu la scena italiana nel passato, e insieme di trasmettere ai posteri i documenti di quello ch’è oggi. Soltanto 14. S. d’Amico, Il dono della vedova Rasi agli «Autori». La sede del Museo Rasi, «La tribuna», 14 ottobre 1928, ora in Id., Cronache 1914/1955, a cura di A. d’Amico e L. Vito, introd. di G. Pedullà, Palermo, Novecento, 2001-2005, vol. iii (1928-1933), to. i (1928-1929), p. 165. 15. Due gli articoli apparsi nel 1932 a firma Silvio d’Amico sotto lo stesso titolo Per un Museo del teatro italiano, il primo sulla «Tribuna» del 14 luglio, il secondo, più ampio e illustrato, dal quale citiamo, nel numero di luglio della rivista «Scenario» (i, 1932, 6, pp. 1-8: 1), da lui fondata e diretta, insieme con Nicola De Pirro. Sui primi anni di vita di «Scenario» v. ora M. Schino, La parola regia, in Studi di storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone, a cura di S. Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 491-527. 146 SILVIO D’AMICO E LA NASCITA DEL BURCARDO così il singolo “pezzo”, anche in sé mediocre, acquista il suo valore dal posto che occupa: come anello d’una catena, come momento d’un’evoluzione.16 E qui D’Amico avanzava la sua proposta di un Museo in cui prevalesse la parte visiva, intonata al gusto del tempo, cioè «consacrata specialmente alla messinscena»: Ma per questo, secondo noi, bisognerebbe non contentarsi delle belle stampe, vecchie o nuove, riproducenti le fastose o raffinate composizioni con cui, dal Seicento al Settecento fino a ieri, i nostri scenografi hanno fatto quello che tutti sanno. Occorrerebbe di più: mettere cioè per la prima volta in atto, sotto gli occhi del visitatore, con una serie di plastici (per l’Antichità e Medioevo) e di teatrini (per l’Età moderna), tutta la storia dell’architettura teatrale, della scenotecnica, della scenografia, della messinscena. Cominciare con la riproduzione d’un teatro della Magna Grecia (che, se non sbagliamo, era Italia), e d’una sua messinscena tragica; poi quella d’un teatro romano, con una commedia; poi due o tre sacre rappresentazioni del Medioevo di vario tipo (in chiesa, all’aperto, ecc.); poi spettacoli del Rinascimento (commedia erudita, drammi pastorali); e teatri del Sei e Settecento; e scene di Commedie dell’Arte, e di Melodrammi; e teatro ottocentesco, dal Romanticismo al Naturalismo; e saggi del secolo nostro. Per il quale ultimo si potrà certo largamente ricorrere al legittimo orgoglio degli scenografi e registi d’oggidì.17 D’Amico pensava, dunque, a un’istituzione destinata a crescere e durare nel tempo, in grado d’incrementare metodicamente il proprio patrimonio: «s’accrescerà con gli anni l’importanza dei manifesti teatrali: la cui collezione, purtroppo non rigorosamente sistematica, vorremmo che fosse sistematicamente continuata, giorno per giorno, almeno d’ora in poi, a uso di quelli che studieranno domani il Teatro della nostra età».18 Del resto, già al momento in cui il Burcardo venne inaugurato dal presidente della S.I.A.E. Roberto Forges Davanzati, il 12 luglio 1932, la biblioteca aveva registrato un primo significativo arricchimento con l’acquisizione dei libri del critico Cesare Levi, cui, di lì a poco, grazie ai buoni uffici di Silvio d’Amico, venne ad aggiungersi il fondo Edoardo Boutet. Le trattative tra la S.I.A.E. e la vedova, Anita Wiel Boutet, durarono dall’agosto 1930 (data in cui il ministro Emilio Bodrero scrisse a Forges Davanzati per caldeggiare l’acquisto dell’archivio da parte della S.I.A.E.)19 alla fine del 16. D’Amico, Per un Museo, cit., pp. 2-3. 17. Ivi, p. 8. 18. Ivi, p. 7. 19. La lettera (allegata a una missiva di Anita Wiel Boutet del 25 dicembre 1930) è conservata presso il Museo biblioteca dell’attore di Genova, Fondo Silvio d’Amico, Corrispondenza con Enti, S.I.A.E., Collezione Boutet, faldone 70, fasc. 18, ed è datata 1° agosto 1930. 147 ALESSANDRO TINTERRI 1933, quando, per il tramite di Silvio d’Amico, l’archivio Boutet venne acquistato dalla S.I.A.E. per la somma di 12.000 lire. L’acquisizione era carica di significato, data la personalità di Boutet,20 critico drammatico animato da una volontà moralizzatrice della scena italiana, testimoniata in Quidam,21 romanzo didascalico sulla missione dell’attrice, e da uno spirito riformatore che nel 1905 cercò di tradurre nell’esperienza pratica della direzione della Stabile romana all’Argentina. Nel 1908 confidò la delusione seguita a quell’esperienza in una conferenza dal titolo trasparente, La mia follia.22 Una figura, la sua, per certi versi affine a Rasi e cara a Silvio d’Amico, che si trovò a occupare la cattedra di letteratura drammatica al conservatorio di Santa Cecilia, già ricoperta da Boutet, sicché non stupisce la sua parte attiva nell’operazione. Porta la data 10 maggio 1928 la perizia dattiloscritta, redatta da D’Amico per conto del Ministero della Pubblica istruzione sull’archivio Boutet, su cui vale la pena soffermarsi non solo per una ricostruzione indiziaria del fondo, ma anche per l’interpretazione che ne dà D’Amico, prima valutazione sul piano storiografico delle carte di Boutet e della realtà che vi è riflessa: Si tratta – avverte D’Amico – d’un copioso epistolario, d’oltre tremila fra lettere (che sono la massima parte), cartoline, biglietti e anche telegrammi: tutta la corrispondenza che Edoardo Boutet ebbe, come amico, critico, consigliere, incitatore, e (parte importante) come direttore del primo tentativo d’un teatro moderno in Italia, la Stabile Romana, con tutti si può dire gli scrittori e attori del tempo suo.23 A questa premessa segue un elenco dettagliato dei corrispondenti, tra i quali spiccano, anche per la consistenza dell’epistolario, i nomi di Camillo e Giannino Antona-Traversi (rispettivamente 44 e 69 fra lettere e cartoline), Roberto Bracco (106), D’Annunzio (31), Sabatino Lopez (21), Marco Praga (41); fra gli attori: Cesare Dondini (27), la Duse (46), Tina Di Lorenzo (53), Ermete Novelli (21), Giacinta Pezzana (26), Adelaide Ristori (58). Tra le cose notevoli l’estensore segnala «i documenti di un’inchiesta fatta da L.[eone] Fortis, A.[lberto?] Franchetti ed E. Boutet nella Scuola di Recitazione di Firenze: interessante la lunga relazione del Rossi [Cesare?] e la vibrante difesa della scuola stesa dal suo direttore Luigi Rasi».24 20. Cfr. A. Barbina, Edoardo Boutet. Il romanzo della scena, Roma, Bulzoni, 2005. 21. Torino-Roma, Casa editrice nazionale Roux e Viarengo, 1904. 22. Roma, M. Carra e C., 1908. 23. S. d’Amico, Relazione a S.E. il sottosegretario di stato per l’Istruzione sulla collezione d’autografi teatrali di proprietà della vedova di Edoardo Boutet, Roma, 10 maggio 1928, Museo biblioteca dell’attore di Genova, Fondo Silvio d’Amico, Corrispondenza Anita Wiel Boutet, faldone 63, fasc. 7, 10 cc. dattiloscritte, c. 1. 24. Ivi, c. 3. 148 SILVIO D’AMICO E LA NASCITA DEL BURCARDO Alla domanda centrale sul valore documentario dell’intera collezione il critico rispondeva non contenere elementi tali da sovvertire le acquisizioni storiografiche correnti, però evidenziava potersene ricavare tutta una serie di notizie minori, esprimendo in tal modo un’intuizione sul significato e il valore del documento, cui la storiografia moderna, dalle «Annales» in poi, ci ha abituati. Vediamo, dunque, le valutazioni di D’Amico, almeno le più significative. Dalle lettere di D’Annunzio si rivela che, per il suo Aligi, il poeta prima che a Ruggeri aveva pensato a Tumiati, vi si leggono apprezzamenti che stupiranno qualcuno sullo “stile erroneamente usato” nella prima interpretazione della “Figlia di Jorio” diretta da Talli, quella che siamo usi a considerare come l’interpretazione autentica; si segue il nascere della “Città morta” e della “Nave”.25 Nelle lettere del conte di San Martino, invece, si intravede qualche retroscena della “Stabile”, e dei suoi dirigenti; e anche Falena svela qual cosetta circa la cosiddetta “camorra romana” all’Argentina. Gallina annuncia una sua novità, che è “Serenissima”; ne espone, ne chiarisce e ne commenta l’idea informativa, senza che sia alcuna traccia di quel “Nobiluomo Vidal”, poi creato e introdottovi, in sei ore, da Benini. Di Gandolin, c’è l’autografo del famoso monologo “La macchina per volare” […]. E.[rcole] L.[uigi] Morselli ringrazia Boutet del premio, conferito all’“Orione” dalla Commissione permanente del Ministero dell’Istruzione, per merito principale di Boutet contro l’opposizione di vecchie talpe […]. Nel 1911 Pirandello invia a Boutet il suo primo drammetto [Il dovere del medico], spiegandone la situazione e la forma […]. Nelle lettere di Rovetta assistiamo alla nascita e alle vicende, di varie sue commedie (“Romanticismo”, “Papà eccellenza”, “La moglie di Molière”), e si ascolta anche qualche suo giudizio (contro Fortis, Praga, la Duse…). Nelle lettere di Caramba (L.[uigi] Sapelli) si trovan notizie curiose sui prezzi delle messe in scena dell’anteguerra, cento costumi per un sontuoso “Cyrano” a cento lire l’uno!26 Liquidata in poche righe la corrispondenza con gli autori stranieri la rassegna prosegue, varia e dettagliata, con l’esame delle lettere degli attori, dotate di una particolare attrattiva per l’autore del Tramonto del grande attore:27 Tutta la mentalità del vecchio comico italiano è in quella con cui Luigi Biagi, confutando l’opuscolo “La mia follia” di Boutet, spiega al suo autore le ragioni perché lui, letterato, non poteva avere successo nella direzione d’un teatro. […] Le lettere 25. Ivi, c. 4. 26. Ivi, cc. 5-6. 27. Milano, Mondadori, 1929. 149 ALESSANDRO TINTERRI della Duse contengono sue impressioni varie; un giudizio su Dumas figlio e uno su Ibsen; una affermazione sulla “inferiorità del teatro di fronte alla letteratura pura”; ecc. Una volta ella chiede informazioni sulle qualità d’un giovane attore di nome Ruggero Ruggeri. – Le lettere di Garavaglia documentano gli iniziali entusiasmi dell’attore per il sogno di quella Stabile Romana, del cui crollo egli fu poi, forse, una delle cause principali. […] Piene di vivace colore certe lettere di [Ermete] Novelli, di ritorno da giri artistici e finanziari; in un’altra egli risponde a una critica di Gino Monaldi; importante, perché tipica, è quella dove fa la sua recisa professione di fede nel teatro “a mattatore”; e preziosi due manoscritti contenenti ricordi e giudizi sulla Ristori, e una autobiografia, scritta a lapis, in sette pagine. […] Ma forse la parte di maggior valore di tutta la raccolta è costituita dalle 58 fra lettere, biglietti e autografi vari di Adelaide Ristori: sono note autobiografiche, ricordi d’infanzia, aneddoti sui suoi costumi teatrali e cimeli; un giudizio sulla Duse; uno su Scarpetta; consigli a novizi e a dilettanti; aforismi e detti sull’arte drammatica in genere, dichiarazioni sull’arte propria, ecc. ecc.28 Riconosciamo nella minuziosa perizia un aspetto della personalità di Silvio d’Amico, la passione del critico, intrecciata con la vocazione di storico, che prefigura l’autore della Storia del teatro drammatico e il fondatore dell’Enciclopedia dello spettacolo. Una figura d’intellettuale dai tratti peculiari nel panorama della società teatrale italiana del Novecento. La partecipazione di Silvio d’Amico alle sorti della neonata raccolta teatrale non si esaurì nell’opera di ricupero dell’archivio Boutet. Lo attesta il promemoria che egli fece pervenire a Dino Alfieri, all’epoca presidente della S.I.A.E., per l’arricchimento delle collezioni destinate al Burcardo.29 Vi si menzionano, tra gli altri, i fondi Ristori, Rossi e Salvini e, riguardo a quest’ultimo, vi si dice che parte della preziosa raccolta andò distrutta in un incendio (le perdite maggiori dovettero riguardare il settore della corrispondenza).30 Molti anni più tardi Alessandro d’Amico riannoderà il filo interrotto, partendo dai fondi Salvini e Ristori per creare a Genova il Museo biblioteca dell’attore:31 di padre in figlio. 28. Museo biblioteca dell’attore di Genova, Fondo Silvio d’Amico, Corrispondenza Anita Wiel Boutet, faldone 63, fasc. 7, cc. 6-8. 29. Il promemoria, intitolato Continuazione delle raccolte, si compone di 7 cc. dattiloscritte ed è allegato alla lettera di Dino Alfieri a Silvio d’Amico, Roma, datata 9 marzo 1935 (Museo biblioteca dell’attore di Genova, Fondo Silvio d’Amico, Corrispondenza con Enti, S.I.A.E., faldone 70, fasc. 16). 30. A giudicare dall’esiguità di quella presente nel fondo pervenuto in seguito al Museo biblioteca dell’attore di Genova. 31. Si riveda nota 3. 150 DOCUMENTI E TESTIMONIANZE Teresa Megale ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI DI UN LUNGO PERCORSO TEATRALE Diciotto autografi di Eleonora Duse, di cui uno mutilo, sono altrettante scintille documentarie che illuminano la presenza della ‘divina’ nella straripante collezione di manoscritti della sezione Lucchesi Palli della Biblioteca nazionale di Napoli. Pulsano questi scritti di intelligenza scenica, di tenacia e di risolutezza, di ritmi vitali e di trasparenze improvvise, e mandano non pochi bagliori della febbrile attività teatrale che occupava integralmente la vita dell’insuperata interprete e capocomica, su cui a lungo si è esercitata la moderna teatrologia, al punto da costituirne quasi una sua specifica diramazione.1 In tempi e in luoghi diversi, di non sempre facile identificazione, l’attrice affida alle lettere, con lo stile inconfondibile di una solida scrittrice che lascia spazio «alle pause, ai silenzi espressivi […] secondo una chiara poetica 1. Dopo gli studi di Gerardo Guerrieri, confluiti nel volume postumo Eleonora Duse. Nove saggi, a cura di L. Vito, Roma, Bulzoni, 1993, il mondo dusiano è stato fin qui largamente sondato, con dovizia di prospettive e di angolazioni critiche. A prescindere dai contributi singoli, a dar conto della ricchezza dell’argomento bastino qui C. Molinari, L’attrice divina. Eleonora Duse nel teatro italiano fra i due secoli (1985), Roma, Bulzoni, 19872; M. Schino, Il teatro di Eleonora Duse, Bologna, il Mulino, 1992 e Roma, Bulzoni, 2008 (ediz. riveduta e ampliata); P. Bertolone, I copioni di Eleonora Duse. ‘Adriana Lecouvreur’, ‘Francesca da Rimini’, ‘Monna Vanna’, ‘Spettri’, Pisa, Giardini, 2001; F. Perrelli, Echi nordici di grandi attori italiani, Firenze, Le Lettere, 2004; M. Schino, Racconti del Grande Attore. Tra la Rachel e la Duse, Città di Castello, Edimond, 2004; F. Simoncini, ‘Rosmersholm’ di Ibsen per Eleonora Duse, Pisa, ETS, 2005; D. Orecchia, La prima Duse. Nascita di un’attrice moderna (1879-1886), Roma, Artemide, 2007; F. Simoncini, Eleonora Duse capocomica, Firenze, Le Lettere, 2011. A questi studi monografici si aggiungano almeno i saggi confluiti nel numero di «Ariel», vi, 1989, 1-2, negli Atti del convegno internazionale Voci e anime, corpi e scritture (Venezia, 1-4 ottobre 2008), a cura di M.I. Biggi e P. Puppa, Roma, Bulzoni, 2009 e nei cataloghi delle mostre Divina Eleonora. Eleonora Duse nella vita e nell’arte, a cura di F. Bandini e P. Bertolone, coordinamento di M.I. Biggi (Venezia, 30 settembre 2001-6 gennaio 2002), Venezia, Fondazione Giorgio Cini-Marsilio, 2001; Eleonora Duse. Viaggio intorno al mondo, a cura di M.I. Biggi (Firenze, 14 marzo-17 aprile 2011), Milano, Skira, 2010. DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 151-167 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18368 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. TERESA MEGALE decadentista»,2 uno svariare di argomenti, di desideri e di promesse, misti a profferte di calda amicizia e a richieste assertive, in un intreccio di progettualità teatrale perseguita ma mai pienamente soddisfatta. Gli inediti trattengono, imbrigliati nella carta, impliciti fili argomentativi di difficile ricostruzione a una prima lettura, da dragare pazientemente per coglierne i nessi e valorizzarne i significati. Destinatari sono il drammaturgo Achille Torelli, cui appartiene la parte più cospicua del mannello che impegna un arco cronologico compreso fra il 1883 e il 1921; il critico e autore di drammi Domenico Lanza, al quale l’attrice indirizza nel novembre del 1908 due telegrammi dalla Germania intorno a un progetto di messinscena torinese di Ibsen; il direttore della «Rivista teatrale italiana d’arte lirica e drammatica», prima in Italia di tale genere, Gaspare di Martino, che nel 1910 le raccomanda un’attrice anziana, Maria Rosa Guidantoni, e con il quale, qualche anno dopo, nel 1914, interloquisce intorno alla possibilità di avviare la romana Casa-libreria delle attrici; il conte Enrico di San Martino Valperga e la fidata cameriera, Nina, ai quali la Duse si rivolge una sola volta in momenti e per scopi diversi. Ciascun documento è manoscritto con il personalissimo inchiostro viola, marchio dello scrittoio dusiano, eccezion fatta per uno dei due diretti a Di Martino e per l’unico diretto a Nina, vergati a lapis. Quello indirizzato alla sua complice di faccende teatrali oltre che solutrice di quotidiane incombenze, diretto riflesso dell’intimità consuetudinaria tra le due donne, è scritto con una grafia larga e frettolosa e contiene disposizioni ordinarie, perché destinato, in realtà, a durare il tempo della loro esecuzione. Un indice ideale delle menzionate lettere e biglietti e telegrammi comprenderebbe un numero ridotto, ma pur sempre vario e significativo, di nomi tra quelli noti e quelli ignoti, tra quelli di primo e di secondo piano rispetto alla biografia artistica della Duse (oltre ai già citati, la sarta Bossi, gli agguerriti impresari Achille e Giovannino Chiarella, Tina di Lorenzo, Giuseppe Giacosa, la filantropa duchessa Teresa Filangieri Fieschi Ravaschieri, Adelaide Ristori, l’antiquario Rondi, Cesare Rossi, Ermete Zacconi) e un altrettanto ridotto numero di titoli (Borkman di Ibsen, Fedora di Sardou, Fragilità, La duchessa don Giovanni, La moglie, La madre e Scrollina di Torelli), ma sufficienti ad aprire uno squarcio sul variabile repertorio dell’attrice inquieta, a caccia costante di personaggi dalla vibratile, moderna sensibilità. Ogni documento, tuttavia, permette un affondo nel suo mondo teatrale e contribuisce a ricostruirne un frammento. A partire dalla prima lettera spedita a Torelli, giornalista, com- 2. V. Branca, Vocazione letteraria di Eleonora Duse, in Divina Eleonora. Eleonora Duse nella vita e nell’arte, cit., pp. 111-122: 112. 152 ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI mediografo e primo bibliotecario della Lucchesi Palli,3 il 1° ottobre 1883, che lascia presagire una relazione più antica, risalente al suo giovanile periodo napoletano4 e consolidata dal debutto nel 1881 di Scrollina5 con l’interprete promossa finalmente a prima donna, l’attrice chiede al drammaturgo, consacrato tale nel 1867 dal precoce successo de I mariti, di poter recitare Fragilità e i suoi lavori ‘italiani’, al posto dell’«opprimente» (doc. 1) principessa Fedora Romanov. Uno sfogo calcolato da parte dell’interprete, apertamente insoddisfatta del repertorio ottocentesco francese, che suona come richiesta di uno sforzo creativo da parte dell’autore. Pochi giorni dopo, l’attrice che non aveva fatto mistero al suo corrispondente dei suoi bisogni drammaturgici, itera la richiesta del testo, mentre prende una saggia distanza da La madre, messa pure in prova da Cesare Rossi, nella quale scorge, con il fiuto selettivo che solo il palcoscenico dà, «scene potenti di pensiero e di passione e pregio (o torto maggiore) non di teatralità» (doc. 2). Dopo qualche anno, agli inizi del 1889, la confidenza con Torelli è tale da farle confessare di aver nutrito qualche timore nei confronti della Duchessa don Giovanni, personaggio metateatrale dell’omonimo atto unico, che il drammaturgo partenopeo costruisce attribuendo alla protagonista i tratti del maggior carattere dello pseudo Tirso. «Oggi non più. Le vado incontro poiché credo d’intenderla» (doc. 5), confessa una Duse che sfoggia volontariamente una disinibita dose di maturità scenica e personale proprio verso quel personaggio. Le prove per allestire il lavoro non sa- 3. «Torelli aveva tutti i doni che una natura prodiga può elargire a un suo protetto. Bel giovane, dai capelli corvini, dagli occhi intelligenti, mobili e scintillanti, a volte velati di malinconia, la figura prestante, il tratto disinvolto e signorile, un temperamento animoso, dinamico, nervoso» (S. Gaetani, Napoli ieri e oggi. Passeggiate e ricordi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965, p. 116). Sul prolifico autore, nonché direttore della Biblioteca teatrale e archivio musicale Lucchesi Palli alla sua apertura pubblica, dal 1897 fino al 1902, v. il catalogo della mostra bio-bibliografica Achille Torelli nei documenti della Biblioteca nazionale, Roma, Istituto poligrafico e zecca dello Stato, 1995. 4. Sulle relazioni di tale periodo, che incisero sensibilmente sulla formazione della sua personalità e sulla sua espressività artistica, cfr. T. Megale, Passioni napoletane di Eleonora Duse, in Voci e anime, corpi e scritture, cit., pp. 49-63. 5. Fu Pierina Giagnoni Ajudi la prima interprete di Scrollina, da lei tenuta a battesimo all’Arena del Sole di Bologna il 14 luglio 1881 nel ruolo del titolo con la compagnia di Luigi Monti. Subito dopo, il 19 agosto dello stesso anno, la interpretò e la rilanciò la Duse all’Arena nazionale di Firenze con la Drammatica compagnia della città di Torino e in seguito, il 15 dicembre 1929, Marta Abba (già Scrollina un anno prima, nella compagnia diretta da Pirandello, al teatro Manzoni di Milano, il 25 aprile; cfr. A. d’Amico-A. Tinterri, Pirandello capocomico. La compagnia del Teatro d’Arte di Roma, 1925-1928, Palermo, Sellerio, 1987, pp. 290-292) con la propria formazione. Il successo del testo, in una carriera drammaturgica diseguale, fatta di fulminee affermazioni e di ripetuti arresti, fu tale da spingere Torelli a monumentalizzarlo al punto da chiamare ‘Scrollina’ la villa che si fece costruire a Capodimonte. 153 TERESA MEGALE ranno poi preventivamente tante, se afferma, risoluta, con la consueta lucidità scenica che la contraddistingue, che l’allestimento «in otto o 10 giorni andrà» (doc. 6). In realtà, si interporrà la richiesta di uno spettacolo di beneficienza richiestole dall’attivissima duchessa Filangieri Fieschi Ravaschieri (doc. 9), nota per una monumentale Storia della carità napoletana in quattro volumi,6 per la quale, ripetendosi l’adagio tassiano del «nulla si niega», si acconcia a rinverdire un’opera in versi di Giacosa (con molta probabilità La sirena, da lei recitata al teatro Valle di Roma il 22 ottobre 1883 con Arturo Diotti e Flavio Andò); poi altri, successivi, imprevisti avrebbero impedito, a quanto sembra, la messa in scena. Che nell’aristocratico salotto della filantropa partenopea la Duse intendesse davvero recitare La sirena è deducibile da quanto scrive nell’inedito e dalla circostanza di dover ottemperare a nuove prove «per me e per due attori della compagnia che reciteranno con me» allo scopo di «riaffiatare il piccolo poema». Ma, nonostante le molte attese deluse, gli intoppi, i rimandi,7 il legame amicale con il drammaturgo partenopeo è sincero e duraturo, tanto che l’attrice vi ricorre spesso e volentieri, mandandogli richieste di incontri, inviandogli saluti e auguri, raccomandandogli con franchezza di essere disinibito con gli affari teatrali e di guadagnarne «quattrini» (docc. 6, 8), aprendosi talvolta a considerazioni improvvise sulla vita, rinnovandogli, tramite l’invio di una foto di Scrollina (doc. 12), probabilmente uno scatto di Ugo Bettini,8 il suo affetto nell’anno, delicatissimo, del ritorno sulle scene. La missiva, contenente il ricordo dell’antico personaggio torelliano tenuto da lei in repertorio dal 1881 al 1886,9 precede di poco la morte dell’autore, avvenuta il 31 gennaio 1922, che sul suo capezzale avrebbe avuto un ennesimo, affettuoso scritto dell’attrice: «Sono con voi presente, e sempre memore, sempre amica, seppure lontana».10 E la vicinanza confidenziale fra la Duse e Torelli bene affiora nel 6. L’opera della nobile filantropa, che spesso finanziava la sua attività benefica tramite il teatro, fu pubblicata a Napoli, presso lo stabilimento tipografico di Francesco Giannini, senza alcuna data e successivamente presso lo stabilimento tipografico di Antonio Morano della stessa città, negli anni 1875-1879. 7. Saranno forse questi impedimenti a spingere Achille Torelli a inviare il manoscritto della Duchessa don Giovanni anche a Virginia Reiter. Il 6 agosto 1896 l’attrice gli scrive da Modena di averlo ricevuto e di volerlo leggere. Cfr. Biblioteca nazionale di Napoli (d’ora in poi BNN), ms. L[ucchesi] P[alli] [d’ora in poi L.P.] vii, 22. 8. V. la foto della Duse nel ritratto della contessa Teresa (Scrollina) conservata presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia e riprodotta in Divina Eleonora. Eleonora Duse nella vita e nell’arte, cit., p. 32, fig. 9. 9. Per la puntuale ricostruzione del repertorio della Duse si rimanda alla voce curata da Francesca Simoncini per l’Archivio Multimediale degli Attori Italiani (AMAtI) all’indirizzo: http://amati.fupress.net. 10. Trascrive questo appunto Rosaria Savio in una nota del suo Indice bio-bibliografico, in Achille Torelli nei documenti della Biblioteca nazionale, cit., p. 42 e n. 154 ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI lessico scelto dall’attrice in ognuna delle sue lettere: l’esortazione «aizzate in collo» (doc. 2), di chiara marca partenopea, assunta come propria, il ripetuto «statevi bene» (docc. 6, 9) sono spie di una speciale intesa fra i due, di un’amicizia teatrale profonda, al pari delle prove per le quali l’attrice – in linea con la consuetudine del tempo – richiede la presenza dell’autore. La duchessa don Giovanni di Torelli prevedeva un ruolo di prima donna tendente alla seconda, che più di tutti si addiceva alla Duse.11 Pubblicato nel 1888 presso l’editore Carlo Barbini di Milano, l’atto unico con il titolo mutato in La vittima fu poi portato in scena nella città meneghina da Flavio Andò, il primo attore, antico compagno d’arte della Duse, cui forse lei stessa lo aveva fatto leggere, il 18 gennaio 1897, riportando un clamoroso insuccesso, al punto tale che l’interprete ironizzò con il suo autore: «La tua Vittima ieri sera è quasi caduta».12 I superstiti telegrammi inviati a Lanza (docc. 14-15) si riferiscono, invece, alle trattative per l’inaugurazione nel dicembre 1908 del politeama Chiarella di Torino, la vasta sala teatrale situata dietro la sinagoga nel quartiere di San Salvario, ora distrutta, nella quale la Duse avrebbe dovuto dare il John Gabriel Borkman di Ibsen. Affiorano le esitazioni e i dubbi fondati dell’attrice-capocomica circa la riuscita dello spettacolo ibseniano in un teatro da duemila posti, e la sua capacità manageriale di vagliare i rischi della proposta prontamente, nonostante sia impegnata in una delle sue molteplici tournées all’estero,13 e di esprimerli lucidamente al giornalista intermediario dei Chiarella. Mentre rimane enigmatica, perché priva di dati storicamente circostanziabili, la lettera inviata da Eleonora Duse al conte di San Martino, residente a 11. La protagonista del titolo, Debora Di Lara, figlia di una cantante e di un conte, rifiutata dalla madre, è divenuta cantante per vivere. Ammaliatrice e seduttrice, è riuscita a inserirsi nella famiglia altolocata del padre come dama di compagnia della zia, la contessa Editta, di cui ama il figlio, Mario. Ma quando costui viene obbligato dalla madre a sposare la principessa Tecla, Debora accetta le nozze con il duca Livio, costruite anche queste su misura dalla potente zia. Si tratta di un matrimonio senz’amore, che spingerà Debora a mutare il suo nome in Duchessa don Giovanni, per «ritornare una volta tanto sulle scene a provar l’ebbrezza dell’arte e degli applausi» e per sedurre quanti uomini le capitino a tiro. A lei Torelli fa dire «il peggio in amore è sempre il vecchio… Una bellezza non posseduta è come una strofa non iscritta; il poeta segue cupidamente un’idea che gli sfugge; ma quando l’afferra, l’incanto è rotto…» (A. Torelli, La duchessa don Giovanni. Dramma in un atto, Milano, C. Barbini, 1888). Mario, che ha lasciato Tecla, vive passando da un amore a un altro ed è proprio Debora a spiegare alla zia che suo figlio è un don Giovanni impenitente, che potrebbe fermarsi solo dinanzi a una Cleopatra, e che lei lo lascia al suo destino. Quando Livio scopre che Debora attende un figlio da Mario, si suicida. L’atto unico è dedicato alla contessa Teresa Statella Guevara. 12. Lettera di Flavio Andò ad Achille Torelli, Milano, 19 gennaio 1897, BNN, ms. L.P. 84. 13. Sulle tournées dell’attrice cfr. il catalogo della mostra Eleonora Duse. Viaggio intorno al mondo, cit. 155 TERESA MEGALE Parigi (doc. 18), tutt’altro tenore ha quella vergata per la sua cameriera-trovarobe (doc. 13). Qui, ordinativi alla sarta di camicie di seta bianche e di cravatte dello stesso colore, richieste di biancheria intima (camicie da notte e calze, sempre bianche), acquisti di sculture raffiguranti madonne rinascimentali e di mensole, risuonano della frenesia implacabile della messa in scena (La signora dalle camelie, probabilmente, per l’insistito ricorso al bianco dei costumi e Gioconda per l’impiego di un calco scultoreo dal Verrocchio o fors’anche Francesca da Rimini, per la presenza di una madonna almeno nella scena del v atto)14 e della ricerca affannosa di elementi congruenti con una precisa scrittura scenica, che governa e assilla la mente dell’attrice. Come gli altri, o forse più degli altri, il documento, fresco e vivace, introduce nel pieno della fabbrile officina dusiana e apre uno squarcio sulla meticolosa cura necessaria per ogni fase della scrittura scenica. Altrettanto interessanti per la progettualità che le sottende le due missive a Di Martino (docc. 16-17). In una risponde in modo franco al corrispondente che, si è accennato, sollecita il suo aiuto per Maria Rosa Guidantoni,15 nell’altra, che riguarda certamente il disegno ambizioso della creazione della Libreria delle attrici a Roma, lo sollecita ad appoggiare il suo disegno, non nascondendogli le incertezze e le difficoltà del suo varo, sul quale lei comunque proietta molte attese («questo inizio si tramuterà, si esprimerà da sé e per sé, evolvendosi sempre, ingrandendo se stesso, diventando una cosa esistente fra le fugaci cose di nostra vita, assumendo nuova forma, nuova espressione»). Inaugurata il 27 maggio 1914, a breve distanza temporale dalle parole inviate a Di Martino da una Duse che si giustifica per usare la matita («Scusi questo scrivere a matita. Ma scrivere mi è di fatica grande, e a matita m’è più facile farlo»), la Casalibreria sorta in via Pietralata, sulla Nomentana e dotata di un’ampia bibliote- 14. Per un riscontro figurativo delle scene v. Molinari, L’attrice divina, cit., figg. 49-50 (Gioconda, v). In particolare, mentre la fig. 50 fotografa la Duse accanto alla celebre Dama col mazzolino, capolavoro dell’artista fiorentino, la fig. 49 riproduce un’immagine, tratta da «L’illustrazione italiana», in cui l’ambiente scenico è sovraccaricato di busti, statue, rilievi, su piedistalli, tavoli e pareti. Per Francesca da Rimini cfr. ivi, fig. 87. 15. Tali le sintetiche, efficaci notizie di Alberto Manzi a riguardo di Maria Rosa Guidantoni pubblicate nella corrispondente ‘voce’ apparsa nell’Enciclopedia italiana, edita a Roma dall’Istituto dell’enciclopedia italiana Treccani, vol. xviii, 1933, p. 250: «Attrice, nata a Rimini verso il 1840, morta nei primi anni del Novecento. Da bimba recitò coi filodrammatici; studiò ballo e canto, e come cantante ebbe veri successi. Nel 1860 si scritturò con G. Peracchi; nel 1863-64 fu con Ernesto Rossi; mediocrissima ‘amorosa’, fu ottima nella tragedia, specie in Oreste e nell’Amleto: grande prima attrice madre e caratterista. Compose una rivista e in essa cantò e danzò; scrisse commediole, monologhi; commemorò Guerrazzi, tenne conferenze; raccolse in qualche opuscolo alcune delle sue molte poesie». Dalla lettera della Duse si comprende che l’attrice era ancora viva nel giugno del 1910. 156 ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI ca16 per la formazione delle interpreti, chiuse appena un anno dopo, nel 1915, dinanzi ai fragori della prima guerra mondiale. La missiva all’amico la coglie mentre tesse i suoi rapporti, come sempre consapevole e prospettica, generosa e determinata. Un’istantanea di grande efficacia, pur nel suo impianto rapsodico, quasi il sigillo di una vita interamente dedicata al teatro. Appendice Gli autografi sono trascritti con criteri conservativi, in ordine cronologico, nel pieno rispetto della punteggiatura, fedele al ritmo, in taluni casi quasi recitato, impresso dall’autrice alle parole, e dell’impostazione, anche grafica, degli originali. Tra parentesi quadre le proposte di datazione per alcuni documenti. Ad eccezione del documento 5, per il quale è stato possibile risalire alle circostanze temporali della stesura, resta del tutto arbitraria, per quanti sforzi si siano fatti, la collocazione affidata agli inediti privi di data e di luogo. Si riproducono prima le dodici lettere ad Achille Torelli (docc. 1-12), a seguire quella alla cameriera Nina (doc. 13), i due telegrammi a Domenico Lanza (docc. 14-15), le due missive a Gaspare di Martino (docc. 16-17) e, infine, quella al conte Enrico di San Martino Valperga (doc. 18). Nel licenziare gli inediti ringrazio Gennaro Alifuoco e Patrizia Mottolese della sezione Lucchesi Palli della Biblioteca nazionale di Napoli insieme con Maria Beatrice Cozzi Scarpetta. Doc. 1 Eleonora Duse ad Achille Torelli Roma, 1° ottobre 1883 BNN, ms. L.P. Ba xiv (120 mm. 175 x 110, 2 cc. 16. Sull’ambizioso progetto culturale della Libreria delle attrici si rimanda alle acute riflessioni di L. Mariani, Il ‘femminismo’ di Eleonora Duse, in Id., Il tempo delle attrici. Emancipazionismo e teatro in Italia fra Ottocento e Novecento, Bologna, Mongolfiera, 1991, pp. 135-163, in partic. pp. 154-159; Id., Amicizie e ‘possesso di sé’ nel teatro, la Duse e le giovani attrici, in Voci e anime, corpi e scritture, cit., pp. 355-372. Sull’argomento si veda M.I. Biggi, La ‘Libreria delle attrici’, in Donne e teatro. Atti del convegno (Venezia, 6 ottobre 2003), a cura di D. Perocco, Venezia, Università Ca’ Foscari-Cartotecnica veneziana, 2004, pp. 105-124. Tra il 1918 e il 1919 la Duse si preoccupò di tutelare il suo patrimonio librario, altamente rappresentativo del patrimonio artistico, e inviò a Cambridge i volumi, ritrovati nel 2007 da Anna Sica. Su questo ritrovamento cfr. A. Sica, The Eleonora Duse Collection in Cambridge, «Arco-Journal», 12 luglio 2008, pp. 1-15 e il volume, scritto a quattro mani, Id.-A. Wilson, The Murray Edwards Duse Collection, Milano, Mimesis, 2012. 157 TERESA MEGALE Grazie della lettera e del manoscritto. L’ho ricevuto stamane. Sono ansiosa di leggerlo e lo leggerò mercoledì notte dopo Fedora. Ho bisogno di occupare e bene del vostro lavoro e non leggerlo fra una prova e l’altra di questa opprimente Fedora. / Lasciate dunque che la reciti e dopo tutta per voi. Mi permettete di rappresentare Fragilità? Sono stanca di parti pazze ho bisogno d’un ambiente buono, nostro, italiano, ho bisogno di molti vostri lavori. Vi scriverò presto. Intanto una stretta affettuosa e saluti E. Duse Checchi Doc. 2 Eleonora Duse ad Achille Torelli Roma, 8 ottobre 1883 BNN, ms. L.P. Ba xiv (118 mm. 177 x 114, 2 cc. Roma 8 ottobre 1883 Dunque – ho letto Madre e ho dato a Rossi il copione per averne le parti. La metteremo subito in prova. Vi sono scene potenti di pensiero e di passione e pregio (o torto maggiore) non di teatralità. Voglio vederla in /scena e studiarla prima di promettervi di riuscire nella mia parte. Se tardate mandarmi Fragilità non faro [sic] più tempo perché a Roma e me ne dispiacerebbe. Credete a me – non correggete i vostri lavori. non /togliete nulla ad essi, non farete – limandoli – che limare la loro bellezza. Come va la vostra salute? Io benone. Il successo è un ricostituente. Dunque – per le prove di Madre sarebbe bene che ci foste – aizzate in collo e venitevene a Roma. Eccovi una mano buona e affettuosa di voi devotamente E. Duse Checchi Doc. 3 Eleonora Duse ad Achille Torelli Roma, 28 ottobre 1883 Lettera mutila BNN, ms. L.P. Ba xiv (121 mm. 177 x 114, 1 c. 158 ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI Roma 28 ottobre 83 Ho promesso a me stessa di rimettere in scena tutto il vostro repertorio quello almeno che riguarda la parte femminina – si capisce! Ora voi pure dovete aiutarmi e anche sapere attendere e dare tempo al tempo. La Moglie – mi va […] Doc. 4 Eleonora Duse ad Achille Torelli s.l., s.d. BNN, ms. L.P. Ba xiv (117 mm. 170 x 220, 1 c. Caro Torelli molte e molte grazie del cortese saluto. Vi ricambio affettuosamente saluto e auguri. Spero nulla di grave vi tormenta, e sarete presto ristabilito. Spero vedervi prima della mia partenza. Molte buone cose E. Duse Doc. 5 Eleonora Duse ad Achille Torelli [Napoli, 18 gennaio 1889] Carta intestata: un cartiglio con la scritta: «Beati qui lugent quoniam ipsi consolabuntur» BNN, ms. L.P. Ba xiv (119 mm. 212 x 130, 2 cc. Venerdì Egregio e carissimo amico. Non vi è si è visto più al Sannazaro. Perché Avete diffidato di me? Un tempo, ebbi paura della vostra Duchessa Don Giovanni, oggi non più. Le vado incontro poiché credo d’intenderla. Le parti sono quasi copiate e lo [sic] metteremo in prova ai primi di Febbraio. Per esecuzione, e concerto, eseguiremo la vostra volontà. Voi dirigerete le prove. Vi va? Passate da casa mia, avrò piacere, tanto, di vedervi e parlarvi. Saluti E. Duse 159 TERESA MEGALE Doc. 6 Eleonora Duse ad Achille Torelli [Napoli], 19 gennaio 1889 BNN, ms. L.P. Ba iii (38 mm. 202 x 130, 2 cc. Amico buono. Se ieri vi ho detto che prendo in braccio la vostra Duchessa, non c’è nessuna ragione perché oggi io dovessi cambiare idea. Per conciliare però un possibile contratto con Rossi, ditemi voi, come volete fare? Volete dare a Rossi la precedenza? Fatelo, se vi conviene. Vi assicuro non mi duole che lo facciate. L’importante è che la comedia [sic] vada bene e che vi frutti anche dei quattrini. Sono… oggetti considerevoli i quattrini. Calcolate che fino al 1° febbraio, io non posso, proprio non posso, incominciare le prove… ma una volta avviate in otto o 10 giorni andrà. Combinate con Rossi come più vi conviene. Ecco tutto. Vi ringrazio della vostra buona lettera. Avete ragione. Chi resiste a vivere solo riesce a vivere buono. Non siete il solo che è stanco e stonato della vita d’urtoni che si vive ogni giorno, / ma… ‘ogni giorno passa un giorno’, e qualunque sia la via, e la vita vissuta, la strada che se ne fa ogni giorno conduce alla quiete. C’è chi sa meritarsela. Ave! Statevi bene. Eleonora Doc. 7 Eleonora Duse ad Achille Torelli [Napoli], s.d. BNN, ms. L.P. Ba iii (37 mm. 155 x 115, 1 c. e una busta Caro Torelli. Ho salito le scale per trovarvi – niente, pas de chance – Fate una corsa all’Hôtel Vesuve. Parto domani e vorrei tanto vedervi. Eleonora Duse 160 ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI Doc. 8 Eleonora Duse ad Achille Torelli s.l., s.d. BNN, ms. L.P. Ba xiv (123 mm. 90 x 112, 1 c. Carissimo Torelli e gentilissimo amico. Ho ricevuto e v’ho scritto grazie, di cuore per il piano del vostro bello e forte dramma. Ma voi mi pressate di porlo in scena in un momento in cui proprio non posso occuparmene, per tante varie ragioni, che sarebbe / troppo lungo spiegarvi. Restiamo dunque così: 1° che io vi sono riconoscente e devota. 2° che vi ringrazio e che quando potrò metterò in scena. 3° che se l’attesa vi nuoce io vi prego di fare l’interesse vostro, affidandolo se credete, ad altri artisti. Fra voi e me sono inutili i complimenti. Vogliatemi bene E. Duse Doc. 9 Eleonora Duse ad Achille Torelli [Napoli], 1° febbraio 1889 BNN, ms. L.P. Ba xiv (122 mm. 203 x 130, 2 cc. 1° Febbraio 89. Carissimo Torelli La Duchessa Ravaschieri ha cortesemente ed insistentemente domandato ch’io prenda parte a una recita di beneficenza che ella stessa organizia [sic]. Ora per far questo è stato scelto una commedia in un atto, e in versi, di G. Giacosa, che io ho recitato solo una sera, 4 anni or sono [sic]. Ci è dunque necessario / per me e per due attori della compagnia che reciteranno con me di riaffiatare il piccolo poema. Rimangono, dunque, necessariamente rimandate le prove della Duchessa vostra. Perdonatemene il ritardo, ma per beneficenza, e alla Duchessa Ravaschieri, a tante intercessioni “nulla si niega”. Se però, / credete intanto di affrettarne l’esecuzione nella Compagnia ove è il Zaccone che ve l’ha chiesta, non danneggiatevi, e provvedete, con giudizio, in modo che ne abbia utile Zaccone, e l’autore, da lui pregato! - abbiate pazienza, pel ritardo, e vogliatemi bene! e statevi bene! E. Duse 161 TERESA MEGALE Doc. 10 Eleonora Duse ad Achille Torelli s.l., s.d. BNN, ms. L.P. Ba viiibis (12 mm. 85 x 113, 1 c. Caro Torelli Mandatemi il copione. Se la comedia [sic] la trovo adatta alla Compagnia, e al mio piccolo io, allora continueremo. Saluti tanti! E. Duse Doc. 11 Eleonora Duse ad Achille Torelli [Roma], 23 marzo 1899 Carta intestata: «Rome-Grand Hotel». Il logo in alto a sinistra reca la scritta: «Tout chemin mene a Rome». Destinatario: «Egr. Achille Torelli Ministero dell’Istruzione (Piazza Minerva?) Roma». BNN, ms. L.P. 132 mm. 210 x 134, 2 cc. e una busta Due giorni di ritardo a rispondere alla vostra lettera, ma caro Torelli, ho avuto una leggera influenza che mi tiene ancora a letto, e non ho potuto scrivere. Però oggi sto meglio, ma ogni mio progetto di lavoro è in ritardo, e non so se ora troverò un’ora libera. E al mio ritorno da Sicilia / si potrebbe? Sapete attendere? Dite per me, vi prego, tutta la mia devozione ad Adelaide Ristori. A voi affettuosamente E. Duse 23 marzo 1899 Doc. 12 Eleonora Duse ad Achille Torelli s.l., dicembre 1921 162 ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI BNN, ms. L.P. 131 mm. 215 x 130, 2 cc. Decembre [sic] 21 Prima di ripartire, amo ripetervi “Grazie” per ogni parola che ho riudita da voi. Ho ritrovato, per caso, questo ritratto di “Scrollina” e pregovi accoglierlo. Esso vi ricordi la parola della mia immutata devozione – sempre. Eleonora Duse Natale 21 Doc. 13 Eleonora Duse a Nina s.l., s.d. BNN, ms. L.P. 322 mm. 315 x 210, 1 c. Cara Nina, va subito dalla Bossi, portale questo camice di seta e dille di farmene con la più grande sollecitudine, per domani sera uno eguale in seta bianca. Dille che scelga la migliore qualità di seta bianca che ha. Poi va dal Rondi, quello dei gessi di ieri. Digli che ti dia subito quella Madonna grande del “Verrocchio” / che contrattai ieri. È una madonna grande e si chiama – ricordati – : “Madonna del Verrocchio”. La fai incartare bene, te la metti in vettura con te e la consegni all’uomo. Gli dirai anche (al Rondi) che ieri scelsi anche / una piccola mensola di gesso con due griffoni, del prezzo di cinque lire, e non la trovai nei pacchi. Raccomanda alla Signora Bossi la massima sollecitudine. Mandami una camicia bianca da notte, dell’ultimo atto della Comedia [sic]. “Ne ho due”, una fine, e una di qualità inferiore, mandale tutte due. Se hai biancheria, dovresti avere una camicia da notte, mandala. Se hai delle calze leggere bianche mandale. Ordina alla Bossi altre due cravatte bianche da uomo uguali a quelle che son andate perse per non averle appuntate e lasciate nella carta velina. Spicciati. E.D. 163 TERESA MEGALE Doc. 14 Eleonora Duse a Domenico Lanza Frankfurt, 28 novembre 1908 Telegramma destinato a «Domenico Lanza Stampa Torino» BNN, ms. L.P. 386 mm. 225 x 245, 1 c. Ricevo lettera ringrazio infinitamente sono incerta e inquieta per Politeama ambiente forse troppo vasto per Ibsen. Per tale lavoro l’ambiente è cosa molto importante pregovi calcolare bene e ripetermi con ponderazione vostra opinione in ogni modo preferisco rimanere strettamente al programma Ibsen e preferisco dare una sola recita con Borkmann [sic] tanto più che non potrò andare oltre il 21 prego farmi telegrafare dai Chiarella risposta conforme a questa proposta sarò domani Wiesbaden Nassau Hotel sono tanto felice potere ancora una volta esservi grata e dirvi grazie e au revoir. Eleonora Duse. Doc. 15 Eleonora Duse a Domenico Lanza Wiesbaden, 30 novembre 1908 Telegramma destinato a «Domenico Lanza Torino Stampa» BNN, ms. L.P. 387 mm. 225 x 240, 1 c. Rinnovo ringraziamenti telegrafo io stessa Chiarella che prenderò decisione dopo aver visto teatro lavorare per Ibsen mi sta a cuore e temo arrischiarlo per una sola sera en [sic] ambiente non adatto riconoscente a voi deciderò con voi cosa fare al mio arrivo Torino buon saluto e buon augurio. Eleonora Duse Doc. 16 Eleonora Duse a Gaspare di Martino Firenze, 12 giugno 1910 [data del timbro postale] Destinatario: «Gaspare di Martino, Via Corrieri a S[an]ta Brigida, 14, Napoli» BNN, ms. L.P. 801 mm. 214 x 153, 1 c. e una busta 164 ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI Egregio Signore, molto in ritardo arriva la sua raccomandazione a me diretta, in lettera aperta in favore di M[aria] R[osa] Guidantoni. La Signora M[aria] R[osa] Guidantoni fu – ed è, da anni – soccorsa da me… ahimè, nei limiti del possibile. Non so dirle dunque quanto la sua iniziativa mi abbia sorpreso. Non posso dare nessun’altra / risposta alla sua lettera aperta, poiché veramente credo che a certi dolori e a certi conforti meglio conviene il silenzio. La prego dunque non rendere questa mia di pubblica ragione. Coi migliori saluti. E. Duse Doc. 17 Eleonora Duse a Gaspare di Martino Roma, aprile 1914 Lettera scritta fronte retro, a matita, su fogli sciolti. BNN, ms. L.P. 802 mm. 215 x 130, 4 cc. Roma. Aprile 914 … Certo; difficoltà, errore, e incertezza di tutto. Così è questo cominciamento, così è per ogni cosa di vita; ma niente è immutabile. Ogni giorno già apporta nuove correnti, nuove esperienze, qualche forza amica che ieri era ignota, oggi è per noi, e qualche resistenza, sarà, forse, col tempo, tramutata, o lontana. Questo iniziare, ora, non sarà né un sistema, né un programma da seguire fissato e inamovibile, ma sarà solo preparare un domani, un ambiente, un’attività ben diretta, un’energia non dispersa… infine, un riconoscere la necessità di / fare noi stessi per noi stessi. Certo, bisognerà pazientare, attendere molto, riunirci se pur a poco a poco, ma non “per vagar fra nuvole e sogni”, né per avere catene al piede. Abbiamo degli amici, e dei nemici; è giusto, è bello che sia così, abbiamo il tempo per noi, per vagliare gli uni e gli altri, e noi stessi prima di tutti. Cominciamo come si può e dove si può, e andiamo oltre. 165 TERESA MEGALE Le dissi che speravo in uno stato d’animo e questo Ella ha già creato con la sua parola nobile e bella, il resto… muterà, si completerà, come sempre succede, strada facendo. A poco a poco, / questo inizio si tramuterà, si esprimerà da sé e per sé, evolvendosi sempre, ingrandendo se stesso, diventando una cosa esistente fra le fugaci cose di nostra vita, assumendo nuova forma, nuova espressione. Questo ridico a Lei, con tutta fede, quasi che io senta necessità di ridirle questa fede, dopo aver ricevuto la sua lettera che […] copiai tristamente. Spero che l’incomprensione non sarà turbata né da rifiuti né da malintesi, penosi entrambi. Esiste solo, per ora, una circostanza che renderebbe forse propizio il ritardo di qualche giorno, cioè aspettare la prima settimana di Giugno per avere a Roma Tina di Lorenzo, che fu fra le prime adesioni, e preziosa. / Infine! Si vedrà! Per ora, eccole la mia preghiera e il mio augurio: che niente turbi la fusione dei primi mezzi, e dei primi elementi indispensabili. Sono certa che, per ora, qualsiasi eliminazione sarebbe già creare un disaccordo. Se ella dunque acconsente di avere la sua calda parola di Luce, la prego sia alcuna anche parola di bontà verso gli eventi, senza guardare intorno, senza illudersi, Ella pure a sua volta, che io possa, io, che pur intravedo un libero mare per tutti noi, che io possa però, ora, / nelle condizioni attuali, navigare contro corrente. Gli ambienti esistono, le forze contrarie esistono, non le ho create io, per certo, ma le ho trovate organizzate e viventi, e come bene viventi, da anni e anni, fra noi, con noi, per noi, in favore e contro di noi. Io, non posso dunque che andare più oltre senza assumermi di fare, io, dell’ordine, fra le cose discordi. Dicemmo, parlando, qui a Roma, / che per preparare l’ambiente a questo inizio, occorre “carta ed inchiostro” e poiché in questo momento, la mia buona sorte me lo consente, nei mezzi che mi sono possibili, ecco, che di cuore offro la “carta e l’inchiostro” ma la parola è l’anima della cosa, e questa la doni Lei! Le dico grazie, con tutta confiance. Eleonora Duse Saluti alla gentile Signora Di Martino. / P.S. Scusi questo scrivere a matita. Ma scrivere mi è di fatica grande, e a matita m’è più facile farlo. Doc. 18 Eleonora Duse al Conte di San Martino Parigi, s.d. [dopo il 1915] Destinatario: «Paris, Conte di San Martino Rue Copernic 39» 166 ELEONORA DUSE. NUOVI FRAMMENTI AUTOGRAFI Intestazione e monogramma: «Hotel Continental Paris» BNN, ms. L.P. 539 mm. 205 x 135, 2 cc. e una busta Stasera, alle 4. Le scrivo grazie per ogni cortese parola. Vorrei poterle fissare un giorno… ma avrei dovuto partire ieri. Stasera, / e veramente propizio sarebbe per me poter partire domani. Per ciò, la prego, attendere fino a domani una mia risposta che sarà la decisione, se potrò rimanere, / e parlarle, o partire, e pregarla farmi sapere a Firenze il movente della sua lettera. Con tutta stima E. Duse 167 CO2. INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI A cura di Anna Menichetti Il teatro alla Scala di Milano ha inaugurato le manifestazioni di EXPO 2015, dopo la Turandot di Puccini e il bellissimo finale scritto da Luciano Berio in apertura il 1° maggio, con l’opera in prima esecuzione di Giorgio Battistelli1 1. Nato ad Albano Laziale nel 1953, Giorgio Battistelli ha studiato composizione al conservatorio dell’Aquila dove si è diplomato nel 1978, frequentando contemporaneamente i seminari di Karlheinz Stockhausen e Mauricio Kagel a Colonia. Tra il 1978 e il 1979 ha seguito i corsi sul teatro musicale contemporaneo di Jean Pierre Drouet e Gaston Sylvestre. Dal 1981, anno di Experimentum Mundi, ha inizio un’intensa attività di scrittura di opere per il teatro musicale. Le sue composizioni sono state rappresentate presso il Festival d’Automne al Centre Pompidou di Parigi, i festival di Salisburgo e di Lucerna, la Biennale e la Gasteig di Monaco, la Biennale di Berlino, l’accademia nazionale di Santa Cecilia, in teatri quali La Scala di Milano, l’Opera di Roma, il teatro Comunale di Firenze, nei teatri dell’opera di Anversa, Strasburgo, Ginevra, Brema, Mannheim, Almeida di Londra, e inoltre a Hong Kong, Adelaide, Brisbane, Melbourne, Sydney, Wellington, Taipei, Tokyo, New York, Washington, Singapore, La Paz, Pechino. La sua musica è stata eseguita da direttori come Riccardo Muti, Antonio Pappano, Lorin Maazel, Daniele Gatti, Daniel Harding, Ádám Fischer, Jukka-Pekka Saraste, Myung-Whun Chung, Susanna Mälkki, Zoltán Peskó. Ha collaborato con i registi Robert Carsen, Luca Ronconi, Georges Lavaudant, Mario Martone, Michael Londsdale, David Pountney, Daniele Abbado, con Fura dels Baus e Studio Azzurro, e con interpreti come Toni Servillo, Bruno Ganz, Ian Mc Diarmid, Philippe Leroy, Moni Ovadia, Vladimir Luxuria. Insignito del titolo di Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres dal Ministero della cultura francese e di commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, è stato compositore in residenza all’Opera di Anversa, alla Deutsche Opera am Rhein di Düsseldorf e al teatro San Carlo di Napoli. Ha un’ampia esperienza di direzione artistica maturata presso l’Orchestra della Toscana (dove è tornato dal 2011), la Biennale di Venezia, la Società aquilana dei concerti, l’accademia Filarmonica romana, la fondazione Arena di Verona, il Cantiere d’arte di Montepulciano; attualmente è direttore artistico per l’opera contemporanea e la musica sinfonica al teatro dell’Opera di Roma. Nell’ultimo anno si segnalano le prime dei lavori sinfonici commissionati dall’Orchestra sinfonica nazionale della Rai (Tail Up, diretto da Susanna Mälkki), dall’Orchestra sinfonica di Münster (Pacha Mama), dalla Saint Paul Chamber Orchestra (Mystery Play), dall’Orchestra Haydn di Trento e Bolzano (Sciliar). In campo teatrale il 2012 ha visto la prima de Il Duca d’Alba per il teatro dell’Opera di Anversa, completamento di un lavoro incompiuto di Gaetano Donizetti, e dell’oratorio per il DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 169-184 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18369 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. ANNA MENICHETTI dal titolo CO2 che prende spunto dal libro di Al Gore, Una scomoda verità. Il 30 marzo 2015 abbiamo incontrato il Maestro nella sua casa di Roma per conoscere da vicino il nuovo lavoro e avere alcune anticipazioni. Battistelli – di recente nomina alla direzione artistica per l’opera contemporanea e la musica sinfonica al teatro dell’Opera di Roma (in codirezione con Alessio Vlad) – ci ha illustrato in dettaglio i complessi meccanismi, la nascita, la progettazione e l’allestimento dell’attesissima prima di CO2 , parlando anche di sé: delle sue attività e del suo modo di vivere la propria arte. * Maestro, quali sono le origini di questa sua nuova opera, come nasce l’idea? Il progetto nasce nel 2007, quando l’allora sovrintendente del teatro alla Scala, Stéphane Lissner, mi telefonò dicendo che aveva piacere di parlarmi di una commissione data dal teatro. Decidemmo di vederci la settimana seguente, lui venne a Roma e ci incontrammo. Io da un po’ di tempo avevo in mente di scrivere un soggetto che non fosse di consueto tipo narrativo, ma che avesse il carattere di una narrazione più comparativa, o legata a simboli che non fossero troppo vincolanti, troppo ristretti a un ambito ideologico di storia familiare o di storie psicologiche; una narratività diciamo non circoscritta a una cultura precisa e che non fosse legata alla cultura europea né orientale, né americana, ma davvero globale. Un soggetto che doveva toccare ed essere presente nella cultura di tutto il pianeta: dall’Australia alla Svezia. Stavo leggendo in quel periodo un testo particolarissimo, che non è un testo narrativo ma un testo parascientifico: Una scomoda verità di Al Gore. È un libro in cui sono riportate ricerche, riflessioni, intuizioni, preoccupazioni – temi che Al Gore ha approfondito e perseguito continuamente in questi anni – sullo scioglimento dei ghiacciai, il surriscaldamento del globo e tutte le varie e drammatiche conseguenze. Al Gore ha dato vita a una fondazione importante rivolta a queste problematiche con la collaborazione di giovani scienziati che fanno un serio lavoro di monitoraggio in diversi punti del pianeta. Ne ha fatto una ragione di vita. E quindi parlai a Lissner di questo progetto e gli chiesi cosa ne pensasse. Non mi fece neanche finire: quando vide il libro e il soggetto, a metà della mia presentazione e della mia proposta, si entusiasmò moltissimo, dicendo: «ho San Carlo di Napoli Napucalisse. Ha insegnato alla Aldeburgh Music e nell’estate 2012 ha tenuto il corso Progetto opera presso l’accademia Chigiana di Siena. Nel 2013 Battistelli ha intrapreso la lavorazione di Lot, la sua opera su soggetto biblico commissionata dall’Hannover Staatsoper. Per ulteriori informazioni si rinvia a Il punto di vista di Giorgio Battistelli, a cura di S. Ferrone e P. Carbone, «Drammaturgia. Quaderno», 1999, pp. 7-13. 170 CO2 . INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI capito tutto, ho capito quale è il senso di quest’opera, mi piace». È, in effetti, un’opera veramente innovativa per la tematica. Mi confermò quindi la commissione per il 2007 e iniziammo a lavorare. Scelse lui il librettista e il regista. Il regista, William Friedkin, regista hollywoodiano (Il braccio violento della legge, L’esorcista) che da qualche anno si occupa anche di regie d’opera; il librettista, J.D. McClatchy, americano, docente a Boston di Drammaturgia, che ha scritto il libretto dell’opera di Lorin Maazel, 1984. Abbiamo lavorato insieme un anno e mezzo, e ovviamente avevo cominciato già a scrivere. Poi c’è stato uno strappo, un confronto durissimo fra librettista e regista sulla struttura dell’opera, soprattutto sulla struttura della messa in scena. E quindi si comprese che i due non potevano più lavorare insieme. Lissner chiese a me chi scegliere fra i due, ma erano stati chiamati dal teatro e io avevo già iniziato a utilizzare il testo di McClatchy; inoltre l’impostazione scenica di Friedkin era molto imponente, molto cinematografica per cui si decise di cambiare il regista. La seconda proposta che fece Lissner fu Robert Lepage, un grande regista di teatro con esperienza operistica, uno dei più grandi registi del mondo. Con lui ho lavorato circa due anni. Ma poi si è ripetuta un po’ la stessa cosa: cioè Lepage è un regista che lavora in maniera molto maniacale, nel dettaglio e aveva già cominciato a costruire degli spazi simulati per l’allestimento dell’opera. Lui lavora in Canada, ha a disposizione un immenso capannone dove mette in piedi e realizza le sue idee: Lepage collabora costantemente con il Cirque du Soleil, quindi con idee di grande spettacolarità. Fece un impianto scenico bellissimo. Ho avuto con lui numerosi incontri, a Parigi e a Londra: abbiamo fatto delle sessioni di studio molto affascinanti e impegnative. Purtroppo però, dopo due anni e mezzo, l’impianto scenico che ne venne fuori risultò proibitivo dal punto di vista economico. Era una realizzazione enorme, con degli ologrammi in scena, estremamente complessa e quindi con costi troppo alti. Nel frattempo erano passati altri anni e si decise di cambiare regista per la terza volta. Allora proposi, sempre a Lissner – erano gli ultimi mesi della sua sovrintendenza alla Scala – di chiamare Robert Carsen, con cui avevo già lavorato nel Riccardo III, una mia opera a cui tengo infinitamente, e che mi aveva molto colpito per il suo modo di lavorare. Fu una delle poche volte in cui vidi un regista in azione col coro e con i cantanti sempre con la partitura sotto il braccio; tutti gli spostamenti in scena avvenivano con la musica davanti, non solo visivamente belli, ma soprattutto con una pertinente ragione musicale. Così, ci siamo incontrati con Robert Carsen e Ian Burton, il suo drammaturgo e librettista. Ho proposto il soggetto e naturalmente è avvenuta una nuova invenzione e, a quel punto, anche un allontanamento dal testo di Al Gore. Il tema è rimasto lo stesso, cioè quello del clima, ma è stato reinventato in modo diverso. Reinventare quel soggetto attraverso una struttura narrativa simbolica, riguardante i forti problemi che oggi hanno tutti i paesi del mon- 171 ANNA MENICHETTI do, e affrontare questo attraverso un’opera, credo sia la particolarità principale dell’operazione. Senza cadere nell’enfasi, la ritengo una forma di impegno – come poteva essere per un compositore degli anni Sessanta – di impegno politico su soggetti fortemente ideologici. Trovo che far riflettere le persone, oggi, attraverso un’opera in musica, su una problematica così complessa e delicata, possa essere una forma di dovere etico e sociale; inoltre ci consente uno sguardo da un’angolatura di tipo più estetico, artistico: è un’ottima occasione e un ottimo metodo di riflessione. Per cui con Carsen siamo andati avanti per più di un anno e mezzo e ho lavorato benissimo perché, appunto, conosco il suo modo di fare regia. Siamo andati molto veloci, infatti. Alla fine però mi sono trovato quasi tre opere scritte! Sì perché avevo tutte le scene precedenti che non ho potuto riutilizzare, giacché erano su testi diversi e con dinamiche drammaturgiche diverse: con Ian Burton, con il quale l’esperienza di Riccardo III è stata straordinaria sia umanamente che artisticamente, ci siamo trovati d’accordo su tutto, per cui siamo andati rapidissimi e in un anno e mezzo ho terminato l’opera… il percorso è stato comunque molto lungo – dal 2007! – soprattutto rispetto ai miei tempi di scrittura. Io ho un metabolismo veloce nello scrivere e ho bisogno di esprimerlo subito: un’incubazione troppo lunga di un soggetto mi toglie energia. È un fatto anche caratteriale: c’è chi ha bisogno di cinque anni di riflessione e chi dopo cinque mesi inizia. La concomitanza con l’EXPO 2015 è stata casuale? Sì. L’opera era stata commissionata nel 2007 e prevista nel 2011. Poi dal 2011 si è deciso di portarla al 2013. Nel 2013 la struttura era già abbastanza avanzata e forse ce l’avremmo anche fatta. Ma Lissner, in accordo con il sindaco di Milano, mi propose di posticiparla al 2015 perché il tema dell’EXPO – sull’alimentazione e le problematiche dell’acqua e della globalizzazione – era molto pertinente con CO2 . Il titolo è suo, Maestro? Lo abbiamo concordato con Ian Burton. Avevamo diversi titoli a disposizione. A me piaceva anche molto il titolo di Al Gore, Una scomoda verità, che però era fortemente politico, di denuncia. Quindi con Ian Burton abbiamo deciso di trovare qualcosa che desse la sensazione di un’espressione più tossica e allo stesso tempo sintetica. E allora, lui che vive e insegna vicino a Londra, ha fatto un esperimento con degli studenti universitari proponendo tre titoli e chiedendo loro quale fosse quello per il quale sentivano maggiore empatia, sollecitazione immaginifica e CO2 ha vinto, la sua tossicità ha vinto, e ci siamo decisi a utilizzarlo. È una formula: la prima opera che viene presentata come una formula. 172 CO2 . INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI È anche interessante che il titolo sia stato scelto dai ragazzi dell’università: un problema che li riguarda da vicino. È molto bello questo. Vogliamo parlare più strettamente dell’opera: l’organico, le voci, i personaggi? È un’opera che ha una struttura molto chiara: formata da un Prologo, una vera e propria scena introduttiva dell’opera; nove scene con soggetti e riferimenti precisi al percorso drammaturgico, e un Epilogo. E viene rappresentata in un atto unico di circa un’ora e quaranta. I passaggi da una scena all’altra sono molto serrati. Il personaggio principale è un climatologo: Adamson (figlio di Adamo) e si presenta al pubblico come un oratore che tiene una conferenza sul clima: si apre il sipario ed è dietro un podio, saluta il pubblico e comincia a parlare. Naturalmente c’è un riferimento anche ad Al Gore: sappiamo che Al Gore da anni gira il mondo facendo conferenze su questo problema, aprendo discussioni sulle varie minacce e i rischi che stiamo correndo e che sta correndo la terra a causa del surriscaldamento globale. Adamson parla, dunque, della necessità di una ‘creazione’. La parola ‘creazione’ dà inizio alla prima scena nella quale appare la divinità Shiva, e una danza illustra il concetto della creazione della terra. Con il movimento, attraverso l’atto della creazione e i momenti di energia, si creano il globo e la convivenza di elementi anche molto distanti fra di loro: da un punto di vista chimico, scientifico, culturale. Subito dopo abbiamo l’apparizione di quattro scienziati, per l’esattezza due ecologisti e due climatologi, che dialogano fra di loro con posizioni anche molto diverse sulla questione del clima nel mondo. Mentre discutono, arrivano dall’alto quattro Arcangeli che cominciano a conversare con loro. Ha inizio una riflessione sulle origini dell’universo, sulle stelle, sui misteri della creazione, con riferimenti alla cultura giudaico-cristiana. Un dialogo su due livelli, quindi: uno più metafisico, religioso e uno invece di tipo più scientifico, portato avanti dai quattro scienziati. Subito dopo abbiamo una scena completamente contrapposta: siamo in un aeroporto. Troviamo il dott. Adamson, seduto su una valigia, che si è perso perché c’è stato l’annullamento, per ragioni meteorologiche, di una serie di voli. Assistiamo a un momento di grande caos nell’aeroporto: annunci in tante lingue, tante persone che passano, tanta gente che non riesce più a partire. Un momento caotico ma anche molto realistico, purtroppo! Adamson è in partenza per il Giappone, per la conferenza a Kyoto, il primo importantissimo convegno di Kyoto del 1997, dove si è cercato di realizzare un protocollo sul clima. Rimane invece bloccato senza sapere come raggiungere la destinazione. Il passaggio alla scena successiva – e questa è la prima volta che faccio una scena di musica completamente in stile a cappella – è l’entrata nell’ambiente di Kyoto, il palazzo dove si svolge il convegno. Ci sono tutte le rappresentanze del mondo: cinese, giapponese, russa, indiana e così via, insomma le varie posizioni, anche contrastanti, sul tema. E su questo ho deciso di ferma- 173 ANNA MENICHETTI re l’orchestra. I cinque cori sulla scena cantano a cappella. Tutto è dialogato e tutto è affidato alla voce. La voce dell’uomo: fra loro parlano, dialogano, si sovrappongono, si contrappongono. È una scena molto articolata, anche molto performativa perché questi cinque cori si rincorrono fra di loro, si scontrano, per idee contrarie: quella americana che era contro il protocollo e non voleva vincoli, come quella russa e cinese, oppure quella araba e giapponese; e questi cinque cori con i loro delegati cantano in cinque lingue diverse. Quindi con uno scontro di vocali, di consonanti, di sillabe di potente effetto fonico e verbale? Sì. E di culture, ovviamente. Il significato del testo è sempre lo stesso, però cantato in cinque lingue diverse. Chi a favore e chi contro. Quindi una scrittura molto polifonica e performativa, con suoni onomatopeici: le contestazioni, le proteste, gli umori. Il convegno si presenta molto duro, molto animato. Tutta l’opera CO2 è cantata in inglese, il libretto è in inglese, ma ci sono momenti diversissimi: qui cinque cori plurilingue, un momento in sanscrito, un coro greco che canta in greco antico. Si tratta delle varie espressioni e del variegato percorso dell’umanità, delle tante culture che si sono venute a creare: è una scena che vuole essere globale. E allo stesso tempo l’unificazione che viene dalla lingua inglese, che è la lingua predominante del libretto, parlata oggi in tutto il mondo. Questa è la parte centrale dell’opera? No, non proprio. Io considero la parte centrale dell’opera, il punctum direbbe Roland Barthes, l’apparizione di Gaia, della Terra. La Terra che parla agli uomini. Quello è il momento del monito agli uomini. Comunque, andando per ordine, dopo questa scena del protocollo di Kyoto sulla progressiva eliminazione degli elementi inquinanti nell’atmosfera – anche se poi questo trattato fu quasi un fallimento, come è noto, per le posizioni estremamente contrastanti –, segue un momento di vuoto orchestrale fatto di ben undici minuti di voci sole che si contrappongono; poi improvvisamente si sente l’orchestra che via via cresce. Entriamo nella scena degli uragani: la risposta della Terra alle questioni che si stanno trattando. Ed è un momento anche coreografico perché si tratta di un balletto con grande orchestra e un coro fuori scena che canta i nomi degli ultimi venticinque uragani dello scorso secolo: nomi di scienziati, spesso di donne…! Venticinque danzatori rappresentano gli uragani. Un momento molto dinamico da un punto di vista anche scenico e musicale. Timbri, ritmi, colori molto mossi. Alla fine, questi uragani si allontanano a poco a poco, con evidente impatto sonoro determinato dal contrasto delle due scene affiancate 174 CO2 . INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI – prima sole voci, poi grande orchestra – ed entriamo in un’altra scena di assoluta poesia. Siamo immersi nel verde ed è l’Eden. Abbiamo tre personaggi: due bellissimi Adamo ed Eva, tenore e soprano, nudi e persi nella natura, che cantano fra di loro con estrema dolcezza e dialogano sull’ecosistema; e un altro personaggio che appare improvvisamente: il serpente, un controtenore, con il quale si avvia il terzetto e si sviluppa fino al momento in cui riesce a donare una mela. Il morso della mela entra in orchestra. Noi ascoltiamo quel morso: un suono campionato, durissimo aspro forte, che chiude la scena dell’Eden. Un suono campionato e con strumenti? Sì con strumenti e un suono campionato elettronico. Sentiamo questo terribile morso della mela e lì abbiamo il cambio repentino alla scena successiva: ci troviamo in un supermarket, dove si continua a sentire il suono di masticazione e di morsi, con un’orchestra che cresce: un suono concreto, un rumore se vogliamo, inserito dentro l’orchestra e poi sommerso dall’orchestra. Ci troviamo nel passaggio dall’Eden al momento grottesco del grande supermercato di generi alimentari, dove abbiamo una cinquantina di donne, o uomini travestiti, che si muovono tra questi scaffali. E lo fanno su un ritmo quasi danzante: c’è un infinito elenco di cibi che noi mangiamo e che provengono da tutto il mondo… dal Messico, da Cuba, dalla Nuova Zelanda, dalla Norvegia, fagioli che vengono da chissà dove, pane… Un elenco ossessivo e perpetuo di una cascata di cibi cantata dalle donne… Alla fine di questa scena c’è l’apparizione di Gaia, che avverte che in tutto questo scambio di cibi c’è una contraddizione tragica perché, proprio per tutti questi trasporti di alimenti da tutto il mondo, si emette veleno continuo: voli, inquinamento dell’aria… per un cibo che viene poi globalizzato. Tutti siamo omologati. Tutti mangiano tutto con gli effetti positivi e negativi della globalizzazione. Sull’apparizione e sul monito di Gaia, Adamson riprende la conferenza: una scena in cui viene presentata la teoria dello scienziato James Lovelock che nel 1979 sorprese un po’ il mondo scientifico sostenendo che la terra ha un sistema di autoregolamentazione naturale, nel senso che essa stessa è in grado di rigenerarsi. Se viene ferita, recupera il proprio stato di benessere; che è poi lo scudo che molti scienziati sfruttano: non preoccuparsi troppo perché poi tanto l’aria si rigenera. Alla fine di questa esposizione di Adamson appare dalle viscere del teatro Gaia, che è un mezzosoprano con tinte gravi, che parla direttamente agli uomini. Lancia un avvertimento molto, molto forte, aggressivo e anche accorato: «mi avete lacerato, uomini, mi distruggete dall’interno, ma se uccidete me ucciderete anche voi stessi. Attenzione però: io non mi lascerò distruggere». A questa affermazione ci troviamo in un paesaggio post-tsunami in Thailandia. Una spiaggia, una signora inglese che ha perso un familiare (una storia vera) ha una corona di fio- 175 ANNA MENICHETTI ri in mano; accanto a lei un signore thailandese, il direttore dell’hotel dove lei alloggiava durante lo tsunami, e viene lanciata in acqua una corona di fiori. Una scena molto bella, suggestiva, con le foto dello tsunami e le immagini di documenti veri della sciagura. Una scena molto toccante. Da lì si passa alla scena dell’apocalisse. Immagini apocalittiche della terra che suggeriscono in parte quella che sarà la conclusione della conferenza di Adamson, dove per la prima volta dichiara quali sono i pericoli veri che stiamo correndo noi uomini. I pericoli della stessa sopravvivenza dell’uomo. Auspica un maggior rispetto ecologico della natura ma anche una manifestazione di amore verso la Terra. In questa scena, mentre parla, entrano i quattro scienziati che cercano di trovare un accordo. L’atteggiamento nei confronti del convegno di Kyoto è cambiato: i quattro scienziati sentono la necessità, l’urgenza di trovare una soluzione. E mentre stanno dialogando ritornano i quattro Arcangeli che avvertono e lanciano un ultimo monito: «siamo alla fine, sta a voi trovare una soluzione, noi non possiamo fare nulla. Soltanto l’uomo può salvare sé stesso». Scena particolarmente potente, con gli effetti devastanti della rivolta della Terra. Riappare Shiva che attraverso il fuoco, attraverso la distruzione, vuole e offre ancora un’opportunità di ricreare la Terra. Questo è il tragitto dell’opera, che deve intendersi come un percorso narrativo di natura simbolica, fortemente biblico, che richiama diverse culture, di carattere trans-culturale. Tutta l’opera è costruita su tinte contrastanti, contrapposte: chiaro-scuro, forte-piano, vuoto-pieno… Secondo un criterio drammaturgico della teoria degli affetti di tradizione barocca? Sì. E anche molto densa di elementi, di significati, di sentimenti. L’organico è per grande orchestra: legni a tre, quattro corni, quattro trombe, quattro tromboni, due tube, due tastiere di suoni campionati, due arpe. Grande orchestra con coro di bambini che stanno a indicare la possibilità della rigenerazione, di un futuro, di un mondo nuovo. E un grande coro di cento cantanti che si frantuma in tanti diversi altri cori: donne, uomini, coro greco, coro fuori scena. Infine le voci dei personaggi: Adamson baritono, Adamo ed Eva tenore e soprano, il Serpente controtenore, quattro Arcangeli tre bassi e un soprano – soltanto Gabriele è soprano – e gli scienziati che sono tre bassi e un tenore, un doppio quartetto quindi che si confronta. Shiva è un mezzosoprano che canta in orchestra, rimane in buca. Il concetto è quello della spazializzazione di suoni e voci. Anche Gaia è un mezzosoprano. Insomma sedici personaggi in tutto, compresi Mrs Mason e il direttore dell’hotel tailandese: tanti, e naturalmente alcuni hanno doppi ruoli. Inoltre devo dire che è la prima volta che lavoro su una struttura così strettamente simbolica e con forti contrasti. Nonostante questo non ho avuto timore o difficoltà ad affrontarla, non ho provato disagio ad allontanarmi da un mio sistema narrativo, di cui solitamente ho 176 CO2 . INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI sempre bisogno. È stato naturalmente consequenziale mettere in relazione il prima e il dopo e una volta messa a fuoco la struttura dell’opera tutto ha preso a scorrere fluidamente. La scrittura è complessa? Anche per gli interpreti? La complessità della scrittura, come spesso nella mia musica, è più una complessità di concertazione, di come fare emergere le varie voci: sia le voci dell’orchestra, dei singoli strumenti, che le voci dei personaggi. E quindi è un lavoro sempre, spero, divertente ma più impegnativo per i direttori d’orchestra. La mia scrittura è in genere densa e proprio per questa densità c’è bisogno di fare un lavoro di concertazione molto attento per tutte le voci. Dirigerà l’opera Cornelius Meister, un giovane direttore tedesco che sta facendo una carriera, direi, folgorante in questi ultimi anni. L’abbiamo visto a Salisburgo con opere impegnative; è venuto l’anno scorso qui a Roma all’accademia di Santa Cecilia, dove ha ottenuto molto successo. Da questo punto di vista mi sento molto sicuro di avere interpreti di rilievo. Anche i cantanti sono molto bravi. Curiosamente sono cantanti che provengono soprattutto da frequentazioni ed esperienze del grande repertorio: Strauss, Wagner. È molto interessante verificare come sanno accostarsi con disinvoltura a una partitura di oggi, del nostro tempo. In me c’è stato un cambiamento, in questi ultimi dieci anni, perché in passato cercavo sempre la specializzazione, come se un cantante, un interprete, un direttore formatosi nella musica contemporanea e del Novecento mi desse la garanzia di possedere una sensibilità, un’attenzione di maggior perizia su un tipo di scrittura; devo dire, invece, che in questi ultimi dieci anni ho cominciato a fidarmi, non dico di più, ma allo stesso modo: mi è capitato di incontrare direttori d’orchestra che non hanno mai diretto opere moderne e che hanno realizzato risultati strabilianti. Il primo, mi ricordo, fu Adam Fischer tredici anni fa. Un direttore che ha sempre diretto un certo tipo di repertorio, da Haydn e Mozart a Wagner, ma che non andava oltre. Quando fu chiamato in Germania, a Mannheim, a dirigere una mia opera ero molto preoccupato e nei primi giorni di prove avevo un certo timore. Poi invece ha fatto un lavoro molto serio e accurato. Entrare dentro una partitura, che sia di Battistelli, di Wagner o di chi altro significa sempre tirar fuori dei contenuti… e con la stessa attenzione. Non sarà anche, Maestro, che la sua scrittura ha un carattere molto fluido, un grande e articolato flusso sonoro e che quindi chi si occupa, diciamo, di opera tradizionale ci si ritrova molto bene? Questo, francamente, non posso dirlo io. Vedo che oggi la complessità della scrittura è dovuta anche al fatto che abbiamo una grande libertà degli elemen- 177 ANNA MENICHETTI ti. Carl Dahlhaus scriveva che – intuizione assolutamente folgorante, precisa – l’operista è per sua natura impuro. E deve essere impuro perché deve poter contemplare, deve mettere in connessione tra di loro elementi eterogenei dal punto di vista linguistico. C’è anche uno strato profondo, direi, di meccanismi di conoscenza dell’opera che si sente nella sua scrittura. Probabilmente anche la sua frequentazione assidua e professionale dell’opera in qualità di direttore artistico – è di pochi giorni fa la sua nomina alla direzione artistica del teatro dell’Opera di Roma per la musica sinfonica e per l’opera contemporanea, e questo oltre alle attività che ha svolto e svolge in diversi teatri – la tiene sempre a contatto con una vitalità teatrale, musicale, operistica, che comporta certo problematiche, decisioni ma anche risultati e visioni oggettive dello specifico comparto musicale: non trova che tutto questo possa indirizzarla verso un linguaggio molto pratico e attuale? Io lo sento naturalmente come un linguaggio del mio tempo, del nostro tempo, che deve essere per sua natura un linguaggio sferico, tridimensionale. Soprattutto sento la diversità fra gli autori dell’Ottocento, ma anche da Monteverdi, fino agli autori del primo Novecento e ai compositori di oggi. È che noi, attraverso il grande sviluppo e l’evoluzione della tecnologia, abbiamo in questo momento storico la possibilità di metterci in contatto, di ascoltare – visto che ci occupiamo di ascolto – tutto: dal canto gregoriano alla musica techno, alla musica elettronica. Nessun altro orecchio ha ascoltato quello che noi possiamo ascoltare oggi, quindi la tecnologia ha modificato il nostro attuale sistema percettivo. Il compositore d’opera deve tener presente tutti questi elementi e avere il coraggio, io lo definisco coraggio, di seguire il senso drammaturgico della scrittura piuttosto che quello razionale, di coerenza, di un determinato sviluppo musicale. Questo è fondamentale. Oggi è più innovativo o può essere molto più innovativo l’inserimento di una triade all’interno di un contesto armonico, se appare come qualcosa di inaspettato e dirompente. Può essere molto più dirompente di un cluster: è la sorpresa, è un qualcosa di inatteso che crea una tensione di ascolto. Molto haydniano il legame! E certo! Perché non si può scrivere niente nel nome della coerenza: «no, questo io non posso farlo…». Il non poterlo fare, si fa rispetto a dei canoni, dei modelli convenzionali. E invece l’interessante di oggi, per ritornare a Dahlhaus, è che, in particolare, il compositore d’opera deve essere pronto a tollerare: può tollerare tutto, tutto nella scrittura, anche il kitsch che è fondamentale. Ma non può tollerare la purezza, cioè l’essere puro. È un’altra dimensione di ascolto rispetto all’opera, rispetto al teatro. Ma anche i grandi del passato erano impuri, lo stesso Monteverdi lo era nello scrivere l’opera. E pensiamo a Puccini. Per 178 CO2 . INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI non parlare dell’Ottocento italiano: Donizetti, Verdi! Verdi è un compositore straordinario, geniale ma un compositore per certi aspetti anche un po’ ‘grezzo’, anche un po’ ‘sporco’ nel senso di non rifinito, non raffinato; ma quella sua non raffinatezza è talmente pertinente nelle cose che scrive che lo rende uno dei più grandi compositori che abbiamo avuto! Indubbiamente. Tornando a CO2, Maestro, lei andrà alle prove della sua opera, le seguirà? Seguirò le prove quando verrò invitato perché l’inizio delle prove è sempre un momento delicatissimo, occorrerà quindi andare al momento giusto. Il 7 aprile inizieranno le prove con i cantanti. Io credo che sarà necessario fare un incontro con loro per dare qualche suggerimento, e poi naturalmente con l’orchestra; anche se tendo sempre – ma questo anche per mio carattere, perché a me piace – tendo sempre a essere sorpreso. Il mio lavoro termina davvero quando consegno la partitura. E rispetto le interpretazioni del regista, del direttore d’orchestra anche quando sono molto distanti dalle mie. Mi incuriosisce molto vedere come un interprete può leggere, guardare, ascoltare lo stesso oggetto da angolature diverse. Mi permette di vedere in un altro modo… Mi è sempre capitato, con ogni direttore d’orchestra che ha diretto mie partiture e anche lavori sinfonici o anche registi, di pensare: «ma guarda come viene…!». È curioso. Ricordo un’interpretazione bellissima di Luca Ronconi quando fece la regia della mia parabola in musica, Teorema, da Pasolini: ne fece un’interpretazione talmente particolare, talmente piena di poesia che ha arricchito il mio rapporto con quest’opera. E poi per un compositore, sentirla finalmente tutta, l’opera composta, è forse sempre qualcosa di straordinario, anche se oggi ci sono mille modi tecnologici per potere sentire gli effetti, certe scelte timbriche piuttosto che armoniche… Schubert docet. Sentire le proprie opere è importante… Sì. Certamente questo è un altro grande vantaggio di oggi. Anche se io scrivo a matita… A matita…? Sì, sì… sono ancora uno dei… [ride divertito]. Devo dire che a volte ho persino difficoltà a reperire la carta. Io me la faccio stampare, perché non si trova più… carta a 32, a 36 righi, non la fanno più. Ma ho proprio bisogno di questo. Poi consegno il manoscritto e Ricordi, il mio editore, l’affida a copisti che la trascrivono con un sistema computerizzato. 179 ANNA MENICHETTI Come sono le sue abitudini di scrittura? Io inizio a lavorare molto presto al mattino, cinque e mezzo-sei della mattina. Dipende in parte dalla pressione del lavoro. Però, in genere, mi sveglio presto: la fascia d’orario fino all’una e mezza è per me il momento più forte per la scrittura. Poi faccio una pausa di un’ora e riprendo a lavorare fino alle sette di sera. Questo quando ho impegni e scadenze. Altrimenti possono cambiare gli orari… Però io lavoro tutti i giorni: anche quando vesto i panni del direttore artistico, quando vado a Firenze, o quando lavoro nei teatri, ho comunque bisogno di lavorare, di scrivere ogni giorno. Mi alzo la mattina magari un po’ prima e alle nove e mezzo sono in ufficio o in teatro e la sera continuo a scrivere. Quindi la scrittura è sempre? La scrittura è sempre. C’è stato un periodo della mia vita in cui ero molto tormentato dal rapporto con la scrittura. Tormentato perché ero ossessionato dalla paura che potesse esaurirsi, l’idea che il mio pozzo creativo potesse… Un po’ leopardiana come idea… Sì, sì… pensavo: «ma com’è possibile, che succederà…» ed è stato anche un motivo per… non perché ne avessi bisogno, ma per confrontarmi e stabilire un dialogo da un punto di vista psicoanalitico. Cosa che ho fatto per un periodo con un grande psicanalista junghiano che si occupava proprio di tali questioni, con un forte interesse per la creatività. Mi confrontavo quindi su questi temi della creatività e della paura del suo esaurirsi… Questo per dire come la scrittura fosse vissuta da me come un perno centrale della mia esistenza: io mediavo il mondo, e medio tuttora il mondo, attraverso la scrittura. Poi lui mi rassicurò molto dicendo che il dèmone della creatività o si ha o non si ha. Si può anche far finta di averlo ma, quando si ha ed è autentico, non ti abbandona. Non lo devi maltrattare, questo no, ma lo avrai per tutta la vita. Per un Maestro come lei che ci svela che scrive a matita, cosa che trovo meravigliosa, quanto la scrittura musicale, la grafica cioè il segno, sono esaustive di un pensiero? … anche questo è un motivo molto inquietante, e non voglio essere di nuovo leopardiano, ma è un problema di perdita: perché il passaggio tra il pensiero e la scrittura significa dover convivere con una perdita; ciò che noi scriviamo è un qualcosa che si è allontanato da ciò che abbiamo pensato. Abbiamo perso qualcosa nel momento in cui viene messo su carta e certamente accettare 180 CO2 . INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI quella perdita non è facile. È una sofferenza per me perché vorrei naturalmente mettere tutto, ma so che, quando traduco in segno un pensiero, avviene automaticamente una privazione. La questione poi è che c’è una successiva sottrazione che si effettua tra il segno e ciò che noi ascoltiamo: quando lo diamo in mano all’interprete. Lì mi accorgo che c’è un’ulteriore perdita, che negli ultimi anni però accetto molto di più perché la vivo, come dicevo prima, come un arricchimento: un modo diverso di guardare la stessa cosa; e anzi mi piace vedere come il signor X o il direttore Y o il cantante Z interpretano il mio suggerimento, la mia proposta. Comunque lei sente che il segno grafico non è esaustivo, non è fedele a un pensiero: è limitato? Ma è limitato anche quando si usa una scrittura iperdeterminata. La mia scrittura è una scrittura precisa, ma è sempre una sintesi rispetto a ciò che ho pensato. Curiosa, se la ricordiamo, l’intuizione di Adorno quando parlava dell’iperdeterminismo del suono sostenendo che una iperrazionalizzazione del materiale porta a una indeterminazione della struttura. Si può razionalizzare, determinare, controllare nei particolari un serialismo integrale, esasperato: se noi andiamo sul serialismo integrale, se lavoriamo su tutti i parametri del suono, tutto sotto controllo… l’esecuzione di quello equivale quasi a un pezzo aleatorio… quindi l’iperdeterminazione ti porta all’indeterminato! È un circolo inevitabile! Lei comunque non fa ricorso a scritture particolari? No. No, no. Utilizzo la scrittura convenzionale. Ho un mio sistema armonico a cui faccio riferimento e che negli anni ho messo a fuoco, composto di rapporti armonici fra i suoni: il mio libro dei suoni che ho lì… che mi serve per creare i miei percorsi… Ma come scrittura è una scrittura molto tradizionale e non c’è la tendenza al grafismo musicale. Può capitare, come nella scena di Kyoto dove ci sono cinque cori, che quando uso delle parole che sono dei suoni onomatopeici del coro, devo scriverli in un certo modo, ma è comunque una scrittura sempre di sintesi e che fa riferimento al nostro sistema occidentale, europeo. Non è una musica aleatoria, ma non perché questa non mi interessi: dico solo che occorre sempre utilizzare ciò di cui si ha bisogno, perché è quel tipo di necessità che ti porta a scrivere. Per esempio, in CO2 c’è un momento particolare: quando, durante il dialogo tra i quattro Arcangeli e i quattro scienziati, entrano le due arpe con suoni eolici e circolari. Ecco, se vogliamo, possiamo definirla scrittura aleatoria; ma in fondo non lo è perché io stabilisco un ambito, un range specifico dove devono essere prodotti questi suoni eolici 181 ANNA MENICHETTI e chiarisco un andamento all’interno delle altezze. Ma quella è una sintesi: in quel momento serve una formula specifica. L’inserimento ha un senso, proprio lì, ed è in quel senso che si stabilisce la necessità di quella determinata scrittura. Ho detto leopardiano ma in effetti dovevo dire, soprattutto in questo caso, hoffmanniano! Sì, certo! Maestro parliamo anche della ‘missione’ – userei questo termine – nel campo della direzione artistica e quindi dei suoi rapporti con la Toscana, con Firenze, con l’Orchestra? Con Firenze e con la Toscana è ormai un rapporto più che decennale: il primo incarico l’ho avuto quindici anni fa e ho lavorato per sei anni alla direzione artistica dell’Orchestra; poi sono tornato e questo è il mio quarto anno: quindi sono dieci anni! È un ambiente straordinario. Considero l’ORT la migliore orchestra da camera italiana. È un’orchestra che ha delle peculiarità uniche per le formazioni con questa morfologia, con questo organico, perché è composta da tutte prime parti. I fiati sono tutti primi, e sempre un doppio primo, e questo determina una qualità altissima d’espressione. C’è un sistema di rotazione sugli archi, per cui non ci sono mai delle sacche statiche da un punto di vista interpretativo, cosa importantissima anche questa. Inoltre abbiamo fatto un lavoro straordinario sul repertorio perché abbiamo iniziato dal periodo classico per arrivare via via al Romanticismo, al tardo Romanticismo e alla musica del Novecento. E adesso – e questo è stato determinante per l’ampliamento del repertorio – stiamo portando avanti un progetto molto interessante sulle Sinfonie di Mahler che sarà pubblicato dalla Universal: proporremo un ciclo di queste sinfonie trascritte per un organico che va benissimo per noi; il che è anche molto impegnativo perché ci mette a confronto con il grande repertorio e impone, da un punto di vista tecnico-interpretativo, una attenzione particolare. L’ampliamento di un repertorio, per un’orchestra, significa sempre confrontarsi: l’allargamento della letteratura corrisponde all’allargamento della problematica tecnica. Maestro, ora che ha terminato la scrittura di CO2, quali sono i progetti futuri? Sì, è finita. Infatti mi sembra di averla scritta quindici anni fa! Si è talmente allontanata… Ora sono concentrato sulla nuova opera, che farò per il teatro dell’Opera di Hannover, in Germania, su un tema biblico. Il titolo è Le figlie di Lot. Le due figlie che fanno ubriacare il padre e che poi hanno un rapporto sessuale con lui per poter ripopolare la terra. È una cosa molto forte, intensa come tematica… e molto diversa da CO2 . 182 CO2 . INTERVISTA A GIORGIO BATTISTELLI Forse, diciamo, che ci potrebbe essere un collegamento… Sì, certo, la rinascita della Terra. Un collegamento anche un po’ mistico? Questo? … non so. Più che mistico forse spirituale. In questo momento è un po’ così per me… Prima si parlava della perdita che si determina tra il pensiero e la scrittura e tra la scrittura e l’esecuzione: proprio in quella fase problematica ci sono dei collegamenti, per esempio, con tutta la questione che riguarda la fede… per me. È curioso il percorso che ho fatto. Diciamo che il mio rapporto con la fede è stato sempre un rapporto non risolto. Pasolini diceva: «quando entro in una chiesa, quell’acustica quello spazio quell’architettura, mi ricordano che non ho risolto il mio problema con la fede»… [sorride]. È curioso, ma è un po’ quello che per me è avvenuto con la scrittura, perché ponendomi quei problemi sulla perdita – di dove va a finire quello che ho pensato e che non è stato messo o non è rientrato nel segno, o quello che ho ascoltato o quello che ho segnato – vi ho trovato qualcosa che ha a che fare un po’ con le questioni di fede e… poi forse… anche con il dubbio… ecco. Il dubbio è una questione molto particolare. Il festival che dirigo a Firenze, Play it!, dedicato alla musica italiana, ogni anno ha una tematica più di natura filosofica che musicale – anche se poi i compositori scrivono quello che vogliono – e di dibattito, di confronto. Ogni mattina c’è un incontro fra tutti i partecipanti e così il tema del prossimo festival sarà Il dubbio. Quindi il dubbio sulla scrittura, il dubbio del creare, quali sono i dubbi che hanno i compositori o gli interpreti. Dubbi di natura diversa ovviamente. Perché il dubbio non è solo incertezza, fragilità, ma è anche dinamica. Il dubbio è dinamico, non è depressivo, così come il dubbio amletico, lacerante… Anche nella fede è importante… ritorna spesso in tante parti della Bibbia, è sicuramente il momento più intenso della fede, no? In ogni caso è ricerca, approfondimento. Terrorizzante, a mio avviso, chi ha solo certezze… Esatto: mi fanno sempre paura coloro che hanno sempre certezze… La parola ‘credo’ è esemplare. In molte lingue, ma soprattutto in italiano, significa credere, sinonimo di certezza: ‘credo’, affermativo; ma anche ‘credo’… il dubbio costruttivo. Sì: inteso come ‘forse’, ‘chi lo sa’… Certo. Una volta parlai proprio con un cardinale di questi argomenti… Mi proposero di scrivere una Via Crucis, diversi anni fa. Pranzando con questo prelato ho affrontato il tema della fede. E 183 ANNA MENICHETTI lui mi fece una precisazione molto importante. Gli dissi: «ma sa, io sono avvolto nel dubbio, un dubbio che mi fa male, che mi distrugge, che mi lacera»; non ho usato il termine ‘dubbioso’ perché mi pareva estremamente riduttivo. E lui mi disse: «ma più che un dubbio, lei è dubitante». Quindi non dubbioso. Mi è sembrata un’espressione più delicata. Come il passo, che può essere dubitante. Sì. Adopero il dubbio, ma per andare avanti, non per restare fermo… 184 RICERCHE IN CORSO Teresa Ferrer Valls IL PUNTO SUL MONDO DEGLI ATTORI DEL SIGLO DE ORO* Le prime compagnie che iniziarono a organizzarsi in Spagna a partire dagli anni Quaranta del Cinquecento recitavano, è noto, in spazi non pensati specificamente per ospitare spettacoli teatrali: nei cortili delle locande e in edifici pubblici, in case private, nei saloni e nei cortili aristocratici, nelle strade e nelle piazze delle città e anche nelle chiese in occasione di alcune celebrazioni religiose. Negli anni Ottanta del XVI secolo si aprirono gradualmente i primi spazi teatrali commerciali detti corrales, cortili o case di comedias a seconda delle zone geografiche. Nella penisola iberica l’esistenza di questi edifici, utilizzati in maniera stabile e regolare come spazi per l’attività drammatica, diede un impulso decisivo al consolidamento delle compagnie professionali e rafforzò il commercio del teatro. La popolarità di tale fenomeno culturale e commerciale suscitò ben presto l’interesse delle autorità che stabilirono tempestivamente regolamenti sia per gli edifici pubblici e il loro uso teatrale sia per l’organizzazione delle formazioni. Si ricordi, ad esempio, che dopo un primo periodo di divieto, nel 1587 il Consejo Real decise che le donne potessero far parte legalmente delle compagnie. Negli anni seguenti, tuttavia, non mancarono polemiche generate da quella ostilità verso il teatro, capitanata da alcuni severi moralisti, che attraversò più o meno sotterraneamente tutto il XVII secolo. Malgrado il loro successo, gli attori non furono riconosciuti come corporazione finché, nel 1634, non venne sancita ufficialmente la fondazione della Cofradía de Nuestra Señora de la Novena. L’istituzione di questa confraternita era stata portata a compimento da alcuni dei più prestigiosi capocomici dell’epoca. Fu un passo avanti nell’organizzazione e nella difesa degli interessi degli attori e fu soprattutto, da parte di costoro, un tentativo di offrire una immagine socialmente accettabile della loro professione. Non si dimentichi che la confraternita nacque sotto la protezione della Madonna e che stabilì la propria sede nella madrilena chiesa di san Sebastián. In quel 1634 l’attività dei comici professionisti era ormai radicata nella società e nella cultura spagnole. Gli attori avevano contribuito in modo * Si pubblicano qui, con ritocchi, aggiornamenti e in traduzione italiana, le pagine già apparse su «Ínsula», 2013, 802, pp. 7-9. DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 185-196 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18370 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. TERESA FERRER VALLS fondamentale alla trasformazione del teatro in un fenomeno aperto a un pubblico amplio ed eterogeneo e, con i loro itinerari e i loro viaggi, consolidarono i circuiti teatrali della penisola, circuiti che si sarebbero protratti nel tempo. In Spagna esiste un ricco patrimonio documentale che permette di ricostruire una buona parte dell’attività dei professionisti della scena dagli inizi a tutto il XVII secolo, un giro di tempo coincidente con il periodo di splendore noto come teatro classico spagnolo. Un periodo nel quale gli attori fecero vivere sulle scene i personaggi di Lope de Vega, Calderón de la Barca, Luis Vélez de Guevara, Juan Ruiz de Alarcón, Francisco de Rojas Zorrilla, Agustín Moreto e altri drammaturghi. Rispetto ad altri paesi europei limitrofi, che ebbero una attività teatrale simile, in Spagna, si è detto, è particolarmente abbondante la documentazione prodotta, su diversi versanti, da tale attività; e non soltanto in rapporto ai teatri commerciali, ma anche in relazione alla festa del Corpus e alla messa in scena degli autos sacramentales; per non dire dei processi di produzione, realizzazione e fruizione degli spettacoli di palazzo e delle grandi feste cortigiane. Numerosi sono i contratti a noi pervenuti tra attori e capocomici, al pari di quelli con i corrales de comedias e con le autorità ecclesiastiche o con i comuni, in occasione di festeggiamenti religiosi e per la celebrazione del Corpus Domini. Un’altra fonte importante sono gli ordini di pagamento per l’organizzazione delle grandi feste di corte, così come per le rappresentazioni di particulares che avevano luogo in privato dinanzi ai membri della famiglia reale. I libri contabili, sia dei corrales sia di palazzo, o le querele tra gli affittuari dei corrales e i comuni, ai quali costoro dovevano rendicontare le rappresentazioni, sono tra i documenti più rilevanti. Ancora. A volte si possono trovare inventari di ‘robbe’ e di commedie nascosti tra le carte dei banchi di pegno o possiamo meglio conoscere le biografie di alcuni attori grazie ai loro testamenti oppure alle querele di diversa natura nelle quali essi potevano essere implicati a vario titolo: ad esempio, per un divorzio o per una accusa di bigamia o di concubinato. Dal punto di vista biografico, il primo tentativo di raccogliere le notizie sui professionisti della scena in Spagna risale al 1723, data della probabile conclusione della Genealogía, origen y noticias de los comediantes de España, un manoscritto che fu pubblicato nel 1985 da Shergold e Varey nell’importante collana «Fuentes para la historia del teatro en España» edita da Tamesis Books e a cui ha dato impulso Varey al quale dobbiamo il ricupero di basilari documenti del nostro patrimonio teatrale. Fin dagli inizi del XX secolo Rennert, in appendice al proprio studio The Spanish Stage in the time of Lope de Vega (1909), inserì una «List of Spanish actors and actresses. 1560-1680» basandosi sulla principale documentazione pubblicata sino ad allora, specialmente nei lavori di Pérez Pastor, Sánchez Arjona e altri. Nel secolo scorso tale studio fu imprescindibile per ogni studioso in cerca di notizie sugli spettacoli e gli attori di professio- 186 GLI ATTORI DEL SIGLO DE ORO ne. Proprio dal 1909 aumentarono costantemente le pubblicazioni che svelavano nuovi documenti o sviluppavano studi sull’attività teatrale di città come València, Córdoba, Sevilla, Valladolid, ecc., oppure che raggruppavano fonti al servizio delle biografie di alcuni attori, come quelle di Cotarelo su María de Córdoba e Andrés de la Vega. Una mole di lavori che poi crebbe notevolmente grazie alla già citata collana «Fuentes para la historia del teatro en España». La pubblicazione nel 2008 del database Diccionario biográfico de actores del teatro clásico español (DICAT), un progetto che ho diretto fin dal 1995, ha raccolto per la prima volta le notizie fondamentali pubblicate in lavori importanti per il loro apporto documentario: dai classici di Mérimée, Pérez Pastor, Alonso Cortés sino ai più recenti contributi di Varey e Shergold, Sentaurens, Haley, Sarrió, De la Granja, De los Reyes Peña, Bolaños, Sanz o García, fra i tanti; dando vita così a un elenco di quasi trecento referenze. DICAT comprende un archivio bibliografico con tali referenze, al quale rinvio per brevità. E giova consultare anche il sito La casa di Lope che, dal 2001, registra la bibliografia fondamentale sul teatro spagnolo del Secolo d’Oro (http://www.casadilope.it). Il nostro database propone un elenco di circa cinquemila attori, autores (capocomici) e musicisti di compagnie professionali dai tempi di Lope de Rueda sino alla fine del XVII secolo. DICAT registra tutte le informazioni che provengono da tali fonti. I dati sono stati vagliati, collazionati e organizzati criticamente in un formato digitale che consente all’utente di stabilire molteplici relazioni tra i documenti. Si possono effettuare ricerche mirate su determinati attori e studiare i differenti aspetti della professione comica: la struttura delle compagnie, i loro itinerari e i loro repertori, le loro condizioni di lavoro e i loro guadagni o la condizione professionale della donna nelle formazioni. Dal 2005, data limite della bibliografia inserita in DICAT, è proseguita la pubblicazione di documenti inediti. Ricordo soprattutto i libri di García Gómez (2008) sulla vita teatrale a Córdoba, o di Sánchez Martínez sul teatro a Murcia (2009). Ricordo anche, per il loro apporto documentale, alcuni articoli di De los Reyes Peña e Bolaños Donoso, studiose attive in archivio da molti anni (Reyes Peña, 2007, 2009; Bolaños, 2006, 2007a, 2007b, 2009); o, ancora, Sanz Ayán (2009). Quest’ultima ha recentemente raccolto una scelta dei suoi lavori in Hacer escena. Capítulos de historia de la empresa teatral en el Siglo de Oro (2013). Grazie al formato del database DICAT tutta questa nuova documentazione e quella a venire potranno, in un futuro non lontano, essere immesse nella banca dati, completando così le biografie di attori, attrici, musicisti o ampliando l’elenco dei professionisti della scena finora noti. Il dvd di DICAT comprende anche la trascrizione digitalizzata del manoscritto, conservato nell’archivio del Museo nacional del teatro (segnatura 4115-doc), che riunisce i documenti legali e i regolamenti riguardanti la fondazione della già citata corporazione 187 TERESA FERRER VALLS di attori della Cofradía de la Novena, nonché un ampio archivio d’immagini che aiutano il lettore a richiamare alla memoria gli spazi principali (corrales, Corpus, palazzo) in cui lavorarono questi comici professionisti. Insomma, DICAT incrementa le pubblicazioni che migliorano la conoscenza del patrimonio teatrale d’ambito europeo. Per citare solo alcune referenze imprescindibili ricordo che sia per il teatro inglese sia per quello francese disponiamo da tempo di strumenti biografici dedicati all’attività dei professionisti del teatro. Si pensi, ad esempio, a Nungezer (1929), a Highfill, Burnim e Langhans (1973-1993) o a Mongrédien (1961; 19712). Quanto al teatro italiano, Siro Ferrone dell’Università di Firenze dirige dal 2001 il progetto AMAtI (Archivio Multimediale degli Attori Italiani) consultabile in rete (http://amati. fupress.net) e che raccoglie dati sugli attori dal Cinquecento a oggi. In Spagna, tra la gran quantità di documenti contenenti notizie sull’attività dei professionisti del teatro, si trovano spesso titoli di commedie. Ciò permette di schedare un considerevole numero di messe in scena del Secolo d’Oro. Il gruppo di ricerca teatrale DICAT (http://www.uv.es/dicat), sempre da me diretto, lavora in questo periodo al progetto CATCOM (Las comedias y sus representantes: base de datos de comedias mencionadas en la documentación teatral 15401700) che ha l’obiettivo di redigere un calendario elettronico di spettacoli. Un progetto i cui primi risultati possono essere consultati in rete (http://catcom. uv.es). Fino a oggi sono stati immessi seicento records frutto del ‘trattamento’ di più di mille titoli fra quelli principali e secondari o alternativi acclusi in ognuno di tali records. Le informazioni, riepilogate in ogni titolo di ‘voce’, offrono non solo la data o le date di rappresentazione di un’opera, ma illustrano anche il contesto di produzione e realizzazione (la compagnia che la mise in scena, il luogo, lo spazio pubblico o privato). Il database dispiega una rete di relazioni tra titoli e secondi titoli e rifacimenti drammaturgici facendo il punto sulla questione della autorialità, a partire dal confronto e dallo studio dei dati forniti dai cataloghi e dalla bibliografia specializzata. Negli ultimi due decenni, è noto, lo sviluppo delle nuove tecnologie e l’apertura di un nuovo settore, le Scienze umanistiche digitali, sono stati strategici per la realizzazione di strumenti che forniscono agli studiosi del teatro classico spagnolo una notevole quantità di informazioni e la possibilità di stabilire molteplici collegamenti tra i dati. E vanno ricordati altri progetti che offrono notizie sulla pratica scenica di attori e compagnie. È il caso di Manos teatrales diretto da Margaret R. Greer: un database con notizie attinenti all’analisi della grafia dei manoscritti teatrali e che ha l’obiettivo di dare vita a un catalogo di copisti in rapporto al materiale analizzato. Alcuni di questi manoscritti furono strumenti di lavoro per le compagnie e contengono nomi di attori, di attrici, di capocomici e, talvolta, tracce delle date di messa in scena di alcune opere drammatiche (http://manosteatrales.org). 188 GLI ATTORI DEL SIGLO DE ORO Bisogna inoltre menzionare, sullo stesso versante, il progetto diretto da Héctor Urzáiz, CLEMIT (Censuras y licencias en manuscritos e impresos teatrales), un database in cui possono essere rintracciati permessi di recite anche per stabilire nessi tra le diverse compagnie teatrali (http://www.clemit.es). Dunque, la comparazione dei dati favorita da questi strumenti digitali può produrre esiti interessanti anche circa le date di composizione o di rappresentazione dei testi, nonché sulla paternità di alcune opere drammatiche, come ho segnalato recentemente (2014). Ricordo, tra i lavori di questo tipo, quelli di Ferrer Valls (2003a, 2003b), De Salvo (2003) o García Reidy (2009, 2011) e penso specialmente alla recente scoperta della perduta opera di Lope de Vega Mujeres y criados, rintracciata da García Reidy e resa possibile dalla collazione dei dati di CATCOM e Manos teatrales, come ha spiegato il medesimo studioso (2013) membro dei teams di entrambi i progetti. Contestualmente alla linea di ricerca centrata sul recupero di fonti sugli attori e sulla pratica scenica, negli ultimi anni sono stati compiuti studi che, prendendo le mosse dai documenti noti, affrontano particolari aspetti della professione teatrale completando o aggiungendo ‘sfumature’ al panorama generale che fu tracciato da Oehrlein (1993 [1986]) o, da un punto di vista più sociologico, da Díez Borque in molti dei suoi lavori, specialmente in Sociedad y teatro en la España de Lope de Vega (1978). Per quanto riguarda il ruolo dei musicisti nelle compagnie va citato il recente libro di Flórez Asensio (2014). Della posizione della donna nella professione teatrale e dei meccanismi della sua inclusione nelle compagnie spagnole, sia come attrice che come capocomica, si sono occupati invece Sanz Ayán (2001), Ferrer Valls (2002, 2009) e De Salvo (2005). Quest’ultima ha studiato anche la funzione dei soprannomi, vale a dire della trasmissione dei nomi d’Arte: un fenomeno assai comune nella professione attoriale (2002). Mentre Sanz (2002) ha preso in considerazione, dal punto di vista patrimoniale ed economico, i corredi o i vestiti di scena di alcune attrici. Da un altro punto di vista Davis, nella sua introduzione al libro scritto in collaborazione con Varey (2003), ha ampliato l’orizzonte di un fenomeno sul quale già Salomon aveva posto l’accento (1960) e che ha a che fare con l’attività professionale extraurbana di compagnie, attori, musicisti e soprattutto attrici che recitavano nelle feste dei paesi e dei villaggi, spesso in collaborazione con attori dilettanti. Altri progressi storiografici, dopo il fondante lavoro di Rozas (1980), riguardano lo studio della tecnica dell’attore. Rodríguez Cuadros ha dedicato al tema un ponderoso volume (1998), completando poi il quadro con altre pubblicazioni (2008, 2009, 2012a). La studiosa ha anche indagato il nostro teatro classico nelle memorie di attori di epoche successive (2005). Ora si possono leggere alcuni dei suoi lavori raccolti in El libro vivo que es el teatro (2012b). 189 TERESA FERRER VALLS D’altronde, l’analisi dei manoscritti teatrali utilizzati dalle compagnie, che talvolta registrano le modifiche apportate ai testi in funzione di rappresentazioni specifiche, è un altro vettore di ricerca che ha recuperato informazioni non secondarie sul modo di lavorare delle formazioni. Si ricordino i lavori di Presotto (1997) e di Ferrer Valls (2004). Fra i documenti che aiutano a illustrare i diversi aspetti del mestiere teatrale non possiamo non ricordare i papeles de actor cioè le ‘parti scannate’. A quest’area di lavoro, finora disattesa, Vaccari ha dedicato un dettagliato studio (2006). E non sarà inutile ricordare l’attività degli attori professionisti italiani nella Spagna del Cinquecento (Ojeda Calvo 2007). Riassumendo, la pubblicazione di documenti inediti è stata abbinata in questi ultimi anni, grazie alle nuove tecnologie, alla creazione di strumenti digitali che hanno consentito e consentono di meglio valorizzare le informazioni in nostro possesso. Al tempo stesso ciò ha reso possibile l’avanzamento degli studi sul lavoro dei professionisti della scena spagnola da diversi e proficui punti di vista. Riferimenti bibliografici AMAtI Archivio Multimediale degli Attori Italiani, banca dati in progress, diretta da S. Ferrone, http://amati.fupress.net Bolaños 2006 P. Bolaños, Anales del teatro sevillano: Juan Jerónimo Valenciano y su repertorio teatral (1624-1625), in El Siglo de Oro en escena. Homenaje a Marc Vitse, a cura di O. Gorsse e F. Serralta, Toulouse, Presses Universitaires du Mirail, 2006, pp. 77-94. Bolaños 2007a P. Bolaños, Antonio de Prado y su esposa Mariana de Morales, «Criticón», 2007, 99, pp. 167-192. Bolaños 2007b P. 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Si tratta delle più importanti interpreti della prima metà del XIX secolo, consacrate dalla comune – seppur cronologicamente sfalsata – militanza nella più prestigiosa compagnia dell’epoca: la Reale Sarda, protetta e finanziata dalla dinastia di casa Savoia. Artiste dotate di una non comune personalità artistica, di un maturo e consapevole carisma scenico, mostrarono nel tempo capacità interpretative indirizzate verso concreti criteri di rinnovamento e furono le indiscusse prime donne assolute della più importante compagnia del proprio tempo. Dall’alto di questa loro privilegiata – e meritata – posizione, che all’epoca equivaleva a un marchio di origine protetta e controllata, riuscirono a traghettare l’ancora multiforme e indefinita realtà teatrale settecentesca di prosa verso più solide e moderne pratiche recitative. Agirono all’interno di un sistema teatrale di scarso respiro europeo, ma con il loro esempio, il loro differenziato talento, il loro rigore professionale – maturati individualmente ben prima di approdare nella formazione del re di Sardegna – contribuirono a creare i presupposti per la genesi di quel fenomeno di natura autoctona, ma di riconosciuta rilevanza internazionale, che va sotto il nome di teatro del Grande Attore. Se ne avvantaggiò in seguito Adelaide Ristori (1822-1906) che, saggiamente, non mancò di riconoscere in Carlotta Marchionni (fig. 1) la sua maestra, ma che dovette attendere il ritiro dalle scene di Amalia Bettini (fig. 2) e il declino della ‘rivale’ Antonietta Robotti (fig. 3), più anziana di lei di soli cinque anni ma precocemente ‘invecchiata’, per poter raggiungere l’ambita scrittura di prima attrice assoluta della Reale Sarda. Ci arrivò appena in tempo per accompagnare l’utopia della Stabile torinese verso il suo definitivo tramonto. Nessuna di loro fu attrice di scuola. Tutte, anzi, affondarono le radici, l’apprendistato teatrale, gli esordi e la prima maturità artistica, all’interno di quel sistema di famiglie d’Arte che costituiva, e che ancora per molto tempo conDRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 197-200 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18372 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. FRANCESCA SIMONCINI tinuò a formare, l’ossatura portante del teatro italiano di tradizione. Colsero il meglio di quanto quella pratica, ormai secolare, poteva consegnare loro. Ne mantennero intatti i peculiari tratti di autonomia artistica e di intelligente creatività e seppero, con coscienza e pazienza, perfezionarla. Pur senza sconfessare i gesti forti, talvolta marcatamente esibiti, propri della recitazione di mestiere, gradualmente li ripulirono dalle più pesanti scorie che il tempo vi aveva depositato e riuscirono ad arricchirli, impreziosendoli di sottili e individuali sfumature. Sia la Marchionni, indubbiamente la più famosa delle tre, sia la Bettini, attrice di talento probabilmente eccezionale e ingiustamente ‘dimenticata’ dalla storiografia, riuscirono a intrecciare rapporti duraturi con importanti letterati. Se per la Marchionni sono spendibili i nomi di Silvio Pellico, Ludovico di Breme e Alberto Nota, per la Bettini è doveroso fare quello di Giuseppe Gioachino Belli, poeta con cui l’attrice intrattenne una lunga consuetudine testimoniata da un nutrito carteggio, all’oggi solo parzialmente pubblicato. I personali rapporti tra attori e letterati dell’epoca, anche quando furono buoni e fertili di scambi, come noto, non ebbero mai la forza di tradursi in una produzione drammatica continuativa degna di tale nome. Gli attori e gli autori della prima metà del secolo XIX si mossero su strade lontane e parallele denunciando una sostanziale incompatibilità e siglando l’impossibilità di un incontro, impedito anche da presupposti ideologici da un lato, economici dall’altro. L’incarnazione più sintomatica di questo fallimento la visse la Robotti, prima interprete di Ermengarda, l’eroina dell’Adelchi di Alessandro Manzoni (Torino, teatro Carignano, 13 maggio 1843). La sua interpretazione, pur apprezzata, non riuscì infatti a salvare la tragedia che irritò il pubblico, dispiacque alla critica e fu presto eliminata dal repertorio della Reale Sarda. Un altro aspetto accomunò Carlotta Marchionni e Amalia Bettini, una caratteristica tutta interna al mestiere dell’Arte che fu loro trasmessa, in modo preferenziale, per via matrilineare. Entrambe si avvantaggiarono dell’abilità e dell’esperienza delle madri, attrici di qualche pregio, ma soprattutto, e insospettabilmente (per l’epoca) anche scaltre capocomiche. Contro una indimostrata vulgata che vuole le madri delle prime attrici, se possibile, ancora più ‘capricciose’ delle figlie, Elisabetta Baldesi-Marchionni e Lucrezia Morra-Bettini seppero, dietro le quinte e con lungimiranza, costruire il futuro professionale delle figlie, formando intorno a loro compagnie più che dignitose che contribuirono a instradarle artisticamente e a lanciarle verso più alte e ambiziose mete. Un particolare che getta nuove possibili interpretazioni sul sistema teatrale dell’epoca e che non è l’unico ad emergere da queste storie di vite dando legittimità a un metodo, quello della scuola fiorentina creata da Siro Ferrone, che ritiene possibile, e forse anche doveroso, costruire – o ri-costruire – la storia del teatro italiano anche attraverso l’attento studio delle biografie degli attori. 198 LE PRIME ATTRICI DELLA COMPAGNIA REALE SARDA Venendo a queste ultime non sarà inutile ricordare che la veste editoriale cartacea, per le sue insite caratteristiche, penalizza l’esaustività delle voci contenute in AMAtI pensate per una più flessibile e ampia navigazione on line. Poco del corollario di dati, di fonti e di materiale iconografico, raccolto nella banca dati sulla carriera e sulle interpretazioni delle attrici, è stato qui, per ovvie ragioni di spazio, riprodotto (e si registrano, d’altronde, inevitabili ripetizioni di notizie). Si invitano quindi i lettori e gli studiosi desiderosi di approfondimenti a non accontentarsi della punta dell’iceberg e a non rinunciare né alla puntuale illustrazione del ‘sistema’ AMAtI apparsa nel precedente numero di «Drammaturgia»,1 né, soprattutto, alla consultazione del sito (http://amati. fupress.net) per ottenere di queste attrici, e di altri loro compagni d’Arte, un ritratto più completo e capillarmente documentato. Resta, tuttavia, l’esemplarità dello specimen qui presentato. 1. Cfr. F. Simoncini, Il ‘sistema’ AMAtI fra tradizione e multimedialità, «Drammaturgia», xi / n.s. 1, 2014, pp. 313-328. 199 FRANCESCA SIMONCINI Fig. 1. Ritratto di Carlotta Marchionni, particolare, 1840, incisione (da Sanguinetti 1963). Fig. 2. Ritratto di Amalia Bettini, particolare, prima metà sec. XIX, incisione (da Sanguinetti 1963). 200 Fig. 3. Ritratto di Antonietta Robotti, prima metà sec. XIX, incisione (da Sanguinetti 1963). Francesca Simoncini-Antonio Tacchi CARLOTTA MARCHIONNI (Pescia, 14 giugno 1796-Torino, 1° febbraio 1861) Sintesi Figlia d’Arte, tra le più famose attrici italiane della prima metà dell’Ottocento, muove i primi passi recitando in compagnie di giro toscane. Approda al ruolo di prima donna nel 1811 nella Sociale della madre Elisabetta e di Antonio Belloni, Carlo Calamari e Ferdinando Meraviglia. Nel 1823 diviene acclamata prima attrice della compagnia Reale Sarda. La capacità di armonizzare gradatamente mestiere, impresariato e nuove teorie sulla recitazione costituisce la qualità che la porta a ottenere una posizione preminente nella Reale Sarda e nella storia del teatro italiano. Biografia Figlia del fiorentino Angelo Marchionni (attore comico nel ruolo di caratterista e interprete delle maschere di Brighella e di Arlecchino) e della buona attrice tragica senese, Elisabetta Baldesi, nasce il 14 giugno 1796 a Pescia, piazza toccata dalla compagnia di Giovan Battista Mancini dove i genitori recitavano. Fin da piccola, emula della madre, dimostra inclinazione per il teatro. Tale propensione non l’abbandona neppure durante gli anni, dal 1800 al 1806, trascorsi nel collegio delle Orsoline di Verona dove acquisisce un misticismo tanto intenso da farle guadagnare l’appellativo di ‘estatica di Verona’. Dell’insegnamento religioso impartitole in questi anni, modellato sull’esempio della fondatrice dell’ordine, Angela Merici, mantiene per tutta la vita la devozione fervente e la vocazione al nubilato cui sembra abdicare solo per il compagno d’Arte Ferdinando Meraviglia con il quale lavora negli anni giovanili. L’anno successivo all’abbandono del collegio da parte di Carlotta la Merici viene santificata, nel 1810 l’ordine delle Orsoline è abolito: Carlotta sembra metterne DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 201-222 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18373 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI in pratica l’insegnamento incarnando la «condizione della nubile volontaria vissuta senza clausura e segni esteriori».1 Dopo aver abbandonato il collegio inizia a calcare il palcoscenico rivestendo prima parti di ‘paggetto’ e poi, presumibilmente, di seconda amorosa. Dal 1807 milita, insieme alla madre e al fratello Luigi, nella formazione diretta da Lorenzo Pani in cui figura quasi continuativamente fino alla stagione di carnevale del 1814 se si esclude la breve parentesi dell’anno comico 1808-1809 che la vede, insieme alla madre e al fratello, tra gli attori della compagnia Venier. In quello stesso anno compare però, con Elisabetta, anche in un elenco manoscritto in calce a una lettera del capocomico Giacomo Dorati che avvia con il teatro dei Costanti di Pisa una trattativa, poi non conclusa, per la stagione di quaresima del 1810. Nell’anno comico 1807-1808 segue gli spostamenti della compagnia Pani nelle piazze toscane di Lucca (teatro Pubblico), di Pisa e di Firenze (teatro di via del Cocomero). Scritturata come seconda amorosa, recita al teatro dei Costanti di Pisa nella quaresima e nella primavera del 1809. Al 1810 risale la prima notizia della sua attività fuori dei confini toscani: lavora al teatro Santa Radegonda di Milano, dove probabilmente Madame de Staël la vede interpretare Mirra di Vittorio Alfieri. Nel 1811 è, ancora insieme alla madre, nella medesima formazione, denominata anche compagnia de’ Lombardi, della quale è ormai divenuta prima attrice. Gli attori recitano al teatro della Piazza Vecchia di Firenze nella stagione del carnevale 1811-1812. È dunque da rettificare la notizia, trasmessa dalla maggior parte dei repertori biografici che, in tale data, la collocano nella Sociale della madre Elisabetta e di Antonio Belloni. In questo periodo, durante un ciclo di rappresentazioni al teatro Santa Radegonda di Milano, Carlotta riporta grandi successi e conosce, fra gli altri, Silvio Pellico. L’incontro tra l’autore e l’attrice risulta fertile: Pellico compone infatti, appositamente per lei, le tragedie Laodicea, poi distrutta, e Francesca da Rimini, destinata a divenire uno dei suoi ‘cavalli di battaglia’. Durante il soggiorno milanese l’attrice, pur militando in una compagnia considerata secondaria, riesce, per le sue qualità artistiche, a guadagnarsi la fama di migliore attrice italiana per le parti da giovane e a destare l’attenzione del capocomico della Vicereale milanese Salvatore Fabbrichesi che, nell’ottobre 1814, manifesta la volontà di scritturarla per la formazione che stava costituendo: la compagnia del teatro dei Fiorentini di Napoli. Il carnevale 1813-1814 la vede per l’ultima volta con la compagnia Pani, nelle cui file Carlotta si distingue nelle parti ingenue, riscuotendo generale approvazione sul palcoscenico fiorentino del teatro di via del Cocomero. Qui, 1. S. Geraci, Carlotta Marchionni in effige, «Teatro e storia», xviii, 2004, 25, pp. 368-369. 202 CARLOTTA MARCHIONNI alla fine del gennaio 1814, si segnala per la sua interpretazione del personaggio di Isabella nel Filippo di Vittorio Alfieri sostenendo «la difficile arte di procedere riguardata nei colloqui con Carlo».2 Alla fine dell’anno comico 1813-1814 Carlotta, abbandonata la compagnia Pani, diviene prima donna della più modesta Sociale Marchionni-Belloni (di cui sono soci anche Carlo Calamari e Ferdinando Meraviglia) e dove figura anche Luigi Domeniconi. La formazione, inizialmente dotata di scarsi mezzi, sa avvantaggiarsi nel tempo della presenza di Carlotta, guadagnando il favore del pubblico e divenendo un complesso di buon livello. Gli attori, secondo Luigi Rasi, reciterebbero al teatro della Piazza Vecchia di Firenze con la Pamela nubile di Carlo Goldoni. In questa formazione, condotta nominalmente da Elisabetta Marchionni che ricopre anche i ruoli di prima donna e di madre, Carlotta assume di fatto sempre più importanza fino a divenire la vera capocomica. Nella primavera del 1814, al teatro Castiglioncelli di Lucca, in compagnia recita anche il padre Angelo come secondo caratterista. Nel giugno del 1815 gli attori si spostano a Milano per tenere un corso di rappresentazioni al teatro Lentasio e a quello diurno dello Stadera, quindi passano al teatro Re dove Carlotta interpreta per la prima volta la Francesca da Rimini di Silvio Pellico con grande successo di critica e di pubblico cui contribuisce anche l’interpretazione di Luigi Domeniconi nella parte di Paolo. Quest’ultimo sarà, nell’anno successivo, l’indiretto responsabile di un grave lutto per la famiglia Marchionni: la morte accidentale della sorella minore di Carlotta, Giuseppina, dovuta al morso del suo cane. Fra il 1815 e il 1820 Carlotta frequenta oltre a Pellico, Pietro Maroncelli, e l’abate Ludovico di Breme che sembra assumere per lei la funzione di ideologo e di dramaturg. L’attrice, grazie al suo carisma scenico, ispira e incoraggia la vena teatrale del gruppo di intellettuali del «Conciliatore» che considerano le sue interpretazioni come il modello cui anche le altre attrici devono conformarsi. Nel 1818 l’attrice recita al teatro del Corso di Bologna. Al 1820 è da ascrivere la stesura del dramma Bianca e Fernando che l’autore teatrale e attore Carlo Roti scrive appositamente per lei. Del settembre dello stesso anno è anche il primo contatto con il conte Lodovico Piossasco con cui l’attrice entra in trattative per una scrittura, come prima donna, nella costituenda compagnia Reale Sarda. Il Piossasco si reca personalmente a Crema per incontrare l’attrice e garantirsi la sua disponibilità nel timore che ella possa accettare le offerte di Salvatore Fabbrichesi, divenuto nel frattempo capocomico della compagnia al servizio di Ferdinando IV di Borbone di stanza al teatro dei Fiorentini di Napoli. La Marchionni, tentata dall’offerta del con- 2. «Giornale del dipartimento dell’Arno», 22 gennaio 1814, 10, p. 4. 203 FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI te Piossasco, non manca di dettare le sue condizioni pretendendo la completa indipendenza dal capocomico e riconoscendo la sola autorità della direzione. Tale richiesta mette in luce la riluttanza dell’attrice ad abdicare al raggiunto rango di capocomica, la ferma volontà di non rinunciare a essere l’unica responsabile delle proprie creazioni artistiche nella piena libertà di concezione e di esecuzione della parte e il desiderio di rimuovere ogni tipo di filtro fra interprete e copione. La compagnia Marchionni-Belloni-Calamari-Meraviglia recita nel carnevale 1820-1821 al teatro d’Angennes di Torino. Nella quaresima del 1823, troviamo gli attori a Firenze, al teatro di via del Cocomero, dove Carlotta interpreta uno dei suoi cavalli di battaglia: Francesca da Rimini. Alla fine dell’anno comico, libera dall’impegno con la troupe sociale e considerata ormai unanimemente la migliore attrice italiana entra, con la madre e con il caratterista Carlo Calamari, nella Reale Sarda, debuttando al teatro Carignano di Torino la sera dell’8 aprile 1823 con La bella fattora, riduzione dal francese curata da Lodovico Piossasco. Ben tre incisioni, datate 1822, la ritraggono con probabile intento pubblicitario per il suo ingresso nella compagnia piemontese. Francesco Righetti, con lei in compagnia, nel suo Teatro italiano la descrive di figura snella, di portamento leggiadro, vivace d’espressione, insinuante nella voce, dotata di perfetta dizione e di pronta intelligenza. Carlotta lascerà la compagnia sabauda nel 1840. A differenza di tutti i suoi colleghi, scritturati sempre ‘a vicenda’, ricopre costantemente il ruolo di prima attrice assoluta, una vera e propria eccezione per la compagnia. L’attrice, unica stipendiata direttamente dalla Tesoreria dello Stato e non dal capocomico Gaetano Bazzi, percepisce una paga di undicimila lire che, se confrontate con la dote complessiva della formazione che «fu prima di cinquanta e poi di trentamila lire»,3 appare una cifra considerevole. Dal 1836 al 1839, Carlotta è affiancata da Antonietta Rocchi-Robotti. Grazie agli insegnamenti della Marchionni l’allieva assume presto il ruolo di prima attrice giovane che dovrà poi cedere a Adelaide Ristori. Durante la militanza nella troupe torinese Carlotta ottiene la considerazione e la stima dell’alta società e degli intellettuali di tutte le città toccate nelle sue tournées. Stringe amicizia con Alberto Nota che, ispirato dalla sua recitazione, modella i suoi testi seguendone l’evoluzione artistica e anagrafica. Così postilla l’autore in una lettera del 1834 indirizzata a Gaetano Bazzi: «chi vuole scrivere per la compagnia Reale dee, da dieci anni a questa parte, pensare che alla Signora Marchionni non convengono più parti da giovinetta; e 3. G. Michelotti, La compagnia Reale Sarda, «Il dramma», xxiv, 15 aprile 1948, 57-58-59, p. 159. 204 CARLOTTA MARCHIONNI bisogna stillarsi il cervello per trovar vedove o maritate per tenerla sempre in buona vista del pubblico».4 Per lei scrivono anche Carlo Marenco (Pia de’ Tolomei, 1836), Giacinto Battaglia e Angelo Brofferio. Alcuni testi di quest’ultimo vengono declamati da Carlotta e Francesco Righetti nei circoli letterari. Poco più che quarantenne, all’acme della carriera artistica, di ritorno da una tournée milanese, il 3 marzo 1840 abbandona le scene recitando, al teatro d’Angennes di Torino, ne La fiera di Alberto Nota: «È impossibil descrivere il fanatismo, l’entusiasmo dimostrato a lei dai torinesi. Vi fu teatro illuminato. Alla fine della commedia scese una bambina vestita d’amorino a porle in capo una corona di lauro in oro ed argento ed a presentarle un volume delle poesie stampate per tale circostanza. [Luigi] Gandolfi e Oggero [sic!] [A. Augero] fecero due composizioni litografiche magnifiche che vennero distribuite; e l’Accademia Filodrammatica parimenti dispensò copia litografica del busto della Marchionni».5 Con tale gesto i filodrammatici intendevano nominarla reggitrice e maestra dell’accademia. All’albergo Universo di Torino si era tenuto pochi giorni prima un banchetto d’addio durante il quale la giovane Adelaide Ristori, quasi a simboleggiare un avvenuto passaggio di testimone, aveva declamato versi in onore della prima donna uscente, tra i quali spiccano i seguenti: «Tu dell’arte maestra amorosa, / Tu all’errante mio piede segnavi / Infallibile traccia. // […] Se or mi lasci, se a me più compagna / Non verrai nell’arena onorata, / A me resta grand’orma segnata: / Possa io quella costante calcar. // E se a pien non tradiscemi speme / A te, invece di poveri fiori, / Fia ch’io renda cresciuti gli allori / Che tue mani pietose educar».6 Durante la serata all’attrice era stata inoltre donata una preziosa corona probabilmente quella stessa con cui, alla fine del suo ultimo spettacolo, era stata incoronata e con la quale è eternata nella litografia distribuita al pubblico in quella occasione. Torna a calcare sporadicamente le scene a scopo di beneficenza per l’accademia Filodrammatica di Torino di cui successivamente è nominata direttrice. Nell’aula Brofferio dell’accademia viene posta una lapide commemorativa dedicata all’attrice. Il re di Sardegna le concede una pensione. Carlotta, oltre a divenire soggetto di numerosi componimenti poetici (raccolti in volume in occasione del suo addio alle scene) e incisioni a lei dedicate è stata la prima attrice italiana, dopo Isabella Andreini, per la quale sono state coniate due medaglie. La prima a Milano nel 1821, la seconda a Bologna 4. La citazione è riportata in A. Camaldo, Alberto Nota, drammaturgo (con il testo di otto commedie inedite), Roma, Bulzoni, 2001, p. 222. 5. G.B. Gottardi, Diario inedito, in G. Deabate, I comici di Sua Maestà, Torino, Tipografia della Gazzetta del popolo, 1905, pp. 13-14. 6. In L. Sanguinetti, La compagnia Reale Sarda (1820-1855), Bologna, Cappelli, 1963, p. 63. 205 FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI nel 1822. Di lei sono stati scolpiti due busti marmorei, a Bologna dal professor Francesco Rosaspina, a Torino, come ornamento del vestibolo del teatro d’Angennes, dallo scultore Giuseppe Bogliani. Il 1° febbraio 1861 muore a Torino dove è sepolta insieme alla madre. Famiglia Le prime notizie accertate sulla famiglia d’Arte Marchionni risalgono ai genitori di Carlotta, il fiorentino Angelo e la senese Elisabetta Baldesi che ne sarebbero quindi i capostipiti. Sebbene nessuna notizia sia stata tramandata in tal senso non è da trascurare la possibilità che anche i nonni materni, dei quali è noto solo il nome del nonno (Pompeo), fossero attori. L’ipotesi è avvalorata dal fatto che anche la sorella di Elisabetta, Anna Baldesi Tafani, intraprende la stessa carriera ed è a sua volta madre dell’attrice Carolina Tafani Internari. Il padre Angelo, «giovane di sicura abilità nelle parti da Innamorato»,7 dopo aver debuttato come dilettante in non meglio identificate accademie ricopre parti di maschera in compagnie minori fiorentine. Si reca quindi a Napoli per un breve periodo riscuotendo discreto successo. Dopo essere tornato a Firenze milita in formazioni toscane interpretando parti di innamorato e le maschere di Arlecchino e Brighella. Nel 1790 sposa la compagna d’Arte Elisabetta Baldesi con la quale nell’anno comico successivo è scritturato, insieme alla cognata Anna Baldesi-Tafani, nella compagnia di Carlo Battaglia attiva esclusivamente nell’Italia del Nord. In tale periodo si colloca la nascita, a Venezia, del primogenito Luigi che segue le orme dei genitori alternando però il mestiere comico a quello di traduttore e di drammaturgo. In tale veste si impegna anche per promuovere il successo della sorella scrivendo per lei le pièces Chiara di Rosemberg calunniata, Chiara innocente e L’orfanella svizzera e numerose traduzioni-adattamenti da testi francesi. Prima del 1813 sposa l’attrice Teresa Villani. L’itineranza dei coniugi Marchionni al di fuori dei confini granducali è di corto respiro: riprendono a lavorare nel sistema teatrale toscano a partire dal 1793. In questo periodo nasce, il 14 giugno 1796, a Pescia, piazza teatrale toccata dai comici, la figlia Carlotta. Nel 1806 la famiglia si allargherà con la nascita della terzogenita Giuseppina, a sua volta attrice. Con l’inizio del nuovo secolo Angelo passa a ricoprire ruoli di caratterista pur conservando la specializzazione nelle parti in maschera. La sua carriera 7. F. Bartoli, Notizie istoriche de’ comici italiani che fiorirono intorno all’anno MDL. fino a’ giorni presenti, Padova, Conzatti, 1781-1782, vol. ii, p. 27. 206 CARLOTTA MARCHIONNI sembra subire una battuta d’arresto mentre quella della moglie, prima donna in varie compagnie tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, conosce nuovi sviluppi. Ella, dopo aver alternato il suo impegno tra formazioni toscane e di giro nazionale approda infatti, nel 1814, a ruoli di madre e al capocomicato in società con Antonio Belloni, Ferdinando Meraviglia e Carlo Calamari. In questa compagnia figurano Angelo, secondo caratterista, la giovane Carlotta e, in parti da ragazza, la piccola Giuseppina, morta precocemente due anni più tardi. Elisabetta, prima attrice e capocomica, svolge un ruolo fondamentale per gli esordi e per la definitiva consacrazione della figlia Carlotta come prima donna. Tutti gli anni di apprendistato di quest’ultima, nella Lorenzo Pani (18071814) e nella Marchionni-Belloni (1814-1823) si svolgono infatti sotto l’egida e la supervisione di Elisabetta che segue la figlia anche nel suo debutto nella Reale Sarda ricoprendo ruoli di madre nobile e caratteristica dal 1824 al 1828. Formazione Figlia d’Arte, nel 1807 esordisce come seconda amorosa nella compagnia diretta da Lorenzo Pani indicato da Luigi Rasi come uno dei maggiori capocomici attivi tra il 1785 e il 1815. Nella troupe, insieme a Carlotta figurano anche la madre e il fratello Luigi. Con questi esce dall’angusto circuito teatrale toscano e calca i palcoscenici milanesi dove comincia a essere notata e apprezzata. Avvertendo l’incompletezza della propria formazione e, nel 1814, dovendo riprendere l’interpretazione di Mirra di Vittorio Alfieri che già aveva in repertorio dal 1810, vuole andare oltre l’esempio fornitole dalla madre (apprezzata interprete del personaggio) e frequenta per due mesi, a Firenze, la Scuola di declamazione di Antonio Morrocchesi, vecchio compagno d’Arte del padre, per approfondire e perfezionare lo studio della parte. Il processo intrapreso dall’attrice per nobilitare una genesi chiusa nella tradizione di un mestiere attorico ereditato per filiazione prosegue attraverso l’incontro con alcuni intellettuali romantici (Silvio Pellico, Ludovico di Breme, Pietro Giordani e Pietro Maroncelli) che la portano a concepire significativi cambiamenti nella consueta prassi recitativa e con cui istaura un proficuo rapporto di collaborazione rafforzandone l’interesse verso il teatro. Gli anni 1814-1823, trascorsi nella compagnia della madre, diretta da Antonio Belloni (che le fu prodigo di preziosi consigli) sono fondamentali per la sua maturazione. All’interno di un repertorio che alterna messinscene di drammi storici, commedie e tragedie Carlotta decreta la sua definitiva consacrazione con la Francesca da Rimini che Silvio Pellico scrive secondando le sue caratteristiche di giovane prima attrice. 207 FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI All’insegnamento della tradizione comica e all’esempio pratico-organizzativo dell’esercizio del capocomicato materno (da cui trae la sicurezza di una consuetudine e la forza della capacità direttiva) la giovane attrice aggiunge, grazie alla frequentazione dei circoli intellettuali milanesi, la personale volontà di superare i ‘vizi’ del mestiere e di giungere a una equilibrata consapevolezza intellettuale. La capacità di armonizzare gradatamente mestiere, impresariato e nuove teorie sulla recitazione, che Carlotta seppe sapientemente valorizzare, costituisce la qualità che porta l’attrice a diventare la prima donna assoluta della compagnia Reale Sarda, all’interno della quale rivendica e ottiene un’autonomia artistica non riconosciuta a nessun altro scritturato. Interpretazioni/Stile Carlotta interpreta all’esordio parti di paggio e di amorosa, ma già nel 1811, all’età di quindici anni, la troviamo prima attrice nella compagnia di Lorenzo Pani, ruolo che ricopre anche nella Marchionni-Belloni-Calamari-Meraviglia e, successivamente, nella Reale Sarda. Subito riscuote i positivi consensi della critica che non risparmia invece la compagnia nel suo complesso: «La giovinetta Marchionni per altro si disimpegna con dignità la parte di prima donna; genio, buona volontà, ed intelligenza pare che non le manchino, ma […] trovasi con dei compagni che non secondano la di lei bravura comica»;8 e ancora: «Negli Americani in Londra la signora Marchionni prima attrice della Piazza Vecchia sostenne la sera di Lunedì scorso molto plausibilmente la parte di Gurly. Somma intelligenza, bellissima Toscana dicitura, azione scenica, nobiltà di gesto, tutto riuniva in se stessa quella giovine donna […]. In questa rappresentazione come in tant’altre, la signora Marchionni fece troppo conoscere, quanto non lungi la sia da divenire una delle migliori Attrici Italiane».9 Nel 1815 trionfa nella parte di Francesca in Francesca da Rimini scritta per lei da Silvio Pellico. Il personaggio farà parte del repertorio dell’attrice fino al 1840, anno del suo ritiro dalle scene. L’autore in una lettera al fratello Luigi, datata 30 agosto 1815, ne loda l’interpretazione: «La Carlotta Marchionni rispose perfettamente alle mie speranze; io la stimo attrice capace di ogni eccellenza».10 Non dello stesso tenore il giudizio che aveva riservato agli altri 8. «Giornale del dipartimento dell’Arno», gennaio 1812, 3, p. 4. 9. Ivi, gennaio 1812, 11, p. 4. 10. S. Pellico, Lettere milanesi (1815-’21), a cura di M. Scotti, Torino, Loescher, 1963, pp. 20-21. 208 CARLOTTA MARCHIONNI attori in una lettera del 21 agosto: «una compagnia povera venuta al Lentasio e passata per caso al Re, e tuttora recitante alla luce del sole nello Stadera, non può darmi quel che vale la tragedia. Io dunque non gliene cedo la proprietà. Gliela lascerò recitare per qualche tempo, perché, sul dubbio ancora della riuscita, hanno fatto delle spese per un vestiario apposta e magnifico».11 Stendhal, viaggiatore consapevole, la ricorda nel suo diario in una notazione dell’anno 1817: «L’ingenuità è in Italia cosa rarissima […]. Quel poco di ingenuità che ho incontrato, l’ho trovato tutto nella signorina Marchioni [sic!], giovane divorata da passioni, la quale recita ogni giorno, spesso due volte: verso le quattro, al teatro all’aperto, per il popolo; la sera, alla luce delle lampade, per la buona società. Mi ha commosso fino all’estasi, alle quattro, nella Gazza ladra, e alle otto in Francesca da Rimini».12 Versatile nella scelta del repertorio, interpreta testi tragici e comici (soprattutto di Alfieri e Goldoni) insieme a drammi lacrimosi e sentimentali (alcuni dei quali scritti o tradotti per lei dal fratello Luigi), eccelle nelle parti ingenue suscitando generale ammirazione: «La naturale sensibilità, il nobile gestire, l’espressione del volto, e più di tutto il suono armonioso della voce donavano alla Carlotta un fascino che dominò per quasi trent’anni tutti i pubblici d’Italia. Chi la vide rappresentare L’Alexina, La Fiera, La Lusinghiera e La Vedova in solitudine del Nota; la Sposa sagace, le due Pamele, Gl’Innamorati, le tre Zelinde del Goldoni; La bella Fattora, traduzione del conte Piossasco; le due Chiare di Rosemberg, La figlia della terra d’esilio, L’Orfanella svizzera, drammi scritti a posta per lei dal fratello Luigi, non poté a meno di riconoscere e di applaudire in lei quei tratti di grande attrice, che caratterizzano il vero genio. Un altro genere da lei insuperabilmente rappresentato era quello delle parti ingenue. La Giurlì o La famiglia indiana, la Lauretta di Gonzales, e varie altre erano da lei con tale innocenza rappresentate, e nel tempo stesso con una varietà sì grande da far supporre che l’arte non vi aggiungesse nulla del proprio, quando invece era la sublimità di questa che le faceva raggiungere il vero; e se questa somma attrice fu a tante superiore nella commedia e nel dramma, con non minore maestria seppe innalzarsi nella tragedia, poiché la Francesca da Rimini che ella creò, la Pia de’ Tolomei, la Mirra, l’Ottavia, e tante altre le procuraron sempre nuovi trionfi».13 Quella della Mirra di Alfieri è considerata la sua migliore interpretazione. Con questa Carlotta superò la celebre attrice alfieriana Anna Fiorilli Pellandi 11. Ibid. 12. Stendhal, Roma, Napoli, Firenze. Viaggio in Italia da Milano a Reggio Calabria, RomaBari, Laterza, 1990, p. 224. 13. Antonio Colomberti, ora in L. Rasi, I Comici italiani. Biografia, Bibliografia, Iconografia, Firenze, Bocca-Lumachi, 1897-1905, vol. ii, p. 78. 209 FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI «sia per le mosse degli occhi, che pel muto parlare degli atti e della fisionomia».14 Il personaggio, svelato in tutta la sua prorompente peccaminosità nell’ultimo atto della tragedia, è recitato, per i primi quattro, soltanto con lievi, ma continue allusioni alla sua passione incestuosa. L’inquietudine interiore di Mirra viene sapientemente dosata e lasciata intuire soltanto attraverso nascoste sottolineature che esaltano la capacità dell’attrice nel controllare registri interpretativi tra loro antitetici. Sulla stessa linea si colloca la scrittura scenica utilizzata per la parte di Giulia in La lusinghiera di Alberto Nota. La protagonista della commedia incarna una donna dal comportamento spregiudicato nell’adulare contemporaneamente molti corteggiatori con audaci civetterie giocate su menzogne, sorrisi, sguardi languidi e sensuali elargiti indistintamente a tutti gli spasimanti. L’interpretazione della Marchionni fu in un primo momento criticata dall’autore che, in una lettera a Vincenzo Monti del 1° aprile 1818, la taccia di essere ‘nemica di tal commedia’ perché portatrice di una recitazione romantica inadeguata al personaggio. Tale accusa è decisamente respinta dalla Marchionni che, l’8 aprile 1818, in risposta all’autore, replica sostenendo di gradire la parte e di averla interpretata se non magistralmente quantomeno in maniera da non danneggiare la fortuna della pièce. In effetti l’interpretazione dell’attrice assicura un costante successo alla commedia al punto che lo stesso Nota, abbandonato ogni scetticismo, così ne parla nella sua Prefazione: «Poche altre attrici potranno per avventura agguagliare, nonché superare la signora Carlotta Marchionni, a cui fu le prime volte affidata la parte di donna Giulia, parte che richiede assai maestria, giacché le arti e le lusinghe per trarre altrui nella rete, e per conservare ed accrescere il numero degli adoratori, vogliono esser custodite da un contegno nobile, disinvolto, ben educato e gentile».15 A testimonianza della qualità dell’esecuzione, piena di vitalità, Giuseppe Costetti aggiunge: «Donna Giulia è un carattere scabroso, la cui licenziosità è di tanto insinuante quanto meno è aperta: una bella donna che collo sguardo, co’ sorrisi, e con la parola indiretta s’offre ad ogni momento, non concedendosi mai. S’aggiunga che il più degli effetti scenici di questo ruolo di coquette è nell’artifizio della controscena muta, nelle occhiate, nei sorrisi, nel provocante abbigliamento, nella procace scollatura delle vesti dissimulata in guisa da riuscire più stimolante. […] Carlotta Marchionni, la estatica di Verona, la immancabile alle Messe meridiane della Consolata o di San Filippo, che prima 14. Epilogo di notizie teatrali, «Il Corriere delle Dame», 4 maggio 1816, 18, p. 139, ora in G. Ciotti Cavalletto, Attrici e società nell’Ottocento italiano. Miti e condizionamenti, Milano, Mursia, 1978, p. 124. 15. A. Nota, Teatro comico di Alberto Nota, Torino, Pomba, 18422, vol. iv, p. 321. 210 CARLOTTA MARCHIONNI di uscir sulla scena ogni sera si faceva senza ostentazione, né sotterfugio, il suo bravo segno di croce rappresentò alla perfezione Donna Giulia e le sue spinte civetterie, come già aveva reso le fiamme incestuose di Mirra».16 Non esente da alcuni vizi propri dei figli d’Arte le vengono rimproverati difetti dovuti a mancanza di scuola sia nel gesto, sia nelle intonazioni. Particolarmente criticata è la sua consuetudine di incrociare le mani al petto e di stringere i gomiti alla testa muovendo in modo scomposto gli avambracci. A tali appunti tenta di rimediare frequentando nel 1814 a Firenze, per breve periodo, la Scuola di declamazione di Antonio Morrocchesi. È universalmente apprezzata, invece, per la nobiltà dell’incedere sulla scena, per la semplicità e la versatilità della sua recitazione che sa esprimersi naturalmente, sia nella dizione sia nella riproduzione di particolari minuti a cui viene restituita apparenza di realtà, e per la capacità di modulare con varietà di inflessioni la voce. La sua presenza scenica si avvantaggia di un fisico scultoreo e giunonico, di braccia ben modellate e di una fisionomia, non bella né regolare, ma dotata di comunicativa e fascino. Alla biasimata abitudine dei comici, accusati di una eccesiva gesticolazione, sostituisce nel tempo, la grande mobilità del volto e la particolare espressività dello sguardo che le permettono una recitazione eloquente, ma priva di gesti esasperati. Le doti di naturalezza evidenziate nella conduzione dei dialoghi, unite ad una eleganza non affettata, fanno di lei una caposcuola: «Ma io sfido tutti i delicati conoscitori dell’arte comica a dirmi in chi, dove e quando si è veduto nella commedia italiana una donna, che con tanta grazia, con tanta decenza, e con tanta nobiltà passeggi la scena? Io m’appello a tutte le dame di tutte le corti più galanti, se si può con miglior dignità ed amabilità in una nobile e gentile conversazione, dir sedete come lo dice la nostra Marchionni; con quale vivacità di colorito sa ella moltiplicare e compartire le tinte in una scena di gelosia! Chi sa comporre quello sguardo, accomodar quel labbro, emettere quel suono di voce in una scena d’ironia al pari di lei? Della felicità sorprendente nelle transazioni, e nel passaggio d’un affetto all’altro, della dizione semplicissima e naturale, dell’artifizio che par tutto natura, ne abbiamo un esempio parlante nella Lusinghiera dell’avvocato Nota».17 Vere e proprie innovazioni volute dall’attrice sono da considerare l’abolizione del suggeritore e la concertazione degli attori durante le prove, che arriva a prolungare fino ad un mese, dirigendole personalmente. Capace di compiere scarti che le permettono di eccellere nel tragico, nel comico, nelle parti ingenue e nell’interpretazione delle passioni contrastate, è considerata la migliore 16. G. Costetti, La compagnia Reale Sarda e il teatro italiano dal 1821 al 1855, Milano, Kantorowicz, 1893, pp. 36-37. 17. Francesco Righetti, ora in Rasi, I Comici italiani, cit., vol. ii, p. 78. 211 FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI attrice italiana dell’epoca ancora prima di approdare, come prima donna, alla Reale Sarda: «Il Vestri e la Marchionni personificarono […] quella varietà di attitudini che è degli attori italiani soltanto, e che permette a ciascuno di loro, che sia veramente nato all’arte, di suscitare le commozioni più disparate e diverse; di passare con stupenda volubilità e occorrendo in una sera medesima dal tragico al comico, dall’Alfieri al Goldoni: d’essere come la Marchionni ora Mirra o Clitennestra, più tardi Mirandolina o Rosaura: come il Vestri oggi Don Marzio, domani Il povero Giacomo».18 Le sue interpretazioni sono il frutto della scrittura scenica di un’attrice noncurante di intervenire decisamente sui copioni con tagli e interpolazioni. A tale proposito aggiunge Francesco Regli «la Marchionni erasi formata un’alta e vera idea dell’arte sua. Ragguardavala essa come un aiuto e un supplimento all’invenzione del poeta e all’opera dello scrittore; epperò, o le parti che doveva sostenere erano con maestria colorite, ed ella, nel concetto dell’autore internandosi, vi dava l’ultima mano; o distavano troppo da quella verità, da quel calore, da quel moto che si richiede nelle situazioni drammatiche, ed ella tanto vi lavorava sopra d’ingegno e di cuore, tanto vi metteva del proprio, che diventava, come Talma col Bruto, come De Marini col Benefattore e l’Orfana, come Vestri col Povero Giacomo o Gustavo Modena col Saul, creatrice».19 Altra importante testimonianza della convergenza tra il suo stile recitativo e la drammaturgia a lei contemporanea la fornisce nel dicembre del 1839, sulle colonne del «Figaro», il recensore dell’ultima sua apparizione milanese: «La Marchionni compendia in se stessa i tratti speciali al dramma moderno. Perché essa pinge ogni maniera di posato o concitato, gaio o malinconico affetto e principalmente il dolore che si stende nell’opere moderne al modo stesso che s’incarna nella vita della società. Essa percorre con naturale andamento tutte le gradazioni della poesia; dalle note gravi alle dolci, dalle elevate alle volgari, dalle fantastiche alle appassionate. La Marchionni è veramente l’artista estetica voluta dal maturato sviluppo delle idee artistiche e dalle esigenze psicologico-letterarie dell’epoca. Creata da natura e da lunghi studi esercitata a trovare e produrre ogni perfezione di bello, essa imita con giustezza estetica l’età del romanzo e l’età del disinganno; esprime il sospiro del povero, la preghiera dell’inerme, il lamento del prigioniero, la maestà della sventura e il ruggito della disperazione. Talvolta calda, energica, fremente; talvolta languida, gemente, spiritante. La sua anima è come invasa da un soffio di fuoco che 18. Ferdinando Martini, ora ivi, p. 77. 19. F. Regli, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860, Torino, Dalmazzo, 1860, p. 302. 212 CARLOTTA MARCHIONNI spinge fuori l’impressione animata, ardente; e lo prova il mutar continuo di quel suo volto, rispondentissimo agli interni sentimenti».20 Durante la militanza a Torino, in linea con i principi della compagnia sabauda, accentua i caratteri di purezza, eleganza, nobiltà e perfezione espositiva della sua arte contribuendo alla creazione del mito dell’attrice moralmente integra e vocata all’arte nobile. L’adesione all’etica del sociale, del civile e del religioso che caratterizza la poetica pedagogico-artistica della Reale Sarda la costringe a abbandonare il repertorio romantico e passionale, che l’aveva imposta nel periodo degli anni milanesi, obbligandola a conciliare la rappresentazione di forti passioni e sentimenti con la sua nuova immagine di vergine-attrice. Non è da escludere però che molta della fascinazione esercitata sul pubblico dalla prima donna fosse costruita proprio sullo scarto, consapevolmente gestito, tra passioni intuibili, trattenute nella vita reale, e liberamente sfogate nella finzione scenica, dove si manifestavano attraverso brevi, improvvise, ma potenti esplosioni, tanto più efficaci quanto più calate in un linguaggio scenico elegante, educato e misurato: «Chi rese potentemente l’amore incestuoso di Mirra, l’adultero di Francesca, il casto della Vestale Giunia, non poteva avere gelidi né il cuore né i sensi. E quando si rifletta che la verginità di Carlotta Marchionni non fu una maschera astuta per gabellare irresponsabilmente non dirò la scostumatezza ma nemmeno le facili mondanità della vita del teatro, ma fu invece una castità immacolata e tersa, non appannata mai neppure dal soffio della maldicenza che, fra le quinte, è vipereo; è da pensare piuttosto che quell’anima forte e quella vigorosa fantasia si piacessero del contrasto fra la severità del costume che s’era imposta, e le sfrenate amorose passioni che doveva rappresentare».21 Fonti, recensioni e studi critici Manoscritti: Atto di battesimo di Carlotta Marchionni, Archivio storico delle parrocchie di Pescia, Battesimi vol. 23 (1792-1808), c. 50v., atto n. 924. A. Colomberti, Notizie su attori italiani, Roma, Biblioteca e raccolta teatrale del Burcardo, ms. 3-15-3-19/A (ora ms. 9). A. Morrocchesi, Memorie, Biblioteca marucelliana di Firenze, ms. D19, i-iii. 20. Ora in Sanguinetti, La compagnia Reale Sarda, cit., pp. 59-60. 21. Costetti, La compagnia Reale Sarda, cit., p. 38. 213 FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI Affare di polizia n. 1480: nota della compagnia Lorenzo Pani, Archivio di stato di Firenze, Presidenza del Buon Governo 1784-1808, f. 449, affare 1480, a. 1807. A stampa: F. Bartoli, Notizie istoriche de’ comici italiani che fiorirono intorno all’anno MDL. fino a’ giorni presenti, Padova, Conzatti, 1781-1782, 2 voll. (rist. anast. Bologna, Forni, 1978. Riediz. a cura di G. Sparacello, introd. di F. Vazzoler, trascrizione di M. Melai, IRPMF-CNRS, 2010, «Le savoir des acteurs italiens», consultabile on line all’indirizzo http://www.iremus.cnrs.fr/fr/publications/les-savoirs-des-acteurs-italiens). «Giornale del dipartimento dell’Arno», gennaio 1812, 3 (p. 4) e 11 (p. 4). «Giornale del dipartimento dell’Arno», dicembre 1813, 156. «Giornale del dipartimento dell’Arno», gennaio 1814, 8 e 10 (p. 4). [Senza autore], Epilogo di notizie teatrali, «Il Corriere delle Dame», 4 maggio 1816, 18, p. 139. J. 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Repertorio 1810 Mirra di Vittorio Alfieri 1811 Oreste di Vittorio Alfieri 1814 Filippo di Vittorio Alfieri 216 CARLOTTA MARCHIONNI 1815 Francesca da Rimini di Silvio Pellico Pamela nubile di Carlo Goldoni 1816 Bianca e Fernando, o La tomba di Carlo IV duca d’Agrigento di Carlo Roti Caterina Neuport di Luigi Marchionni Francesca da Rimini di Silvio Pellico Mirra di Vittorio Alfieri 1818 I due carlini di autore non precisato La figlia maledetta di autore non precisato La lusinghiera di Alberto Nota 1820 Bianca e Fernando, o La tomba di Carlo IV duca d’Agrigento di Carlo Roti Gli amori di Zelinda e Lindoro di Carlo Goldoni Gl’innamorati di Carlo Goldoni L’abboccamento notturno di Carlo Goldoni La locandiera di Carlo Goldoni Le donne curiose di Carlo Goldoni Le gelosie di Zelinda e Lindoro di Carlo Goldoni Pamela nubile di Carlo Goldoni Un curioso accidente di Carlo Goldoni 1822 Adele e Fontanges di Alberto Nota Chiara di Rosembergh di Hubert [pseudonimo di Philippe-Jacques Laroche] 1823 Agamennone di Vittorio Alfieri Alexina ossia Costanza rara di Alberto Nota Amore ed equivoco di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue Amori d’antica data di Philippe Néricault Destouches Antigone di Vittorio Alfieri Aristodemo di Vincenzo Monti Clementina e Dorvignì di Monvel [pseudonimo di Jacques-Marie Boutet] Cuore d’arte di Francesco Augusto Bon Didone abbandonata di Pietro Metastasio Due amici di Lione di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais 217 FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI Due famiglie in una casa di Louis-Benoît Picard, Alexis-Jacques-Marie Vafflard e Fulgence-Joseph-Désiré de Bury Edoardo in Iscozia di Alexandre-Vincent Pineux Duval Francesca da Rimini di Silvio Pellico Ginevra di Scozia di Giovanni Pindemonte Gli amori di un filosofo di Filippo Casari Gli amori di Zelinda e Lindoro di Carlo Goldoni Gli eredi di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue Gl’innamorati di Carlo Goldoni Gurlì di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue I contrapposti di Speciosa Zanardi Bottioni I contrapposti di Benoît Pelletier de Volmeranges I due granatieri di Joseph Patrat I due inglesi di Mélesville [pseudonimo di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier] I litiganti senza lite di Charles-Guillaume Étienne I pazzi per progetto di Giovan Carlo Cosenza Il barbiere maldicente di Gheldria di Francesco Antonio Avelloni Il benefattore e l’orfana di Alberto Nota Il bibliomane di Alberto Nota Il burbero benefico di Carlo Goldoni Il capitano Belronde di Louis-Benoît Picard Il cavaliere d’industria di Alexandre-Vincent Pineux Duval Il cavaliere e la dama di Carlo Goldoni Il celibe e l’ammogliato di Alexis-Jacques-Marie Vafflard e Fulgence-Joseph-Désiré de Bury Il cugino da Lisbona di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue Il disperato per eccesso di buon core di Giovanni Giraud Il filosofo celibe di Alberto Nota Il giudice di se stesso di Benoît Pelletier de Volmeranges Il landerman di Solm di Francesco Antonio Avelloni Il matrimonio per generosità di Speciosa Zanardi Bottioni Il misantropo di Moliére [pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin] Il nuovo ricco di Alberto Nota Il padre e il tutore di Louis-Armand-Théodore e Louis-Charles-Achille d’Artois de Bournonville Il pittor per amore di Benoît Pelletier de Volmeranges Il poeta fanatico di Carlo Goldoni Il portafoglio di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue Il riconoscente e l’ignoto di Francesco Antonio Avelloni Il saccente di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue Il tartufo dei costumi di Luigi Claudio Chéron 218 CARLOTTA MARCHIONNI Il tiranno domestico di Alexandre-Vincent Pineux Duval Il vanaglorioso di Philippe Néricault Destouches Il ventaglio di Carlo Goldoni L’abate de l’Epée di Jean-Nicolas Bouilly L’ajo nell’imbarazzo di Giovanni Giraud L’ambiziosa di Alberto Nota L’ammalato immaginario di Alberto Nota L’antiveggente di Marc-Antoine-Madeleine Désaugiers L’atrabiliare di Alberto Nota L’autorità paterna di August Wilhelm Iffland L’avaro di Molière [pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin] L’avventuriere notturno di Camillo Federici [pseudonimo di Giovan Battista Viassolo] L’epigramma di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue L’incontro fortunato di François-Antoine-Eugène de Planard L’intollerante di Gaetano Fiorio L’ozioso di Francesco Augusto Bon La bella fattora di Amélie-Julie Candeille La bizzarra di Carlo Goldoni La bottega del caffè di Carlo Goldoni La festa della rosa di Antonio Simeone Sografi La locandiera di Carlo Goldoni La lusinghiera di Alberto Nota La moglie finta moglie di Gaetano Barbieri La pretesa e i pretendenti di Francesco Antonio Avelloni La promessa imprudente di François-Antoine-Eugène de Planard La romanzesca di Francesco Augusto Bon La sorella rivale del fratello di Dumaniant [pseudonimo di Jean-André Bourlain] La sposa persiana di Carlo Goldoni La sposa sagace di Carlo Goldoni La stravagante di Pietro Andolfati La suocera e la nuora di Carlo Goldoni La supposta nipote di François-Antoine-Eugène de Planard Lauretta Gonsalez di Antonio Simeone Sografi La vedova scaltra di Carlo Goldoni La vedova spiritosa di Carlo Goldoni Le donne di buon umore di Carlo Goldoni Le gelosie di Lindoro di Carlo Goldoni Le parentele di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue Le risoluzioni in amore di Alberto Nota Le smanie per la villeggiatura di Carlo Goldoni Lo spirito di contraddizione di Carlo Goldoni 219 FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI Maometto di Voltaire [pseudonimo di François-Marie Arouet] Matilde di Monvel [pseudonimo di Jacques-Marie Boutet] Matrimonio di Goldoni di Gaetano Fiorio Merope di Scipione Maffei Merope di Vittorio Alfieri Misantropia e sentimento di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue Moglie pazza per gelosia di Giacomo Bonfio Molière di Carlo Goldoni Molière, marito geloso di Pietro Chiari Non contar gli anni alle donne di Camillo Federici [pseudonimo di Giovan Battista Viassolo] Ogni male non vien per nuocere di autore non precisato Olivo e Pasquale di Antonio Simeone Sografi Ospizio degli orfani di August Wilhelm Iffland Ottavia di Vittorio Alfieri Pace figlia d’amore di Filippo Casari Pamela maritata di Benoît Pelletier de Volmeranges e Michel de Cubières-Palmézeaux Pamela nubile di Carlo Goldoni Primi passi al mal costume di Alberto Nota Rosmunda di Vittorio Alfieri Saul di Vittorio Alfieri Sofia e Langer di [?] Belloni Temistocle di Pietro Metastasio Teresa e Claudio ovvero L’amor irritato dalle difficoltà di Giovanni Greppi Teresa vedova di Giovanni Greppi Torquato Tasso di Carlo Goldoni Un curioso accidente di Carlo Goldoni Un giorno a Parigi di Charles-Guillaume Étienne Uno spende e gli altri godono di [?] Fabris Valeria cieca di Augustin-Eugène Scribe e Mélesville [pseudonimo di Anne-HonoréJoseph Duveyrier] Verter di Antonio Simeone Sografi Zaira di Voltaire [pseudonimo di François-Marie Arouet] 1824 Medea di Cesare della Valle Mirra di Vittorio Alfieri Sofonisba di Vittorio Alfieri 1825 Eudosia di Angelo Brofferio 220 CARLOTTA MARCHIONNI 1826 Francesca da Rimini di Silvio Pellico Ines di Castro di Davide Bertolotti La fiera di Alberto Nota 1827 La novella sposa di Alberto Nota 1828 L’oppressore e l’oppresso di Alberto Nota 1830 Ludovico Ariosto di Alberto Nota 1831 Alceste di Vittorio Alfieri 1832 Ester d’Engaddi di Silvio Pellico Gismonda da Mendrisio di Silvio Pellico Petrarca e Laura di Alberto Nota 1833 La donna irrequieta di Alberto Nota 1834 Gismonda da Mendrisio di Silvio Pellico Il progettista di Alberto Nota La donna irrequieta di Alberto Nota La famiglia di Riquebourg di Augustin-Eugène Scribe Lo sposo di provincia di Alberto Nota 1835 Il duello fra due donne di Giovan Carlo Cosenza Lo sposo di provincia di Alberto Nota Parisina di Antonio Somma 1836 Il prigioniero e l’incognita di Alberto Nota Le conseguenze di una festa da ballo di Jean-François-Alfred Bayard Pia de’ Tolomei di Carlo Marenco 221 FRANCESCA SIMONCINI-ANTONIO TACCHI 1837 Giovanna I di Carlo Marenco Giovanna I regina di Napoli di Giacinto Battaglia Il prigioniero e l’incognita di Alberto Nota Torquato Tasso di Alberto Nota Vittorina ossia Le conseguenze di una scommessa di Giacinto Battaglia 1838 Giovanna I regina di Napoli di Giacinto Battaglia Natalina ovvero Il liceo d’Heisperg di Alberto Nota 1839 Filippo Maria Visconti di Giacinto Battaglia Gismonda da Mendrisio di Silvio Pellico 1840 La fiera di Alberto Nota 1854 La gioventù di Cimarosa di Raffaele Colucci 222 Daniela Sarà AMALIA BETTINI (Milano, 15 agosto 1809-Roma, 6 maggio 1894) Sintesi Amorosa, poi prima attrice, la più apprezzata e ricercata interprete femminile italiana degli anni Trenta del XIX secolo. Attiva, negli ultimi anni di carriera, nella compagnia Reale Sarda. Biografia Amalia Bettini nasce a Milano il 15 agosto 1809 da Giovanni e Lucrezia Morra, attori all’epoca ingaggiati da Salvatore Fabbrichesi nella compagnia Reale Italiana; nel 1814, con la caduta di Napoleone, la formazione si scioglie e il capocomico si trasferisce a Napoli dove costituisce una nuova compagnia Reale, protetta dai Borbone, conducendo con sé anche i Bettini. Dal 1815 al 1822 Amalia vive in un istituto francese della città e in seguito alla morte del padre, deceduto nel 1822 a trentatré anni, inizia l’attività artistica: ingaggiata da Fabbrichesi nella compagnia Reale come amorosa, si esibisce con Luigi Vestri e Giuseppe De Marini che la affiancano anche come insegnanti di recitazione. All’inizio del 1824 segue con la madre il capocomico che si trasferisce con la formazione nell’Italia centrale; nel dicembre 1826 la troupe esegue un ciclo di recite al teatro del Corso di Bologna. Dopo la scomparsa di Fabbrichesi, avvenuta a Verona nell’autunno del 1827, la Bettini conclude la scrittura esibendosi al teatro Re di Milano nel carnevale 1828. Nel 1829 si stabilisce con la madre a Vicenza dove recita come prima attrice in una compagnia filodrammatica. Lo stesso anno, in società con Vincenzo Caprara e Orazio Cerini, Lucrezia costituisce una propria compagine nella quale riserva ancora alla figlia il ruolo primario; la formazione è attiva a Parma nell’agosto 1829, al teatro Comunale di Ferrara nell’autunno successiDRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 223-239 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18374 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. DANIELA SARÀ vo, nuovamente a Parma nel giugno 1830 e al teatro Goldoni di Firenze nel carnevale 1830-1831, ma subito dopo si scioglie per problemi economici. Nel 1831 la Bettini passa nella compagine del caratterista veronese Gaetano Nardelli, all’epoca associato con Luigi Ghirlanda, come prima attrice assoluta; nell’ottobre 1831 si esibisce al teatro del Corso di Bologna e nell’autunno 1833 al teatro Comunale di Ferrara. Nel 1835 Amalia entra con lo stesso ruolo nella formazione Ducale di Parma, condotta da Romualdo Mascherpa, attiva nei principali centri del nord e centro Italia, nella quale recitano Luigi Gattinelli, Giacomo Landozzi e alcuni esponenti della famiglia Dondini. Ha inizio la fase più brillante della carriera dell’attrice che in breve si afferma tra le maggiori interpreti contemporanee. Nel 1835 la compagnia recita a Livorno, Bologna, Ravenna, Perugia, Cesena e Roma, dividendosi tra il teatro Valle e il teatro Alibert (settembre 1835-febbraio 1836); nel 1836 a Livorno (febbraiomaggio), Trieste, Venezia, Padova, Milano, Pavia e Genova. Nel 1837 Amalia torna nella formazione di Nardelli – ora in società con Carlo Re, proprietario dell’omonimo teatro milanese – che però nel 1840 si ritira dalle scene. Nel luglio 1837 la compagnia è attiva a Bologna, tra i successivi mesi di settembre e dicembre al Re, nel marzo 1838 a Venezia, nel carnevale 1839 a Livorno, in aprile ancora a Bologna, tra giugno e luglio al teatro Comunale di Faenza e a Ravenna e in settembre al teatro del Cocomero di Firenze. Tra il 1838 e il 1839, allo scadere della scrittura, la Bettini riceve numerose proposte d’ingaggio che rifiuta perché non soddisfatta delle condizioni economiche: è contattata da Pietro Monti per la formazione del teatro dei Fiorentini di Napoli, da Giovan Battista Gottardi, che intende costituire una compagnia in società con Luigi Domeniconi, poi non realizzata, e dal milanese Camillo Ferri. Nel 1840 entra nella compagnia Reale Sarda, diretta da Gaetano Bazzi, con sede stabile al teatro Carignano di Torino, subentrando a Carlotta Marchionni che si ritira dalle scene; si trova così a recitare al fianco di Adelaide Ristori, prima attrice giovane, nella formazione dal 1837-1838; tra le due interpreti si instaura un rapporto di rivalità che nel 1841 induce la Ristori a lasciare la formazione, per ritornarvi solo nel 1853. L’8 marzo 1840 Amalia debutta al teatro Re di Milano; nell’autunno 1840 la compagnia compie una tournée fiorentina e nel marzo 1841 ripropone un ciclo milanese di rappresentazioni. Sparsasi la voce di una conclusione anticipata della collaborazione con Bazzi allo scadere del primo anno comico, anche dopo l’inizio del nuovo ingaggio Amalia continua a ricevere proposte da altre formazioni e capocomici: il teatro dei Fiorentini, Mascherpa, Lorenzo Da Rizzo, Angelo Lipparini, Corrado Vergnano e Camillo Ferri; è contattata anche per un eventuale ingresso in compagnie di prossima costituzione, come quelle di Francesco Paladini, che intende associarsi con Luigi Domeniconi, di Gaetano Coltellini e dello stesso Domeniconi; le sono infine proposte collaborazioni artistiche da appaltatori 224 AMALIA BETTINI di teatri come Vincenzo Jacovacci che la contatta per recitare al teatro Valle di Roma. Tutti vedono nella Bettini un’interprete di livello eccellente, capace, per l’azione di richiamo esercitata sul pubblico, di ribaltare le sorti economiche delle loro imprese. L’attrice però decide di prolungare la scrittura con la Reale Sarda e in breve diventa la beniamina del pubblico torinese. Al culmine del successo, l’8 febbraio 1842 recita per l’ultima volta al teatro Carignano. Il successivo 2 giugno, a Bologna, dove stabilisce la sua residenza, sposa il dottore Raffaele Minardi e, a soli trentatré anni, si ritira dalle scene, nonostante le insistenze di alcuni capocomici – tra cui Coltellini, Vergnano, Ferri, Mascherpa, Paladini, Domeniconi e Gaetano Gattinelli – per farla recedere dalla decisione; lo stesso Bazzi le scrive per scongiurare un suo abbandono della compagnia Reale Sarda concedendole maggiore agio nella scelta del repertorio. Amalia però non torna sui suoi passi e lascia definitivamente il teatro professionale per concedersi saltuariamente la partecipazione a spettacoli di beneficenza, come tra l’ottobre e il dicembre 1843, al fianco di alcuni membri dell’accademia bolognese dei Concordi diretti da Giovan Battista Zoppetti. Nel 1847 dà alla luce un figlio, Pasquale Giuseppe Gioacchino; alla metà di maggio del 1848 esegue altre recite al teatro Comunale di Bologna con l’accademia dei Solerti e nell’ottobre 1880 si esibisce nuovamente per beneficenza al teatro Aliprandi di Modena. Scompare a Roma il 6 maggio 1894. Famiglia Amalia Bettini appartiene ad una famiglia dedita da almeno una generazione al professionismo attorico. Il padre Giovanni (Venezia o Verona, 1789-Venezia, 1822) milita dal 1807, come primo amoroso, nella compagnia Reale Italiana di Salvatore Fabbrichesi. Qui affina le doti performative fino a diventare una delle promesse più significative del teatro italiano, ma muore di tisi a trentatré anni. La madre Lucrezia Morra, inizialmente prima attrice, poi regredita a ruoli di seconda donna, madre e caratterista, recita nella formazione di Fabbrichesi e, dopo la scomparsa del marito, segue la figlia esercitando temporaneamente anche il capocomicato, fino al 1837, anno in cui si ritira dall’attività professionale. Nell’anno comico 1841-1842 Fanny, sorella di Amalia, compare tra i membri dell’organico della compagnia Reale Sarda. Formazione In tenera età Amalia Bettini frequenta un prestigioso istituto francese a Napoli, dove entra per intercessione dei Borbone, protettori del padre Giovanni, 225 DANIELA SARÀ e dove riceve un’istruzione di alto livello, destinata ai figli delle famiglie nobiliari, comprendente disegno, musica e lingue straniere. Negli anni l’attrice continuerà a coltivare la sua formazione culturale, come testimonia il suo carteggio col poeta Giuseppe Gioachino Belli (si veda Interpretazioni/Stile), ricco di riferimenti aulici al mondo letterario e di scambi di composizioni poetiche; di particolare interesse sono le lettere in cui la Bettini si sofferma in maniera lucida e competente sulla situazione teatrale contemporanea e sull’attività dei tragediografi dell’epoca. Nel 1822 l’interprete lombarda esordisce in teatro, ingaggiata come amorosa da Salvatore Fabbrichesi nella compagnia Reale di Napoli; i colleghi Luigi Vestri e Giuseppe De Marini, tra i migliori attori in circolazione, le insegnano le basi della recitazione. Interpretazioni/Stile Nel 1822, a tredici anni, Amalia Bettini esordisce dunque come amorosa nella compagnia Reale di Napoli, diretta dal Fabbrichesi, nella quale rimane fino al 1828; dopo soli due anni di militanza suscita l’interesse delle cronache teatrali che ne elogiano le doti artistiche, prevedendo per lei una fortunata carriera: «Bettini figlia… giovinetta di 15 anni, di leggiadra figura, di volto avvenente, di bei modi, non iscarsa di grazie, […] ella supera sé medesima, e porge altissime speranze di pareggiare ben presto le decantate prime attrici, che l’han preceduta. Nulla le manca ad essere nel numero delle valenti, fuorché un esercizio più lungo, mancanza a cui il tempo porrà quanto prima il compenso; ma intanto è dolce il vederla con merito vero rappresentare i suoi caratteri, e troppo bello e giocondo il difetto, che alcun rigido osservatore in qualche parte le addossa, d’essere cioè troppo giovine. Oh! quanto meglio ciò conta che il vedere provetta attrice con tre dozzine d’anni alle spalle affibbiati rappresentarci talora l’ingenua ragazza, o la spiritosa sposina! Si calmi adunque di talun l’iraconda impazienza, e mentre da un lato trova in questa compagnia chi per assoluta perizia può soddisfarlo, si appaghi dall’altro della tenera capacità e delle belle speranze, onde a buon diritto l’Itala scena può attendere in questa ragazza una novella esimia attrice».1 Da una recensione risalente alla fine dell’esperienza con Fabbrichesi, nella quale la Bettini è descritta come «nata per fare le parti di giovane modesta, affezionata e ingenua»,2 si desume la sua specializzazione nel repertorio patetico-sentimentale. 1. La testimonianza apparsa su «Varietà teatrali» del 1824 è qui trascritta da L. Rasi, I Comici italiani. Biografia, Bibliografia, Iconografia, Firenze, Bocca-Lumachi, 1897-1905, vol. i, p. 388. 2. Cenni teatrali, «Il Corriere delle Dame», 19 gennaio 1828, 3, p. 18, ora in G. Ciotti Cavalletto, Attrici e società nell’Ottocento italiano. Miti e condizionamenti, Milano, Mursia, 1978, p. 45. 226 AMALIA BETTINI Dal 1831 al 1835 Amalia è prima attrice nella compagnia di Gaetano Nardelli; si tratta di una fase di transizione e sperimentazione, che la vede a volte soggetta a critiche: «avrebbe d’uopo talvolta di non far troppo, bensì di stare un po’ più ne’ confini prescritti da natura e dalla verità»;3 si esprimerebbe con una voce «modulata talvolta a cadenza»;4 si lascerebbe andare, in alcuni casi, a innaturali «moti convulsi».5 Tra i principali detrattori del periodo si segnala Giacinto Battaglia dalle pagine del «Figaro». Nella seconda metà degli anni Trenta, trascorsi come prima attrice nelle formazioni di Mascherpa (1835-1837) e di Nardelli (1837-1840) Amalia vive la fase più fortunata della carriera, confermandosi come una delle esponenti più significative del ruolo primario. Riguardo a questo periodo resta la preziosa testimonianza di Antonio Colomberti, suo compagno di lavoro sia nella compagnia di Mascherpa che in quella di Nardelli; oltre a delinearne un ritratto fisico, l’attore si sofferma sulle doti artistiche di Amalia caratterizzate da un’alta capacità di immedesimazione, da una voce particolarmente duttile e in grado di esprimere una vasta gamma di gradazioni umorali e da una memoria eccezionale che le consente di assimilare le parti senza la minima sbavatura: era «di capello castagno e di carnagione bianchissima. La sua voce corrispondeva a tutte le vibrazioni della sua anima. Di natura estremamente sensibile e nervosa, s’immedesimava tanto perfettamente nel personaggio da lei rappresentato, fosse esso comico, drammatico o tragico, da far provare all’ascoltatore le stesse impressioni da lei esuberantemente sentite. Dotata di memoria ferrea, poteva fare a meno del rammentatore ed in 5 anni ch’ebbi il piacere di esserle al fianco come direttore e primo attore, non l’ho mai veduta ricorrere al soggetto per saper la parola per entrare in scena. Abituata fin dalla sua più tenera gioventù a non considerare la sua parte dal numero dei foglietti ma dall’interesse che poteva avere nell’intiera produzione, poneva in tutte lo stesso impegno, non escluse le farse».6 Negli anni trascorsi nella troupe di Mascherpa, la Bettini è acclamata ovunque come catalizzatrice degli interessi del pubblico. Tra le attestazioni di stima dei contemporanei nei suoi confronti si ricorda la medaglia d’oro coniata a Perugia in occasione di una tournée compiuta entro il settembre 1835. Amalia entra anche in contatto con numerosi esponenti della cultura contemporanea; una particolare attenzione merita la sua relazione con Giuseppe Gioachino Belli che, incaricato dallo «Spigolatore» di recensire alcune sue recite eseguite al te3. Ivi, p. 49. 4. Ibid. 5. Ivi, p. 50. 6. A. Colomberti, Memorie di un artista drammatico, testo, introd., cronologia e note a cura di A. Bentoglio, Roma, Bulzoni, 2004, p. 491 n. 227 DANIELA SARÀ atro Valle di Roma, presso il quale l’attrice lombarda si esibisce tra settembre 1835 e febbraio 1836, scrive alcuni sonetti in romanesco soffermandosi sulle eccezionali doti artistiche dell’interprete; rimasto affascinato, Belli stringe con Amalia una amicizia, che si protrae per molti anni, testimoniata dal prolungato scambio epistolare intercorso tra i due, particolarmente intenso fino al 1842, anno del matrimonio dell’attrice con Raffaele Minardi (il carteggio è conservato nell’archivio Piancastelli di Forlì e nella Biblioteca nazionale di Roma; è stato parzialmente edito da Alfredo Mezio nel 1942, da Pietro Paolo Trompeo nel 1948 e da Giacinta Spagnoletti nel 1961). Anche Stendhal conosce la Bettini durante il soggiorno romano del 18351836: rimastone profondamente colpito e coinvolto sentimentalmente, scrive di lei nel romanzo autobiografico La vie de Henry Brulard, menzionando in particolare un incontro con l’attrice all’accademia Filarmonica di Roma il 19 dicembre 1835 in occasione di un’esecuzione del Guglielmo Tell di Gioacchino Rossini. Le attestazioni di stima nei suoi confronti si protraggono lungo l’intero corso della carriera: in data imprecisata Giovanni Prati le dedica versi di elogio, mentre documenti epistolari a lei indirizzati testimoniano l’ammirazione coltivata nei suoi confronti da Rossini e Giovan Battista Niccolini. Nel suo Diario, il 20 dicembre 1839, anche Niccolò Tommaseo esprime il desiderio di conoscere l’attrice. Riguardo al ciclo di recite che vede impegnata la Bettini al Valle tra il 1835 e il 1836, una testimonianza giornalistica sottolinea la versatilità dell’interprete, presentata come una protagonista della scena italiana contemporanea: «in Amalia Bettini ci è sembrato riconoscere un raro e straordinario talento per l’arte ch’ella professa, e che abbia sviluppato nel modo il più vittorioso quanto può avere attinto alla scuola la più finita. Infatti i sentimenti che risvegliò, l’effetto grandioso che produsse nel dramma Sedici anni or sono; l’espressione del più intenso dolore, le angosce, la mortale ansietà che così bene dipinse nella sublime scena coll’irato padre nella Malvina; le grazie e le sottigliezze comiche, non iscompagnate da decentissimo contegno, di cui fece sfoggio negl’Innamorati, nel Casino di Campagna, nella Fedeltà alla Prova; il suo atteggiarsi […], la sua energia sempre analoga al sentimento dell’azione, la sua maniera delicata di esporre, tutti questi pregi, valutati con entusiasmo dal pubblico, ci addimostrano come quest’attrice meriti di essere annoverata fra le altre prime drammatiche viventi».7 Lo scrittore e critico francese Arnould Frémy, che assiste ad una recita di cui Amalia è protagonista nel 1836 a Venezia, dedica all’attrice un lungo profilo 7. Z.Z., Lettera del Signor Z.Z. ai compilatori della Rivista, «Rivista teatrale. Giornale drammatico, musicale e coreografico», vol. ii, 2 novembre 1835, 11, p. 5. 228 AMALIA BETTINI biografico, soffermandosi, riguardo al periodo di militanza nella compagnia Mascherpa, sull’intesa particolare instauratasi con il primo attore Luigi Domeniconi e sull’intensa capacità di immedesimazione di entrambi sulla scena: «Domeniconi et Amalia Bettini jouant ensemble certaines pièces du Gymnase, riant aux éclats là où les acteurs de Paris se contentent de sourire, pleurant, se tordant là où les autres indiquent seulement l’émotion, font briller dans leur jeu un accord, un ensemble de talens, qu’on aurait peine à rencontrer peutêtre sur toute autre scène d’Europe».8 Frémy sottolinea l’eccellenza della Bettini nella commedia – in particolare nel repertorio goldoniano –, loda lo slancio con cui interpreta i personaggi patetici e la sua finezza di recitazione, reputandola all’altezza delle più significative esponenti della scena internazionale, come Fanny Kemble e Mademoiselle Mars (pseudonimo di Anne-Françoise-Hippolyte Boutet); «le fond de sa nature est […] une sorte de grace et de douce tristesse […]. Sans être précisément jolie, sa figure est de celles qui s’embellissent sur la scène […]. Un des grands mérites de son jeu est de n’avoir aucun apprêt. Elle entre en scène et elle marche, elle pleure, elle exprime la joie, la jalousie, le bonheur, la tristesse avec le même simplicité, le même naturel que si elle était réellement jalouse, offensée, aimée et trahie».9 Secondo il critico il suo maggior pregio è nel ‘parlato’ naturale, ricco di sfumature in grado di esprimere le sensazioni più lievi, considerato dai contemporanei una delle sue caratteristiche più pregevoli. Lo stesso giudizio è ripreso, qualche decennio dopo, da Giuseppe Costetti, che afferma: «quando appunto le attrici migliori recitavano a singulti, e i più rinomati attori predicavano enfaticamente, e gridavano come l’ultimo dei ciurmadori, Amalia Bettini ‘parlava’; sin anche, per quanto il consentisse la sostenutezza del verso, nella tragedia che recitava non meno bene della commedia e del dramma. Era in lei tanto di naturalezza e di spontaneità che, facendo due sere la medesima parte, traeva effetti straordinari con mezzi sempre diversi, a lei suggeriti lì per lì dalla forza molteplice e protea del suo genio».10 Sulla seconda fase di permanenza nella compagnia Nardelli (1837-1840), sono da registrare alcune testimonianze di Francesco Regli che, dalle colonne della rivista «Il pirata», di cui è direttore, recensisce spesso le performances dell’attrice, da lui ammirata sia professionalmente che umanamente, presentata come un caso straordinario di interprete istruita e dai sani principi morali. Relativamente ad una delle ultime esecuzioni realizzate dalla Bettini con 8. A. Frémy, Artistes étrangers. Amalia Bettini, «Revue de Paris», n.s., to. xxxv, 1836, p. 209. 9. Ivi, p. 207. 10. G. Costetti, I dimenticati vivi della scena italiana, Roma, Stabilimento tipografico della Tribuna, 1886, p. 21. 229 DANIELA SARÀ la formazione Nardelli nel ruolo protagonista del dramma Beatrice di Tenda di Felice Turotti, messo in scena nel febbraio del 1840, il critico si sofferma su quella che, nonostante la versatilità dimostrata nel padroneggiare i vari generi spettacolari, emerge alla lunga come dote principale dell’interprete, la capacità di commuovere profondamente lo spettatore: «fu grande, somma sotto le spoglie della bella infelice. E di vero chi non rapì ella e non commosse alle lagrime? Chi non sarebbesi alzato a difendere la sua innocenza allorquando, da fatali e mendaci apparenze attorniata, invocava una voce, una sola voce che sorgesse a smentirle? […] Oh noi piangemmo e in questo dirottissimo pianto, in questo pianto spontaneo, tutto figlio del cuore stava la prova che la Bettini raggiunse nell’arte sua il grado dell’eccellenza!».11 Nel 1860, in un profilo biografico della Bettini dopo il ritiro dalle scene, Regli ribadisce il suo giudizio conferendo all’attrice lombarda il primato nel genere patetico-sentimentale: Amalia era stata un’«abilissima tragica, eccellente comica, non aveva rivali nel genere drammatico ch’era proprio il suo arringo prediletto, ove ci commoveva alle lagrime, e tutto ci faceva sentire l’entusiasmo delle passioni, il fuoco degl’affetti, le lunghe miserie e le brevi felicità della vita».12 Negli ultimi due anni di carriera (1840-1842), trascorsi nella compagnia Reale Sarda, l’attrice dimostra altrettanta abilità nell’affrontare il genere tragico. Amalia entra nella formazione, diretta da Gaetano Bazzi, come prima attrice in sostituzione di Carlotta Marchionni che lascia la carriera artistica dopo diciassette anni durante i quali aveva conquistato il pubblico del teatro Carignano di Torino, sede della troupe. L’eredità è difficile da sostenere e nel primo anno comico la Bettini non riesce a farsi accettare pienamente, come attestano le ‘voci’ sulla sua esitazione a proseguire la collaborazione professionale con Bazzi e sul suo desiderio di abbandonare la compagine. Nel suo diario, il primo attore Giovan Battista Gottardi parla di un esordio positivo della Bettini nel marzo 1840, confermato da Regli che nelle pagine del «Pirata» continua ad elogiare la sua beniamina, ancora impegnata in un ruolo patetico nel Vagabondo e la sua famiglia di Francesco Augusto Bon: «nulla eravi in essa di esagerato, di troppo sentito, di inutile: piangeva e palpitava quando ne avea necessità […] insomma la Bettini ritraeva a perfezione la virtuosa sposa e l’amorosissima madre».13 11. [F. Regli], Gazzetta teatrale-teatro Valle, «Il pirata», v, 28 febbraio 1840, 70, p. 288, ora in Ciotti Cavalletto, Attrici e società nell’Ottocento italiano, cit., p. 46. 12. F. Regli, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860, Torino, Dalmazzo, 1860, p. 59. 13. Id., Gazzetta teatrale-teatro Re, «Il pirata», v, 13 marzo 1840, 74, p. 303, ora in Ciotti Cavalletto, Attrici e società nell’Ottocento italiano, cit., pp. 45-46. 230 AMALIA BETTINI In estate la Bettini riceve però alcuni segnali di ostilità da parte degli spettatori: il 6 agosto, in occasione della messinscena al Carignano della commedia I pazzi per progetto di Giovan Carlo Cosenza, «in mezzo ad un applauso dato dal pubblico alla Bettini vi fu qualche pst… pst… ed un sonorissimo fischio assordante; la Bettini diventò una furia, si rivolse con atti di minaccia al pubblico, ed azzardò di dire ad alta voce: – Incivili! –. Quindi terminata la commedia inveì contro Bazzi».14 L’episodio testimonia forse una divergenza tra l’attrice e il capocomico relativamente alla scelta dell’opera messa in scena. La vera affermazione della Bettini al Carignano avviene un anno dopo, tra la fine di maggio e i primi di giugno del 1841, con la messinscena della tragedia Iginia d’Asti di Silvio Pellico, vero e proprio exploit che finalmente le fa meritare un pieno riconoscimento da parte del pubblico, oltre che le vive congratulazioni per via epistolare dell’autore, assente al debutto. Dalla critica allo spettacolo di Giorgio Briano emerge l’effetto travolgente esercitato da Amalia sugli spettatori, un effetto amplificatore delle intenzioni del drammaturgo: «Che diremo della signora Amalia Bettini? Ella fu dal grido universale salutata grandissima attrice; una di quelle pochissime donne capaci di farsi interprete di un Pellico, di trascinare un intero pubblico agli applausi, di reggere alla più acuta e profonda critica. Dal primo suo apparire sulla scena, sino alla fine, fu il vero, il reale personaggio con tanto amore, con tanta forza descritto dal Pellico; anzi si può dire, che lo stesso autore avrebbe provato una nuova compiacenza per la sua creazione ove l’avesse veduta rivivere per opera della egregia attrice. L’autore ha colorito il carattere, la Bettini lo ha scolpito; ella ebbe dell’autore una parola che passata sulle sue labbra conduceva al fremito, all’applauso, al delirio. Pareva che l’attrice volesse col vigore della sua anima, coll’espressione degli atti, coll’ardore del desiderio rientrare nell’entusiasmo che destò quell’alto lavoro; pareva che un altro sentimento, non meno nobile e generoso, la infiammasse, ed era di recare un conforto, una gioia all’anima, su cui in pochi anni tanti e sì fieri dolori si erano accumulati. Ella fu interprete dell’autore al pubblico, dal pubblico all’autore. Descrivere a parte gli altri pregi di questa sua rappresentazione, seguirla in que’ suoi atteggiamenti varj, in quei rapidi trapassi che l’eccesso di una passione immensa, combattuta, rendeva in lei profondi, subitamente veraci, è cosa che non si può significare in brevi parole. Quando un’attrice ha tocco quella eccellenza a cui giunse la signora Bettini, il darle una lode comune sarebbe un oltraggio all’arte stessa, per cui tanto si affatica, per cui si può dire che viva. Abbiasi per ora la nostra ammirazione, 14. G.B. Gottardi, Il diario di un primo attore della compagnia Reale Sarda, a cura di G. Deabate, Torino, Archivio tipografico, 1899, p. 17. 231 DANIELA SARÀ che riputiamo il più bell’elogio al suo merito, quando quest’ammirazione è divenuta sentimento universale».15 Riguardo agli ultimi mesi di permanenza nella compagnia Reale Sarda disponiamo della dettagliata testimonianza del critico Edoardo Soffietti, collaboratore della rivista «Il piccolo Faust», in un resoconto edito nel 1841 in difesa dell’attività della formazione. Dal documento risulta come il successo riscosso dalla Bettini nell’Iginia d’Asti condizioni la scelta del repertorio che, nei mesi successivi, vedrà prevalere la messinscena di tragedie con la Bettini nel ruolo protagonista. Poco dopo, Amalia è impegnata in un’altra interpretazione di una tragedia di Pellico, Gismonda da Mendrisio, di cui rende in maniera magistrale il personaggio eponimo, particolarmente complesso per l’intreccio di sentimenti che lo caratterizza: «La parte […] veramente disastrosa della tragedia è quella di Gismonda, parte tutta di lotta interna, di tumulto di affetti contrari, pugnanti in anima ardente, minaccianti ad ogn’ora d’irrompere, ed irrompenti alfine in larghissima vena quando vien meno la forza di contenerli, parte che in chi deve rappresentarla, richiede un cumulo di tante e sì diverse doti, da lasciare molto in sospetto sulla possibilità della cosa. Eppure sgombrate i sospetti che la Bettini è quella, è la Gismonda tale quale ve l’ho disegnata in poche parole, e vedendola agire con quella verità, con quella forza, con quell’altezza che è tutta sua propria, vi parrà che ad essere così grande, essa non vi ponga studio veruno».16 Segue poco dopo la messinscena di Medea di Cesare della Valle, in cui la duttilissima voce si conferma il principale strumento espressivo della Bettini: «È poi bello e forse non inutile notare, come in questa tragedia, in cui la signora Bettini può convenientemente dar sfogo ed abbandonarsi intieramente a tutto l’impeto del suo forte sentire, ella sia appunto più grande, più sublime, più maravigliosa in un punto in cui tutto quell’impeto è fortemente compresso, vale a dire nella scena dell’atto 4°, quando ella manda in dono il fatal cinto alla rivale. Nelle più tenui, nelle più sfumate vibrazioni della sua voce si colorisce allora così mirabilmente la successione dei pensieri e degli affetti da cui è dominata quella donna terribile, vi si legge così chiaramente la gioia feroce della pregustata vicina vendetta, avvicendata col timore che il menomo suo atto od accento troppo risentito possa in quell’istante tradirla e porre inciampo al suo disegno, che tanta verità, a tanta perfezione di esecuzione è forza 15. G. Briano, ‘Iginia d’Asti’, tragedia di Silvio Pellico, «Eridano», i, 15 giugno 1841, 10, pp. 394-397, ora in Rasi, I Comici italiani, cit., vol. i, p. 400. 16. E. Soffietti, Dramaturgia: ragionamento critico, semi-serio e semi-allegorico a proposito della compagnia Reale, del suo repertorio e del presunto suo decadimento, Torino, Ferrero, 1841, p. 23. 232 AMALIA BETTINI sclamare pieni di meraviglia: – Dov’è, dov’è l’attrice pari a questa? O quando mai l’arte saliva tant’alto! – ».17 Non altrettanto riuscita l’interpretazione del personaggio eponimo in Francesca da Rimini di Pellico, tragedia allestita immediatamente dopo, in cui la Bettini non riesce ad interiorizzare perfettamente i sentimenti della protagonista ed è costretta a renderli evidenti in maniera grossolana e poco convincente: «Essa, diciamolo pure, non rese che in parte quel tenue velo di malinconia sparso sulla dolce figura di Francesca […]. Essa, nella tema forse di non essere abbastanza compresa dal pubblico, non si diede troppo studio di comprimere in presenza di Lanciotto l’amorosa cura che la divora, di tal maniera, che se l’amante marito potesse allora vedere altrimenti di quello che gli fa vedere il poeta, non tarderebbe […] a scoprire la fonte di quel misterioso dolore che la consuma. Essa finalmente nella gran scena del suo incontro con Paolo, dell’atto 3°, non si mostrò forse abbastanza compresa di quella mestizia e infrenabile turbamento che vien dall’amore e dalla presenza della persona amata; e la crescente sua agitazione, colorita forse con moti troppo rapidi e spezzati, e tal atto, tal gesto violento della mano, accompagnato da un subito troppo spiccato cambiamento di voce nel punto ch’ella vuol correggere la sfuggitale fatal parola io t’amo, e un contegno poi nell’insieme alcun che troppo sfogato, e risoluto, danno a conoscere come siale passato inosservato il tratto più caratteristico di quella situazione, come cioè Francesca in quel supremo momento che contro ogni sua aspettazione sente di essere riamata dal suo Paolo, dall’uomo che ha tanto adorato in suo segreto, deve sentirsi l’anima innondata di così grande dolcezza, e questo sentimento deve a tutta forza rimanere per quell’ora così fattamente dominante in cuor suo, e da esso devono così fattamente colorirsi ogni pensiero, ogni atto, ogni interiezione anche contraria in quell’istante, da esserle impossibile di dare al suo volto, alla sua azione, alle sue parole anche le più ritrose (che non ve ne sono) una espressione meno che profondamente commossa ed affettuosa. Un’ultima pecca poi in cui parmi sia incorsa la signora Bettini nella rappresentazione di questa tragedia sono le troppo sfoggiate vesti, e ricercato abbigliamento da lei usato, sfoggio e ricercatezza, non al certo gran fatto convenienti all’abituale stato di dolore e di tristezza della sventurata Francesca: e questa pecca ci stupisce tanto più in lei che su questo punto abbiamo sempre trovata dotata di tatto finissimo e della più scrupolosa diligenza».18 Anche nella commedia La donna irrequieta di Alberto Nota, allestita successivamente, Amalia non si mostra all’altezza delle sue potenzialità e non supera il confronto a distanza con la Marchionni, specie nella scena del terzo atto 17. Ivi, p. 25. 18. Ivi, pp. 26-27. 233 DANIELA SARÀ caratterizzata dall’incontro della protagonista con il medico: «È quella una scena tutta di civettismo e di galanteria, in cui la rabbiosa signorina deve come cambiare natura, e farsi così morbida e manosa come la più artifiziata pettegola; scena che fummo già avvezzi a vedere eseguita con troppa perfezione dalla Marchionni per rimanerci ora contenti alla mediocrità appena raggiunta dalla Bettini, cui siffatte situazioni, per un’evidente ripugnanza di carattere, rimarranno sempre le meno accessibili».19 Interpretazione magistrale è invece quella offerta nella Maria Stuarda di Friedrich Schiller, allestita al Carignano dal primo agosto 1841: «Io non posso trovare adeguate parole per esprimere la meraviglia e tutta la serie delle succedentisi commozioni diverse fortissime in me destate da quella grande, patetica e sventurata Stuarda così mirabilmente rediviva nell’azione dignitosa, commossa, agitata, sublime, di quella sorprendente Bettini! La scena dell’atto primo in cui con pacato calore, e con tutta la dignità di un’anima conscia di sua innocenza ribatte l’argomentare maligno del crudele Cecilio; quella divina dell’atto terzo in cui mortalmente provocata, mortalmente si vendica, gittando nel fango in presenza del suo drudo e della sua corte, l’ambiziosa rivale; e finalmente la commoventissima dell’atto quinto, in cui si prepara cristianamente a morire, e move nobilmente rassegnata al supplizio, furono situazioni scolpite con tale e tanta verità, squisitezza e profondità di sentimento, che difficilmente la grande Attrice vi potrà essere agguagliata; superata non mai».20 Ritiratasi prematuramente dalla carriera professionale dopo il matrimonio con Raffaele Minardi (1842), Amalia continua ad esibirsi per beneficenza a Bologna, sua città di residenza, destando ancora l’entusiasmo del pubblico, come attesta una cronaca relativa ad una recita effettuata con gli accademici Concordi i primi di ottobre del 1843: «L’entusiasmo che fece la Bettini in quella sera non è descrivibile; basti dire che il teatro sembrava un giardino di primavera; corone, fiori volavano da tutte le parti: e viva e chiamate alla grande artista e a i suoi bravi compagni, che tutti, facendole bella corona, corrisposero egregiamente coi loro rispettivi talenti, in modo che col recare un sollievo all’indigenza, veniva il Pubblico deliziato di una serata, che resterà mai sempre scolpita nei cuori come memoria della patria carità Bolognese».21 19. Ivi, pp. 28-29. 20. Ivi, p. 46. 21. G. Fiori, Teatri, «Teatri, arti e letteratura», xxi, 7 dicembre 1843, 1035, p. 112. 234 AMALIA BETTINI Scritti/Opere Nel 1835 esce a Milano, presso lo stampatore Visai, l’edizione di una traduzione di Amalia Bettini del Quacquero e la ballerina, commedia in due atti di Eugène Scribe. Fonti, recensioni e studi critici Manoscritti: Richiesta e comunicazioni relative alla scrittura della compagnia drammatica Lucrezia Bettini, 1 agosto 1829, Archivio storico del teatro Regio di Parma, Serie carteggi, 1829, fasc. iv, Rappresentazioni, c. n.n. Richiesta e comunicazioni relative alla scrittura della compagnia drammatica Lucrezia Bettini, giugno 1830, Archivio storico del teatro Regio di Parma, Serie carteggi, 1830, fasc. iv, Rappresentazioni, c. n.n. A stampa: [Senza autore], Cenni teatrali, «Il Corriere delle Dame», 19 gennaio 1828, 3, p. 18. [Senza autore], Notizie epilogate, «Teatri, arti e letteratura», v, 31 gennaio 1828, 195, pp. 187-188. [Senza autore], Teatri comici, «Teatri, arti e letteratura», vi, 27 marzo 1828, 203, pp. 34-35. [Senza autore], Destinazione delle compagnie comiche nei diversi teatri d’Italia pel carnevale del 1830 al 31, «Teatri, arti e letteratura», viii, 2 dicembre 1830, 350, p. 108. E. Scribe, Il quacquero e la ballerina, trad. di A. Bettini, Milano, Visai, 1835. Z.Z., Lettera del Signor Z.Z. ai compilatori della Rivista, «Rivista teatrale. Giornale drammatico, musicale e coreografico», vol. ii, 2 novembre 1835, 11, pp. 4-6. A. Frémy, Artistes étrangers. Amalia Bettini, «Revue de Paris», n.s., to. xxxv, 1836, pp. 204-211. [Senza autore], Biografia teatrale. Amalia Bettini, «Teatri, arti e letteratura», xiv, 19 gennaio 1837, 675, pp. 153-154. [Senza autore], Tributo di ammirazione e di affetto del pubblico cesenate alla signora Amalia Bettini che l’agosto MDCCCXXXIX agiva rappresentazioni sceniche nel teatro comunale di Cesena, Cesena, Tip. Costantino Bisazia, 1839. [F. Regli], Gazzetta teatrale-teatro Valle, «Il pirata», v, 28 febbraio 1840, 70, p. 288. F. Regli, Gazzetta teatrale-teatro Re, «Il pirata», v, 13 marzo 1840, 74, p. 303. A., Teatri, «Il felsineo», i, 24 agosto 1840, 13, p. 108. G. Briano, ‘Iginia d’Asti’, tragedia di Silvio Pellico, «Eridano», i, 15 giugno 1841, 10, pp. 394-397. E. Soffietti, Dramaturgia: ragionamento critico, semi-serio e semi-allegorico a proposito della compagnia Reale, del suo repertorio e del presunto suo decadimento, Torino, Ferrero, 1841. 235 DANIELA SARÀ [Senza autore], Amalia Bettini, «Teatri, arti e letteratura», xx, 17 marzo 1842, 943, pp. 19-20. [Senza autore], Omaggio poetico offerto alla signora Amalia Bettini esimia attrice nella Reale drammatica compagnia piemontese la sera del 8 febbraio 1842 in che prendeva commiato dai torinesi, Torino, Castellazzo, [1842]. G. Fiori, Teatri, «Teatri, arti e letteratura», xxi, 7 dicembre 1843, 1035, pp. 109-112. [Senza autore], O Amalia Bettini-Minardi o prima gloria della drammatica italiana queste poche pagine che i filodrammatici di Bologna […] ti offrono facendoti augurio di lunghi anni […], Bologna, Volpe, [1843]. [Senza autore], Nota delle offerte fatte al municipio di Bologna dal dì 12 aprile al 30 giugno 1848, Bologna, Sassi, 1848. F. Regli, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860, Torino, Dalmazzo, 1860. G. Costetti, I dimenticati vivi della scena italiana, Roma, Stabilimento tipografico della Tribuna, 1886. G. Costetti, La compagnia Reale Sarda e il teatro italiano dal 1821 al 1855, Milano, Kantorowicz, 1893 (rist. anast. Bologna, Forni, 1979). L. Rasi, I Comici italiani. Biografia, Bibliografia, Iconografia, Firenze, Bocca-Lumachi, 1897-1905, 2 voll. G.B. 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Repertorio 1827 Federico II re di Prussia in Slesia di autore non precisato Gli eredi di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue I contrapposti di Benoît Pelletier de Volmeranges I due sergenti di Théodore Baudouin D’Aubigny e Auguste Maillard Il delirante per la speranza di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue Il ministro d’onore di August Wilhelm Iffland Il portafoglio di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue 237 DANIELA SARÀ Il solitario e l’incognito di autore non precisato L’astrologo per ghiottoneria di Giovanni Regli L’autorità paterna di August Wilhelm Iffland La bottega del caffè di Carlo Goldoni La scuola dei vecchi di Casimir-Jean-François Delavigne Le avventure della villeggiatura di Carlo Goldoni Le smanie per la villeggiatura di Carlo Goldoni Pamela maritata di Carlo Goldoni Pamela nubile di Carlo Goldoni Saul Warington di Camillo Federici [pseudonimo di Giovan Battista Viassolo] Una lettera da Cadice di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue 1833 I pericoli della lontananza di Augustin Eugène Scribe 1835 Agnese di autore non precisato È pazza di Mélesville [pseudonimo di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier] Estella, ovvero Il padre e la figlia di Augustin Eugène Scribe Gl’innamorati di Carlo Goldoni I tristi effetti di un tardo ravvedimento di Jean-François-Alfred Bayard Il casino di campagna di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue La fedeltà alla prova di August Heinrich Julius Lafontaine La lettrice di Jean-François-Alfred Bayard Malvina overo Il matrimonio d’inclinazione di Augustin Eugène Scribe Sedici anni or sono di Victor-Henri-Joseph-Brahain Ducange 1840 Alexina ossia Costanza rara di Alberto Nota Beatrice di Tenda di Felice Turotti I pazzi per progetto di Giovan Carlo Cosenza Un duello ai tempi di Richelieu di Edmond Badon e Lockroy [pseudonimo di JosephPhilippe Simon] Un vagabondo e la sua famiglia di Francesco Augusto Bon Ventinove anni di Louis-Armand-Théodore e Louis-Charles-Achille D’Artois de Bournonville 1841 Alexina ossia Costanza rara di Alberto Nota Francesca da Rimini di Silvio Pellico Gismonda da Mendrisio di Silvio Pellico Iginia di Asti di Silvio Pellico Il viaggio di una donna di spirito di Giacomo Bonfio 238 AMALIA BETTINI La donna irrequieta di Alberto Nota La famiglia di Riquebourg di Augustin Eugène Scribe Lazzaro il mandriano di Joseph Bouchardy Malvina overo Il matrimonio d’inclinazione di Augustin Eugène Scribe Maria Stuarda di Friedrich Schiller Medea di Cesare della Valle Oreste di Vittorio Alfieri Ottavia di Vittorio Alfieri Pia de’ Tolomei di Carlo Marenco Un vagabondo e la sua famiglia di Francesco Augusto Bon 239 Emanuela Agostini ANTONIETTA ROBOTTI (Como, novembre 1817-Bologna, 29 agosto 1864) Sintesi Tra le maggiori prime attrici del XIX secolo, recita per un biennio nella compagnia Ducale di Parma (1839-1842) e per un intero decennio (1842-1853) nella Reale Sarda. Dal 1853, con il marito Luigi, fonda e dirige formazioni proprie. Biografia Antonietta Rocchi nasce a Como da Giuseppe e Giuseppina Cesartelli nel 1817. Questa data, riportata da Luigi Rasi, contrasta con quella indicata nelle memorie di Antonio Colomberti (1812), ma è invece confermata dal permesso di sepoltura dell’attrice1 in cui si legge che al momento del decesso, nel 1864, aveva quarantasette anni. I coniugi Rocchi sono definiti da Colomberti «poverissimi»; analoga considerazione è formulata anche da Baldassarre Lambertenghi nel suo articolo su Antonietta Robotti apparso in «Strenna teatrale europea»:2 forse proprio a causa delle loro difficoltà economiche affidano la figlia Antonietta, «quasi ancor bambina»,3 alle cure di una famiglia di comici, i Torondelli,4 che la avviano alla professione teatrale. È nella loro compagnia che Antonietta svolge il suo apprendistato, confrontandosi presumibilmente con un repertorio che alterna rappresentazioni 1. Archivio storico comunale di Bologna, Comune, Permesso di seppellimento, lettera S, n. 512, 1864. 2. vii, 1844, p. 63. 3. Ivi, p. 64. 4. Torandelli secondo l’Enciclopedia dello spettacolo, Tarandelli secondo quanto riportato da G. Cauda, A velario aperto e chiuso. Figure, tipi, impressioni, confronti, aneddoti, indiscretezze, liete promesse, Chieri, Astesano, 1920, p. 36. DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 241-262 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18375 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. EMANUELA AGOSTINI drammatiche, farse in musica e balletti giocosi. Grazie al suo talento si mette ben presto in luce e, identificata dal pubblico come ‘la Giovane Torondelli’, è considerata uno degli elementi più validi della compagnia. Tra i suoi primi successi i repertori ricordano le farse Il pitocchetto e Giovannina dai bei cavalli (ovvero L’eredità o Giovannina dai bei cavalli e dalla bella carrozza di August von Kotzebue). A imprimere una svolta alla sua vita e alla sua carriera giunge nel 1836 il matrimonio con l’attore Luigi Robotti con cui ottiene una scrittura, nel ruolo di prima attrice giovane, nella prestigiosa compagnia Reale Sarda. La critica saluta con entusiasmo il suo debutto augurandole di emulare l’esempio della principale attrazione della troupe, Carlotta Marchionni: «Di una novella attrice fece intanto acquisto la compagnia Reale. Essa è la signora Antonietta Robotti, che si produsse la prima volta, con fortunatissimo successo, nella commedia di Ancelot intitolata: Un anno. Io offro ben volentieri un tributo di lode a questa giovane attrice che per molti riguardi fa ben presagire di se [sic!]; e quando il suo metodo sarà del tutto conforme a quello dei suoi compagni, e quando, alla scuola della Marchionni, avrà imparato che tanto l’arte è più perfetta quanto più s’accosta alla natura, avrà sempre maggior diritto di suffragio dalla platea».5 Nei mesi successivi l’attrice non delude le aspettative del pubblico. Nello stesso anno comico si segnala in particolare nella Pia de’ Tolomei di Carlo Marenco in cui recita nella «parte della contadina della Maremma» suscitando «al quint’atto […] applausi e ammirazione».6 L’attrice viene pertanto confermata prima attrice giovane al fianco di Carlotta Marchionni anche per la stagione successiva, mentre per il 1838-1839 potrebbe essere stata addirittura promossa al ruolo di prima attrice a vicenda con la Marchionni, come si deduce dall’elenco della compagnia risalente al novembre 1838 del diario del teatro Ducale di Parma.7 Al termine di questa seconda stagione la militanza nella Reale Sarda si conclude. Secondo quanto riportato da Costetti la fuoriuscita della Robotti e del marito dalle fila della compagnia sarebbe dovuta alle incomprensioni nate tra l’attrice e Adelaide Ristori che, scritturata nel 1837-1838 come amorosa ingenua, aveva finito per erodere il repertorio della prima attrice giovane: 5. L’articolo a firma di Angelo Brofferio, apparso su «Il messaggiere» del 9 aprile 1836, è ora in Cauda, A velario aperto e chiuso, cit., p. 39. 6. G. Costetti, La compagnia Reale Sarda e il teatro italiano dal 1821 al 1855, Milano, Kantorowicz, 1893, p. 111. 7. Cfr. l’elenco della compagnia del novembre 1838, in A. Stocchi, Diario del teatro Ducale di Parma dal 1829 a tutto il 1840 compilato dal portiere al palco scenico Alessandro Stocchi, Parma, Rossi Ubaldi, 1841. 242 ANTONIETTA ROBOTTI «La Robotti e la Ristori non potevano a lungo, giovani, belle, e valorose, rimanere insieme nello stesso ruolo. La Ristori vinse, e la Robotti uscì col marito il quale fu surrogato, nelle parti amorose di seconda fila, da Giampaolo Calloud».8 La interpretazione del Costetti, fondata sulla documentata certezza della rivalità tra le due attrici, rilegge anacronisticamente gli episodi in questione alla luce di un primato ristoriano che si sarebbe manifestato solo in seguito. L’uscita della Robotti dalla compagnia potrebbe essere infatti più esattamente spiegata dalla prospettiva di divenire prima attrice di un’altra importante formazione, la Ducale di Parma al servizio dell’arciduchessa di Modena Maria Luisa e diretta da Romualdo Mascherpa. Ulteriore indizio a conferma di questa interpretazione dei fatti è la permanenza di Adelaide Ristori nella Reale Sarda in un ruolo subordinato a quello di prima attrice anche quando, dopo il ritiro della Marchionni nel 1840, le viene preferita Amalia Bettini. Grazie al passaggio alla Ducale di Parma, nel 1839 Antonietta Rocchi Robotti raggiunge l’apice della gerarchia dei ruoli femminili. Reciterà nella troupe guidata da Mascherpa fino al 1842 confermando le sue ottime qualità: «La signora Antonietta Robotti, prima attrice, ed il signor Giacomo Landozzi da Siena, primo attore, sono meritatamente acclamati eccellenti nell’arte che professano con tanto amore; imperciocché ogni parte, sia di passione, di gelosia, o di furore viene da essi sostenuta con somma verità e bravura».9 Anche Antonio Colomberti, primo attore della Ducale dal 1840, esterna la sua approvazione verso il capocomico Mascherpa per la fiducia riposta nella Robotti: «non poteva far scelta migliore dell’Antonietta Robotti, allora nel fiore dell’età, bella e di merito assai distinto».10 La stessa fonte riferisce invece che Luigi Robotti, che aveva seguito la moglie scritturato come primo amoroso, nonostante l’intelligenza, per il suo non gradevole aspetto è costretto a ripiegare verso parti da generico: la ricchezza dei coniugi Robotti è tutta nel talento di Antonietta che il marito si prende cura di amministrare. Il 4 luglio 1840, ad esempio, mentre è a Verona, Luigi Robotti scrive soddisfatto a Gaetano Bazzi direttore della Reale Sarda: «Mascherpa fa bene i suoi interessi in Verona come in Vicenza; la Compagnia garba assai e l’Antonietta ogni giorno più viene ammirata da questo pubblico».11 8. Ivi, p. 119. 9. G. Romani, Cronaca teatrale-Lucca, «Glissons, n’appuyons pas», vi, 15 maggio 1839, 39, pp. 155-156, che riporta una lettera del 5 maggio. 10. A. Colomberti, Memorie di un artista drammatico, testo, introd., cronologia e note a cura di A. Bentoglio, Roma, Bulzoni, 2004, p. 521. 11. Il brano della lettera, conservata presso la Biblioteca del Burcardo di Roma, si legge ora ivi, p. 523 n. 243 EMANUELA AGOSTINI Proprio Gaetano Bazzi, nel 1842, richiama i coniugi Robotti nella compagnia Reale Sarda, dove Antonietta sostituisce Amalia Bettini. Quest’ultima, convolata a nozze, abbandona infatti la professione. Primo attore del gruppo è ancora Giovanni Battista Gottardi, mentre tra gli elementi femminili ‘storici’ la Reale Sarda continua ad annoverare la servetta Rosina Romagnoli da molti considerata «l’unica celebrità rimasta a questa drammatica truppa».12 A questa altezza cronologica Antonietta Robotti non è dunque considerata una ‘celebrità’, ma è senza dubbio una prima attrice nel pieno delle sue forze che sa raccogliere consensi ovunque la compagnia si presenti. Tra gli aneddoti tramandati dalle fonti favorevoli all’attrice per testimoniare il suo carisma emerge quello relativo all’invaghimento da lei suscitato in Giuseppe Peracchi durante il passaggio della Reale Sarda da Parma intorno al 1843. L’ingresso in Arte di Peracchi, al tempo giovane laureato in medicina e attore dilettante in una filodrammatica, viene infatti attribuito al fascino della prima attrice, per la quale avrebbe abbandonato una più certa carriera proponendosi come amoroso senza paga. Nel 1849, alla morte del primo attore Gottardi, sarebbe stato proprio Peracchi a sostituirlo divenendo uno dei partner di scena prediletti dalla Robotti. Più chiara prova dell’apprezzamento di Antonietta Robotti nella Reale Sarda è la durata della sua militanza nella compagnia. L’attrice, confermata nel ruolo primario anche quando nel 1843 Domenico Righetti si avvicenda a Gaetano Bazzi, mantiene questa posizione per un intero decennio, fino al 1853, anno in cui sarebbe stata infine scalzata da Adelaide Ristori. Tra i numerosi spettacoli allestiti dalla Robotti durante il lungo periodo di attività con la Reale Sarda svetta, per rinomanza dell’autore molto più che per l’efficacia scenica del testo, la prima rappresentazione dell’Adelchi di Alessandro Manzoni nel 1843. In questa occasione la Robotti esprime «i dolori di Ermengarda col più profondo sentimento di una pia che muore e perdona», ma la sua interpretazione non riesce comunque a salvare una scena che, per «quante bellezze di stile [vi] si trovino», è considerata «talmente disgiunta dal dramma» da compromettere irrimediabilmente «l’unità di azione», e provoca pertanto il malcontento della platea: «ad onta di quanto fece la Robotti, a cui non mancò qualche applauso, questa scena irritò tanto il pubblico».13 A causa dell’esito infausto della rappresentazione la tragedia manzoniana non rimane nel repertorio né della Reale Sarda né dell’attrice. Una vasta eco ha 12. Teatro Re, «Strenna teatrale europea», vi, 1843, p. 191. 13. A. Brofferio, ‘Adelchi’, tragedia di A. Manzoni, «Il messaggiere torinese», 20 maggio 1843, ora in A. Manzoni, Le tragedie, a cura di G. Tellini, Roma, Salerno editrice, 1996, pp. 1015 e 1017. 244 ANTONIETTA ROBOTTI invece, nel 1846, il Fornaretto di Francesco Dell’Ongaro. Il testo, che pone al centro della vicenda il tema della pena di morte, è portato al successo dagli attori della compagnia Reale Sarda, tra cui, nella parte di Clemenza, un’efficace Antonietta Robotti. Sul fronte interno della compagnia l’affermazione della Robotti ha come contropartita la progressiva emarginazione della più anziana collega Rosa Romagnoli, servetta che, come già ricordato, al momento dell’ingresso della Robotti nella formazione ne era tra i principali elementi di pregio. Il declino della servetta, certo dovuto a ovvie considerazioni anagrafiche, è probabilmente alimentato dalla concorrenza della prima attrice. Si veda ad esempio la tensione scaturita attorno alla commedia tradotta dal francese La contessa della botte: «La parte di protagonista di questo lavoro era sempre stata eseguita con molto successo dalla signora Rosa Romagnoli, servetta, alla quale spettava per diritto. Un bel giorno la Robotti, per la quale gli applausi tributati alla Romagnoli erano altrettante pugnalate, insorse e pretese che quella parte spettava a lei e per conseguenza intendeva assumerla. Righetti non seppe fare di meglio, che rivolgersi alla Direzione e chiederle la facoltà di togliere dal repertorio la produzione».14 Quando la direzione della compagnia, con il parere di Massimo d’Azeglio, assegna la parte alla Romagnoli, la commedia è di fatto espunta dal repertorio della troupe. «La Romagnoli poi finì per essere lasciata del tutto in disparte e a non fare più che rade apparizioni sulla scena».15 Anno dopo anno, Antonietta Robotti diviene una delle beniamine del pubblico. Trentenne è ormai indicata quale modello alle più giovani artiste: «La Sado[w]ski deve tendere alla celebrità della Ristori, della Robotti, della [Carolina] Santoni, e mercè dello studio innalzarsi a pareggio della triade invitta».16 Il primato della Robotti sulla scena italiana, già condiviso con altre interpreti, è però destinato a bruciarsi nel giro di pochi anni, anche in relazione alla prepotente ascesa delle attrici della generazione successiva, tra cui la stessa Fanny Sadowsky e soprattutto Adelaide Ristori. Il primo segno della supremazia di quest’ultima è il suo avvicendamento alla Robotti nel ruolo di prima donna della Reale Sarda nel 1853, avvenuto, tra l’altro, con un contratto a lei estremamente favorevole. Secondo quanto raccontato da Ernesto Rossi nella sua autobiografia, Francesco Righetti, direttore della compagnia, era stato costretto a prendere questa decisione perché Antonietta Robotti non era più adatta alle parti giovanili e si era rifiutata 14. S. Cordero di Pamparato, Teatri e censura in Piemonte nel Risorgimento italiano (18491861), «Il Risorgimento italiano», vol. xiv, gennaio-giugno 1941, 26-27, p. 137. 15. Ivi, p. 138. 16. Relazione sulla compagnia Lombarda all’Apollo di Venezia nella primavera 1846, «Il caffè Pedrocchi», i, 21 giugno 1846, p. 200. 245 EMANUELA AGOSTINI di farsi affiancare da un’altra interprete: «Nell’anno 52 la Robotti non era più giovane, e già si tentava dal direttore della compagnia di metterle al fianco un’altra prima attrice, desiderando, che ella passasse a fare le parti di donna matura, lasciando ad un’altra più giovane di lei quelle di amorosa giovane».17 Stando sempre al racconto di Rossi (forse incline a enfatizzare il buon carattere della Robotti anche per contrapporlo a quello di Adelaide Ristori) nella decisione ultima avrebbe avuto un non piccolo ruolo l’opinione di Luigi Robotti: «La Robotti, poco superba, e forse conscia dello stato suo, stava per cedere: ma sorse il marito, attore nullo, uomo alquanto istruito, ma cocciuto quanto orgoglioso, rispose di no: non valsero istanze, ragioni e preghiere d’amici: il suo no fu più ostinato di quello d’un mulo».18 Ancora alla penna di Ernesto Rossi si deve la descrizione della recita con cui, al teatro Carignano di Torino, Antonietta Robotti, insieme a Cesare Dondini, a Giuseppe Peracchi e ai rispettivi nuclei familiari, si congeda dalla compagnia di cui aveva fatto parte tanto a lungo: «Fu una scena commuoventissima! pareva un distacco di amico da amico, un abbandono di padre dal figlio, di fratello dal fratello. Non è una esagerazione, se io ti dico, che le lagrime scorrevano in copia, non solo dagli occhi delle belle signore e signorine, ma anche da quelli meno sensibili degli uomini e dei giovinotti. […] l’addio alla Robotti fu commuovente: commovente fu quello pure al Dondini: dignitoso e cortese al Peracchi. Se comuovente e sensibile fu per il pubblico, non meno sentito lo ebbero dalla compagnia. Non erano soltanto artisti che si allontanavano: ma amici e fratelli, i quali avevano vissuto insieme tanti anni, diviso glorie e onori, vittorie e disfatte, piaceri, gioie e disgusti: infine erano due famiglie che si distaccavano; e in mezzo agli abbracci, ai baci, alle lagrime, agli auguri di prosperità, ogni tanto usciva la parola proprio ad hoc e ad hominem: asinaccio! cocciuto! presuntuoso! ignorante! – la quale andava diritto diritto a qualificare il marito della signora Robotti. I mariti delle prime donne non sono niente migliori dei padri e delle madri. La loro legittimità, più o meno legittima, è adoperata sempre nel senso di un esagerato e falso amor proprio».19 La fermezza di Luigi Robotti si nutre della speranza di ricavare un maggiore introito da una compagnia propria costruita su base familiare: una volta archiviata l’esperienza della Reale Sarda Robotti si associa infatti al genero Gaetano Vestri, marito della figlia Luigia dal 1851.20 Pare dunque inesat17. E. Rossi, Quarant’anni di vita artistica, con proemio di A. De Gubernatis, Firenze, Niccolai, 1887-1889, vol. i, p. 66. 18. Ivi, p. 67. 19. Ivi, pp. 77-78. 20. Cfr. T. Assennato, Vestri, Luigi, in amati.fupress.net/S100?idattore=605 (data di pubblicazione su web: 12 gennaio 2009). 246 ANTONIETTA ROBOTTI to quanto riportato da Colomberti secondo il quale Robotti avrebbe fondato una compagnia propria, per poi associarsi con Vestri dal 1854. Antonietta è il «principale ornamento» della formazione,21 Luigia recita come prima attrice giovane, ma è proprio Gaetano Vestri, figlio del celebre Luigi, che negli anni di collaborazione con i Robotti raggiunge i massimi livelli della sua carriera. Allo stato attuale le informazioni sull’attività della Robotti-Vestri sono troppo esigue per poterne tracciare un bilancio complessivo. Meritevole di un approfondimento sarebbe anche il contributo della Robotti alla direzione del complesso. Dagli scambi epistolari con i drammaturghi (ad esempio Giovan Battista Niccolini) si presume che sul versante della produzione artistica la Robotti avesse una funzione primaria. Alcune fonti secondarie (come i profili biografici di Nardo Leonelli e Luigi Possenti) ricordano inoltre che Antonietta Robotti «ebbe sviluppato lo spirito affaristico che ne fece un’ottima capocomica».22 Al 1856 risale una serie di episodi che mette nuovamente faccia a faccia Antonietta Robotti e Adelaide Ristori. Alla fine di maggio, infatti, la Robotti allestisce per prima a Torino la Medea di Ernest Legouvé pur sapendo che Adelaide Ristori ne aveva acquistato i diritti di rappresentazione. Lo spettacolo raccoglie applausi, sebbene Cesare Ricci, in una lettera del 25 maggio indirizzata a Giuliano Capranica, giudichi la Robotti incapace di «portarsi all’altezza di quelle terribili passioni» e definisca i suoi compagni di scena dei «cani».23 Il contenzioso finisce in tribunale, sede nella quale i Robotti sono difesi dal figlio di Angelo Brofferio, e si conclude con la loro condanna al pagamento di un’indennità. Le prospettive di guadagno dagli incassi degli spettacoli non li fanno però desistere da continuare a mettere in scena il testo. Anche una successiva rappresentazione a Bologna si conclude con una citazione a comparire in giudizio, ma stavolta il verdetto è sfavorevole ad Adelaide Ristori. Piazza teatrale dopo piazza teatrale la ‘tattica’ adottata dalla Robotti finisce per costringere la Ristori ad astenersi dal riproporre Medea in diverse città. A Verona, ad esempio, la Ristori non rappresenta questo testo. In una lettera al traduttore Giuseppe Montanelli, motiva la sua scelta spiegando che le era stato sconsigliato di farlo «per la pessima impressione che quella rapacissima Robotti vi aveva prodotto».24 21. F. Regli, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860, Torino, Dalmazzo, 1860, p. 451. 22. N. Leonelli, Attori tragici, attori comici, Roma, Tosi, 1940-1944, vol. ii, p. 282. 23. Cfr. T. Viziano, Il palcoscenico di Adelaide Ristori. Repertorio, scenario e costumi di una compagnia drammatica dell’Ottocento, presentazione di A. d’Amico, Roma, Bulzoni, 2000, p. 143. 24. Ibid.: Adelaide Ristori a Giuseppe Montanelli, Verona, 24 settembre 1858. 247 EMANUELA AGOSTINI Secondo i principali repertori, in conseguenza dell’uscita dalla compagnia di Gaetano Vestri e sua moglie Luigia, nel 1859 la Robotti «riformò […] la propria compagnia»25 fondando la compagnia Nazionale Subalpina. Uno spoglio analitico delle fonti documentarie (tutt’ora in corso) porta a pensare che il titolo di compagnia Nazionale Subalbina fosse già attribuito alla troupe dei Robotti almeno fin dal 1857. Il 1859 è in ogni caso un anno decisivo perché l’allontanamento di Gaetano Vestri impone ai Robotti un notevole sforzo di riorganizzazione del loro ensemble. L’esito di questa operazione è infausto. Secondo Ernesto Rossi concorrono a determinarlo le responsabilità del capocomico: «cattiva direzione, cattiva amministrazione mandarono tutto a rotoli».26 Ma a questa altezza cronologica è la stessa stella di Antonietta Robotti ad essere ormai in definitivo declino, anche a causa di gravi problemi di salute. Nel 1862 un attacco di artrite costringe l’attrice a letto per tre mesi come si evince da una lettera del marito inviata da Ferrara, in aprile, all’amico Francesco Righetti: «Antonietta è sempre stata in condizione da non poterle parlare d’affari; oggi […] grazie a Dio, dopo 107 giorni d’infermità va meglio».27 L’attrice non si riprenderà mai del tutto e due anni dopo, nel 1864, muore a Bologna. Ernesto Rossi ricorda così il suo decesso: «la povera Robotti finì la sua esistenza in Bologna nella miseria e nel dolore per l’abbandono di tutti coloro che un dì la salutarono e la corteggiarono quale principessa della scena».28 Viene sepolta nel cimitero della Certosa di Bologna dove il marito avrebbe poi fatto affiggere una lapide in sua memoria (poi trascritta da Rasi): «Antonietta Rocchi, moglie a L. Robotti / salutata nell’arte di Roscio maestra / non superba / nei trionfi, / nelle dovizie nei plausi / non pavida / in casi avversi e malattie dolorose / pronta / a soccorrere i miseri, a giovare i congiunti / in Dio fidata / lo invocando spirò – La sola amicizia fedele / in vita ed in morte / murò il sepolcro a custodire le ceneri / di / Antonietta / ed il suo nome il marmo incideva. – N. in Como A. MDCCC XVII M. in Bologna A. MDCCC LXIV». Famiglia Le informazioni sulla famiglia d’origine di Antonietta Robotti sono esigue: così come si evince dal permesso di sepoltura29 l’attrice nacque nel 1817 a Co25. Leonelli, Attori tragici, attori comici, cit., vol. ii, p. 281. 26. Rossi, Quarant’anni di vita artistica, cit., vol. i, p. 67. 27. In L. Rasi, I Comici italiani. Biografia, Bibliografia, Iconografia, Firenze, Bocca-Lumachi, 1897-1905, vol. ii, p. 385. 28. Rossi, Quarant’anni di vita artistica, cit., vol. i, p. 67. 29. Rivedi n. 1. 248 ANTONIETTA ROBOTTI mo da Giuseppe Rocchi e Giuseppina Cesartelli che Baldassarre Lambertenghi definisce «onesti e civili parenti, ma non favoriti dal sorriso della fortuna».30 Ugualmente misteriosa è, ad oggi, l’identità dei comici Torandelli31 a cui Antonietta viene affidata «quasi ancor bambina»32 e che per primi la avviano alla professione teatrale. Non è chiarita neanche l’eventuale relazione tra questi comici, l’attore Giuseppe Torandelli (o Torondelli) scritturato nella compagnia Battaglia per il 1788-1789 e come generico nella compagnia Moncalvo nell’autunno 1823 e Luigia Torandelli, prima attrice nel 1820-1821 e madre nobile nel 1821-1823 nella formazione diretta da Giuseppe Moncalvo. Figura decisiva tanto per la vita quanto per il percorso professionale di Antonietta Robotti è il marito Luigi che nel 1836, quando la coppia è scritturata nella compagnia Reale Sarda, ha già alle spalle alcuni anni di attività professionale, avendo militato nel 1829-1830 nella compagnia di Lucrezia Bettini, nel dicembre 1831 nella compagnia di Ciarli-Fiaschetti, e dal 1832 proprio nella compagnia di Moncalvo in cui erano presenti anche alcuni membri della famiglia Torandelli. La coppia ha almeno due figli: Luigia e Federico. La prima è destinata dai genitori al teatro: recita infatti al loro fianco con continuità fin dalla più tenera età interpretando inizialmente parti ingenue, per poi passare al ruolo di amorosa e quindi a quello di prima attrice giovane. Sposata intorno al 1851 con l’attore Gaetano Vestri (1825-1862), primogenito del celeberrimo Luigi (1781-1841), Luigia Robotti è a sua volta madre di Laura, ottima madre e caratteristica del secondo Ottocento, morta nel 1905. Più incerte le notizie riguardanti Federico Robotti: nel 1841-1842 è scritturato nella Ducale di Parma per le parti ingenue (come la sorella) e nel 18421843 come generico nella Reale Sarda. Per quanto la ricerca documentaria sia ancora lacunosa, l’assenza del suo nominativo negli elenchi delle compagnie in cui i suoi familiari sono scritturati successivamente potrebbe essere il segno di una sua diversa destinazione. Il legame con l’attività familiare è però saltuariamente testimoniato anche in seguito: nel 1854 Federico è autore di una pièce messa in scena dalla compagnia Robotti-Vestri. Le speranze per il suo avvenire si infrangono però tragicamente a causa della morte che lo coglie prematuramente proprio intorno a quell’anno. Una nipote di Antonietta Robotti, Giuseppina Rocchi, sposa nel 1856 Cesare Rossi (1829-1898), notevole caratterista, promiscuo e capocomico. 30. Lambertenghi, Antonietta Robotti, cit., p. 63. 31. O Torondelli, o ancora Tarandelli secondo quanto riportato da Cauda, A velario aperto e chiuso, cit., p. 36. 32. Lambertenghi, Antonietta Robotti, cit., p. 64. 249 EMANUELA AGOSTINI Formazione Secondo i repertori Antonietta Robotti sarebbe entrata in Arte grazie ai comici Torondelli a cui viene affidata da ragazzina. Il suo apprendistato si sarebbe dunque consumato sul campo, all’interno di una compagnia di infimo ordine contraddistinta da un repertorio composito (rappresentazioni drammatiche, farse in musica e balletti giocosi). I suoi primi successi sarebbero stati le farse Il pitocchetto e Giovannina dai bei cavalli (ovvero L’eredità o Giovannina dai bei cavalli e dalla bella carrozza di August von Kotzebue). Una funzione formativa ha anche la sua prima permanenza nella compagnia Reale Sarda. Per un intero triennio comico (1836-1839) Antonietta Robotti lavora infatti al fianco della celebrata prima attrice Carlotta Marchionni di cui ha modo di studiare metodi e tecniche. Le ricadute di questa esperienza sulla qualità della sua recitazione richiedono però ancora una sistematica valutazione. Interpretazione/Stile Antonietta Robotti, oggi pressoché sconosciuta, intorno agli anni Quaranta dell’Ottocento era una delle beniamine del pubblico teatrale italiano. Restituisce la misura del consenso da lei ricevuto la sua permanenza nel massimo ruolo femminile in compagnie di eccezionale prestigio come la compagnia Ducale di Parma (dal 1839 al 1842) e la Reale Sarda (dal 1842 al 1853). Le ragioni dell’attuale noncuranza verso la sua personalità, condivisa anche da una parte dei repertori e della bibliografia dedicata alle attrici ottocentesche, sta nella collocazione della sua esperienza artistica in una posizione mediana tra l’astro di Carlotta Marchionni, ritiratasi dalle scene nel 1840, e l’incontenibile ascesa di Adelaide Ristori alla metà del secolo. Schiacciata tra questi due modelli attorici Antonietta Robotti non riesce a consolidare nel tempo la preminenza sulla scena teatrale guadagnata al momento del ritiro della Marchionni e, pur inizialmente contrastando una Ristori ancora emergente, è presto destinata a essere superata. Le fonti di più immediato reperimento, i repertori e l’esigua bibliografia inerente la Robotti non sono molto generosi nel descrivere le qualità su cui si fondava il suo fascino, mentre sono inclini a soffermarsi sulla parabola discendente della sua carriera artistica. La causa della sua decadenza è identificata nel prematuro invecchiamento che avrebbe presto reso preferibile per lei la scelta di parti di donne mature: «Come d’altra parte non avvertire la signora Robotti che ormai la scuola nella quale essa è stata uno dei luminari è decaduta: come non avvertirla, brutta verità per tutti e specialmente per 250 ANTONIETTA ROBOTTI una donna, che vi sono delle parti che non possono sostenersi che nel fiore della gioventù?».33 L’inadeguatezza della Robotti non era solo fisica: ad essere datata era soprattutto la qualità della sua recitazione. Molto interessante è, a questo proposito, la testimonianza di Ernesto Rossi che con lei aveva recitato nella Reale Sarda. Nella sua autobiografia l’attore rileva la profondità del rapporto costruito dall’interprete con il suo pubblico, tanto da ritenere rischiosa la sua sostituzione nella compagnia, ma non si esime dal notare che la sua recitazione non si accordava al gusto più aggiornato: «L’osso duro, il chiodo, che bisognava cacciare dentro, era la Robotti. Troppe cose si erano unite insieme per stabilire una corrente simpatica fra il pubblico e lei, per poterla rompere ex abrupto; la sua bontà come donna, la sua condiscendenza, la sua onestà, e sia pur detto ad onore del vero, la sua non comune abilità artistica. Il pubblico, in generale, abituato, non vedeva più i difetti, o, se li vedeva, li copriva con tutte le altre qualità. Però da molti era riconosciuto, che la Robotti non era più giovine, che a lei più non si attanagliavano le parti giovanili, tenere ed amorose, che il suo metodo era alquanto antiquato. Di questi difetti il pubblico si era accorto, dopo aver veduto altre compagnie quali, per esempio: quella della Battaglia diretta da F[rancesco] A[ugusto] Bon, ove le prime donne erano la Sadowsky e l’Arrivabene, allieve entrambe di Gustavo Modena: e le compagnie francesi, che già da qualche tempo si alternavano al teatro D’Angennes. Quella del Dubigny prima, poi quelle di Adler-Perrichon e Meynadier: nelle quali era sempre una prima donna di qualche merito. Anche la Rachel era scesa in Italia nel 1851».34 Anche la drammaturgia più congeniale all’attrice è indicativa della distanza di Antonietta Robotti dalle attrici più giovani tra le quali svetta, oltre ad Adelaide Ristori, Fanny Sadowsky. Mentre queste ultime si distinguono nel dramma romantico, Antonietta Robotti continua ad eccellere in un repertorio uniformato ai canoni estetici e interpretativi della precedente generazione: «Piacque più nel classico che nel romantico o drammatico […]. Ed era giusto: – Pel genere classico il pubblico più non ricordava la Internari, la Pelzet, la Pellandi, la Marchionni per il romantico e il drammatico, – vivevano però la Ristori e la Sadowski che erano somme entrambe, la prima nella Maria Stuarda, la seconda nella Adriana».35 L’elenco dei cavalli di battaglia della Robotti è in verità eterogeneo e ben evidenzia come Antonietta Robotti sia stata l’interprete della transizione del 33. Leopoldo Br., Teatro del Cocomero, «Lo Scaramuccia», i, 16 dicembre 1853, 14, pp. n.n. 34. Rossi, Quarant’anni di vita artistica, cit., vol. i, p. 80. 35. Ibid. 251 EMANUELA AGOSTINI teatro dalla stagione classicista verso il romanticismo: da una parte l’attrice eredita il repertorio di Carlotta Marchionni e lo aggiorna con titoli nuovi ma affini per gusto, dall’altro si dirige verso novità che condivide con la Ristori e la Sadowsky. Fanno così parte del suo repertorio le tragedie Maria Stuarda di Friedrich Schiller, Francesca da Rimini di Silvio Pellico, Pia de’ Tolomei di Carlo Marenco, Parisina di Antonio Somma, Mirra di Vittorio Alfieri, Antonio Foscarini di Giovanni Battista Niccolini, Giulietta e Romeo di Cesare Della Valle, i drammi Dopo sedici anni e Il testamento di una povera donna di Victor Ducange, La madamigella di Belle-Isle di Alexandre Dumas e Cuore ed arte di Leone Fortis, le commedie Le gelosie di Zelinda e Lindoro, Gl’innamorati e La vedova scaltra di Carlo Goldoni, La suonatrice d’arpa di David Chiossone, La calunnia di Eugène Scribe, Un vagabondo e la sua famiglia e L’addio alle scene di Francesco Augusto Bon, L’odio ereditario di Giovanni Carlo Cosenza, La marchesa di Senneterre di Mélesville e Charles Duveyrier e infine Goldoni e le sue sedici commedie nuove di Paolo Ferrari. Secondo la prassi corrente per le prime attrici dell’epoca, anche Antonietta Robotti si cimenta in tutti i generi. Per Ernesto Rossi «nella commedia era mediocre», mentre «nel dramma e nella tragedia interpretava bene, ma eseguiva un poco esageratamente».36 Un pensiero contrastante sembra essere espresso da almeno un’altra testimonianza risalente al 1854: «La Robotti è un nome ormai popolare in Piemonte, è un nome ormai sinonimo di attrice eccellente. È ella migliore della Ristori? […] Solo diremo schiettamente che nelle tragedie ameremmo meglio udir la Ristori, nelle commedie la Robotti».37 L’assegnazione di un primato della Robotti nella commedia potrebbe però spiegarsi in questo caso con il ricorso da parte dell’autore dell’articolo ad una formula giornalistica che limava la disparità tra le due artiste in un momento in cui la supremazia ristoriana nel genere prediletto, quello tragico, doveva essere ormai evidente. Solo una decina di anni prima, nel 1843, la questione era affrontata in questi termini: «a coloro che mi domandano quale è la migliore artista attuale italiana per la commedia alla Scribe e pel dramma alla Dumas, risponderò: la Robotti e la Ristori: l’attrice sentimento, se si può dire, l’attrice soavità. E per la commedia alla Goldoni ed alla Bon? La Romagnoli e la Landozzi comica colta e brillante. Che se fossi richiesto della miglior interprete della tragedia di Schiller e d’Alfieri, direi ancora la Robotti e la Santoni».38 Anche secondo questa fonte, dunque, la Robotti avrebbe dato il meglio di sé sopratutto nel dramma e nella tragedia. 36. Ivi, p. 65. 37. E. Liveriero, Rivista teatrale, «Rivista contemporanea», ii, 1854, vol. ii, p. 642. 38. G.S.A., Dell’arte comica in Italia e di Gustavo Modena, «Rivista europea», n.s., i, secondo trimestre 1843, pp. 111-112. 252 ANTONIETTA ROBOTTI Per quanto riguarda la qualità della sua recitazione si può immaginare che, così come il repertorio, si collocasse in una posizione intermedia tra la purezza della Marchionni e la ‘passionale monumentalità’ ristoriana. Questa lettura potrebbe forse spiegare la parziale contraddittorietà delle fonti in merito. Al momento dell’esordio Carlotta Marchionni è sicuramente per Antonietta Robotti un ideale di perfezione professionale a cui aspirare. In linea con l’archetipo dell’attrice ‘morale’ che nella Marchionni aveva trovato perfetta incarnazione, anche la Robotti rafforza il suo legame con il pubblico facendo parlare di sé per le qualità personali, come l’umana simpatia e l’affetto rivolto verso il marito, ancor prima che per quelle strettamente professionali. Per Ernesto Rossi ad esempio la «signora Robotti non era una grande attrice, ma le sue belle qualità fisiche e intellettuali la rendevano simpatica a tutti i pubblici, cara ai suoi compagni».39 Rimanda sempre alla ‘scuola’ della Marchionni l’abitudine della Robotti di imparare le parti interamente a memoria, assistita in questo da una memoria di ferro («il suggeritore per lei era un semplice rammentatore: e bada bene, che il tempo concessole per lo studio di una parte nuova non era lungo, tutto al più una settimana»).40 Potrebbe essere invece il segno di una distanza dal modello-Marchionni, originale ma fallimentare, della Lusinghiera di Alberto Nota che era stato un cavallo di battaglia della Marchionni.41 La protagonista della commedia, Giulia, è «una donna dal comportamento disinvolto, che illude i quattro innamorati che l’hanno seguita da Perugia a Roma, e scrive lettere di conforto a quelli lontani, arrivando a compiere alcuni gesti di civetteria giudicati troppo audaci dal pubblico di quei tempi. Il Nota rende volutamente sgradevole il personaggio di Giulia soffermandosi eccessivamente sulle menzogne, sui sorrisi, sugli sguardi languidi della donna distribuiti a tutti, su atteggiamenti troppo spregiudicati, per esempio compra trecce da donare agli spasimanti fingendo di averle fatte coi suoi capelli, riceve i pretendenti tutti insieme e mentre fa cenno col piede a uno, stringe la mano dell’altro».42 Il finale punisce la protagonista, la cui immoralità era in parte mitigata dallo scopo con cui giustificava la sua libertà, la scelta del marito migliore, con la condanna alla solitudine. Carlotta Marchionni fu la sola a riuscire a imporre quella che era considerata una parte di donna senza scrupoli probabilmente grazie a un’interpretazione elegante e nobile che ne attenuava i tratti dissonanti in conformità all’ideale di perfezione morale da lei personificato: «Ci voleva Carlotta Marchionni, che 39. Rossi, Quarant’anni di vita artistica, cit., vol. i, p. 65. 40. Ibid. 41. Cfr. qui pp. 210-211. 42. A. Camaldo, Alberto Nota, drammaturgo (con il testo di otto commedie inedite), Roma, Bulzoni, 2001, p. 117. 253 EMANUELA AGOSTINI fu salamandra di castità in mezzo al fuoco della scena, per cavarsela con onore da una parte nella quale il più degli effetti scenici è nell’artifizio della controscena muta, nelle occhiate, nei sorrisi e persino nella procace scollatura del busto, vieppiù stimolante quanto più dissimulata sotto la trasparenza dei veli e delle trine».43 Al contrario la Robotti, evidenziando gli aspetti ‘piccanti’ della parte, suscitò la disapprovazione degli spettatori: «che il successo di quella commedia fosse presso che esclusivamente dovuto alla Marchionni, apparve chiaro più tardi, quando altre valentissime attrici vi si provarono dopo di lei. O ne accentuassero la simulazione, come Amalia Bettini, o la procacità come la Robotti bellissima, non approdarono che ad annoiare il pubblico, come la prima; o, come la seconda, a farlo rumoreggiare».44 Mancanza di decoro per ‘eccesso di fisicità’ pare esserle attribuita anche in occasione di uno spettacolo al teatro Gallo di Venezia nel 1840: «La signora Antonietta Robotti prima attrice avrebbe buoni elementi per la recitazione del dramma, ove con più parsimonia e maggior dignità usasse delle movenze di sua avvenente persona e non modulasse ad incessante cantilena una voce fresca, insinuante e robusta».45Addirittura impeto grossolano è quello menzionato da Vittorio Bersezio (che però, nato nel 1828, non avrà forse potuto apprezzare pienamente le prove migliori della Robotti nel fiore degli anni): «Antonietta Robotti bellissima, procace, ardente, aveva dalla caldezza della propria indole pregi e difetti, che concorrevano in parte uguale ad acquistarle l’entusiasmo dei pubblici: trascurata, ma appassionata, un po’ volgare, ma impetuosa, con poco studio, ma con una gran felicità di ispirazione e d’indovinamento, esagerata, ma affascinante».46 L’avvenenza della persona e la tendenza ad esagerare sono confermate da molte testimonianze. Alla prima qualità fa riferimento Francesco Regli che ricorda anche l’entusiasmo che la Robotti riusciva a suscitare negli spettatori: «Bellissima nella persona, con due occhi che ti cercavano il cuore, con un’anima che vivamente sentiva, non senza intelligenza, non senza istruzione, nata e fatta per le scene, eccitava continui clamori in tutti i teatri in cui si presentava, ed era la delizia e la simpatia dei pubblici i più capricciosi e severi».47 Per quanto riguarda l’eccessiva enfasi, gli articoli dell’epoca la segnalano frequentemente, ma diversamente da quanto affermato da Bersezio non sem- 43. G. Costetti, Il teatro italiano nel 1800. Indagini e ricordi, Rocca San Casciano, Cappelli, 1901, pp. 74-75. 44. Ivi, p. 75. 45. G. Podestà, Cronaca teatrale-Venezia [30 settembre 1840], «Glissons, n’appuyons pas», vii, 5 ottobre 1840, 80, p. 320. 46. V. Bersezio, Il regno di Vittorio Emanuele II. Trent’anni di vita italiana, Roma-TorinoNapoli, Roux e C., 18892, vol. i, p. 206. 47. In Cauda, A velario aperto e chiuso, cit., pp. 40-41. 254 ANTONIETTA ROBOTTI pre in associazione con l’irruenza. Al contrario la Robotti è di norma criticata per le maniere troppo studiate: «in altri termini: […] non rado ha bisogno di far meno. […] alla Robotti, giacché ad onta de’ suoi difetti è incontrastabilmente un distinto talento, la consiglio non contraffare le artifiziate maniere, i trovati meccanici che una celebre donna nell’ultimo stadio della sua carriera [Carlotta Marchionni] sostituiva al semplice e ingenuo linguaggio del vero. E se ancor persiste nello studio della grande artista, il meglio non il peggio ne imiti; e adoperi a rinnovare in parte su la scena la prima vita artistica di essa, l’epoca della Mirra e della Gurlì, quando recitava per impeto d’affetto, e peccava piuttosto per troppa verità e per manco d’arte, che di soverchia maniera, di soverchia affettazione».48 Lo stesso articolo sembrerebbe indicare che, in continuità con la compostezza dell’ultima Marchionni, la Robotti proponesse una recitazione controllata e estraniata: «La Robotti va presso ai migliori dell’arte. La sua tristezza è mite, il suo pianto soave, e ’l sorriso raccolto. Per essa non lampi fuggitivi d’entusiasmo, né bellezza a sbalzi: ma sì un tutto aggraziato dove la ispirazione balena e domina la ragione. Direte che la sua voce è povera d’intonazioni, e non è abbastanza pieghevole: ma la non è accanita, né stridente. Direte ch’essa è talvolta lenta, monotona, declamatrice, e talora soverchiamente ansante, affannosa […]; ma non si mostra mai affatto disordinata, convulsa e quasi frenetica. […] E possiede a ritroso una decisa tendenza a ogni maniera d’amabilità, sia poi da istinto, da proprio giudizio o da educazione; sebbene lontana di buon tratto da quella che noi chiamiam aria distinta».49 Misurata e composta, priva di slanci e di eccessi, sembra anche la sua Maria Stuarda: «Vedetela nella Stuarda. Cosa strana ma vera! l’incompleta, la difettiva Robotti così nella Stuarda, come nella Famiglia Riquebourgh, nell’Anello della Nonna, nel Tardo Ravvedimento, nel Lione innamorato… riesce egregiamente. Con che ha mostrato, che essa potrebbe fare assai più nell’arte sua. La Robotti e per la persona, e per la maniera, e per l’affetto, è la Stuarda di Schiller, è la Stuarda della storia, è la Stuarda della poesia. Grande in tutta la tragedia, meno forse qualche momento dell’atto terzo dove trascorre un po’, nel quinto atto è, quasi dissi, incomparabile. Là giustezza, riserbo, decoro; là correzione, misura, finezza. Eh oh! l’ingenuo dolore, il vero abbattimento, la naturale maestà. La Robotti nella scena in cui l’anima si ferma esitante tra i dolori patiti e le gioie promesse, tra gli affetti terreni e l’infinito amore, tra la vita e la morte, il cielo e la terra; in quella scena meravigliosa, nella quale succede il misterioso colloquio tra il creatore e la creatura, che la sola divina mente dello Schiller poteva comprendere e rivelare; la Robotti, dico, s’ammanta d’una tal quiete e 48. G.S.A., Dell’arte comica in Italia e di Gustavo Modena, cit., p. 110. 49. Ivi, pp. 110-111. 255 EMANUELA AGOSTINI pia rassegnazione, d’una fiducia cotanto mesta e solenne, ch’è vera poesia. La Robotti nella Stuarda tocca [l]a sublimità!».50 A conferire una sensazione di artificio e di mancanza di naturalezza doveva essere soprattutto la voce, che veniva impiegata, secondo quella che era una vera e propria cifra stilistica della Robotti, in modo cantilenante e declamatorio. In aggiunta la gestualità era forse fondata su pose riconoscibili. In un articolo del 1846, ad esempio, in cui si critica «il metodo di recitazione» dei membri della Reale Sarda perché «nessuno parla sulla scena […] ma tutti qual più qual meno con affettazione, con troppa misura declamano», nemmeno Antonietta Robotti è risparmiata. All’attrice pur ritenuta «all’apogeo dello splendore drammatico» e lodata per «l’intuizione estetica e la forma rappresentativa, per cui comprende e veste ogni più scabro carattere», viene richiesto, per raggiungere la perfezione, «un po’ meno di manierismo, un po’ più di mutabilità nella fisionomia».51 A distanza di otto anni, nel 1854, una recensione evidenzia nuovamente l’enfasi declamatoria, ma rileva anche, come tratto positivo, l’atteggiamento fisico dell’interprete: «La signora Antonietta Robotti pecca di canto nel declamare il verso della tragedia. Il suo gesto però è molto eloquente; da’ suoi occhi scintilla la passione animata, e l’incesso sulla scena è veramente da quell’artista, che tiene posto elevato nell’arte».52 Sulla voce della Robotti si pronunciano infine anche Regli e Ernesto Rossi. Per il primo «qualcuno trovava troppo maschia la sua voce, ma se questa in qualche produzione disdiceva in altre aggiungeva maestà».53 Doveva dunque trattarsi di una voce possente che ben si accompagnava a un atteggiamento regale. Secondo Rossi invece «la voce sua era forte, limpida come un campanello – Ne abusava e si compiaceva di udirsi: più che nel naturale e nel vero, stava nel barocco; ma era un barocco, che qualche volta toccava il sublime; la sua massima era di sorprendere, anziché quella di convincere. Non si può dire che fosse artifiziosa, ma rasentava l’artifizio: quando ella si abbandonava alla sua natura, che era bella e sincera, era assai più felice di quando cercava di guidarla colla sua artistica esperienza».54 50. Ivi, p. 112 n. 51. Venezia-Reale compagnia Sarda. Teatro San Benedetto, «Il caffè Pedrocchi», i, 19 aprile 1846, p. 129. 52. A. Bonafini, Rivista teatrale, «Rivista contemporanea», ii, 1854, vol. ii, pp. 439-448. 53. In Cauda, A velario aperto e chiuso, cit., p. 41. 54. Rossi, Quarant’anni di vita artistica, cit., vol. i, p. 65. 256 ANTONIETTA ROBOTTI Fonti, recensioni e studi critici Manoscritti: Permesso di sepoltura dell’attrice Antonietta Robotti, 22 novembre 1864, Archivio storico comunale di Bologna, Comune, Permesso di seppellimento, lettera S, n. 512, 1864. A stampa: G. Romani, Cronaca teatrale-Lucca, «Glissons, n’appuyons pas», vi, 15 maggio 1839, 39, pp. 155-156. G. Podestà, Cronaca teatrale-Venezia [30 settembre 1840], «Glissons, n’appuyons pas», vii, 5 ottobre 1840, 80, p. 320. A. Stocchi [pseudonimo di L. Molossi], Diario del teatro Ducale di Parma dal 1829 a tutto il 1840 compilato dal portiere al palco scenico Alessandro Stocchi, Parma, Rossi Ubaldi, 1841. G.S.A., Dell’arte comica in Italia e di Gustavo Modena, «Rivista europea», n.s., i, secondo trimestre 1843, pp. 108-115. A. Brofferio, ‘Adelchi’, tragedia di A. Manzoni, «Il messaggiere torinese», 20 maggio 1843. [Senza autore], Teatro Re, «Strenna teatrale europea», vi, 1843, p. 191. P. Corelli, Tragedie e poesie varie, Milano, Manini, 1844. B. Lambertenghi, Antonietta Robotti, «Strenna teatrale europea», vii, 1844, pp. 63-76. [Senza autore], Gazzetta teatrale. Brescia, «Il pirata», xi, 25 novembre 1845, 43, p. 181. [Senza autore], Venezia-Reale compagnia Sarda. Teatro San Benedetto, «Il caffè Pedrocchi», i, 19 aprile 1846, p. 129. [Senza autore], Relazione sulla compagnia lombarda all’Apollo di Venezia nella primavera 1846, «Il caffè Pedrocchi», i, 21 giugno 1846, p. 200. Leopoldo Br., Teatro del Cocomero, «Lo Scaramuccia», i, 16 dicembre 1853, 14, pp. n.n. A. Bonafini, Rivista teatrale, «Rivista contemporanea», ii, 1854, vol. ii, pp. 439-448. E. Liveriero, Rivista teatrale, «Rivista contemporanea», ii, 1854, vol. ii, pp. 629-643. P.A. Curti, Adelaide Ristori per P.A. Curti, Milano, coi tipi Borroni e Scotti per Pietro Manzoni Libraio, 1855. F. Regli, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860, Torino, Dalmazzo, 1860. E. Rossi, Quarant’anni di vita artistica, con proemio di A. De Gubernatis, Firenze, Niccolai, 1887-1889, 3 voll. V. Bersezio, Il regno di Vittorio Emanuele II. Trent’anni di vita italiana, RomaTorino-Napoli, Roux e C., 18892, 8 voll. 257 EMANUELA AGOSTINI G. Costetti, La compagnia Reale Sarda e il teatro italiano dal 1821 al 1855, Milano, Kantorowicz, 1893 (rist. anast. Bologna, Forni, 1979). L. Rasi, I Comici italiani. Biografia, Bibliografia, Iconografia, Firenze, Bocca-Lumachi, 1897-1905, 2 voll. G.B. Gottardi, Il diario di un primo attore della compagnia Reale Sarda, a cura di G. Deabate, Torino, Archivio tipografico, 1899. G. Costetti, Il teatro italiano nel 1800. Indagini e ricordi, con prefaz. di R. Giovagnoli, Rocca San Casciano, Cappelli, 1901 (rist. anast. Bologna, Forni, 1978). G. Deabate, I comici di Sua Maestà, Torino, Tipografia della Gazzetta del popolo, 1905. L. Rasi, Catalogo generale della raccolta drammatica italiana di Luigi Rasi, Firenze, L’arte della stampa-successori Landi, 1912. G. Cauda, A velario aperto e chiuso. Figure, tipi, impressioni, confronti, aneddoti, indiscretezze, liete promesse, Chieri, Astesano, 1920. N. Leonelli, Attori tragici, attori comici, Roma, Tosi, 1940-1944, 2 voll. S. Cordero di Pamparato, Teatri e censura in Piemonte nel Risorgimento italiano (1849-1861), «Il Risorgimento italiano», vol. xiv, gennaio-giugno 1941, 26-27, p. 137. B. Brunelli, Robotti-Rocchi, Antonietta, in Enciclopedia dello spettacolo, Roma, Le Maschere, 1959, vol. vi, coll. 1606-607. L. Sanguinetti, La compagnia Reale Sarda (1820-1855), Bologna, Cappelli, 1963. S. Ferrone, Introduzione a Il teatro italiano. La commedia e il dramma borghese dell’Ottocento, a cura di S. 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Francesca Simoncini). 258 ANTONIETTA ROBOTTI Repertorio 1836 Pia de’ Tolomei di Carlo Marenco Un anno di [ Jacques-Arsène-François-Polycarpe?] Ancelot 1837 Vittorina ossia Le conseguenze di una scommessa di Giacinto Battaglia 1838 Alexina ossia Costanza rara di Alberto Nota Estella, ovvero Il padre e la figlia di Augustin Eugène Scribe Fratello e sorella di Augustin Eugène Scribe Giovanna I regina di Napoli di Giacinto Battaglia Gl’innamorati di Carlo Goldoni I due metodi di autore non precisato Il budjet dei giovani sposi di Augustin Eugène Scribe Il furfantello di Parigi di Jean-François-Alfred Bayard e Emile-Louis Vanderburch Il povero Giacomo di Hippolyte e Charles-Théodore Cogniard Il romanzetto d’un’ora di Lodovico Piossasco La croce d’oro di Mélesville [pseudonimo di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier] La giovane al momento di maritarsi di autore non precisato Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni Madame di Saint Agnès di Augustin Eugène Scribe Niente di male di Francesco Augusto Bon Papà Goriot, ovvero Una lezione ai padri di Marie-Emmanuel-Guillaume-Marguerite Théaulon de Lambert, Alexis-Barbe-Benoît Decomberousse e Jean-François-Ernest Jaime Rosina e il suo tutore di autore non precisato Un capolavoro sconosciuto di Charles Lafont Un curioso accidente di Carlo Goldoni 1839 Eulalia Granger ovvero Ancora un matrimonio disuguale di Michel-Nicolas Balisson de Rougemont I due matrimoni ovvero La rassegnata di Jean-François-Alfred Bayard Il casino venduto e ricomperato ossia L’appuntamento di Jacques-Arsène-François-Polycarpe Ancelot Il domino nero di Augustin Eugène Scribe Il furfantello di Parigi di Jean-François-Alfred Bayard e Emile-Louis Vanderburch L’abate de l’Epée di Jean-Nicolas Bouilly Malvina overo Il matrimonio d’inclinazione di Augustin Eugène Scribe Parisina di Antonio Somma 259 EMANUELA AGOSTINI Pia de’ Tolomei di Carlo Marenco Sedici anni or sono di Victor-Henri-Joseph-Brahain Ducange Un vagabondo e la sua famiglia di Francesco Augusto Bon 1840 Marino Faliero di Giulio Pullé 1841 Caterina Haward di Alexandre Dumas père Cesare e Augusto di Augustin Eugène Scribe Chiara ossia Dovere e generosità di Marguerite-Louise-Virginie Ancelot Di sospetto in sospetto o Tutti compromessi di autore non precisato Due case in una casa di Louis-Benoît Picard, Alexis-Jacques-Marie Vafflard e Fulgence-Joseph-Désiré de Bury Felice come una principessa di Mélesville [pseudonimo di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier] Galeotto Manfredi di autore non precisato Il birichino di Parigi di Jean-François-Alfred Bayard e Émile-Louis Vanderburch Il cavaliere di San Germano di autore non precisato Il genio della notte di Jean-François-Alfred Bayard e Étienne Arago Il marito della cieca di autore non precisato Il matrimonio di Luigi di Jean-François-Alfred Bayard Il proscritto di Frédéric Soulié e Timothée Dehay La calunnia di Augustin Eugène Scribe La cognata di Mélesville [pseudonimo di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier] La fedeltà alla prova di August Heinrich Julius Lafontaine Le donne avvocate di Simeone Antonio Sografi Luisa moglie e fidanzata di Frédéric Soulié Madamigella di Belle-Isle di Alexandre Dumas père Maria Stuarda di Friedrich Schiller Pamela nubile di Carlo Goldoni Paolina ovvero Il testamento di una povera donna di Victor-Henri-Joseph-Brahain Ducange Paolo James il corsaro generoso, ossia Il figlio della vittima di Alexandre Dumas père Pia de’ Tolomei di Carlo Marenco Un vagabondo e la sua famiglia di Francesco Augusto Bon 1842 Amore o morte di autore non precisato Carlo Goldoni a Parigi di Domenico Righetti Cristoforo Colombo ovvero La scoperta del nuovo mondo di Giorgio Briano Edoardo e Clementina di Laurencin [pseudonimo di Paul-Adolphe Chapelle] Enrico Hamlin di Charles-Emile Souvestre I Correggeschi di Parma di Pietro Corelli 260 ANTONIETTA ROBOTTI Il burbero benefico di Carlo Goldoni Il chirurgo e il viceré di Alberto Nota Il lione innamorato di Augustin Eugène Scribe Il lupo di mare di Thomas-Marie-François Sauvage L’addio alle scene di Francesco Augusto Bon L’anello della marchesa di Laurencin [pseudonimo di Paul-Adolphe Chapelle] e Eugène Cormon L’anello della nonna di Francesco Augusto Bon La bottega del caffè di Carlo Goldoni La calunnia di Augustin Eugène Scribe La catena di Augustin Eugène Scribe La catena elettrica di [?] Gabriel La cognata di Mélesville [pseudonimo di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier] La croce d’oro di Mélesville [pseudonimo di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier] La dote di Cecilia di autore non precisato La finta ammalata di Carlo Goldoni La forza dell’amore materno di Jean-François-Alfred Bayard La lusinghiera di Alberto Nota La moglie dell’artista di autore non precisato Le prime armi di Richelieu di Jean-François-Alfred Bayard e Philippe-François-Pinel Dumanoir Malvina overo Il matrimonio d’inclinazione di Augustin Eugène Scribe Oscar, ossia, Il marito che inganna la propria moglie di Augustin Eugène Scribe Rosmunda di Pietro Corelli Un fallo di Augustin Eugène Scribe Un segreto di autore non precisato Un vagabondo e la sua famiglia di Francesco Augusto Bon Van Bruch l’incognito di [?] Fournier 1843 Adelchi di Alessandro Manzoni 1844 Genio dei vagabondi di Vittorio Alfieri Mirra di autore non precisato 1846 Adalberto all’assedio della Rocella di Achille Montignani Il fornaretto di Francesco Dall’Ongaro Il proscritto di Frédéric Soulié e Timothée Dehay La zingara, o L’America nel 1775 di Augustin Eugène Scribe e Mélesville [pseudonimo di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier] 261 EMANUELA AGOSTINI 1847 Educazione e natura ovvero La figlia in adozione di Alberto Nota 1852 Il cuore di una madre di autore non precisato La signora dalle camelie di Alexandre Dumas fils 1853 Il vetturale del Monte Cenisio di Joseph Bouchardy La donna in seconde nozze di Paolo Giacometti Sior Todero Brontolon di Carlo Goldoni 1854 Camoens di Leone Fortis Cuore ed arte di Leone Fortis Goldoni e le sue sedici commedie nuove di Paolo Ferrari La notte di Venerdì Santo di Paolo Giacometti 1857 Clelia o la Plutomania di Gaetano Gattinelli Edmondo Dantès il marinajo di Alexandre Dumas père e Auguste Jules Maquet Elisabetta regina d’Inghilterra di Paolo Giacometti Filippo Maria Visconti ultimo duca di Milano di autore non precisato I due sergenti di Théodore Baudouin D’Aubygny e Auguste Maillard Medea di Ernest Legouvé Merope di Vittorio Alfieri Sior Todero Brontolon di Carlo Goldoni 1858 Elisabetta regina d’Inghilterra di Paolo Giacometti I giornali di Giuseppe Vollo 262 INDIZI DI PERCORSO E PROGETTI Gianluca Stefani SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO IN ANGUSTIE A VENEZIA: I GUAI DELLA STAGIONE 1718-1719 AL SANT’ANGELO Artista in moto perpetuo fu Sebastiano Ricci quondam Livio (1659-1734).1 Più celebre come ‘pittore di figura’,2 Rizzi (come allora era chiamato, per via del suono sibilante che la consonante c assume con le vocali e e i nel dialetto veneto)3 fu anche disegnatore, restauratore, caricaturista, consulente e mercante di opere d’arte.4 Tra le sue passioni ci fu il teatro, o meglio il teatro musi- 1. Propongo qui una essenziale bibliografia: J. von Derschau, Sebastiano Ricci: ein Beitrag zu den Anfängen der venezianischen Rokokomalerei, Heidelberg, K. Winters Universitätsbuchhandlung, 1922; R. Pallucchini, Studi ricceschi (I). Contributo a Sebastiano, «Arte veneta», vi, 1952, pp. 6384; Atti del congresso internazionale di studi su Sebastiano Ricci e il suo tempo (Udine, 26-28 maggio 1975), a cura di A. Serra, Milano, Electa, 1976; J. Daniels, Sebastiano Ricci, Hove, Wayland Publishers, 1976; L’opera completa di Sebastiano Ricci, a cura di Id., Milano, Rizzoli, 1976; L. Moretti, Documenti e appunti su Sebastiano Ricci (con qualche cenno su altri pittori del Settecento), «Saggi e memorie di storia dell’arte», 1978, 11, pp. 95-125; Sebastiano Ricci, catalogo della mostra a cura di A. Rizzi, presentazione di G. Bergamini (Udine, 25 giugno-31 ottobre 1989), Milano, Electa, 1989; F. Montecuccoli degli Erri, Sebastiano Ricci e la sua famiglia. Nuove pagine di vita privata, «Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti. Classe di scienze morali, lettere ed arti», clvii, 1994-1995, 1, to. 153, pp. 105-154; A. Scarpa, Sebastiano Ricci, Milano, Alfieri, 2006; L. Moretti, Miscellanea riccesca, in Sebastiano Ricci 1659-1734. Atti del convegno internazionale di studi (Venezia, 14-15 dicembre 2009), a cura di G. Pavanello, Verona, Scripta, 2012, pp. 71-136. 2. Nella gerarchia dei pittori di Antico regime, quelli ‘di figura’ occupavano il gradino più alto. 3. Cfr. Moretti, Miscellanea riccesca, cit., p. 71. Scrive Luigi Lanzi: «Sebastiano Ricci, che i Veneti scrivon Rizzi» (Storia pittorica della Italia dal risorgimento delle belle arti fin presso al fine del XVIII secolo [1795-1796], a cura di M. Capucci, Firenze, Sansoni, 1968-1974, vol. ii [1970], p. 170). Moretti sostiene che il vero cognome di Sebastiano fosse Rizzi, e non Ricci, ipercorrettismo toscano di un cognome tuttora diffuso nell’Italia del centro-nord (cfr. Miscellanea riccesca, cit., p. 71). Sulle varianti del cognome cfr. O. Ceiner, Sulle origini della famiglia di Sebastiano Ricci, in Sebastiano Ricci tra le sue Dolomiti, catalogo della mostra a cura di M. Mazza e G. Galasso (Belluno e Feltre, 30 aprile-29 agosto 2010), Belluno, Provincia di Belluno Editore, 2010, p. 17. 4. Sebastiano Ricci fu consulente e procacciatore di opere d’arte per Ferdinando de’ Medici (cfr. Lettere artistiche del Settecento veneziano. i, a cura di A. Bettagno e M. Magrini, Vicenza, Neri DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 263-289 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18380 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. GIANLUCA STEFANI cale. Il bellunese Ricci fu impresario d’opera nel circuito delle sale pubbliche della Serenissima, sia pure non a tempo pieno, compatibilmente con l’attività principale di ‘depentore’.5 Fin dagli studi di Luigi Ferrari, si sa che il settantenne pittore aveva assunto la conduzione del teatro di san Cassiano nella stagione 1728-1729, insieme al soprano Faustina Bordoni.6 In un contributo apparso nel 1978 nella rivista «Saggi e memorie di storia dell’arte», Lino Moretti pubblicava un documento notarile che accertava il suo impresariato al teatro di sant’Angelo un decennio prima, nel 1719.7 Recentemente, grazie alle ricerche archivistiche di Micky White e Beth L. Glixon, si sono allargati ulteriormente gli orizzonti di una militanza teatrale che si riteneva più circoscritta, anticipandola al biennio 1705-1706, sempre al Sant’Angelo.8 Rimandando a una specifica monografia la pubblicazione integrale delle inedite carte sull’attività impresariale di Ricci da me rintracciate all’Archivio di stato di Pozza, 2002, pp. 14-22 e 25-27, lettere 1-12 e 15; sul mecenatismo del Gran Principe v. soprattutto L. Spinelli, Il principe in fuga e la principessa straniera. Vita e teatro alla corte di Ferdinando de’ Medici e di Violante di Baviera [1657-1731], Firenze, Le Lettere, 2010). Va detto che non solo Sebastiano Ricci, ma molti artisti coevi operavano come agenti d’arte. Una condizione di ‘meticciato’ che inizierà a declinare poco a poco con l’emergere della figura del conoscitore di professione (cfr. F. Del Torre, Sebastiano Ricci, Ferdinando di Toscana e altri corrispondenti, in Lettere artistiche, cit., pp. 8-9). 5. Sul ‘mestiere’ di impresario cfr. almeno J. Rosselli, L’impresario d’opera (1984), Torino, EDT, 1985; F. Piperno, Il sistema produttivo, fino al 1780, in Storia dell’opera italiana, a cura di L. Bianconi e G. Pestelli, iv. Il sistema produttivo e le sue competenze, Torino, EDT, 1987, pp. 1-75. 6. Cfr. L. Ferrari, L’abate Antonio Conti e Madame De Caylus, «Atti del reale Istituto veneto di scienze, lettere ed arti», xciv, 1934-1935, 2, p. 18, n. 1. 7. Cfr. Venezia, Archivio di stato (di qui in avanti ASV), Notarile. Atti, b. 12249, c. 251r. (antica numerazione), Venezia, 24 febbraio 1718 more veneto (d’ora in poi m.v.), atti del notaio Giorgio Maria Stefani, in Moretti, Documenti e appunti, cit., p. 111. In queste pagine utilizzerò il calendario corrente, specificando in nota le date secondo il more veneto. 8. Cfr. B.L. Glixon-M. White, ‘Creso tolto a le fiamme’: Girolamo Polani, Antonio Vivaldi and Opera Production at the Teatro S. Angelo, 1705-1706, «Studi vivaldiani», viii, 2008, pp. 3-19. Sul famoso teatro veneziano, ubicato in corte dell’Albero, cfr. almeno: C. Ivanovich, Memorie teatrali di Venezia (1681), a cura di N. Dubowy, Lucca, LIM, 1993, pp. 400-401 e 412; N. Tessin the Younger, Travel Notes 1673-77 and 1687-88, a cura di M. Laine e B. Magnusson, Stockholm, Nationalmuseum, 2002, pp. 363-364; I teatri pubblici di Venezia (secoli XVII-XVIII), mostra documentaria e catalogo a cura di L. Zorzi et al. (Venezia, 22 settembre-11 ottobre 1971), Venezia, La Biennale, 1971, passim; N. Mangini, I teatri di Venezia, Milano, Mursia, 1974, pp. 73-76, 132-137; F. Mancini-M.T. Muraro-E. Povoledo, I teatri del Veneto, i. to. ii. Venezia e il suo territorio. Imprese private e teatri sociali, Venezia, Regione del Veneto, Giunta regionale-Corbo e Fiore, 1996, pp. 3-62; M. Talbot, A Venetian Operatic Contract of 1714, in The Business of Music, a cura di M. T., Liverpool, Liverpool University Press, 2002, pp. 10-61; E. Selfridge-Field, A New Chronology of Venetian Opera and Related Genres, 1660-1760, Stanford, Stanford University Press, 2007, passim. 264 SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO Venezia,9 presento qui i documenti riguardanti l’operato riccesco al Sant’Angelo nella stagione 1718-1719, ossia due stagioni prima che Il teatro alla moda di Benedetto Marcello mettesse alla berlina quel teatro sul suo frontespizio (dicembre 1720). In quel periodo, Sebastiano Ricci, all’apice della carriera, era da poco rientrato dall’Inghilterra, dove aveva soggiornato fino all’estate 1715 insieme al nipote Marco, apprezzato paesaggista e scenografo.10 Una volta a Venezia, Ricci senior, carico di onori e notevolmente arricchito dalle generose commissioni britanniche, aveva acquistato al pubblico incanto un bell’appartamento al secondo piano delle Procuratie Vecchie, dove si era stabilito con quel suo nipote prediletto.11 Mentre i due Ricci erano impegnati, dal principio del 1718, nella decorazione di un ciclo di affreschi nella villa Belvedere, residenza estiva di Giovanni Francesco Bembo, vescovo di Belluno,12 il Ricci jr era stato contattato dal nuovo impresario del Sant’Angelo come scenografo. Il nome di Marco compare in tutti e tre i libretti delle opere prodotte in quel teatro nell’autunno e carnevale 1718-1719, dove gli è attribuita l’«invenzione delle scene».13 Come Sebastiano si sia riavvicinato al teatro per il quale aveva lavorato oltre un decennio prima14 è facile intuirlo, benché sconosciute siano, nel detta9. Questo articolo è tratto dalla mia tesi dottorale Sebastiano Ricci impresario d’opera (16941729), Università degli studi di Firenze, Dottorato di ricerca in Storia dell’arte e Storia dello spettacolo, xxvi ciclo, 2014, tutor prof. Stefano Mazzoni, in corso di stampa (Firenze University Press). Colgo l’occasione per rivolgere al mio tutor e maestro i più affettuosi ringraziamenti. 10. Sul pittore, disegnatore, caricaturista e scenografo Marco Ricci cfr. almeno: A. Blunt-E. Croft-Murray, Venetian Drawings of the Seventeenth and Eighteenth Centuries in the Collection of Her Majesty the Queen at Windsor Castle, London, Phaidon, 1957; Marco Ricci, catalogo della mostra a cura di G.M. Pilo, con un saggio di R. Pallucchini (Bassano del Grappa, 1° settembre-10 novembre 1963), Venezia, Alfieri, 1963; A. Scarpa Sonino, Marco Ricci, Milano, Berenice, 1991; Marco Ricci e il paesaggio veneto del Settecento, catalogo della mostra a cura di D. Succi e A. Delneri (Belluno, 15 maggio-22 agosto 1993), Milano, Electa, 1993. 11. Cfr. Moretti, Documenti e appunti, cit., p. 111. 12. Cfr. Daniels, Sebastiano Ricci, cit., p. xv; Scarpa, Sebastiano Ricci, cit., pp. 151-153; G. Galasso, Gli affreschi della villa Belvedere, in Sebastiano Ricci tra le sue Dolomiti, cit., pp. 45-49; E. Lucchese, Belluno. Villa vescovile detta ‘di Belvedere’, in Gli affreschi nelle ville venete. Il Settecento, a cura di G. Pavanello, Venezia, Marsilio, 2011, pp. 105-109, scheda 18. 13. I libretti in questione, pubblicati dall’editore veneziano Marino Rossetti, sono: L’amor di figlia di Giovanni Andrea Moniglia, musica di Giovanni Porta; Amalasunta di Giacomo Gabrieli, musica di Fortunato Chelleri; Il pentimento generoso di Domenico Lalli, musica di Andrea Stefano Fiorè. È la prima volta che Marco Ricci è accreditato a Venezia come scenografo. Dopo aver lavorato a Londra al Queen’s Theatre, a Haymarket, come pittore di scena (1709-1710), ritroveremo il Ricci jr ancora attivo in questo ruolo a Venezia al San Giovanni Grisostomo, nel carnevale 1726, affiancato da Romualdo Mauro. Per i libretti citati v. qui anche note 25, 27, 61. 14. Cfr. Glixon-White, ‘Creso tolto a le fiamme’, cit. Per una relazione più approfondita sull’attività di Ricci al Sant’Angelo in quella stagione rinvio al mio libro di prossima pubblicazione (rivedi n. 9). 265 GIANLUCA STEFANI glio, le circostanze di questo nuovo coinvolgimento. Si è supposto, sulla base dell’unico documento finora noto,15 che egli fosse l’impresario di quella stagione. In realtà, come rivelano i documenti, le cose furono più complesse. Secondo gli accordi iniziali, il ‘conduttore’ del Sant’Angelo per l’anno teatrale 1718-1719 non doveva essere Ricci, ma il Modotto. Fino a ora costui era nient’altro che un nome, anzi un soprannome – Modotto, appunto – annotato su una copia della prima edizione del Teatro alla moda rinvenuta da Gian Francesco Malipiero.16 Qui un anonimo postillatore settecentesco aveva sciolto i nomi dei personaggi criptati negli anagrammi del frontespizio del libello marcelliano, tra i quali: Il signor Modotto una volta Padron di Peate voga a due remi fuor del costume. Questo è Impressario in Sant’Angelo e gettato il feraiolo favorisce il Signor Orsatto conducendolo a casa con le provigioni sudette.17 Un ‘medaglione’ iterato dalla critica fino a oggi. Grazie a nuove ricerche d’archivio,18 quel nomignolo, abbinato alla figura di uno snello vogatore a poppa della ‘peata’ nel frontespizio del Teatro alla moda (fig. 1), acquista spessore biografico. Se ne apprende il nome di battesimo e il cognome, Antonio Moretti, fatti seguire dal soprannome sempre specificato – perché come tale, evidentemente, egli era conosciuto ai più. Si viene a sapere che suo padre si chiamava Bernardo. Si hanno le prove che egli fu ‘conduttore’ del Sant’Angelo nella stagione 1720-1721 (quella irrisa sul frontespizio del pamphlet marcelliano).19 Quanto alla stagione di nostro interesse, una serie di carte notarili e giudiziarie attesta che, entro la fine di aprile 1718, Modotto aveva sottoscritto con i compatroni il contratto di locazione per prendere in gestione il Sant’Angelo. Nei teatri della Serenissima, si sa, era norma per ogni impresario (o chi per lui) nominare un proprio agente (il cosiddetto ‘procuratore’) per riscuotere gli affitti stagionali dei 15. Cfr. qui n. 7. 16. Cfr. G.F. Malipiero, Un frontespizio enigmatico, «Bollettino bibliografico-musicale», v, 1930, pp. 16-19. Come noto, il frontespizio del libello marcelliano riproduce in incisione un gustoso disegno caricaturale, con tre figurine su una barca in mare aperto. Sotto alla caricatura, si legge una bizzarra indicazione tipografica diventata ormai celebre: «Stampato ne BORGHI di BELISANIA per ALDIVIVA LICANTE, all’Insegna dell’ORSO in PEATA. Si vende nella STRADA del CORALLO alla PORTA del Palazzo d’ORLANDO». 17. Ivi, p. 18. ‘Il Signor Orsatto’ è il vicentino Giovanni Orsatto quondam Domenico, attivissimo impresario del tempo, allora di ruolo al San Moisè. 18. Nuovi documenti al riguardo saranno pubblicati nella monografia in corso di stampa segnalata a n. 9. 19. Cfr. n. 16. 266 SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO palchi.20 A questo incaricato veniva arrogato il diritto di muovere azione legale in caso di morosità e renitenza ai pagamenti. Non sappiamo se Modotto conoscesse già Sebastiano Ricci, o se quest’ultimo gli fosse stato presentato dal nipote scenografo, o da qualcuno dei nobili proprietari del teatro. Fatto sta che, con un inedito atto legale del 16 dicembre 1718 (doc. 1), ratificato dal notaio Giorgio Maria Stefani, l’impresario nominava suo ‘procuratore’ il pittore bellunese: Il Sig[no]r Antonio Modotto, spontaneamente costituisce suo Proc[urato]r irrevocabile, il Sig[no]r Sebastian Rizzi Pittor in questa città benche absente etc. À poter à nome suo riscuotter, ricever, e conseguir da tutti, e cadauni Affituali de Palchi del Teatro di S. Angelo l’Affitto d’ogni, e cadaun Palco, che s’attrova Affittato in detto Teatro per l’opera del presente Autuno e venturo Carnevale 1718 m[or]e v[enet]o che saranno maturati li primi giorni della Quadragesima prossima; e tutto quello, e quanto riscuotterà di esso Affitto trattenersi nelle di lui mani d[ett]o Sig[no]r Sebastian Rizzi per spese per occasione di d[ett]a Opera da lui fatte; essercitando perciò qualunque essecutione con chi fossero renitenti per la consecutione di essi Affitti, nella forma e modo, et in tutto, e per tutto, come far potrebbe d[ett]o Sig[no]r Modotto Costituente, se presente fosse; et in suo luoco sostituire unò, ò più Procuratori con simile overo limitate auttorità, et quelli revocare.21 Iniziava così l’avventura di Ricci al Sant’Angelo nella stagione 1718-1719. L’incarico di procuratore fu solo temporaneo. Ben presto il pittore divenne impresario del teatro, come conferma un documento del 24 febbraio 1719 (la carta morettiana già citata).22 Per qualche ragione Modotto aveva rinunciato al proprio mandato; quindi aveva fatto un atto di cessione a favore del suo sostituto Ricci. Sappiamo del resto, da un altro contratto similare del 1714 per lo stesso teatro, che in caso di difficoltà l’incarico di ‘conduttore’ era cedibile a terzi, previo il consenso dei compatroni («non possa sotto qual si sia pretesto sublocar ad altri il Teatro stesso senza il previo assenso, e permissione in scritto de detti N[obili] H[omini] Comp[ad]roni»).23 20. Quella del procuratore incaricato di riscuotere gli affitti dei palchi era una figura codificata del sistema teatrale veneziano (cfr. R. Giazotto, La guerra dei palchi [prima serie], «Nuova rivista musicale italiana», i, 1967, 2, p. 286; B.L. Glixon-J.E. Glixon, Inventing the Business of Opera. The Impresario and His World in Seventeenth-Century Venice, Oxford, Oxford University Press, 2006, pp. 30-33). Pare che, almeno negli anni Settanta del Seicento, certi procuratori non fossero retribuiti direttamente dall’impresario o dai proprietari dei teatri, ma contassero sulle mance degli affittuari dei palchi (cfr. ivi, pp. 30-31). 21. ASV, Notarile. Atti, b. 12249, cc. 175r.-v. (antica numerazione), Venezia, 16 dicembre 1718 (protocolli del notaio Giorgio Maria Stefani). 22. Cfr. n. 7. 23. Cfr. ASV, Inquisitori di Stato, b. 914, fasc. ‘Case di gioco e teatri’, sottofasc. ‘S. Angelo’, c. 1v., Venezia, 11 dicembre 1714. Il lungo contratto, stipulato tra i compatroni del teatro di 267 GIANLUCA STEFANI Ricci si trovava al timone di un’impresa già avviata, con alle spalle la stagione di autunno, pronto ad affrontare il periodo teatrale più delicato: quello di carnevale.24 Il corso delle recite invernali era iniziato il 27 dicembre 1718, con la prima dell’opera Amalasunta, su musica di Fortunato Chelleri e libretto attribuito a Giacomo Gabrieli,25 e si concluse il 21 febbraio (con la ricorrenza del martedì grasso),26 nel segno dell’ultima performance de Il pentimento generoso, su intonazione di Andrea Stefano Fiorè, poesia di Domenico Lalli.27 Una volta terminata la stagione, Sebastiano avviò un giro di vite per riscuotere gli affitti dei palchi in arretrato.28 Per tale mansione il pittore delegava il veterano Domenico Viola con un atto notarile del 24 febbraio 1719, rogato dallo stesso Stefani (doc. 2): sant’Angelo e l’impresario Pietro Denzio, è integralmente pubblicato in Talbot, A Venetian Operatic Contract of 1714, cit., pp. 44-49: 45. 24. Il numero degli spettatori era di gran lunga maggiore in carnevale, dato l’apporto massivo dei visitatori che confluivano a Venezia in quella stagione. Spesso l’opera d’autunno era un banco di prova per testare il cast stagionale (cfr. M. Talbot, Tomaso Albinoni: The Venetian Composer and His World, Oxford, Clarendon Press, 1990, p. 199). 25. Il libretto di Amalasunta (Venezia, Rossetti, 1719, 60 pp.) è stato consultato nella copia conservata presso la Biblioteca marucelliana di Firenze (Melodrammi, 2311.17). Per una scheda dell’opera cfr. Selfridge-Field, A New Chronology, cit., pp. 343-344. Il titolo originale era Amalasunta, regina de’ goti. È documentato che la produzione di questo dramma per musica era prevista per l’inverno del 1716 al Sant’Angelo. Sappiamo che la partitura fu ultimata entro il 2 dicembre 1715. Tuttavia una disputa tra il compositore Fortunato Chelleri e l’impresario Stefano Lodovici ne sospese la messa in produzione, rinviandola di due anni (cfr. ivi, p. 344). Nella stagione riccesca all’Amalasunta furono abbinati gli intermezzi Serpilla e Bacocco e Madama Dulcinea e il cuoco (ovvero La preziosa ridicola), interpretati dalla famosa coppia di buffi Antonio Ristorini e Rosa Ongarelli (cfr. T. Wiel, I teatri musicali veneziani del Settecento. Catalogo delle opere in musica rappresentate nel secolo XVIII in Venezia [1701-1800], Venezia, Visentini, 1897 [rist. anast. Bologna, Forni, 1978], p. 55; Selfridge-Field, A New Chronology, cit., p. 343 e n. 319; G.M. Orlandini, Serpilla e Bacocco, ovvero Il marito giocatore e la moglie bacchettona, tre intermezzi di A. Salvi, ediz. critica a cura di G. Giusta e A. Mattio, Bologna, Orpheus, 2003). 26. Cfr. Selfridge-Field, A New Chronology, cit., p. 655. 27. Il libretto de Il pentimento generoso (Venezia, Rossetti, 1719, 60 pp.) è stato consultato presso la Biblioteca marucelliana di Firenze (Melodrammi, 2308.11). E v. Selfridge-Field, A New Chronology, cit., p. 346. 28. Il tempo massimo previsto per il pagamento degli affitti era il carnevale; ciò spiega perché molti procuratori venivano nominati al termine della stagione teatrale. Per far fronte alla recalcitranza degli affittuari, i procuratori procedevano, in prima battuta, a inoltrare avvisi di sollecito; in seguito ricorrevano a scritture estragiudiziali registrate negli atti dei notai. Infine, passavano agli ultimatum: se l’affitto non fosse stato corrisposto entro un certo termine, il palco sarebbe stato sciolto dai vincoli e messo a disposizione di altri aspiranti affittuari (cfr. GlixonGlixon, Inventing the Business of Opera, cit., p. 32). 268 SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO Il Sig[no]r Sebastian Rizzi Pittor in questa Città, facendo come Conduttore, sive Patrone del Teatro di S. Angelo, spontaneam[en]te costituisce suo Proc[urato]re, e Commesso legitimo il Sig[no]r Domenico Viola Agente delli N.N. H.H. Tron benché absente etc. À poter à nome suo riscuotter, ricever, e conseguir da tutti, e cadauni Affittuali de Palchi di d[ett]o Teatro di S. Angelo tutti li Affitti corsi, e maturati, facendo di quanto riscuotterà le debite ricevute e cautioni; et in caso di renitenza al pagamento giudiciariamente astringer, facendo perciò qualunque comparsa, essecutione, et Atti che ricercasse il bisogno.29 Come si evince dal documento, Domenico Viola quondam Tomio o Tomaso era l’«Agente delli N.N. H.H. Tron». Il suo nome circolava da anni nell’ambiente teatrale della Serenissima. Uomo di fiducia dei proprietari del San Cassiano almeno dal 1697,30 Viola collaborò in più occasioni anche con il Sant’Angelo, a riprova dei cordiali rapporti che intercorrevano tra le due sale.31 Egli fu cassiere del teatro nel 1716-1717 sotto l’impresario Pietro Ramponi,32 irriso, quest’ultimo, da un anonimo, coevo poema burlesco per via del sonoro fiasco della Penelope la casta di Chelleri su libretto di Matteo Noris, seconda opera della stagione: Il soprano turrinese ha Domenico Viola in cui spera al fin del mese che sia uomo di parola.33 Come vedremo, Viola fu cassiere del Sant’Angelo anche nella stagione riccesca: a lui i professionisti dello spettacolo si rivolgevano per ottenere la sospirata paga (al pari della star torinese della satira).34 Più che uomo di riferimento di 29. ASV, Notarile. Atti, b. 12249, c. 251r. (antica numerazione), Venezia, 24 febbraio 1718 m.v. (protocolli del notaio Giorgio Maria Stefani); cit. in Moretti, Documenti e appunti, cit., p. 111 (e rivedi n. 7). Sgombrando il campo da possibili fraintendimenti (cfr. Scarpa, Sebastiano Ricci, cit., p. 57, n. 218), precisiamo che nel gergo notarile del tempo la formula «benché absente» stava a indicare che il soggetto interessato era assente al momento della rogazione dell’atto. Nel nostro caso, con tale formula si specificava che Viola, pur non presente, dava il suo assenso. 30. Fu nominato procuratore dai Tron il 24 febbraio 1696 m.v., come si legge in un documento seriore inedito: ASV, Notarile. Atti, b. 1742, cc. 115v.-117v., Venezia, 19 aprile 1709 (protocolli del notaio Pietro Paolo Bonis). 31. Su Domenico Viola cfr. G. Vio, Una satira sul teatro veneziano di Sant’Angelo datata febbraio 1717, «Informazioni e studi vivaldiani», x, 1989, p. 110. 32. Cfr. ibid. 33. Racolta di satire in lingua venetiana fatte da soggeto diversi. Tomo VII, ms., Venezia, Biblioteca del museo Correr, Codice Cicogna, n. 1178, c. 175v. (cit. ivi, p. 104). 34. Si veda quanto si dirà più avanti. 269 GIANLUCA STEFANI Ricci, Viola era, dunque, un fedelissimo dei Marcello, dei Capello e degli altri compatroni del teatro. Da costoro fu probabilmente caldeggiato il suo nome a Ricci per l’ingrata incombenza di ‘estorcere’ gli affitti dalle tasche dei ritardatari. Inseguire i palchettisti insolventi non era compito facile, né esente da rischi: è documentato che, nel gennaio del 1662, un certo Stefano Galinazza, agente al San Luca, fu pugnalato vicino a casa da uomini mascherati.35 E potremmo citare altri esempi.36 Ci voleva una certa tempra per far da procuratore, e Viola doveva averne, al pari di altri colleghi patentati. Si guardi, ad esempio, alla faccia ‘da sgherro’ di Piero Balbi detto Franzifava in una caricatura di Anton Maria Zanetti (fig. 2).37 L’identificazione del disegno col Balbi è qui avanzata per la prima volta: la galleria delle caricature zanettiane si arricchisce di un altro professionista orbitante nel sistema dei teatri veneziani. Franzifava era colui che affittava «li palchi e scagni nel Teatro di opera che si fa in S. Moise»:38 il minaccioso cipiglio del ritratto zanettiano, certamente identificabile con il solerte agente di Almorò Giustinian,39 riporta all’attenzione della critica un personaggio altrimenti condannato al dimenticatoio, destinato tutt’al più a venire a galla in qualche registro di cassa o in qualche notifica giudiziaria. Che Domenico Viola avesse effettivamente agito per conto di Sebastiano Ricci nella riscossione degli affitti stagionali dei palchi lo prova un altro inedito in data 4 aprile 1719: «Cassa detta ducati 10 = Contadi a Dom[eni]co Viola Proc[urato]re di Sebastian Rizzi per affitto del Palco pepian n. 26 nel Teatro di Sant’Angelo per il Carnevale pass[a]to».40 L’estratto è desunto da uno dei capitoli delle ‘spese diverse estraordinarie’ annotate nei registri di cassa del nobiluomo Girolamo Ascanio Giustinian.41 Tali registri sono solo parzial35. Cfr. ASV, Consiglio di dieci, ‘Criminal’, b. 94, n. 1661, Venezia, [datazione non specificata], doc. cit. in Glixon-Glixon, Inventing the Business of Opera, cit., p. 33. 36. Cfr. ibid. 37. Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Gabinetto dei disegni e delle stampe, Album Zanetti, f. 39, inv. 36615 (cfr. Caricature di Anton Maria Zanetti, catalogo della mostra a cura di A. Bettagno [Venezia, 1969], presentazione di G. Fiocco, Vicenza, Neri Pozza, 1969, p. 81, scheda 215; e segnalo l’imminente pubblicazione per lineadacqua del catalogo delle caricature dell’album Cini a cura di E. Lucchese). Sul lato destro della caricatura si legge la scritta autografa di Zanetti: «Franzifava». 38. ASV, Capi del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, f. 44, fasc. a. 1728, c. n.n., 11 febbraio 1728 m.v. (il documento è inedito). 39. Piero Franzifava era l’agente di Almorò Giustinian e della sua famiglia, allora proprietari del teatro di san Moisè. 40. ASV, Ospedali e luoghi pii, ‘Registri’, b. 1002, c. 232b, alla data. 41. Patrizio veneziano, amante delle lettere, dilettante di violino, Girolamo Ascanio Giustinian (1697-1749) studiò musica con Giuseppe Tartini. Il nobiluomo passò alla storia soprattutto per la sua collaborazione all’Estro armonico-poetico di Benedetto Marcello (1724-1726): sua la parafrasi in italiano dei primi cinquanta salmi. Lo stesso Giustinian fu anche dedicatario 270 SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO mente noti.42 Il merito della loro scoperta si deve a Gastone Vio, il quale, in un articolo di qualche decennio fa, segnalava l’esistenza dei registri contabili (e dei corrispettivi giornali di cassa), appartenuti ai Giustinian del ramo ‘di Calle delle Acque’, conservati nel fondo degli Ospedali e luoghi pii all’Archivio di stato di Venezia.43 L’estinzione del ramo della famiglia con la morte di due discendenti femmine aveva legittimato alla successione dell’eredità l’ospedale degli Incurabili e quello della Pietà, secondo le disposizioni testamentarie dell’ultimo rampollo di quella casata.44 I registri in questione, compilati da Giovanni Andrea Cornello, segretario amministrativo di Girolamo Ascanio, sono una fonte preziosa per la storia dei teatri veneziani a quest’altezza cronologica. Vi si trovano annotati, tra le spese sostenute dal nobiluomo, anche pagamenti relativi a maschere e bollettini teatrali,45 nonché le somme versate per l’affitto dei palchi acquisiti dai Giustinian per via ereditaria o noleggiati per la stagione. Notevoli anche le notizie sui costi dei palchi (e dei bollettini) e sui nomi dei destinatari dei pagamenti. Se, in quest’ultimo caso, sono ripetitivi i dati rispetto ai teatri canonici, dove si sa in linea di massima chi riscuoteva gli affitti (Domenico Viola è confermato uomo di fiducia dei Tron, mentre Pietro Balbi e il conte Antonio Frigimelica sono i rispettivi incaricati per il San Moisè e il San Samuele), più interessanti sono le informazioni circa il Sant’Angelo. Scorrendo i registri è possibile ricomporre la sequenza di chi, di volta in volta, ebbe il compito di riscuotere dal Giustinian (o da chi per lui) la somma dovuta per il palco numero ventisei, a pepiano, posseduto da quella nobile famiglia. Certe stagioni a batter cassa erano i compatroni, certe altre – nei casi per noi più fortunati – gli impresari o i loro procuratori. Una documentazione di Cassandra, cantata composta dallo stesso Marcello su testo poetico di Antonio Conti (sul Giustinian cfr. in partic. G. Vio, Note biografiche su Girolamo Ascanio Giustinian, in Benedetto Marcello: la sua opera e il suo tempo. Atti del convegno internazionale [Venezia, 15-17 dicembre 1986], a cura di C. Madricardo e F. Rossi, Firenze, Olschki, 1988, pp. 61-74; M. Talbot, The Vivaldi Compendium, Woodbridge, The Boydell Press, 2011, pp. 89-90, s.v.). 42. Cfr. per tutti ibid. Molti studi di settore ignorano l’esistenza di questa preziosa fonte, o perlomeno non la tengono in debito conto. 43. Cfr. Vio, Note biografiche, cit. 44. Cfr. ASV, Notarile. Testamenti, b. 233, cedole 116 e 117, Venezia, rispettivamente alle date 9 agosto e 28 settembre 1790 (testamenti del notaio Giovanni Battista Capellis); cit. ivi, pp. 72-74. 45. In data 14 ottobre 1727, ossia prima dell’inizio della stagione, Giustinian acquistava dall’allora impresario del Sant’Angelo Gerolamo Gentillini un pacchetto di cinquantadue biglietti «per tutte le sere» (ASV, Ospedali e luoghi pii, ‘Registri’, b. 1004, c. 240b, alla data). Il che indurrebbe a pensare che il numero totale delle recite fosse solitamente fissato in anticipo (cfr. Talbot, Tomaso Albinoni, cit., p. 197). Vedi anche quanto si dirà più avanti. 271 GIANLUCA STEFANI ricca, che può aiutare a sciogliere alcuni nodi sull’ingarbugliato turnover di impresari al Sant’Angelo. L’indagine ha già dato i suoi frutti per gli unici due registri finora conosciuti e studiati,46 corrispondenti alle buste 1004 e 1011 del citato fondo archivistico, e relativi alle uscite di quasi un ventennio, dal 1722 al 1740. Il recupero di una terza busta (la numero 1002)47 consente ora di allargare lo spettro d’inchiesta agli anni cruciali 1716-1721. Dalla citata voce di pagamento al Viola si apprende che la somma versata dal Giustinian per un mezzo palco a pepiano era di dieci ducati.48 Il nobiluomo adempì al suo dovere soltanto il 4 aprile 1719, a stagione ampiamente scaduta. Ricci e Viola potevano comunque stimarsi fortunati: l’anno successivo, quando era impresario il dottor Francesco Rossi, il Giustinian versò il denaro soltanto il 21 agosto, direttamente presso il tribunale del Forestier (presumibilmente per l’insorgenza di beghe legali).49 Del resto, come noto, i ritardi nel pagamento degli affitti dei palchi erano diffusi tra i nobili veneziani. I registri di cassa dei Giustinian non fanno che confermare tale prassi. La stagione teatrale 1718-1719 al Sant’Angelo si concluse senza intoppi, fatte salve le magagne di routine. L’unico impedimento alla regolare messa in scena delle recite fu, per quanto ne sappiamo, la scossa di terremoto del 14 gennaio 1719, di cui si dava conto tre giorni dopo nella corrispondenza del «Bologna»: Verso le 3 ore e mezza di sabbato sera si sentì […] una terribil scossa di terremoto, che durò lo spazio d’un Credo […] e più d’ogni altro luogo si sentì alli teatri dell’opere, e comedie, da quali fuggirono le persone, li comici bassarono subito il telone.50 Nel carnevale di quell’anno le opere allestite al Sant’Angelo furono puntualmente annunciate dagli «Avvisi» di Venezia.51 In questi bollettini manoscritti 46. Cfr. ivi, p. 195 e n. 8.; Id., The Vivaldi Compendium, cit., pp. 89-90, s.v. Giustiniani, Girolamo Ascanio. 47. Segnalata nel menzionato articolo di Vio (Note biografiche, cit., p. 62, n. 5). 48. Cfr. ASV, Ospedali e luoghi pii, ‘Registri’, b. 1002, c. 232b, alla data. A venti ducati ammontava l’affitto intero di un palco a pepiano nel teatro di sant’Angelo. 49. Cfr. ASV, Ospedali e luoghi pii, ‘Registri’, b. 1002, c. 295a, 21 agosto 1720 (documento inedito). 50. Il «Bologna» era un notiziario a stampa, uscito dai torchi felsinei fin dal 1645 e poi edito, con continuità, dal 1678 al 1796 (cfr. E. Selfridge-Field, Song and Season: Science, Culture, and Theatrical Time in Early Modern Venice, Stanford, Stanford University Press, 2007, p. 318 e n. 33). L’estratto qui proposto è trascritto in Id., A New Chronology, cit., p. 344, n. 322. Analogo resoconto sull’evento sismico si legge nei dispacci del nunzio pontificio a Venezia (cfr. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica, Archivio segreto, ‘Nunziatura di Venezia’, n. 169, c. 23, Venezia, 14 gennaio 1719). 51. Gran parte delle copie degli «Avvisi» di Venezia è conservata presso la Biblioteca del museo Correr (Codice Cicogna, n. 1995) e alla Marciana di Venezia (Cod. It. vi, 74 [=5837]). 272 SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO di taglio ‘pubblicitario’, redatti ogni sabato52 e depositati presso la Cancelleria degli inquisitori di Stato,53 ricorrevano frequentemente notizie sui teatri e sugli spettacoli della Serenissima. Nei loro resoconti gli estensori54 registravano la messa in scena delle produzioni più importanti, aggiungendo qualche volta dettagli di contorno (per lo più notifiche di imprevisti o incidenti), oppure lapidari giudizi di merito, in genere stilati meccanicamente utilizzando un vocabolario codificato.55 Con queste parole, il 31 dicembre 1718 si metteva a verbale l’inizio della stagione di carnevale: e nella stessa sera [santo Stefano] si riaprirono tutti li ridotti, e Teatri delle Comedie et opere, et in quello à S. Gio: Grisostomo andò in scena il nuovo Drama intitolato Il Lamano, e nella sera seguente andò pure in scena all’altro à S. Angelo l’Amalasunta.56 Il medesimo estensore, in data 4 febbraio 1719, annunciava la prima del già ricordato Pentimento generoso: All’epoca, i foglietti con le notizie erano esposti nelle farmacie, nelle distillerie, nei negozi di barbiere e, a partire circa dal 1720, nelle botteghe di caffè dove ci si riuniva per discutere le notizie del giorno (cfr. Selfridge-Field, Song and Season, cit., pp. 312-314). 52. Si sa che i dispacci partivano su una chiatta da Rialto ogni sabato, dopo le due ore venete (ossia dopo il tramonto). I bollettini erano distribuiti in Terraferma per mezzo di una serie di corrieri. Viste le incombenti difficoltà sui tragitti di comunicazione, la sopravvivenza degli «Avvisi» risulta per lo più irregolare e lacunosa (cfr. Selfridge-Field, A New Chronology, cit., p. 41). 53. Poiché necessitavano dell’approvazione degli inquisitori di Stato, gli «Avvisi» sono conservati all’ASV nel fondo dedicato a questa speciale magistratura. Gli inquisitori, istituiti nel 1539, erano tre: due membri erano scelti nei ranghi del consiglio dei Dieci (i cosiddetti ‘neri’) mentre un componente veniva dal corpo dei consiglieri personali del doge (il ‘rosso’). Tale magistratura si occupava, tra le altre cose, della difesa dell’ordine pubblico ed ebbe perciò voce in capitolo anche in materia di spettacoli (cfr. G. Comisso, Agenti segreti veneziani nel Settecento [1705-1797], Milano, Bompiani, 1941, pp. 5-13; E. Selfridge-Field, Pallade Veneta. Writings on Music in Venetian Society 1650-1750, Venezia, Fondazione Levi, 1985, pp. 24-25; ManciniMuraro-Povoledo, I teatri del Veneto, cit., to. ii, p. 24, n. 80). 54. I resoconti più citati erano quelli di Pietro Donado. Costui, attivo dal 1689 al 1746 circa, aveva un’agenzia davanti alla chiesa di san Moisè. Tra gli estensori accreditati quelli più prolifici furono Giovanni Battista Feriozzi (attivo negli anni Dieci del Settecento), Francesco Alvisi (tra gli anni Dieci e Venti), Girolamo Alvisi (negli anni Trenta) e Carlo Origoni Perabò (tra gli anni Dieci e gli anni Cinquanta); cfr. Selfridge-Field, Song and Season, cit., p. 314. 55. Cfr. Selfridge-Field, A New Chronology, cit., p. 72. Questa forma ‘acerba’ di critica non era propria solo degli «Avvisi», ma era comune a tutti i resoconti coevi di spettacolo, a Venezia e in altre parti della penisola (cfr. L. Bianconi-T. Walker, Production, Consumption and Political Function of Seventeenth-Century Opera, «Early Music History», iv, 1984, p. 213). 56. ASV, Inquisitori di Stato, b. 707, fasc. a. 1718, c. n.n., Venezia, 31 dicembre 1718. 273 GIANLUCA STEFANI Intanto arrivano del continuo Cav[alie]ri Forastieri dà tutte le parti per godere dello stesso [carnevale] essendo ultimam[en]te nel Teatro di S. Gio. Grisostomo andato in Scena il 3° Drama intitolato l’Ifigenia in Tauride, e q[ue]sta sera in q[ue]llo di S. Angelo vi anderà il 3°: Drama intitolato il Portamento [sic!] Generoso, ò sia il Tiranno raveduto.57 per poi registrare, la settimana successiva, il gran successo di pubblico riscosso dall’opera firmata da Lalli e Fiorè: Sabb[a]to sera d[e]lla passata andò in scena nel Teatro à Sant’Angelo il terzo Dramma intitolato Il Pentimento Generoso, che hà un straordinario concorso.58 Parole che lasciano supporre il buon esito della stagione teatrale di Sebastiano Ricci. Si apprende, peraltro, da carte inedite, che le recite quell’anno furono in tutto sessantacinque:59 numeri da record, visto che, per fare un solo confronto, la brillante stagione del 1729-1730 al San Giovanni Grisostomo, lanciata nel nome di Farinelli, avrebbe totalizzato ‘appena’ cinquanta performances.60 D’altronde, si tenga conto che, in quel 1718, la stagione autunnale era partita presto, con il debutto dell’Amor di figlia di Lalli e Giovanni Porta il 29 ottobre.61 Il numero delle recite veniva probabilmente stabilito in anticipo:62 nei citati registri Giustinian, in data 14 ottobre 1728, è annotato il pagamento di un pacchetto di cinquantadue bollettini per l’imminente stagione teatrale al Sant’Angelo63 (cinquanta dovevano essere in media le recite stagionali in Laguna). Cifre per altro non esenti da variazioni: la programmazione degli spettacoli era generalmente flessibile, tenendo conto della risposta del pubbli- 57. Ivi, Venezia, 4 febbraio 1718 m.v. 58. Ivi, Venezia, 11 febbraio 1718 m.v. 59. Cfr. ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 22, Venezia, 21 marzo 1719. 60. Cfr. Talbot, Tomaso Albinoni, cit., p. 197. Ancora, l’Orlando furioso di Grazio Braccioli (libretto) e Antonio Vivaldi (musica), andato in scena per la prima volta al Sant’Angelo il 9 novembre 1713 (impresario lo stesso Vivaldi), totalizzò quasi cinquanta recite, tanto che fu replicato l’anno successivo nello stesso teatro (cfr. R. Strohm, The Operas of Antonio Vivaldi, Firenze, Olschki, 2008, vol. i, pp. 60 e 122-123). 61. Il libretto de L’amor di figlia (Venezia, Rossetti, 1718, 60 pp.) è stato consultato presso la Marucelliana di Firenze (Melodrammi, 2310.12). Per una scheda dell’opera cfr. Selfridge-Field, A New Chronology, cit., p. 342. Al San Giovanni Grisostomo, l’Ariodante di Antonio Salvi (libretto) e Carlo Francesco Pollarolo (musica) debuttò quasi un mese dopo, il 20 novembre 1718 (cfr. ivi, p. 342). 62. Cfr. Talbot, Tomaso Albinoni, cit., p. 197. 63. Rivedi n. 45. 274 SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO co.64 Se gli spettatori gradivano, si incrementavano le repliche, sia pure entro i termini del calendario stabilito. Sotto la gestione riccesca si recitò quasi ogni sera, con lauti incassi. Il buon andamento al botteghino di cui riferiscono gli «Avvisi», nonché le ottime condizioni economiche di cui godeva Ricci contribuirono ad agevolare il corso degli spettacoli, limitando le consuete polemiche e gli incidenti. I verbali dei Capi del consiglio dei Dieci non registrano nessun disordine: una felice eccezione, dato che nelle stagioni passate (e in quella successiva) molteplici furono gli interventi e i provvedimenti presi da costoro a fronte dei gravi episodi verificatisi al Sant’Angelo.65 Tuttavia non tutto andò liscio. Dalle carte dei giudici del Forestier veniamo a sapere di un contenzioso che vide protagonisti Sebastiano Ricci impresario e due membri della famiglia d’arte Madonis, i violinisti Giovan Battista e Lodovico. Documenti significativi, non tanto per il merito della controversia, quanto, soprattutto, per le informazioni indirette sulla gestione di quella stagione teatrale e, più in generale, sul sistema delle sale d’opera veneziane nel primo Settecento. Dei Madonis, il nome più noto è quello di Luigi, anch’egli violinista.66 Presunto allievo di Antonio Vivaldi, nel 1729 costui si stabilì a Parigi, al servizio dell’ambasciata di Venezia; e nel 1733, come violino di spalla, fece parte della compagnia di Gaetano, Gennaro e Antonio Sacco in viaggio sulla rotta di San Pietroburgo, presso la corte della zarina Anna Ioannovna.67 Si sa che Luigi era fratellastro di Antonio Madonis,68 impresario al Sant’Angelo nella stagione 1724-1725 e poi violinista in Russia con la compagnia Sacco 64. «Le opere con un buon riscontro di pubblico potevano andare in scena ogni giorno, mentre quelle con risultati alterni solo qualche volta alla settimana» (Selfridge-Field, Song and Season, cit., p. 105; mia la traduzione). Si sa, viceversa, che nel caso in cui un’opera fosse andata male si poteva decidere di interromperla e di sostituirla il prima possibile con una produzione ‘di scorta’. 65. L’intervento dei Capi al Sant’Angelo si registra nelle stagioni 1716-1717 (cfr. ASV, Capi del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, f. 42, fasc. a. 1716, cc. n.n., alle date 31 dicembre 1716; 5, 12, 30 gennaio e 25 febbraio 1716 m.v.); 1717-1718 (cfr. ivi, fasc. a. 1717, cc. n.n., alla data 22 gennaio 1717 m.v.) e 1719-1720 (cfr. ivi, f. 43, fasc. a. 1719, c. n.n., alla data 30 gennaio 1719 m.v.). 66. Cfr. G. Fornari, Madonis, Luigi, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della enciclopedia italiana, 2006, vol. 62, pp. 164-166 (ora anche on line). 67. Cfr. ivi, p. 165; e, soprattutto, S. Ferrone, La Commedia dell’Arte. Attrici e attori italiani in Europa (XVI-XVIII secolo), Torino, Einaudi, 2014, pp. 218 e n., 342. 68. Cfr. Fornari, Madonis, cit., p. 164. Lo stesso Antonio Madonis fu violinista al Sant’Angelo nella stagione 1717-1718; cfr. ASV, Capi del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, f. 42, fasc. a. 1717, c. n.n., Venezia, 22 gennaio 1717 m.v. 275 GIANLUCA STEFANI nella citata tournée del 1733.69 Sua e del fratello Giovan Battista la firma alla dedica del Seleuco, prima opera di carnevale di quell’anno.70 Dai documenti inediti sulla citata controversia, si ricava che Giovan Battista era il padre di Lodovico e che entrambi suonarono in quel teatro nell’autunno e nel carnevale 1718-1719, sotto la gestione del Ricci. Non era la prima volta che Lodovico Madonis si esibiva nell’orchestra del Sant’Angelo: in un verbale dei Capi del consiglio dei Dieci del 25 febbraio 1717 si legge che egli «sonò in d[ett]o Teatro il Violino Capo de Secondi».71 In quella stessa stagione 1716-1717 (guidata dall’impresario Pietro Ramponi), Lodovico fu anche ‘carattadore’, finanziando in proprio le produzioni operistiche.72 I Madonis furono legati al Sant’Angelo a doppio filo: in base alle tracce documentarie rinvenute, si può ipotizzare che la loro collaborazione in quel teatro fosse continuativa (non è un caso che Antonio ne divenisse impresario).73 Purtroppo, si sa, i nomi dei ‘sonadori’74 non erano registrati nei libretti, né sono sopravvissuti registri di cassa o altri documenti che possano aiutare a ri- 69. Si legge nei citati registri Giustinian: «Contadi à Domen[i]co Viola Proc[urator]e di D[omin]o Gio[vanni] Carestini Cess[iona]rio del S[igno]r Ant[oni]o Madonis Impresario del Teatro di S. Angelo per affitto del Palco Pepian n. 20» (ASV, Ospedali e luoghi pii, ‘Registri’, b. 1004, c. 181b, alla data 24 febbraio 1724 m.v.). La notizia dell’impresariato di Antonio Madonis, data a suo tempo da Vio (cfr. Note biografiche, cit., p. 69), è stata trascurata dalla critica successiva. Quanto alla tournée in Russia v. n. 67. 70. Seleuco, Venezia, Rossetti, 1725 (copia consultata: Milano, Biblioteca nazionale braidense, Racc. Dramm. Corniani Algarotti, 1067). Dopo l’impresariato al Sant’Angelo, i due fratelli violinisti furono legati alla troupe di Antonio Denzio, divisi tra il San Moisè e il teatro del conte boemo Fantišek Antonín von Sporčk a Kuks (Praga). È probabile che si riferisca a Antonio la seguente testimonianza inedita di Apostolo Zeno: «Diman l’altro partir di qui per Venezia il sig. Madonnis, sonatore di violino, amicissimo del sig. Filippo Recanati: che è stato qualche tempo in Praga per l’opere di quel Teatro» (lettera di Apostolo a Pier Caterino Zeno, Vienna, 31 agosto 1726, in Lettere inedite del signor Apostolo Zeno istorico e poeta cesareo, raccolte e trascritte da Giulio Bernardino Tomitano opitergino, membro del collegio elettorale dei dotti (1808), ms., Firenze, Biblioteca medicea laurenziana, Codice Ashburnham, 1788, c. 238r., lettera 514). 71. ASV, Capi del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, f. 42, fasc. a. 1716, c. n.n., Venezia, 25 febbraio 1716 m.v. 72. Cfr. Selfridge-Field, A New Chronology, cit., p. 332. 73. Cfr. n. 69. 74. Come è noto, gli artigiani veneziani erano uniti in corporazioni, dette arti, che ne regolavano l’attività commerciale. Tra queste corporazioni ve ne era una che rappresentava i musicisti, l’Arte de’ Sonadori (cfr. E. Selfridge-Field, Annotated Membership Lists of the Venetian Instrumentalist’s Guild, 1672-1727, «R.M.A. Research Chronicle», 1971, 9, pp. 1-52). «Gli elenchi dei membri forniti periodicamente [dalla corporazione] alle autorità governative sono un’utile fonte di informazioni per l’età anagrafica (malgrado questa sia spesso riportata in maniera inesatta) e perfino sulla relativa ricchezza di ciascun membro» (Talbot, The Vivaldi Compendium, cit., p. 27, s.v.; mia la traduzione). 276 SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO costruire sistematicamente l’organico dei professionisti di quella sala d’opera. Solo grazie al menzionato contenzioso è possibile collegare il nome dei Madonis alla stagione di nostro interesse. In quell’anno teatrale Ricci aveva accusato Giovan Battista e il figlio Lodovico di aver riscosso da Domenico Viola denaro in eccesso rispetto all’onorario pattuito. I due violinisti non avevano voluto sentire ragioni e il pittore decise di far ricorso alla giustizia. Il 21 marzo 1719, a più di un mese dalla conclusione delle recite, Ricci presentava al tribunale del Forestier75 la sua ‘dimanda’ contro Giovan Battista Madonis, redatta da Agostino Rosa, interveniente del teatro (doc. 3): Con la sc[rittu]ra 29 Aprile 1718 foste accordato, et v’obligaste Voi d[omino] Gio[van] Batt[ist]a Madonis con d[omino] Antonio Moreti d[ett]o Modotto Impresario del Teatro di S. Angelo a suonare il Violino Voi et v[ost]ro figli[ol]o nelle opere in d[ett]o Teatro dell’auttuno, e Carnevale prossimi passati in tutte le prove, e recite per l’esborso da farvisi de ducati cento, e quaranta da lire 6:4 l’uno tra tutti due à lire quindeci ogne recita in difalco sino al saldo dei sud[dett]i ducati 140. Et essendo stato cesso et renonciato il sud[dett]o Teatro a condure il med[esim]o dal sud[dett]o Moretti à mè Sebastian Ricci con tutti gl’obleghi, et accordi da lui fatti, v’hò anco ricevuti in bell’essercitio, ed impiego, et v’hò fatto prontam[en]te contribuire ogne recita da d[omino] Dom[eni]co Viola da mè declinato alla dispensa de Bolettini, et al pagamento delle spese ord[inari]e dell’opere le sudette lire quendeci da Voi conseguite per mano di Franc[esc]o Dominesso, ché fù da tutta l’orchestra scelto per scoddere per il corso intiero di sessantacinque recite che il sud[dett]o Viola le esborsò senza haver cognitione sin a qual suma ciò dovevasi continuare, all’hor ché venuto in cognitione tralasciò per vedervi non solo da Voi conseguito l’intiero delli ducati 140 stabiliti, ma ancora lire cento, e sette di più, e se ve n’è recercata la restitutione che da Voi recusata con patente ingiustitia fù chè citato nel presente Ecc[ellent]e Mag[istrat]o insto, et addimando che restiate sententiato alla restitutione delle sud[dett]e lire 107 di più del vostro accordo conseguite, et che indebitamente vi ritenete.76 Da questa ‘dimanda’ si ricava che, il 29 aprile 1718, i due Madonis avevano firmato il loro contratto di ingaggio (la ‘scrittura’)77 con Antonio Modotto, al- 75. I giudici del Forestier erano una corte speciale destinata alle cause nelle quali almeno una delle due parti implicate era ‘forestiera’. Lo spoglio sistematico del fondo (anni 1696-1730) ha portato a galla un discreto numero di carte concernenti beghe teatrali, per lo più riguardanti la proprietà dei palchi. Il contenzioso in questione è in tal senso un’eccezione: al centro della battaglia giudiziaria non ci sono palchi, ma questioni pecuniarie relative a professionisti del mondo dell’opera. 76. ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 22, Venezia, 21 marzo 1719 (documento inedito); e v. doc. 3. 77. Nell’ambiente teatrale dell’epoca, il termine ‘scrittura’ indicava un atto specifico volto a ratificare gli accordi tra due o più soggetti. Nel suo classico studio sui teatri veneziani, 277 GIANLUCA STEFANI lora unico impresario del teatro. La cifra pattuita per l’intero corso delle recite ammontava a centoquaranta ducati.78 Come specificato nel documento, ogni loro performance era compensata con quindici lire:79 l’equivalente di quanto fu pagato al secondo e al terzo violino nella stagione 1717-1718 al Sant’Angelo.80 I conti di quest’ultima annata sono noti perché passati al setaccio dei Capi del consiglio dei Dieci, i quali avevano commissariato la conduzione dell’allora impresario Giovanni Orsatto, finito sull’orlo del fallimento.81 Dal listino delle paghe giornaliere dovute ai singoli professionisti, si apprende, appunto, che al secondo violino Antonio Madonis dovevano essere corrisposte otto lire a recita, mentre al terzo violino Marco Madonis (un consanguineo non meglio identificato) furono accordate sette lire e dieci soldi.82 Se non è chiaro quanto percepì al netto di ogni esibizione il primo violino Paulo Sabadin (nelle venti lire al giorno registrate sono incluse le spese di alloggio), i restanti cinque violinisti furono equamente retribuiti con sei lire e quattro soldi.83 Paghe non certo elevate se prese singolarmente, ma che dovevano incidere non poco sulla spesa complessiva.84 Sulla base del citato listino è inoltre possibile ricostruire la composizione dell’orchestra al Sant’Angelo in questi anni. Oltre agli otto violinisti menzioLudovico Zorzi dichiarava di non essere riuscito a «rintracciare un solo contratto o un’altra qualsiasi menzione ufficiale relativa ai componenti dell’orchestra, evidentemente persone raccogliticce e di poche pretese» (Venezia: la Repubblica a teatro [1971], in Id., Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino, Einaudi, 1977, p. 263 [ora anche in versione e-book, con un saggio di S. Mazzoni, Bologna, CUE Press, in corso di stampa]). Beth e Jonathan Glixon, confermando l’assenza di notizie relative a contratti con orchestrali, ne ricavano che i musicisti in linea di massima non sottoscrivevano accordi ufficiali (cfr. Inventing the Business of Opera, cit., p. 223). L’inedito documento in questione prova, al contrario, che i musicisti erano ingaggiati sulla base di specifiche ‘scritture’, al pari degli altri professionisti d’opera. 78. Si tratta di ducati ‘correnti’, il cui valore all’epoca ammontava appunto a sei lire e quattro soldi (in ‘lire di piccoli’). 79. Cfr. ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 22, Venezia, 21 marzo 1719; e v. doc. 3. 80. Cfr. ASV, Capi del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, fasc. a. 1717, f. 42, c. n.n., Venezia, 22 gennaio 1717 m.v. 81. Cfr. ibid. Il documento citato registra l’autorizzazione emessa dal consiglio dei Dieci per la recita di Cleomene, su musica di Tomaso Albinoni e libretto di Vincenzo Cassani, al debutto al Sant’Angelo la sera stessa del nulla osta. Su questo doc. vedi anche Selfridge-Field, A New Chronology, cit., pp. 338-339. 82. Cfr. ASV, Capi del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, fasc. a. 1717, f. 42, c. n.n., Venezia, 22 gennaio 1717 m.v. 83. Cfr. ibid. 84. Si è calcolato che, negli anni Cinquanta del Seicento, le paghe degli orchestrali ammontassero a circa un sei per cento della spesa totale (cfr. Glixon-Glixon, Inventing the Business of Opera, cit., p. 223). 278 SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO nati, si devono annoverare due cembali, un ‘violone’, un violoncello, due ‘violette’ e un oboe.85 Quindici elementi in tutto: un ensemble ben più articolato di quanto calcolato dalla critica fino a oggi (si era parlato di sei o sette strumentisti al massimo).86 Si sa che i musicisti erano pagati di sera in sera, al pari di illuminatori, sarti, suggeritori, comparse, pittori di scena, maschere.87 I loro emolumenti, esclusi dai bilanci stagionali, erano conteggiati a parte,88 insieme alle spese «ord[inari]e dell’opere», compresa la «messa per le aneme del Purgatorio».89 Nella sua denuncia Sebastiano Ricci precisava di aver assegnato a Domenico Viola il compito di «contribuire ogne recita».90 Il fido cassiere, alloggiato presso il «buso de boletini»91 (il botteghino), avrebbe pensato ogni sera a radunare i soldi per l’orchestra per poi consegnarli nelle mani di Francesco Dominesso, incaricato di distribuire le paghe ai singoli musicisti. Stando alla testimonianza riccesca, sulla paga dei Madonis c’era stato un malinteso tra la direzione e Viola. Quest’ultimo, «senza haver cognitione», aveva dato ai due violinisti centosette lire oltre il dovuto. Dal canto loro, padre e figlio avevano incassato il denaro, senza batter ciglio.92 Un altro nome di musicista si aggiunge, dunque, all’elenco degli orchestrali al Sant’Angelo nella stagione 1718-1719: quello di Francesco Dominesso. Dominesso era un parrucchiere con l’hobby del violino, al pari di Giovanni Bat- 85. Cfr. ASV, Capi del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, fasc. a. 1717, f. 42, c. n.n., Venezia, 22 gennaio 1717 m.v. 86. Cfr. Mancini-Muraro-Povoledo, I teatri del Veneto, cit., to. ii, p. 25. Siamo comunque ben lontani dai numeri e dalle caratteristiche dell’orchestra come la intendiamo oggi. Così Strohm: «Le dimensioni complessive dell’orchestra d’opera variavano da istituzione a istituzione; ma un corpo di base composto da dodici suonatori d’archi, due/quattro suonatori di legni e due suonatori di ottoni, più uno o due arpicordi e forse una tiorba e un contrabbasso era normalmente sufficiente per un’opera italiana dell’epoca» (Strohm, The Operas of Antonio Vivaldi, cit., p. 93; mia la traduzione). Nel Seicento l’organico orchestrale era ancora più ridotto: negli anni Cinquanta si parla di cinque strumenti a corda, due o tre arpicordi, una o due tiorbe (cfr. Glixon-Glixon, Inventing the Business of Opera, cit., p. 222). 87. Cfr. L. Bianconi, Condizione sociale e intellettuale del musicista di teatro ai tempi di Vivaldi, in Antonio Vivaldi: teatro musicale, cultura e società. Atti del convegno internazionale di studio (Venezia, 10-12 settembre 1981), a cura di L. B. e G. Morelli, Firenze, Olschki, 1982, vol. ii, p. 377; Glixon-Glixon, Inventing the Business of Opera, cit., pp. 15 e 223. 88. Cfr. Bianconi-Walker, Production, Consumption, cit., p. 225. 89. ASV, Capi del Consiglio di dieci, ‘Notatorio’, ‘Filze’, fasc. a. 1717, f. 42, c. n.n., Venezia, 22 gennaio 1717 m.v. 90. ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 22, Venezia, 21 marzo 1719; e v. doc. 3. 91. Ivi, n. 108, Venezia, 31 maggio 1719. 92. Ivi, n. 22, Venezia, 21 marzo 1719. 279 GIANLUCA STEFANI tista Ganasette, di Angelo Galuppi, di Salvador Appoloni, Francesco Bottion e del più famoso Giovanni Battista Vivaldi.93 Visto l’incarico di responsabilità ottenuto sotto la gestione del Ricci (su votazione degli orchestrali),94 è lecito ipotizzare che il barbiere-musicista fosse un veterano del Sant’Angelo. Tornano alla mente, a questo proposito, le paradossali (ma non menzognere) parole usate da Benedetto Marcello per descrivere il ‘sonadore’ d’opera: «Dovrà il Virtuoso di Violino in primo luogo far ben la Barba, tagliar Calli, pettinar Perucche e compor di Musica».95 Si è ricordato come il frontespizio del Teatro alla moda irridesse proprio il Sant’Angelo: negli ironici consigli elargiti ai professionisti dell’opera, Marcello mescolava critiche generali con frecciate ad personam.96 Tanti, dunque, gli spunti che potremmo ricavare dal trascritto documento. Tornando al contenzioso, i Madonis non rimasero inermi di fronte alla querela del pittore. Il 1° aprile seguente, con altrettanta pervicacia, Giovan Battista espo93. Cfr. G. Vio, Musici veneziani nella cerchia di Giovanni Battista Vivaldi, in Nuovi studi vivaldiani: edizione e cronologia critica delle opere, a cura di A. Fanna e G. Morelli, Firenze, Olschki, 1988, vol. ii, pp. 696-699; F.M. Sardelli, Vivaldi’s Music for Flute and Recorder, trad. ingl. di M. Talbot, Aldershot, Ashgate, 2007, p. 154, n. 29; Talbot, The Vivaldi Compendium, cit., p. 30, s.v. Barbers and Barber-Musicians, Venetian. Dominesso risulta iscritto all’Arte de’ Sonadori nei registri degli anni 1711 e 1727 (cfr. Selfridge-Field, Annotated Membership Lists, cit., p. 19). 94. Cfr. ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 22, Venezia, 21 marzo 1719; e v. doc. 3. 95. [B. Marcello], Il teatro alla moda, Venezia, [Pinelli], [1720], cit. nell’ediz. a cura di R. Manica, Roma, Quiritta, 2001, p. 41. Talvolta le botteghe di barbitonsore funzionavano come vere e proprie scuole dove si impartiva agli allievi una formazione musicale. «È tutt’altro raro il caso di Capi Maestri Barbieri – come venivano qualificati i proprietari e conduttori di negozi da barbiere – che si impegnavano, per contratto, ad insegnare ai loro apprendisti non solo la loro vera e propria arte, ma anche la musica e l’apprendimento di qualche strumento» (G. Vio, I luoghi di Vivaldi a Venezia, «Informazioni e studi vivaldiani», v, 1984, p. 103, n. 9). Nelle sue ricerche, Vio avverte di aver raccolto una ricca messe di «contratti di garzonaggio nei quali si tratta di apprendimento dell’arte musicale. Per lo più i maestri sono barbieri. C’è da credere che nelle ‘botteghe da barbier’, a Venezia, si tenessero trattenimenti musicali, forse nei momenti di ‘stanca’, quando la clientela era meno numerosa, ma si deve tenere presente che erano i barbieri che si recavano nelle case dei nobili (e non viceversa) e nei palazzi veneziani potremmo dire che la musica era davvero di casa» (Vio, Musici veneziani, cit., p. 696, n. 28). Che a Venezia si facesse musica e ci si formasse musicalmente nelle botteghe dei barbieri è indizio della mancanza di istituti di formazione professionale (eccezion fatta per i conservatori, che allevavano fanciulle destinate, per lo più, a rimanere confinate entro il perimetro dei conservatori stessi) e dunque indice di una formazione «informale, mimetica» (cfr. Bianconi, Condizione sociale, cit., p. 379). Professionisti siffatti, senza precisa formazione, che imparavano l’arte in qualche bottega di barbiere di fortuna, sono appunto l’oggetto della satira di Marcello, che non manca di sottolineare questa consuetudine irridendo a quei musicisti che anziché maneggiare i principi della composizione (nella tradizione cinquecentesca) maneggiavano pennelli e rasoi. 96. Cfr. E. Selfridge-Field, Marcello, Sant’Angelo and ‘Il Teatro alla moda’, in Antonio Vivaldi: teatro musicale, cultura e società, cit., vol. ii, pp. 533-546. 280 SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO neva per iscritto le proprie ragioni (doc. 4).97 Costui puntualizzava essere ben altri gli accordi presi «con d[omi]no Ant[oni]o Moretti d[et]to Modotto, al quale esso Rizzi è succeduto per Impressario del Teatro di S. Angelo per l’Autuno, e Carnevale pross[i]mo passato». Poiché tali accordi erano stati violati, Madonis si sentiva legittimato a «tratenersi tutto il conseguito», ossia le centosette lire incriminate. In che cosa consistessero le «alterationi» dell’«accordo» «praticate dà esso Rizzi cessionario», non è detto apertamente. Madonis parla di «insolito impiego non mai concertato, anzi fuori del convenuto praticato», in ragione del quale l’impresario «doverebbe con honesto, e raggionevole sentimento riddursi à supplire à suoi ulteriori doveri».98 Non è improbabile che il musicista alludesse al servizio prestato per recite extra, programmate sulla scia del successo di pubblico. Ma Giovan Battista Madonis non si limitò a replicare alle accuse di Ricci. Il 22 maggio il violinista passava al contrattacco, presentando ai giudici del Forestier una ‘dimanda di converso’ (doc. 5), con la quale chiedeva il pagamento di centosessantacinque lire per le ultime undici sere di recita (per «il solito onorario delle lire 15 per ogni sera»).99 Evidentemente, dopo aver scoperto l’illecito, Ricci non aveva finito di pagare i due violinisti, scalando dall’onorario pattuito il saldo delle loro ultime prestazioni. Secondo Giovan Battista si trattava di un mero pretesto studiato dall’impresario per «esimersi dall’intiero adempim[ent]o de suoi doveri»; d’altronde, «poco plausibili» erano le insistenze di d[omin]o Sebastian Rizzi nel pretender con aperta ingiustitia la restitut[io]ne delle lire 107 fatte soministrare a d[omin]o Z[u]an B[attis]ta Madonis e Lod[ovi]co suo figliolo per dovuta recognitione del loro impiego e serviggio prestato nel Teatro di S. Angelo di sera in sera.100 Era troppo. Nove giorni dopo, il pittore ricapitolava, con maggiore concisione, le proprie ragioni, rigettando la domanda di ‘converso’ come un torbido espediente usato «per far cadere la causa deputata di volontà per li 24 dello stesso mese».101 Quindi tornava a chiedere giustizia contro il Madonis (doc. 6). I giudici gli diedero ragione. Della causa possediamo la sentenza, anch’essa inedita, emessa in data 18 luglio 1719 da «Giacomo Minoto, Mattio Ciceron e Andrea Marcello Hon[orand]i Giud[ic]i di Forestier» (doc. 7).102 Nel dop97. ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 45, Venezia, 1° aprile 1719. 98. Ibid. 99. ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 97, Venezia, 22 maggio 1719. 100. Ibid. 101. Ivi, n. 108, Venezia, 31 maggio 1719. 102. ASV, Giudici del Forestier, ‘Sentenze’, b. 133, c. 264v., Venezia, 18 luglio 1719. 281 GIANLUCA STEFANI pio ‘spazzo’ (sentenza) la corte da un lato condannava Madonis al capo di imputazione prodotto nell’accusa del 21 marzo; dall’altro assolveva Ricci dalla controaccusa presentata dal violinista presso quel tribunale in data 22 maggio. Come era norma in questi casi tutte le spese processuali sarebbero state addebitate al Madonis. Di seguito i verdetti: Quanto al cappo di principal, tutti tre S.S. E.E. Unanimi et Concordi hanno sent[enziat]o detto d[omi]no Gio[van] Batt[ist]a Madonis giusto in tutto e per tutto alla Dima[nd]a del d[omin]o Rizzi cond[annand]o la parte Rea nelle spese. Quanto al cappo di converso di d[omin]o Madonis parimenti tutti tre S.S. E.E. Unanimi et Concordi hanno asolto d[omin]o Rizzi da d[ett]o Cappo e dalle cose in esso cont[enu]te cond[annand]o il sud[dett]o Madonis nelle spese. [Firma] Giacomo Minotto Giudice di Forestier.103 Si concludeva così l’incresciosa vicenda che aveva visto Ricci alle prese con beghe contrattuali e aule di giustizia. Il ricordo amaro dei guai giudiziari della stagione 1705-1706104 doveva essersi riacceso. Dieci anni più tardi (1729), il pittore ci sarebbe ricascato, ficcandosi nell’impresa di un altro teatro, il San Cassiano di Francesco Tron. Neanche allora mancarono i ‘dolori’. In una ‘crudele’ caricatura (fig. 3), Zanetti ritraeva «Bastian Ricci pensoroso; perche non faceva assai Bollettini in S. Cassiano».105 L’amico ne aveva ben fiutato l’umore: nuove grane erano in arrivo, altri assilli. Alla soglia dei settant’anni, l’impresario sarebbe tornato in angustie. Appendice La trascrizione dei documenti è prevalentemente conservativa. Tra parentesi quadre sono indicate le lettere omesse nelle abbreviazioni o nelle parole contratte. La particolare accentazione in uso al tempo è stata per lo più mantenuta, tranne nei casi di ambiguità e possibile fraintendimento. Gli a capo sono stati rispettati solo in parte, e, quando necessario, è stata introdotta o modificata la punteggiatura. Si è distinto u da v. 103. Ibid. 104. Cfr. Glixon-White, ‘Creso tolto a le fiamme’, cit. e M. White, Antonio Vivaldi: A Life in Documents, Firenze, Olschki, 2013, pp. 50-54. 105. Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Gabinetto dei disegni e delle stampe, Album Zanetti, f. 56, inv. 36679 (cfr. Caricature di Anton Maria Zanetti, cit., p. 96, scheda 279; E. Lucchese, Sebastiano Ricci ‘pensoroso’, in Sebastiano Ricci. Il trionfo dell’invenzione nel Settecento veneziano, catalogo della mostra a cura di G. Pavanello [Venezia, 24 aprile-11 luglio 2010], Venezia, Marsilio, 2010, p. 48, scheda 3). 282 SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO Doc. 1 Antonio Moretti nomina suo procuratore Sebastiano Ricci, ASV, Notarile. Atti, b. 12249, cc. 175r.-v. (antica numerazione, protocolli del notaio Giorgio Maria Stefani). Die Veneris 16 Mensis Decembris 1718. In Scriptoria mei Notarij super Platea Divi Marci Venetiarum etc. Il Sig[no]r Antonio Modotto, spontaneamente costituisce suo Proc[urato]r irrevocabile, il Sig[no]r Sebastian Rizzi Pittor in questa città benche absente etc. À poter à nome suo riscuotter, ricever, e conseguir da tutti, e cadauni Affituali de Palchi del Teatro di S. Angelo l’Affitto d’ogni, e cadaun Palco, che s’attrova Affittato in detto Teatro per l’opera del presente Autuno e venturo Carnevale 1718 m[or]e v[enet]o che saranno maturati li primi giorni della Quadragesima106 prossima; e tutto quello, e quanto riscuotterà di esso Affitto trattenersi nelle di lui mani d[ett]o Sig[no]r Sebastian Rizzi per spese per occasione di d[ett]a Opera da lui fatte; essercitando perciò qualunque essecutione con chi fossero renitenti per la consecutione di essi Affitti, nella forma e modo, et in tutto, e per tutto, come far potrebbe d[ett]o Sig[no]r Modotto Costituente, se presente fosse; et in suo luoco sostituire unò, ò più Procuratori con simile overo limitate auttorità, et quelli revocare; et Generalmente etc. Promettendo etc. sott’obbligatione etc. Rogano etc. Teste: D[ominus] Sanctus Bortoli q[uondam] Camilli; et D[ominus] Fran[ces]cus Anumano Doc. 2 Sebastiano Ricci nomina suo procuratore Domenico Viola, ASV, Notarile. Atti, b. 12249, c. 251r. (antica numerazione, protocolli del notaio Giorgio Maria Stefani). Die Veneris 24 Mensis Februarij 1718 M.V. In domo habitationis mei Notarij de Confinio Sancti Salvatoris Veneti etc. Il Sig[no]r Sebastian Rizzi Pittor in questa Città, facendo come Conduttore, sive Patrone del Teatro di S. Angelo, spontaneam[en]te costituisce suo Proc[urato]re, e Commesso legitimo il Sig[no]r Domenico Viola Agente delli N.N. H.H. Tron benché absente etc. À poter à nome suo riscuotter, ricever, e conseguir da tutti, e cadauni Affittuali de Palchi di d[ett]o Teatro di S. Angelo tutti li Affitti corsi, e maturati, facendo di quanto riscuotterà le debite ricevute e cautioni; et in caso di renitenza al pagamento giu- 106. Quaresima. 283 GIANLUCA STEFANI diciariamente astringer, facendo perciò qualunque comparsa, essecutione, et Atti che ricercasse il bisogno; et Generalmente etc. Promettendo etc. sott’obbligat[ion]e etc. Teste: D[ominus] Antonius Angeli q[uonda]m d[omi]ni Mathei et D[ominus] Jo[annis] Dom[eni]cus Redolfi q[uondam] d[omi]no Jo[annis]. Doc. 3 Domanda di Sebastiano Ricci in causa con Giovan Battista Madonis, ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 22. Adì 21 Marzo 1719 Dimanda di D[omin]o Sebastian Rizi in causa contro Do[mi]no G[iov]an Batt[ist]a Madonis.107 Con la sc[rittu]ra 29 Aprile 1718 foste accordato, et v’obligaste Voi d[omino] Gio[van] Batt[ist]a Madonis con d[omino] Antonio Moreti d[ett]o Modotto Impresario del Teatro di S. Angelo a suonare il Violino Voi et v[ost]ro figli[ol]o nelle opere in d[ett]o Teatro dell’auttuno, e Carnevale prossimi passati in tutte le prove, e recite per l’esborso da farvisi de ducati cento, e quaranta da lire 6:4 l’uno tra tutti due à lire quindeci ogne recita in difalco108 sino al saldo dei sud[dett]i ducati 140. Et essendo stato cesso et renonciato il sud[dett]o Teatro a condure il med[esim]o dal sud[dett]o Moretti à mè Sebastian Ricci con tutti gl’obleghi, et accordi da lui fatti, v’hò anco ricevuti in bell’essercitio, ed impiego, et v’hò fatto prontam[en]te contribuire ogne recita da d[omino] Dom[eni]co Viola da mè declinato alla dispensa de Bolettini, et al pagamento delle spese ord[inari]e dell’opere le sudette lire quendeci da Voi conseguite per mano di Franc[esc]o Dominesso, ché fù da tutta l’orchestra scelto per scoddere per il corso intiero di sessantacinque recite che il sud[dett]o Viola le esborsò senza haver cognitione sin a qual suma ciò dovevasi continuare, all’hor ché venuto in cognitione tralasciò per vedervi non solo da Voi conseguito l’intiero delli ducati 140 stabiliti, ma ancora lire cento, e sette di più, e se ve n’è recercata la restitutione che da Voi recusata con patente ingiustitia fù chè citato nel presente Ecc[ellent]e Mag[istrat]o insto, et addimando che restiate sententiato alla restitutione delle sud[dett]e lire 107 di più del vostro accordo conseguite, et che indebitamente vi ritenete. Salvis etc. et in expensis. 107. Come annotato a margine del testo, la scrittura fu «illico intimata» a un certo Venturini. 108. Detrazione. 284 SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO Doc. 4 Risposta di Giovan Battista Madonis in causa con Sebastiano Ricci, ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 45. Adì p[ri]mo Ap[ri]le 1719 Risposta di Do[mi]no Z[u]an Batt[ist]a Madonis in causa con Domi[n]o Sebastian Rizzi.109 Non può darsi stravaganza maggiore né ingiustitia più aperta di quella [che] và meditando d[omi]no Sebbastian Rizzi contro d[omi]no Gio[van] Batt[ist]a Madonis nel pretender con pocca gratitudine, e meno raggione la restitution delle lire 107 – dice haver il di Lui Scodidore contribuito di più dell’accordo [che] si pretende concluso con d[omi]no Ant[oni]o Moretti d[et]to Modotto, al quale esso Rizzi è succeduto per Impressario del Teatro di S. Angelo per l’Autuno, e Carnevale pross[i]mo passato. Se con matura ponderatione volesse riflettere alla stretta raggione dell’accordo sud[dett]o fatto col pred[ett]o Modotto et all’alterationi di quello praticate dà esso Rizzi cessionario non solo conoscerebbe l’Ingiustitia de suoi tentativi che la convenienza d’esso Madonis per legalm[ent]e tratenersi tutto il conseguito, mentre anzi doverebbe con honesto, e raggionevole sentimento riddursi à supplire à suoi ulteriori doveri, per debita retributione dell’insolito impiego non mai concertato, anzi fuori del convenuto praticato. Sop[r]a di che come dovran esser salve le raggioni d’esso Madonis, così rispondendo per hora alla mal consigliata dimanda Avers[ari]a insta esso Madonis d’esser dà quella assolto, e liberato per le raggioni, e cause stesse à tempo, e luoco considerate con quel di più [che] rissulta dal fatto; e ciò senza pregiud[ici]o quomodo qualiter; et in exp[ens]is etc. Doc. 5 Scrittura e domanda di ‘converso’ di Giovan Battista Madonis in causa con Sebastiano Ricci, ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 97. Adì 22 maggio 1719 Scrittura e dimanda di converso di d[omi]no Z[u]an Batt[ist]a Madonis, in causa con domino Sebastian Rizzi insieme con un processo seg[nat]o dal p[resent]e Giorno. [A margine:] del p[resent]e Giorno Dalle poco plausibili insistenze di d[omin]o Sebastian Rizzi nel pretender con aperta ingiustitia la restitut[io]ne delle lire 107 fatte soministrare a d[omin]o Z[u]an 109. A margine del testo si legge che la scrittura fu «illico intimata» ad Agostino Rosa, interveniente del teatro di sant’Angelo e dello stesso Sebastiano Ricci. 285 GIANLUCA STEFANI B[attis]ta110 Madonis e Lod[ovi]co suo figliolo per dovuta recognitione del loro impiego e serviggio prestato nel Teatro di S. Angelo di sera in sera, come si rende patente il torto delle sue mal fondate pretese, così sempre più s’acresce la raggione d’esso Madonis per esser dalla Giustitia assolto e liberato dalla proposta dimanda avvers[ari]a. Ma perché vorebbe con tal dannato pretesto esimersi dall’intiero adempim[ent]o de suoi doveri a quali è tenuto per le recite dell’ultime sere a corisponder a d[ett]i Padre e Figliolo Mad[oni]s il solito onorario delle lire 15 per ogni sera sarà per Cappo di Converso sentent[iat]o esso Rizzi in lire 165 importar di 11 sere ultime che a lire 15 per sera tanto rileva il pred[ett]o Madonis, come vuole la ragg[io]ne il fatto è che stante le cose come stanno non puo ne deve ricusarne di q[ue]ste il Pagam[ent]o dovuto, ciò senza minimo pregiud[iti]o anzi con espressa riserva d’ogni e qualunque altra attione e ragg[ion]e d’esso Madonis quomodo qualiter etc. Salvis et in expensis etc. Doc. 6 Scrittura e risposta di Sebastiano Ricci in causa con Giovan Battista Madonis, ASV, Giudici del Forestier, ‘Domande, scritture, risposte delle parti’, b. 79, fasc. 31, n. 108. Adì 31 maggio 1719 Scrittura et risposta di do[mi]no Sebastian Rizi alla dimanda di converso di domino Gio[van] Batt[ist]a Madonis insieme con un processo seg[na]to dal presente giorno Bensì con giustitia può dirsi da d[omino] Sebastian Rizzi che non plausibili, ma delictabili sono le diretioni et insistenze di d[omino] Gio[van] Batt[ist]a Madonis in non voler restituire ad esso Rizzi le lire cento, e sette che di più dell’importar del suo accordo per suonar lui, et il figli[ol]o nell’opere in S. Angelo hà ricercato da d[omino] Dom[enic]o Viola che al buso de boletini111 attendeva, e contribuiva di recita in recita le sume agl’operanti nelle med[esim]e destinategli in conto dei loro accordi, che tra l’ochio non haveva,112 e che con non buona fede tutto che adempeto il di lui accordo s’è compiaciuto dalle sue mani ricercare; et maggiormente si rende censurabile la pretesa posta à campo con tal qual dimanda di converso presentata li 22 cor[ren]te per far cadere la causa deputata di volontà per li 24 dello stesso mese, alla quale dovendosi per capo d’ordine rispondere insta lo stesso Rizzi d’esser dalla med[esim]a assolto, e liberato, come sarà per giustitia esaudita la sua giustissima dimanda di principale [del] 21 marzo antecedente che non può per verun reguardo esser combatuta, se non per l’ingiusto fine di trattenersi se potesse l’indebitam[en]te conseguito di più di q[ua]nto per il suo accordo l’era dovuto; et fù con la scrittura 29 Aprile 1718 stabilito salvis etc. et in expensis etc. 110. Il nome del Madonis senior compare nell’interlinea inferiore a correzione di Lod[ovi]co, cancellato con più freghi. 111. Botteghino. 112. Che non aveva sott’occhio. 286 SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO Doc. 7 Sentenza dei Giudici del Forestier sulla causa Ricci-Madonis, ASV, Giudici del Forestier, ‘Sentenze’, b. 133, c. 264v. [18 luglio 1719] Onde gli Illustrissimi S[igno]ri Giacomo Minoto, Mattio Ciceron e Andrea Marcello Hon[orand]i Giud[ic]i di Forestier. Visto un processo di carte 37, scritte e non, prencipia L[aus] D[eo] 29 Aprile 1718 Ven[eti]a etc. et fenisce salvijs et sine preg[iuditi]o et etc. Item altro Proceso di carte 7, scritte e non, prencip[ia]nte L[aus] D[eo] 1718 12 maggio Venetia etc. et fenisce fui p[rese]nte testimonio, a quanto di sopra prodoti dalla parte Attrice, et di poi, veduto un processo di carte 19, scritte e non, prencipia Adì 29 Aprile 1718 Vene[ti]a etc. et Fenisce intimato ad Agostin Rosa n[omine] q[uorum] i[nterest] prodoto per la parte rea, con quanto che hanno voluto dire et dedurre a favor delle loro rag[io]ni con il mezzo del N. H. S[ier] Alvise Priuli per la parte Attrice, e per la parte rea dal N. H. S[ier] Costantin Belloto loro avocadi ord[ina]ri;113 e datto prima il giuram[en]to alli Ill[ustrissi]mi S[igno]ri Giud[ic]i s[econ]do la forma della legge. Cristi nomine invocato a quo etc. Quanto al cappo di principal, tutti tre S.S. E.E. Unanimi et Concordi hanno sent[enziat]o detto d[omi]no Gio[van] Batt[ist]a Madonis giusto in tutto e per tutto alla Dima[nd]a del d[omin]o Rizzi cond[annand]o la parte Rea nelle spese. Quanto al cappo di converso di d[omin]o Madonis parimenti tutti tre S.S. E.E. Unanimi et Concordi hanno asolto d[omin]o Rizzi da d[ett]o Cappo e dalle cose in esso cont[enu]te cond[annand]o il sud[dett]o Madonis nelle spese. [Firma] Giacomo Minotto Giudice di Forestier. 113. Era consuetudine che i giovani patrizi veneziani, all’inizio della propria carriera, si cimentassero nella avvocatura. 287 GIANLUCA STEFANI Fig. 1. Benedetto Marcello, Frontespizio della prima edizione de Il teatro alla moda, particolare, 1720, incisione (collezione privata). Fig. 2. Anton Maria Zanetti il vecchio, Piero Balbi detto «Franzifava», s.d., penna e inchiostro bruno rinforzato con bistro su carta bianca (Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 36615). 288 SEBASTIANO RICCI IMPRESARIO Fig. 3. Anton Maria Zanetti il vecchio, «Bastian Ricci pensoroso», 1729, penna con inchiostro bruno su carta bianca (Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 36679). 289 Adela Gjata LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI (1936-1947) Figura influente della cultura italiana del Novecento Renato Simoni si cimenta in un’ampia gamma di mestieri dello spettacolo. Nella polimorfia artistica di costui (drammaturgo, critico, regista teatrale e cinematografico, librettista per l’opera seria e buffa, sceneggiatore, oratore, autore di riviste, balletti, elzeviri, articoli di costume, epigrammi, anacreontiche e facezie rimate) la pratica registica, concentrata negli anni 1936-1947, assume un grande rilievo. Autore di spettacoli allestiti per manifestazioni quali la Biennale Teatro di Venezia e il Maggio Musicale Fiorentino, Simoni appariva nell’articolato panorama teatrale del secondo dopoguerra come un fenomeno singolare, un «caso a parte»,1 sia per l’impossibilità di inserirlo in tendenze poetiche o prassi sceniche canoniche sia per il singolarissimo esercizio di un autodidatta, già autorevole critico teatrale, che firma la prima regia all’età di sessantuno anni e che è subito celebrato come un ‘capostipite’. Lo aveva, del resto, già dichiarato con energia Silvio d’Amico recensendo Il ventaglio e Le baruffe chiozzotte del 1936, le rappresentazioni goldoniane all’aperto della xx Biennale di Venezia: Chi ha dimenticato i nomi di Reinhardt e di Copeau? Ma quest’anno, a Venezia, ha esordito in qualche stile un italiano, Renato Simoni. Non ci sembra il caso di fare, ai lettori di una rivista di teatro, la presentazione di questo nome. Non ci sembra nemmeno opportuno insistere sul fenomeno – che altri ha rilevato con una punta d’orgoglio, del resto legittimo – del critico che «passa dalle parole ai fatti» e cioè diventa 1. La definizione è di Giulio Cesare Castello che, in uno scritto sullo stato della regia teatrale italiana nel secondo dopoguerra, inserisce Simoni nella categoria della «vecchia guardia», differenziando tuttavia la sua esperienza sia dall’esercizio dei «registi importanti» quali Gualtiero Tumiati, Sergio Tofano, Pietro Sharoff e Tatiana Pavlova, che dall’attività di Anton Giulio Bragaglia, Guido Salvini e Enzo Ferrieri – i «maestri italiani» –, così come dai cosiddetti «epigoni» alla stregua di Giulio Pacuvio. Cfr. G.C. Castello, Vent’anni di regia, «Sipario», iv, 1949, 40-41, pp. 25-31. E v. C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Firenze, Sansoni, 1984, p. 270 (cui rimandiamo anche per il quadro di riferimento). DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 291-308 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18381 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. ADELA GJATA regista. […] Nessuno ignora che Simoni è oggi, in Italia, l’unico critico a cui un direttore di compagnia possa rivolgersi, per consigli anche tecnici, sulla regia di un lavoro. […] Le recite goldoniane di Venezia hanno rivelato un regista italiano dalla mano amorosa ma scaltra, sicura ma lieve.2 Il critico romano affianca dunque il debutto registico di Simoni ai nomi di maestri europei quali Max Reinhardt e Jacques Copeau, che, è noto, nel triennio 1933-1935 avevano allestito per il Festival di Venezia e per il Maggio Musicale Fiorentino spettacoli di notevole qualità per ricerca creativa, attenzione interpretativa e cura dell’insieme.3 Se come critico la tribuna di Simoni fu quella moderata del «Corriere della Sera», le sue regie non si distaccarono da questo quadro di riferimento, realizzando nella pratica il principio damichiano dell’‘innovare conservando’; e poiché questa era la strada maestra percorsa dalla regia italiana negli anni Trenta, Simoni divenne il punto di riferimento della cultura teatrale nazionale che vedeva di buon occhio l’avvicinarsi degli autori alla scena in quanto garanzia di fedeltà al testo e al teatro di parola. Il Festival teatrale di Venezia – inaugurato nel 1934 con Il mercante di Venezia per la regia di Reinhardt e La bottega del caffè diretta da Gino Rocca – si costruisce sulla base di una linea programmatica ed estetica caratterizzata da alcuni elementi fondamentali: la selezione, sul piano drammaturgico, di testi ‘classici’ con particolare riferimento all’opera goldoniana, parte del processo tendente a consacrare Goldoni poeta nazionale;4 la costruzione di messe in 2. S. d’Amico, Le recite goldoniane a Venezia. Simoni regista, «Scenario», v, 1936, 8, p. 369. Nel 1940 anche Nicola De Pirro – rappresentante istituzionale del teatro italiano – eleggerà Simoni ‘regista nazionale’, autore di successi «certamente pari e talvolta superiori a quelli ottenuti da famosi registi stranieri». N. De Pirro, Nascita della regia in Italia, ivi, ix, 1940, 1, p. 7. Sui primi anni di vita di «Scenario» v. M. Schino, La parola regia, in Studi di Storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone, a cura di S. Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 491-527. Per la fortuna novecentesca di Goldoni rinviamo a P. Bosisio, Il teatro di Goldoni sulle scene italiane del Novecento, ricerca iconografica e apparati a cura di A. Bentoglio, Milano, Electa, 1993 (pp. 46-53, per Simoni). 3. Gli spettacoli shakespeariani di Max Reinhardt – Sogno di una notte di mezza estate al Giardino di Boboli (1933), Il mercante di Venezia in campo San Trovaso a Venezia (1934) –, e quelli di Jacques Copeau allestiti per il Maggio Musicale Fiorentino – La rappresentazione di Santa Uliva nel chiostro di Santa Croce (1933) e il Savonarola di Rino Alessi in piazza della Signoria (1935) – erano alcune delle migliori espressioni del nuovo teatro europeo, che i teatranti italiani colsero e svilupparono solo parzialmente, guardandoli, non raramente, come bizzarrie dettate da scelte estreme. 4. Nel 1907, in occasione della celebrazione del bicentenario di Goldoni, Simoni auspicava una maggiore popolarità dello scrittore veneziano: «bisogna che quel suo teatro così trionfalmente e profondamente italiano sia noto tra noi per lo meno come è noto Molière in Francia». R. Simoni, Goldoni: 1707-1907, «Il mondo artistico», 1° marzo 1907. 292 LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI scena aderenti alla formula degli imponenti spettacoli all’aperto, nonostante i contenuti e i ristretti spazi delle rappresentazioni – campielli, rii e cortili – non rispondessero alla formula del teatro di massa auspicata dal regime; la creazione di compagnie apposite con elementi di primo livello, dagli interpreti agli scenografi, ai costumisti e ai registi; il carattere internazionale garantito dalla presenza di maestri europei, principio potenziato ulteriormente nelle rassegne del secondo dopoguerra. Gli spettacoli erano al centro di un’intensa attività promozionale: dai manifesti che tappezzavano gran parte delle città dell’Italia centro-settentrionale alle trasmissioni radiofoniche, all’ospitalità ai critici delle maggiori testate.5 Il prestigio della manifestazione lagunare scaturiva, inoltre, dagli spettatori illustri delle ‘prime’ – dalle autorità cittadine alle più spiccate personalità del mondo intellettuale italiano e straniero – attraverso i quali il pubblico del festival acquisiva agli occhi del comune cittadino una esemplare valenza sociale.6 Nel 1936, l’anno delle già ricordate prime regie goldoniane di Simoni, la Biennale consolida i rapporti con il Ministero per la stampa e la propaganda diretto da Dino Alfieri e in particolare con l’Ispettorato del teatro nella persona di Nicola De Pirro, in sintonia con il controllo della vita sociale e culturale incentivato dal regime a partire dalla metà degli anni Trenta. Oltre al patrocinio istituzionale, lo Stato fascista garantisce al Festival del Teatro il supporto economico primario per la produzione di ‘spettacoli d’arte’,7 allestimenti dai costi ingenti, relativi, oltre alla retribuzione delle maestranze, alla realizzazione del luogo teatrale che prevedeva la costruzione di scene tridimensionali, tribune, impianti di illuminazione, affitti, indennizzi, assicurazioni e sorveglianza.8 5. In una lettera del 30 giugno 1937 del comitato direttivo della Biennale inviata a Roma al capitano Agostino Sanna del Ministero della cultura popolare/Direzione generale della stampa si ha notizia del forte impegno propagandistico delle manifestazioni teatrali nelle radio e nei giornali nazionali ed esteri. In una seconda lettera del 2 luglio 1937, indirizzata sempre a Sanna, si parla di manifesti affissi in ben settantadue città d’Italia. Cfr. Archivio storico delle Arti contemporanee - Biennale di Venezia (da ora in poi ASAC), Sezione teatro, a. 1937. 6. Sulla valenza autocelebrativa del teatro nell’epoca fascista si rimanda allo studio di Q. Galli, La scena dell’Impero. Seguendo Renato Simoni regista, Roma, Ellemme, 1991. 7. Il Ministero destinò per le recite goldoniane all’aperto del 1936 la somma di duecentomila lire, cui vanno aggiunte le centomila lire stanziate dal Comune di Venezia. Cfr. Verbale dell’adunanza della Commissione della Biennale in data 29 maggio 1936, ASAC, Sezione teatro, a. 1936. 8. Per la realizzazione dei tre spettacoli diretti da Simoni e Salvini per la Biennale Teatro 1937 furono coinvolte settemilaottocento persone, come si legge nel Resoconto dell’amministrazione della Biennale per le recite dell’estate 1937. Una spesa non indifferente comportava, inoltre, il restauro delle case danneggiate durante il lavoro di allestimento dello spazio scenico, come dimostra una stima dei danni alla proprietà del sig. Giovanni Scarpa in campo San Cosmo in seguito alle manomissioni causate dalla messa in scena de Le baruffe chiozzotte di Simoni nel luglio 1937; cfr. ASAC, Sezione teatro, a. 1937. 293 ADELA GJATA Le recite goldoniane all’aperto della Biennale 1936 vengono affidate a Simoni – unico regista della manifestazione – e a Guido Salvini addetto all’allestimento scenotecnico.9 Nello stesso anno il critico del «Corriere» è nominato responsabile della sezione Teatro nella Commissione per gli spettacoli della Biennale,10 carica istituzionale poco rilevante sul piano pratico essendo le sue proposte spesso vagliate dal presidente della Biennale, il conte Giuseppe Volpi di Misurata, e filtrate dalle direttive ministeriali.11 Il sodalizio tra Simoni e Salvini, rinnovato nel successivo festival, univa la tradizione di una ‘direzione all’italiana’ con le esigenze di una scenotecnica moderna; da un lato l’esperienza del drammaturgo e del critico, dall’altro la formazione europea di un professionista della scena. Comune a entrambi l’idea di un teatro finalizzato a un esito spettacolare di sobria qualità. Per le recite all’aperto si scelgono, anche su consiglio di Simoni, due testi del Goldoni ‘maturo’. Il Ventaglio del 1936 – e ancora di più la ripresa del 1939, «più mossa, più agile, più indiavolata» –12 fu un successo apprezzato soprattutto per il ritmo spumeggiante della messa in scena. Nell’idea di Simoni il tempo dell’allestimento doveva essere dettato dalla complessa e movimentata architettura dei tre atti, dall’ilarità delle peripezie, dal contrappunto dei sospiri e dal moltipli9. Scenografo e regista rinomato a livello europeo, artefice di una carriera in continua ascesa dall’esperienza del Teatro d’Arte di Pirandello negli anni 1925-1927 alla messa in scena del Falstaff verdiano diretto da Toscanini al Festival di Salisburgo nel 1935, Guido Salvini è stato una figura chiave del Festival del Teatro di Venezia. In una lettera non firmata – ma sicuramente di un membro della Commissione della Biennale – del 12 febbraio 1936 indirizzata a Salvini si ha notizia che le rappresentazioni goldoniane erano inizialmente destinate alla regia di quest’ultimo: «Certo che se queste rappresentazioni verranno decise è intendimento della Presidenza di affidarne la regia a Lei» (ASAC, Sezione teatro, a. 1936). Sul percorso registico di Guido Salvini si veda M. De Luca-D. Vanni, Guido Salvini, o Della nascita della regia in Italia, Bari, Edizioni dal sud, 2005. 10. La Commissione presieduta da Giuseppe Volpi di Misurata (presidente della Biennale) vedeva tra i suoi componenti: Nicola De Pirro, Corrado Marchi (vice-presidente della Corporazione dello spettacolo), Cornelio Di Marzio (Confederazione professionisti e artisti), un rappresentante del Comune di Venezia, il conte Andrea di Valmarana (delegato del presidente della Biennale), Adriano Lualdi (responsabile del Festival della Musica), Carlo Conestabile della Staffa (segretario generale e direttore amministrativo delle manifestazioni per l’Estate Veneziana). Cfr. la lettera del 28 febbraio 1936 del segretario generale della Biennale Antonio Maraini all’ispettore Nicola De Pirro (ASAC), ora in L. Trezzini, Una storia della Biennale Teatro. 1934-1995, Venezia, Marsilio, 1999, p. 28. 11. Nell’Archivio storico della Biennale di Venezia è custodita un’imponente mole di documenti di ordine amministrativo e organizzativo, prove eloquenti della volontà di controllo da parte del regime; ogni minimo cambiamento di natura artistica e logistica doveva essere comunicato ai rappresentanti istituzionali della Biennale ed effettuato dopo la dovuta approvazione dall’alto. Cfr. ASAC, Sezione teatro, a. 1937. 12. C. Giachetti, ‘Il ventaglio’ in campo San Zaccaria, «La Nazione», 18 luglio 1939. 294 LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI carsi dei malintesi.13 Il regista si affida al virtuosismo degli attori: da Rossana Masi che rese «garbata e simpatica la figura un po’ fredda della zia Gertrude»14 alla «sempre giovane» Maria Melato che «sparse colori a dovizia sui tratti della mercantessa pettegola»,15 la Signora Susanna; dalla «tenera Candida» di Laura Adani16 all’arguta Giannina di Andreina Pagnani, «forse l’attrice più goldoniana che oggi abbiamo, trionfatrice della serata»,17 scrive Silvio d’Amico sulle pagine della «Nuova antologia». Nella presentazione dello spettacolo – una sorta di nota di regia focalizzata sull’analisi del testo goldoniano – Simoni definisce il personaggio di Giannina «la figura più vivace e lucente» della commedia, «con pochissima rusticità vera, una contadinella da teatro, graziosamente aspretta, deliziosamente impertinente, che immaginiamo più fatta per portare il gonnellino corto e il grembiulino di pizzo di Corallina, che i ruvidi panni d’una paesana».18 Altri mostri sacri della scena italiana recitano nel Ventaglio: Memo Benassi è un Coronato «livido e scaltro»,19 alquanto «brighelleggiante nella mascheretta dell’oste»;20 il fiorentino Renzo Ricci, uno «stizzoso, tagliente e innamorato»21 calzolaio Crespino, raggiunge con sottili invenzioni gli effetti di una comicità «tanto avvincente quanto di signorile compostezza»;22 13. Simoni considera Il ventaglio come un’elaborazione moderna degli scenari della Commedia dell’Arte: «[Goldoni] prende la commedia dell’arte così com’è e si limita di popolarla di uomini; la immette nel suo tempo; fa correre per i meandri del suo canovaccio labirintico, non più i mascherotti, che sono convenzioni fuori del tempo, ma i suoi stessi contemporanei, riprodotti con squisito senso della verità. E ha riformato una volta di più. Dove c’era la follia stemperata, il lazzo pazzo, il gergo imputridito, fa entrare l’umile, la semplice vita quotidiana. E scrive un capolavoro». R. Simoni, Il ventaglio, «Corriere della Sera», 10 novembre 1921, ora in Id., Trent’anni di cronaca drammatica: 1911-1923, a cura di L. Ridenti, Torino, Ilte, 1952, vol. i, p. 507. 14. E. Zorzi, La prima del ‘Ventaglio’ di Goldoni con la regia di Simoni a Venezia, «Corriere della Sera», 16 luglio 1936. 15. S. d’Amico, Goldoni nei campielli: ‘Il ventaglio’, ‘Le baruffe chiozzotte’, «Nuova antologia», 1° agosto 1936, ora in Id., Cronache del teatro: 1914/1955, a cura di A. d’Amico e L. Vito, Palermo, Novecento, vol. iv (1934-1944), to. i (1934-1936), pp. 257-265: 261. Sull’attrice: P.D. Giovanelli, Maria Melato. Voci d’archivio, voce di scena, Firenze, Le Lettere, 2015. 16. O. Gibertini, ‘Il ventaglio’ in campo San Zaccaria, «La tribuna», 17 luglio 1936. 17. D’Amico, Goldoni nei campielli, cit., pp. 260-261. 18. R. Simoni, Il ‘Ventaglio’, «Corriere della Sera», 15 luglio 1936. Maria Damerini informa, inoltre, come durante le prove del Ventaglio Simoni suggerisse alla Pagnani di dare vita a una Giannina «dispettosetta ma gustosa, piccante ma garbata, furbetta e insieme ingenua e amorosa». M. Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, Padova, Il Poligrafo, 1988, p. 198. 19. G.O. Gallo, ‘Il ventaglio’ di Goldoni a Venezia, «Il Popolo di Roma», 19 luglio 1936. 20. D’Amico, Le recite goldoniane a Venezia. Simoni regista, cit., p. 369. 21. D’Amico, Goldoni nei campielli, cit., p. 261. 22. A. Zajotti, Il trionfale successo del ‘Ventaglio’ in campo San Zaccaria, «La gazzetta di Venezia», 16 luglio 1936. 295 ADELA GJATA l’ottantenne Ermete Zacconi è un potente catalizzatore di comicità nella parte del declassato e scroccone conte di Roccamonte – «concreto, carnoso, colorito, gagliardo» –,23 personaggio cruciale dell’intrigo della pièce esemplato sul marchese di Forlimpopoli della Locandiera. Nerio Bernardi, «traboccante di merletti e di smancerie»,24 tocca «la giusta nota nella coloritura melodrammatica e lievemente caricaturale del sentimentale signor Evaristo»;25 il barone del Cedro, suo antagonista nell’amore per Candida, trova l’interprete ideale nel «chiaro, preciso, efficacissimo»26 Augusto Marcacci. Tra i personaggi minori spiccano le macchiette di Limoncino, il garzone del caffè tratteggiato con garbo dal ‘goldoniano di razza’ Emilio Baldanello, e quella di Timoteo lo speziale, interpretato da Ermanno Roveri. Le baruffe chiozzotte vantavano invece i migliori interpreti della teatralità veneta: Gianfranco Giachetti (Cogidor), Cesco Baseggio (Fortunato), Carlo Micheluzzi (Toni), Giuseppe Zago (Vincenzo), Gino Cavalieri (Toffolo), Emilio Baldanello (Comandador), Vittorio Cavalieri (Canochia), Pina Bertoncello (Orseta), Margherita Seglin (Pasqua) e Giselda Gasparini (Donna Libera), affiancati da altri noti interpreti del teatro italiano come Kiki Palmer (Checca), Giulio Stival (Titta Nane), veneto di nascita, e Luigi Grossoli (Bepo). Le regie veneziane testimoniano che Simoni pensava lo spettacolo come una fucina di artisti specializzati, la cui armonica interazione doveva rispondere a un’idea estetica dell’evento scenico. La selezione degli interpreti e la distribuzione dei personaggi erano azioni decisive nella costruzione della rappresentazione. «C’è, da una parte, la tendenza a raggruppare, per alcuni spettacoli, a spese dello Stato, otto o dieci grossi calibri, senza badare se essi artisticamente convivono bene, e se non tolgano le gradazioni all’opera d’arte – denuncia il regista nel 1949 – e c’è dall’altra parte l’abitudine di unire due o tre attori buoni, circondandoli di generici o non scelti con fino esame per le parti che devono interpretare, o scadenti».27 Simoni tocca qui una questione nevralgica del teatro italiano, criticando una formula che assomiglia alla compagnia di giro, riconoscibile per la presenza di un grande attore (o di una grande attrice) circondato da un ‘coro’ di attori più o meno mediocri che stanno in palcosce- 23. D’Amico, Goldoni nei campielli, cit., p. 260. Zacconi rappresentava per Simoni «il sogno e lo splendore del teatro», imbattibile nell’«acutezza e la precisione dell’indagine fisico-psicologica» del personaggio. In questi termini Simoni ricordava il grande attore alla sua scomparsa. Cfr. R. Simoni, Omaggio a Ermete Zacconi, «Il dramma», xxiv, n.s., 1948, 57-59, pp. 195-196. 24. D’Amico, Goldoni nei campielli, cit., p. 261. 25. Zorzi, La prima del ‘Ventaglio’ di Goldoni con la regia di Simoni a Venezia, cit. 26. Zajotti, Il trionfale successo del ‘Ventaglio’, cit. 27. R. Simoni, I nostri attori, «Sipario», iv, 1949, 40-41, p. 16. 296 LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI nico «per dare la battuta».28 Negli spettacoli veneziani e fiorentini29 il regista frena il protagonismo dei primi attori, costringendo «ognuno al suo posto senza mortificare l’individualità»,30 per dare voce a un «unisono stupendo».31 Le cronache coeve riconoscono il merito maggiore delle prime regie simoniane nell’orchestrazione armonica degli interpreti, impegno ancora più arduo in presenza di capocomici e mattatori. «La novità era vedere i comici dialettali delle Baruffe – scrive D’Amico –, come gl’italiani del Ventaglio, così raggruppati, intonati, armonizzati, svolgere le loro gaie sinfonie al tocco dell’invisibile bacchetta che li aveva come magati, che aveva messo loro l’ali ai piedi, che li faceva atteggiarsi, muoversi, inseguirsi, cicalare, sospirare, stridere, con una verità fatta di leggiadria».32 Simoni costituiva agli occhi di D’Amico un punto di arrivo della sua battaglia accademica contro il guittismo e le caparbietà performative del mattatore, ma anche la stabilizzazione della figura del regista-stratega garante di un maggiore rispetto del testo. Nelle Baruffe Simoni intende veicolare la realtà nel realismo del gesto e dell’ambientazione scenica. Se nel Ventaglio si mira al virtuosismo degli interpreti, nella messa in scena della commedia chioggiotta si lavora soprattutto a restituire le vicende dei personaggi. La stessa selezione degli attori risponde a una poetica che vuole svelare il microcosmo drammaturgico goldoniano; da qui la formazione di una compagnia drammatica in lingua per il Ventaglio e dialettale per le Baruffe. L’approccio del regista alla drammaturgia goldoniana si sviluppa nella riflessione sul Goldoni attento osservatore del quotidiano. Le commedie corali del popolo delle calli e dei campielli erano le sue preferite: testi frizzanti e spiccatamente veneziani che «riconducono la vita nel teatro», vita che a parere del critico del «Corriere» rischiava di essere uccisa dal ‘manierismo’ che affliggeva la scena italiana del primo dopoguerra.33 La vita che 28. L. Ridenti, Teatro italiano fra due guerre, 1915-1940, Genova, Dellacasa, 1968, p. 64. 29. Oltre alle messe in scene goldoniane, Renato Simoni divenne celebre negli anni Trenta per tre storici spettacoli all’aperto, allestiti al Giardino di Boboli per il Maggio Musicale Fiorentino. Alla prima assoluta dei Giganti della montagna di Pirandello nel 1937, seguì una memorabile edizione dell’Aminta di Tasso (1938), infine un meno fortunato allestimento dell’Adelchi manzoniano nel 1940. 30. D’Amico, Goldoni nei campielli, cit., pp. 264-265. 31. Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, cit., p. 200. Cfr. inoltre D’Amico, Le recite goldoniane a Venezia. Simoni regista, cit., p. 369; G. Patanè, Parla Pirandello, «Il Popolo di Sicilia», 30 luglio 1936, ora in Interviste a Pirandello: parole da dire, uomo, agli altri uomini, a cura di I. Pupo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, pp. 577-580. 32. D’Amico, Le recite goldoniane a Venezia. Simoni regista, cit., p. 369. 33. Nella recensione al Ventaglio rappresentato dalla compagnia Niccodemi al teatro Manzoni di Milano nel 1921, anno in cui imperversava la polemica pirandelliana su I sei personaggi, Simoni si esprimeva in questi termini: «Riformatori di tutti i tempi, il segreto è questo: ed 297 ADELA GJATA Simoni vuole restituire al teatro – complice la drammaturgia goldoniana – era intesa nell’accezione aristotelica della mimesi, in quanto osservazione della realtà o «specchio della natura»; concetto che si oppone all’artificio, senza per questo omologarsi al naturalismo o al verismo. «Il teatro non ha bisogno della verità, ma, se mai, della finzione della verità» ribadiva nel 1934.34 La nozione dell’inserimento della vita sulle scene si ricollega, del resto, al mito del Goldoni ‘cronista’ – «poeta della Natura» lo aveva definito Voltaire –35 che girovagava per Venezia e annotava le battute e gli atteggiamenti dei concittadini. Gli allestimenti del Ventaglio e delle Baruffe chiozzotte nel 1936 muovono dal presupposto che l’ambiente in Goldoni ha una funzione drammaturgica: lo spazio scenico diventa così parte integrante dell’azione e compimento della realtà quotidiana dei personaggi. La scelta di luoghi quali piazze, calli e giardini – caposaldo degli spettacoli di prosa del festival veneziano – è inoltre elemento decisivo per creare la dimensione realistica della messa in scena;36 realismo sostenuto, negli spettacoli di Simoni, dalla interpretazione attoriale e dai costumi di Aldo Calvo. Nelle Baruffe, salvo due casette posticce piazzate in primo piano,37 l’intera scena era ‘vera’: il campo, il rio che gli passa davanti percorso da barche cariche d’ortaggi, il piccolo ponte di legno tipico di è facile! Nel teatro, di dove la vita è uscita, riconducete la vita. Tutte le riforme, in tutti i tempi, furono fatte così; tutti i riformatori, da Lope de Vega a Molière, a Shakespeare, a Goldoni, han fatto questo. Nessuno di questi pensò di portare nel teatro che muore, al posto degli uomini che non ci sono più, le maschere, o goffe come quelle di una volta, o lugubri come quelle che usano oggi». Simoni, Trent’anni di cronaca drammatica: 1911-1923, cit., vol. i, p. 507. 34. Simoni, La bottega del caffè, «Corriere della Sera», 17 novembre 1934, ora ivi, vol. iv, p. 153. 35. Cfr. Simoni, Goldoni, Gozzi e il Campiello, «Corriere della Sera», 18 luglio 1939. 36. Per Le baruffe chiozzotte fu effettuato un lungo e minuzioso sopralluogo che coinvolse ventuno campi e rii della laguna, come segnala la relazione compilata dalla Biennale nel 1936. San Cosmo della Giudecca si rivelò, infine, «molto adatto sia dal punto di vista scenografico che logistico. Unico difetto, la relativa lontananza. Molto carattere. Da adottarsi però la scenografia fissa e non il cambiamento meccanico». Il campo San Zaccaria si dimostrò invece il più adatto per l’allestimento del Ventaglio, sia dal punto di vista scenografico «per il grande albero che darebbe il senso della campagna» di fianco alla chiesa quattrocentesca di San Zaccaria, sia per la strategica posizione centrale, di facile accesso, infine per la capienza, potendo ospitare circa mille spettatori. Cfr. Relazione sulla visita compiuta nelle varie località prese in esame per le recite goldoniane dell’anno XIV, ASAC, Sezione teatro, a. 1936. 37. Le uniche due costruzioni artificiali erano la casa di Paron Toni e quella di Paron Fortunato dietro la quale era collocata la cancelleria criminale, luogo del secondo atto. Lo studio del Cogidor Isidoro si mostra grazie a un palcoscenico girevole il cui meccanismo è svelato da D’Amico nella recensione allo spettacolo: «Una delle due case posticce che fanno da quinta, quella di sinistra gira su se stessa, e offre di colpo un’altra visione, la sala del cancelliere; un muretto copre il canale ch’era al centro della scena, il lato destro grazie a un rapido gioco di luci piomba nell’oscurità». D’Amico, Goldoni nei campielli, cit., p. 264. Cfr. anche M. Corsi, Il teatro all’aperto in Italia, prefaz. di R. Simoni, Milano-Roma, Rizzoli, 1939, pp. 231-234. 298 LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI Chioggia che l’attraversa, il canale affacciato al campo con i bragozzi carichi di reti e di vele colorate. Lungo quel canale scende a metà del primo atto la tartana di Paron Toni, a vele spiegate. Un ambiente ‘naturalmente’ scenografico, suggestivo e «crudelmente verista»38 che restituisce la ‘venezianità’ di Goldoni mentre accosta – grazie a un sapiente uso delle luci – al «luccichio d’acque fra il raso e l’argento, quelle grandi vele colorate, quel festoso viavai della piazzetta marinara».39 Ciò che la critica del tempo denominava come il trionfale ingresso del verismo in teatro non era altro che la scoperta del teatro per mezzo della realtà: l’ambientazione esterna rafforza la naturalezza della drammaturgia goldoniana, mentre l’elaborato apparato scenico diviene un elemento esclusivamente estetico. La formula degli spettacoli goldoniani all’aperto – inaugurata due anni prima da Gino Rocca con La bottega del caffè allestita nel cortile del teatro San Luca – trovava ancora diverse resistenze.40 Le commedie goldoniane, concepite per essere recitate in edifici teatrali di piccole o medie dimensioni, avrebbero finito per ‘snaturarsi’ se allestite all’aperto, osservavano i critici. Le messe in scena di Simoni fecero superare parzialmente quella diffusa riluttanza: «In verità, all’atto pratico, ci si accorge che è questione d’intendersi, e che anche l’aperto può sempre essere relativamente misurato e chiuso», si legge nella recensione di Osvaldo Gibertini al Ventaglio, che approva l’operazione degli scenografi Salvini e Calvo di ridurre campo San Zaccaria alle proporzioni di un teatro di prosa a cielo aperto.41 Se nelle Baruffe lo spazio ritrovato di San Cosmo rimase pressoché invariato, per Il ventaglio Salvini e Calvo trasformarono lo scenario urbano di San Zaccaria il cui unico elemento riconoscibile rimaneva il frondoso tiglio centrale. La facciata della chiesa rinascimentale era coperta dai sette edifici del borgo delle Case nuove che fungevano da fondale e da quinte: al centro, dietro all’albero, si addossava la palazzina signorile con il balcone delle signore e il caffè di Limoncino, sulla destra la merceria di Susanna e l’osteria di Coronato, mentre il lato sinistro della scena era occupato dalla farmacia dello speziale Timoteo e dalla capanna di Giannina e Moracchio con tanto di fienile e orto. Una scenografia fissa, costruita ex novo, che presenta al primo quadro gli abitanti del villaggio lombardo impegnati nella propria attività quotidiana. Il progetto scenografico fu completato da un’architettura d’ambiente ritmata dai «rapidi ‘crescendo’ di luci e di movimenti, 38. C. Giachetti, Imitazione e fantasia nel ‘Bugiardo’, «La Nazione», 11-12 luglio 1937. 39. D’Amico, Le recite goldoniane a Venezia. Simoni regista, cit., p. 368. 40. «Goldoni non è autore da pretesti per messinscene esteriori né per spettacoli all’aperto», scrive Eugenio Ferdinando Palmieri nella cronaca dello spettacolo di Rocca. E.F. Palmieri, Goldoni all’aperto, «Il resto del carlino», 20 febbraio 1934. 41. Gibertini, ‘Il ventaglio’ in campo San Zaccaria, cit. 299 ADELA GJATA ora ondeggianti sotto le folate del caso, chiassoso brio popolaresco, ora allegra, ora corrucciata».42 L’estetica degli spettacoli goldoniani di Renato Simoni è individuabile nell’armonia del complesso, nel fondere in un accordo dominante i gesti, le mosse e gli atteggiamenti dei singoli personaggi. La valenza ‘musicale’ del Ventaglio si percepisce non solo nel ritmo dettato dalla movimentata trama che scompone e ricompone in continuazione il quadro della messa in scena, ma anche nei rumori degli arnesi da lavoro: il pestone dello speziale, il trincetto del ciabattino, l’acciottolio del taverniere43 e in altri suoni ‘d’atmosfera’ quali il canto lontano di un usignolo, oppure «il nervoso gracchiare di rane» che accompagna il punzecchiarsi di Crispino e Coronato e le loro risate a crepapelle.44 Lo studio dell’atmosfera sonora raggiunge livelli altissimi nella costruzione di un’altra commedia ‘di ambiente’ goldoniana, Il campiello, rappresentato nel campiello del Piovan nell’ambito del Festival veneziano del 1939 (ci torneremo). Nelle Baruffe Simoni realizza invece uno degli esempi più alti del cosiddetto «Goldoni ritmico».45 Il tempo coreutico che scandisce la messa in scena trova un corrispettivo linguistico negli «aggettivi guizzanti come pesci nelle reti appena ‘tirate’, con quei verbi sdruccioli che scorrono come rivoli musicali» (così Simoni).46 Anche qui, come nel Ventaglio, gli spettatori apprezzano la capacità di concertazione dei timbri e dei ritmi vocali degli interpreti, il contrappunto dei dialoghi e la sonorità dei battibecchi, il tutto rinforzato dalla musica orchestrale, le coreografie di Irene Del Bosco guidate dalla prima ballerina della Scala Teresa Legnani e i canti della soprano Antonietta Meneghel alias Toti dal Monte – l’attrice rivelazione delle Baruffe, al debutto nel teatro di prosa – che diede alla maliziosa e insieme festosa Lucietta «una freschezza e una spontaneità deliziose»,47 sebbene a Eugenio Ferdinando Palmieri non sfuggisse qualche gesto melodrammatico.48 Il Paron Fortunato di Baseggio, cui l’attore conferì un colore farsesco e una tecnica impeccabile a metà strada 42. Zajotti, Il trionfale successo del ‘Ventaglio’, cit. Cfr. anche Gallo, ‘Il ventaglio’ di Goldoni a Venezia, cit. 43. Cfr. M. Ramperti, Una mirabile rappresentazione del ‘Ventaglio’ di Goldoni a Venezia in campo San Zaccaria, «L’illustrazione italiana», 19 luglio 1936. 44. Cfr. Zajotti, Il trionfale successo del ‘Ventaglio’, cit. 45. R. Radice, Vent’anni di regia goldoniana. Dalla scuola al palcoscenico, in Studi goldoniani. Atti del convegno internazionale di studi (Venezia, 28 settembre-1o ottobre 1957), a cura di V. Branca e N. Mangini, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1960, vol. i, p. 139. 46. R. Simoni, Le baruffe chiozzotte, «Corriere della Sera», 17 luglio 1936. 47. E. Zorzi, Il successo delle ‘Baruffe chiozzotte’ date a Venezia con regia di Simoni, «Corriere della Sera», 17 luglio 1936. 48. Cfr. n. 52. 300 LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI tra i comici dell’Arte e il fool shakespeariano, parve a D’Amico «eccellente […], impagabile di verve, ma anche di misura».49 Dai ricordi di Maria Damerini, assidua spettatrice alle prove delle prime regie simoniane, emerge un Baseggio «tanto protagonista sulla scena quanto anonimo, ‘quasi addormentato’ fuori scena».50 Le Baruffe segnano l’inizio di una lunga collaborazione tra Simoni e Baseggio, attore goldoniano legato a uno dei filoni più robusti della tradizione interpretativa di matrice veneziana – dei Benini e degli Zago per intenderci –, che ricorreva a forti caratterizzazioni nella recitazione.51 Dalla scuola di Benini provenivano anche i già ricordati Giachetti, Cavalieri, Micheluzzi (quest’ultimo un Paron Toni dalla «fragorosa baldanza»)52 e la Seglin «dal buon gusto sensato e limpido appreso da Italia Benini Sambo».53 Bepi Zago (Paron Vincenzo) e Giselda Gasparini (Donna Libera) erano invece eredi della scuola goldoniana di Emilio Zago: Ma accanto al Giachetti, il più nitido e saggio cogidor che sia pensabile, abbiamo visto il Cavalieri, spassosissimo e misuratissimo nelle vesti di Toffolo, e il Baseggio, il quale ha fatto impazzire dalle risa il pubblico nella macchietta di quel padron Fortunato 49. D’Amico, Goldoni nei campielli, cit., p. 265. 50. Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, cit., p. 200. 51. Su Baseggio si veda la pregevole voce a lui dedicata da C. Longhi, in amati.fupress.net/ S100?idattore=11750 (data di pubblicazione su web: 7 novembre 2011), con ampia bibliografia. «Di alcuni personaggi di ‘Paron Carlo’ era diventato il simbolo vivente – scrisse di Baseggio Gastone Geron –, sicché quasi non si poteva immaginare un Sior Todero che non brontolasse come lui, o un Paron Fortunato che non tartagliasse meglio fra le chiozzotte baruffanti, o un rustego più rustego». G. Geron, Chi fu di scena, Milano, Pan, 1982, p. 7. Al repertorio goldoniano Baseggio dedica ogni energia fin da quando, nel 1926, si fa capocomico, dando vita a una serie di formazioni specificamente impegnate a diffondere la drammaturgia di area veneta, associandosi di volta in volta con i migliori attori in dialetto del tempo fra cui Carlo Micheluzzi, Margherita Seglin, Gino Cavalieri, Leony Leon Bert, e ancora Elsa Merlini, Cesarina Gherardi e Elsa Vazzoler, con la partecipazione saltuaria del soprano Toni Dal Monte. Anch’egli – come Ermete Novelli – progetta la fondazione di una Casa del Goldoni, accontentandosi poi di imporre alla sua compagnia per un certo periodo il nome ‘La Goldoniana’. Si presta volentieri a seguire Guglielmo Zorzi e Alberto Colantuoni nell’ambizioso tentativo di una compagnia del Teatro di Venezia (1936-1939) e con entusiasmo analogo accetta l’offerta di Paolo Grassi che, presso il Piccolo di Milano, tenta di riunire nuovamente, vent’anni dopo, un gruppo di attori dialettali con il nome di Teatro di Venezia. I fallimenti di tali imprese non inibiscono l’impegno di Baseggio che, nel corso di cinquant’anni di carriera, si fa responsabile promotore di una capillare diffusione del teatro goldoniano, impegnandosi nelle vesti del protagonista e, più raramente, in quelle di regista in oltre una cinquantina di opere fra maggiori e minori del commediografo veneziano. 52. E.F. Palmieri, ‘Le baruffe chiozzotte’ rappresentate a Venezia fra gli orti, le vele, i canali, della Giudecca, «Il resto del carlino», 18 luglio 1936. 53. R. Simoni, La bona mare, «Corriere della Sera», 2 marzo 1930. 301 ADELA GJATA che parla imbrogliando le sillabe, ed il Micheluzzi nell’onesta figura di padron Toni, e il giovine Baldanello, eccellente nella caricatura del messo del Tribunale.54 Daniela Palmer, in arte Kiki, l’unica milanese della compagnia, fu una «pepatissima e piacevolissima» Checca55 che, a dire della critica, sostenne benissimo il confronto con la Bresciani, l’attrice goldoniana che rese celebre il personaggio nel 176256. Alle venete Gasparini e Seglin, Simoni lascia campo libero nella creazione dei personaggi di Libera e di Pasqua; Bertoncello è un’ottima Orsetta «dalla lingua sciolta e dall’occhio ardito»; Stival è un Titta Nane «d’ottima classe», ben equilibrato nelle sue agitazioni; «bravissimo nelle vesti di Paron Vincenzo Giuseppe Zago».57 Le recite goldoniane di Simoni e Salvini ebbero un buon successo anche di pubblico – una media di ottocento-novecento spettatori paganti a sera –58 tanto da registrare, nei mesi successivi, imitazioni da parte delle compagnie venete di Gianfranco Giachetti e di Gino Cavalieri. Si trattava, come informa lo stesso Simoni in una lettera dell’8 settembre 1936, di «spettacoli mediocrissimi» che raccolsero al loro debutto molti spettatori speranzosi di vedere una ‘riproduzione’ degli spettacoli veneziani.59 Ancora. Tra gli spettatori illustri delle Baruffe c’era un Pirandello appassionato, pronto a battere le mani a ogni scena della prova generale, pervaso «da una gioia che pareva quella di un bambino che per la prima volta si rechi al teatro dei piccoli».60 Se il Ventaglio 54. D’Amico, Le recite goldoniane a Venezia. Simoni regista, cit., p. 369. 55. Ibid. 56. E v. A. Scannapieco, «Caterina Bresciani, chi era costei?». Tragicommedia in tre atti con un prologo e un epilogo, «Drammaturgia», xi / n.s. 1, 2014, pp. 167-192. 57. Zorzi, Il successo delle ‘Baruffe chiozzotte’ date a Venezia con regia di Simoni, cit. 58. Se nelle quattro recite del Ventaglio rappresentate tra il 15 e il 25 luglio si assiste a un leggero calo degli spettatori paganti (dalle 22.335 lire del debutto si passa alle 20.130 lire dell’ultima replica), le Baruffe registrano una costante crescita di spettatori e dell’incasso complessivo. Il debutto del 17 luglio incassò 29.350 lire; quello del 21 ammontò a 29.590; la replica del 24 registrò invece 10.680 lire; infine quella del 26 luglio salì a 31.393 lire. I dati sono desunti da una comunicazione ufficiale del 28 luglio 1936 della Biennale Teatro a Mario Pompei dell’Ispettorato del teatro relativa agli introiti delle rappresentazioni goldoniane. Nella relazione consuntiva sugli spettacoli di prosa all’aperto si segnala che i biglietti per la recita del 24 luglio delle Baruffe, venduti a prezzi popolari di quindici lire per i primi posti e di dieci lire per i secondi, furono esauriti in tre ore. Cfr. ASAC, Sezione teatro, a. 1936. 59. Gli allestimenti delle compagnie venete ricalcate sulle messe in scena simoniane furono rappresentate nonostante i divieti dei dirigenti della Biennale. Cfr. la corrispondenza tra il Conte Conestabile e Simoni nel settembre 1936 relativa all’argomento, ASAC, Sezione teatro, a. 1936. 60. Patanè, Parla Pirandello, cit., p. 578. 302 LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI lo deluse, come si evince da una lettera a Marta Abba,61 lo scrittore commentò entusiasta la messa in scena della commedia chioggiotta: «E se fosse così tutto il teatro? Ma bisognerebbe che tutta la vita fosse sempre e fosse solo quella dei buoni pescatori di Chioggia!».62 Simoni utilizzò per gli spettacoli del 1936 un rigore filologico che spogliava i testi delle linee farsesche e dei ‘soggetti’ cucitigli addosso nel corso degli anni. Nelle Baruffe egli dimostrò che la pretesa monotonia delle liti era da imputare ai comici che avevano perduto il ritmo originario: «la commedia è molto più viva, più divertente quando sia sfrondata di tutte le sovrastrutture che la bruttavano», osservò un critico.63 Il regista analizzò ciascuna delle baruffe come una struttura musicale a sé, così che ognuna si distingueva per varietà di ritmo, tono e colore, con una tecnica simile alla variazione sul tema. Tuttavia, questi spettacoli di Simoni non attuano una lettura drammaturgica dialettica che scavi le psicologie dei personaggi goldoniani o le loro aspirazioni. La sua regia non supera lo stereotipo del ‘buon Paron Goldoni’. I personaggi goldoniani sono, in fondo, a dire dello stesso critico, gente dal «cuore eccellente, di bontà spontanea e sonora»; mentre le liti amorose non sono altro che «rusticamente tenere e quasi lagrimose, puntigli fino all’ultimo»,64 finché al ballo di una furlana si fa pace. A questa lettura pittoresca corrisponde un’udienza buona e mite, come quella che spunta dalle finestre di campo San Cosmo, alla Giudecca, e che, in fondo, chiede solo di vivere in compagnia de Le baruffe chiozzotte «un’ora gioconda».65 Lo spettacolo inneggia, inoltre, all’icona 61. La lettera del 16 luglio 1936 è riportata in L. Pirandello, Lettere a Marta Abba, a cura di B. Ortolani, Milano, Mondadori, 1995, p. 1353. 62. Cfr. G. Patanè, Renato Simoni e la Sicilia, «La giara», iii, 1954, 2, p. 68. Alfredo Barbina, invece, rileva come Pirandello, pur non misconoscendo il buon livello della rappresentazione, liquidi la regia di Simoni con un’ironia tagliente. Lo stile del veronese doveva essere poco affine alla ben più tormentata estetica drammatica del Premio Nobel. Cfr. A. Barbina, …E Pirandello: quel «bel mago veneziano» del Goldoni, «Ariel», viii, 1993, 2-3, pp. 221-227. 63. Zorzi, Il successo delle ‘Baruffe chiozzotte’ date a Venezia con regia di Simoni, cit. 64. Simoni, Le baruffe chiozzotte, cit. A confermare questa visione populistica della comunità chioggiotta sono le ‘colorate’ canzoncine di Domenico Varagnolo interpretate dalla Lucietta di Dal Monte. Nella prima la giovane guarda romantica e nostalgica il mare dalla finestra – un mare oggetto di contemplazione, piuttosto che luogo di lavoro faticoso e pericoloso –: «TittaNane xe in tartana / che barufe col garbin / se lo ciape la matana / de sto tiempo berechin, / pì nol sente la campana, / el se perde… fantolin». Nella seconda, Lucietta, «appoggiata un po’ alla balaustra del ponte, un po’ al petto del suo Titta-Nane» (così da «Il gazzettino»), canta: «O Ciosa del mio cuor, / ciosa mia bela… / […] / ‘Na vela che luntan / la toche el cielo / e svole via sul mare / ciaro e lisso: / la sgionfe tuta el fià / d’un venteselo / che spire su dal cuor / del mio novisso». Nota sulla fortuna, in C. Goldoni, Le baruffe chiozzotte, a cura di P. Vescovo, introd. di G. Strehler, Venezia, Marsilio, 1993, p. 256 («Edizione nazionale delle Opere di Carlo Goldoni»). 65. Palmieri, ‘Le baruffe chiozzotte’, cit. 303 ADELA GJATA nazional-popolare di Goldoni: al culmine dei canti e della furlana finale, Isidoro si immobilizza sopra un piedistallo dietro il popolo festoso nell’identica posa nella quale lo scultore Antonio Dal Zotto aveva immortalato in campo San Bartolomeo l’autore della riforma.66 Ritornano nei successivi spettacoli goldoniani di Simoni per la Biennale – Il bugiardo (campo San Trovaso, luglio 1937), Il campiello (campiello del Piovan, luglio 1939) – molti degli elementi stilistici riscontrati nel Ventaglio e nelle Baruffe: l’accurata selezione di un complesso artistico di prim’ordine, fondamentale per la riuscita della messa in scena; la cura meticolosa dello spazio scenico e della recitazione, entrambe d’impostazione realistica; la ricerca di un ritmo che derivi dalla parola e dalle azioni sceniche; la valenza melodica rafforzata dalle musiche e dai canti dal vivo. Gli allestimenti di Simoni vanno intesi come un punto di intersezione tra la tradizione grandattoriale e le istanze di cambiamento profondo della scena a livello artistico e produttivo verificatesi dopo il secondo conflitto mondiale. Fondate su un’idea testocentrica di stampo damichiano, con una particolare attenzione alla ricerca filologica e all’accuratezza formale, quelle regie non giunsero a una rottura linguistica innovativa, ma operarono la saldatura tra la parola e l’immagine che sarà uno dei capisaldi della regia critica del dopoguerra.67 La parabola degli spettacoli veneziani di Simoni inizia a declinare attorno al 1940, anno della sua rottura con il Festival Internazionale del Teatro, a causa di dissensi sul repertorio da mettere in scena. I mancati allestimenti di Otello (1939) e Le nozze di Figaro (1940) indebolirono i rapporti del regista con la Biennale.68 Si trattava di allestimenti dispendiosi che, in previsione di un magro budget, il presidente della Biennale, Giuseppe Volpi di Misurata, preferì sostituire con un «programma autarchico»,69 ossia goldoniano, costituito da riprese degli spettacoli di Simoni.70 Il regista tornò a Goldoni nel 1940 con 66. Si noti, a confronto, il finale dell’edizione di Strehler (1965) con «la festa finale straziante e povera, con lo svolazzante Isidoro che si leva fuori dal quadro, al quale lui signorino non appartiene». Cfr. E. Flaiano, Un Goldoni ripensato con la necessaria incertezza, «L’europeo», 24 gennaio 1965. 67. Sull’argomento resta referenza primaria Meldolesi, Fondamenti, cit., passim. 68. Lo annuncia Guido Riva in una lettera a Giuseppe Volpi inviata da Roma il 24 gennaio 1940: «Caro Commendatore, comunicai a S.E. Simoni quanto mi avete detto sabato scorso per telefono. Mi rispose che avrebbe atteso ancora ‘qualche giorno’ le vostre decisioni. Non vi nascondo però, in tutta confidenza, che se non si ottiene una risolvente nel più breve tempo possibile ci troveremo di fronte a delle difficoltà insormontabili, prima di tutte quella degli attori che vanno a mano a mano impegnandosi, e lo stesso Simoni che sento disamorarsi di ora in ora e che finirà con il rifiutare la sua preziosissima collaborazione», ASAC, Sezione teatro, a. 1940. 69. Dattiloscritto di Giuseppe Volpi a Simoni (Venezia, 29 febbraio 1940), ivi. 70. In una lettera di Antonio Maraini al presidente Volpi del 22 marzo 1940 (Firenze) si 304 LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI Le donne curiose: lo spettacolo debuttò al teatro Alfieri di Torino il 3 novembre. Fu poi replicato per il Festival del Teatro di Venezia il 14 dicembre 1946. Siamo in presenza di un unicum nell’esperienza registica goldoniana di Simoni, non solo per l’allestimento al chiuso, ma soprattutto perché per la prima volta egli diresse un gruppo di interpreti alle prime armi (i giovani attori della compagnia dell’Accademia), prassi che recupererà in parte nel 1948 quando sceglierà come protagonisti per il suo ultimo spettacolo, Romeo e Giulietta, i giovanissimi Giorgio De Lullo ed Edda Albertini.71 L’edizione del 1941 del Festival Internazionale del Teatro di Venezia perse la vitalità e il respiro cosmopolita degli anni precedenti, conformandosi culturalmente al clima del ‘patto d’acciaio’. La macchina festivaliera riprese le proprie attività nel 1947 con la direzione organizzativa di Guido Salvini e la consulenza artistica di Simoni che ricoprì nuovamente la carica di supervisore della programmazione nella Commissione teatro. Questa prima edizione del festival, dopo la grande catastrofe, puntò sul carattere internazionale delle opere, mentre gli spettacoli di Simoni – I rusteghi e L’impresario delle Smirne – rappresentavano il ritorno alla tradizione goldoniana che aveva ancora tanti affezionati tra il pubblico e gli operatori teatrali. Con I rusteghi Simoni abbandona i paesaggi naturali dei campielli e dei rii veneziani, per entrare nelle abitazioni di questi burberi ‘per bene’ «con le porte serae e i balconi inciodai» (ii 5).72 Salvini e Calvo avevano costruito ai Giardini della Biennale73 un «vasto palcoscenico smontabile, a piani scorrevoli e quindi a rapidi mutamenti di scena, mai visto finora in Italia»,74 che mostrava uno spazio tripartito con gli interni delle case dei protagonisti e che veniva riproposto con pochi cambiamenti nell’Impresario. Simoni mantiene tuttavia l’identità di un regista-concertatore dei movimenti, dei gesti e delle tecniche degli interpreti. Nei Rusteghi, oltre ai «piacevolis- legge: «Subito mi sono occupato di quanto in quest’ultima mi diceva circa l’opportunità di prendere contatto con Simoni. A tale scopo ho avuto una lunga conversazione con Baradel che trovai oggi di passaggio da Firenze, poiché volevo aver più precise informazioni sull’ultimo colloquio. Pare che in essa Simoni abbia riconfermato in maniera ancora più viva che nella sua lettera a te il proposito di non voler ripresentarsi con ‘Il campiello’ e di non mettere in scena altre commedie goldoniane. Ha anzi aggiunto che, se qualcuno di noi, il Presidente naturalmente eccettuato, si recasse a Milano per vederlo in proposito, non accetterebbe nemmeno di discuterne» (ivi). 71. Cfr., per esempio, G.C. Castello, Romeo e Giulietta, «Sipario», iii, 1948, 27, pp. 4-5. 72. C. Goldoni, I rusteghi, a cura di G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 1970, p. 60. 73. L’idea di costruire una sala permanente al fine di contenere le spese degli allestimenti all’aperto era già stata avanzata da Nicola De Pirro in una riunione della Commissione delle Biennale del 21 luglio 1937. Cfr. ASAC, Sezione teatro, a. 1937. 74. E. Possenti, Festival del teatro a Venezia. Due commedie di Goldoni con la regia di Simoni, «Il nuovo Corriere della Sera», 13 agosto 1947, poi pubblicato con il titolo ‘I rusteghi’ e ‘L’impresario delle Smirne’, «Il dramma», xxiii, n.s., 1947, 42-44, p. 60. 305 ADELA GJATA simi Cesco Baseggio, Camillo Pilotto e Giulio Stival, in gara di bravura» –75 rispettivamente nei panni dei mercanti Lunardo, Simon e Maurizio –, particolarmente gradito fu il terzetto femminile: una «furbesca, maliziosa e brillantemente petulante» Elsa Merlini,76 Leony Leon Bert dalla comicità «sapidamente varia»77 nella parte di Margarita e Wanda Baldanello, una briosa Marina moglie di Simon. I personaggi si caratterizzarono per gesti e atteggiamenti quali tic nervosi o comiche fissazioni, accompagnati da una dizione persuasiva che inseriva la messa in scena nella prospettiva di un realismo psicologico tutt’altro che esasperato. Del lavoro di regia ne I rusteghi viene sottolineata l’efficace armonizzazione della componente visiva e sonora: Simoni si è posto ancora una volta di fronte ad un testo a lui caro come un orchestratore: un orchestratore vigile quant’altro mai al giuoco periglioso e cangiante dei contrappunti, puntuale nel distendere e annodare il tessuto musicalmente complesso e pur cristallino del dialogo, nel graduare l’intrico fitto e vario delle voci. Ad una così rigorosa strumentazione ha fatto riscontro un’altrettanta esatta armonizzazione del mobile giuoco tecnico delle figure lungo l’arco della scena disegnata da Aldo Calvo. Or più larga e pacata, or più stretta e concitata ed incalzante (si pensi al calcolatissimo ed esemplare finale del second’atto) l’orchestrazione visiva si è fusa ed integrata con quella vocale, a creare uno spettacolo lineare e vivido, dal quale I rusteghi sono emersi in tutta la loro essenziale, intima, genuina teatralità.78 Anche in questo caso l’approccio testocentrico non concede a Simoni un’interpretazione diversa da quello che D’Amico chiamava ‘lo spirito intimo’ della parola, che sul piano strutturale coincide con un’accurata ricostruzione dell’ambiente. La messa in scena predilige una chiave di lettura ‘musicale’79 fondata sugli «accenti, i toni, le pause, i respiri e gli accordi di basso, di contralto e di soprano», linea stilistica che genera uno spettacolo il cui clima generale si riconosce in aggettivi quali «dilettoso, ironico, ilare, pittoresco, argutamente vivo e allegramente vitale».80 La matrice musicale prevale anche nell’Impresario delle Smirne nonostante Simoni avesse preferito la versione in prosa del testo. Il regista conserva il lin- 75. Ibid. 76. Ibid. 77. G.C. Castello, Palcoscenici di Venezia. ‘I rusteghi’ e ‘L’impresario delle Smirne’ di Goldoni, «Sipario», ii, 1947, 16-17, p. 79. 78. Ibid. 79. Fautore di questa chiave di lettura in sede letteraria è Attilio Momigliano che ritiene i dialoghi de I rusteghi «tramati, delicatissimamente, sopra una linea di opera buffa». Storia della letteratura italiana (1934), Milano, Principato, 198020, p. 338. 80. Possenti, Festival del teatro a Venezia. Due commedie di Goldoni con la regia di Simoni, cit. 306 LE REGIE GOLDONIANE DI RENATO SIMONI guaggio dialettale delle tre virtuose, seguendo probabilmente il suggerimento di D’Amico.81 Se la Tognina di Andreina Paul fu autenticamente veneziana nelle battute riscritte per l’occasione da Domenico Varagnolo, il lessico della Annina (Rina Morelli) e quello di Lucrezia – la furba e civettuola soprano di Sarah Ferrati – si caratterizzarono rispettivamente per «pittoresche espressioni bolognesi» e per «uno spiccato accento toscano».82 Cadenze napoletane ravvivano i personaggi del poeta Maccario (Luigi Almirante) e del soprano Carluccio, detto il Cruscarello, interpretato da Vittorio De Sica; toni levantini colorirono invece la vocalità dell’impresario turco di Paolo Stoppa. «Goldoni mai mi è apparso così splendidamente terso e così miracolosamente giovane», scriveva Castello nella recensione agli spettacoli, individuando i meriti maggiori della regia nel fresco disegno dei personaggi e nella riscoperta di un testo ‘minore’ di Goldoni come L’impresario delle Smirne,83 confinato da molti nella categoria di una «commedia onesta e tipica» con personaggi che «non superano i limiti della macchietta».84 Il ridotto allestimento di Simoni del 1947 – affrancato dalla tradizione spuria dei soggetti posticci, dalle leziosità e ostentazioni verbali accumulatisi nel corso degli anni – è dunque la prima rilevante riscoperta novecentesca della commedia che verrà consacrata dieci anni dopo nella celebre messa in scena di Luchino Visconti che scelse come protagonisti due interpreti simoniani: Paolo Stoppa (Alì) e Rina Morelli (la virtuosa Annina).85 A Simoni va riconosciuto il merito di avere creato i presupposti per una lettura diversa della drammaturgia goldoniana – poi portata ai massimi livelli da Strehler e Visconti – in piena indipendenza dagli stili e dalle maniere del passato anche prossimo. Pochi mesi dopo il successo dell’Impresario, Simoni aveva pensato di valorizzare ulteriormente il testo con un’ampliata versione scenica destinata alle ribalte internazionali, progetto interrotto dalla sua repentina scomparsa.86 81. «Siccome poi il testo si presta, potresti inventar i dialetti per ciascun personaggio, limitando i veneti al minimo possibile», scriveva Silvio d’Amico a Simoni il 5 luglio 1947; Milano, Museo teatrale alla Scala, Biblioteca Livia Simoni, CA 1756. 82. Programma di sala de L’impresario delle Smirne. ASAC, Sezione teatro, a. 1947. Cfr. anche Possenti, ‘I rusteghi’ e ‘L’impresario delle Smirne’, cit., p. 61. 83. Castello, Palcoscenici di Venezia, cit., pp. 78-80. 84. Cfr. il comunicato stampa della Biennale Teatro per l’anno 1947. ASAC, Sezione teatro, a. 1947. 85. Cfr. e.g. L. Zorzi, Una regia di Visconti (‘L’impresario delle Smirne’) (1958), ora in Id., L’attore, la commedia, il drammaturgo, Torino, Einaudi, 1990, pp. 290-292; S. Mazzoni, Ludovico Zorzi. Profilo di uno studioso inquieto, «Drammaturgia», xi / n.s. 1, 2014, pp. 39-40. 86. Da una lettera manoscritta che Guido Salvini inviava a Elio Zorzi il 25 febbraio 1948 si apprende che Simoni «sarebbe lietissimo di rimettere in scena L’Impresario delle Smirne, riveduto ampliato e corretto, qualora noi lo portassimo all’estero, cosa che è credo indispensabile 307 ADELA GJATA L’impresario, sul quale Simoni operò un lavoro drammaturgico di adattamento e di riscrittura – i cinque atti del testo furono condensati in tre quadri della durata di un’ora – fu concepito come una sorta di saggio teatrale, che doveva affiancare lo spettacolo principale I rusteghi, un ‘divertimento’ scenico «dai toni accesi», ironico e divertente, grazie soprattutto al «disegno caricaturale»87 dei personaggi: le virtuose bizzose e impertinenti, il macchinoso e furbo sensale Nibio – interpretato da Antonio Crast, il più veneto degli interpreti –, il nobile e onesto amante delle arti, il Conte Lasca (Camillo Pilotto), l’esotico mercante straniero sensibile più alle grazie femminili che alla musica. Simoni lesse il testo in chiave ironica mettendo in luce l’equilibrio fra ritratto di costume dell’ambiente e il gusto della comicità dei cantanti. Nessuna disperazione o malinconia esistenziale caratterizza i personaggi: Ed ecco la cafoneria fatua e meschina del Cruscarello di De Sica, ecco il variegato intrico delle rivalità femminili, dall’estro esuberante della Ferrati a quello sottile della Morelli a quello puntiglioso della Paul, ecco la brusca e divertita comicità dello Stoppa che era il turco, ecco la precisa e succosa evidenza dei tipi dal Pilotto e dall’Almirante, dal [Adolfo] Celi [Pasqualino, tenore amico di Tognina] e dal Crast.88 Il ‘duetto’ Rusteghi-Impresario fu l’ultimo intervento di Simoni al Festival veneziano. Una collaborazione a tratti travagliata a causa di un’organizzazione centralizzata e conservatrice che impedì al regista di sperimentare repertori diversi. In una lettera del febbraio 1948 a Elio Zorzi, capo ufficio stampa del Festival, Salvini rivelava come il regista veronese non intendesse continuare la cooperazione con la Biennale poiché «la critica a Venezia ha mostrato una totale ignoranza sui problemi del teatro goldoniano».89 Gli spettacoli veneziani del 1947 conclusero l’esperienza goldoniana di Simoni; Romeo e Giulietta allestito l’anno dopo al teatro romano di Verona fu la sua ultima regia teatrale. perché De Sica ha in Francia e in Inghilterra un grandissimo nome». ASAC, Sezione teatro, a. 1948. 87. Castello, Palcoscenici di Venezia, cit., p. 79. 88. Ivi, p. 80. 89. Lettera manoscritta di Guido Salvini a Elio Zorzi del 25 febbraio 1948. ASAC, Sezione teatro, a. 1948. 308 SUMMARIES SAGGI Claudio Longhi Per Luca Ronconi (1933-2015): quasi una «leçon de ténèbres» The recent death of Luca Ronconi (February 21st, 2015) became the occasion to retrace his artistic path, of a forever restless ‘adolescent’, and to understand better his typical traits. Among projects that will remain forever unfulfilled, titanic failures and visionary shows, the keystone of the poetics of Ronconi turns out to be an inexhaustible search of the infinite, in a dialectic between the exceeding of the limit and the strenuous comparison with its inescapable necessity. The theatre of Ronconi, in its giddy pursuit of ‘what has no end’, confesses its most genuine nature: an ‘anatomical’ theatre of death. Keywords: Luca Ronconi, Stage direction, Drama, Acting, Anatomical theatre. Sara Mamone Drammaturgia di macchine nel teatro granducale fiorentino. Il teatro degli Uffizi da Buontalenti ai Parigi The essay covers the great Florentine representations of XVIth and XVIIth century, finding a common denominator (beyond the self-celebratory value) in the ‘virtuosity’ of the machinery, which soon exceeds the textual dramaturgy. This one, in fact, serves a peculiar ‘dramaturgy of the machines’, which become mythopoetic, bending the poetic invention to their own needs. Through a precise and detailed series of comparisons between the various episodes, here the history of the Medici’s spectacle is examined following a possible craft and engineering interpretation, precisely showing how the reutilization of the technological heritage conditioned the entirety of the spectacle. Keywords: Dramaturgy, Machinery, Teatro degli Uffizi. Anna Maria Testaverde L’avventura del teatro granducale degli Uffizi (1586-1637) The essay reconstructs the chronological details of the construction and disposal of the Teatro degli Uffizi. An extensive unpublished documentation, and a newly discovered plan of the theatre in the Archivio di Stato di Modena, bring to light hitherto DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 309-315 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18382 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. SUMMARIES unknown persons and situations. The study anticipates reflections and proposals for a structural solution that would modify the model proposed in 1975 by Ludovico Zorzi. As a foundation of these new hypotheses, the essay offers a re-reading of the Vitruvius’s theories on which the florentine highly specialised technical skills were based on. Keywords: Teatro degli Uffizi, Giorgio Vasari, Bernardo Buontalenti. Caterina Pagnini Anna di Danimarca e i ‘Queen’s Masques’ (1604-1611) This essay offers a preliminary portrait of Anna of Denmark, queen of Scotland from 1589 for her marriage with James VI and queen of England, Scotland and Ireland for her husband’s accession to the throne as James I in 1603. Unjustly described by the anti-jacobean storiography as a vague character, changeable and superficial, extremely frivolous because of her interest in the court revels, Anna was instead an emblematic and eclectic personality, both in politics and cultural activity, expecially for her patronage of arts, artists and spectacle. Patron of painters, musicians and actors, connoisseurs of the Italian Renaissance architecture, Anna was the effective promoter of the english court spectacle, creating a series of yearly events which, from 1604 to 1611, signed the ultimate codification of the English masque. Keywords: English court spectacle, Masque, Anna of Denmark, Inigo Jones. Françoise Siguret La lumière et le temps sur la scène baroque : Poetique & Pratique Time: Aristotle, in the Poetics, recommends the playwright to confine his tragedy within «two revolutions of the sun»; the concept refers to the light perception, to the fact that greek drama is acted in the open air. The messengers and the chorus represented on the stage, in the present time, what happened outside of it. In the age of the French classical theatre, the chronological sequence of the action had to conform to the laws of the reason: the so-called rule of the twenty-four hours became an indisputable rule of the action. A time exactly measured, substituting the time of the light, cyclical and mythical. In Italy, pastorals, mythological melodramas and all that belonged to the court entertainments (ballets, operas, tournaments) conformed to a cyclical time in which the four seasons constituted the scenery, linking life to the four liturgical seasons and to the four parts of the day, from noon to midnight (cfr. Endymion and the Ballet de la Nuit). Light: Need to light up the indoor playhouse for practical and moral issues. Italian craftsmen implement the technical tools; a certain difference between primary light (intended to light up the stage and the auditorium) and the lumi (the supplementary lighting related to a specific performance). Buontalenti’s lighting devices (sun, moon), rainbows, divine and princely splendour will en- 310 SUMMARIES chant the spectators. France will discover these stagecraft effects with the Calandria (1548), without subsequent developments. Afterwards, Corneille will be fascinated by the ‘baroque’ charm (Médée, 1639 and Andromède, 1650). In the second half of the XVIIth century, while machinery invades opera and tragedy in music, Racine refuses anything intended to deceive the eye, though creates a lighting that may be «listened» (Britannicus). The Allegories (the «other discourse») convey meanings on the baroque stage through the perpetual slow motion of the gods and Time, till the final glory of the Prince: Cosimo = cosmos. Galileo and Vespucci, medicean glories, explorers of the theatre of the world, knew that History finds its own sense only in the perpetual motion of the earth around the sun. Time is nothing but a Light’s accident. Keywords: Light, Time, Poetics, Allegories, History. Paologiovanni Maione «Il possesso della scena»: gente di teatro in musica tra Sei e Settecento The present article investigates the training of female stage practitioners and their versatility in performing different genres. Through select case studies – such as those of Giulia de Caro and Teresa Gandini – it aims to trace the careers of actresses seeking to create an identity in the stage industry. Several sources describe their still unknown professional development, focusing both on parts and roles and on their performing skills (singing, dance, prose). As members of a society and a stage industry which still defy a thorough illustration, they reveal complex personalities that go far beyond brief and concise ‘biographies’. Needless to say, they interact with ‘multitasking’ colleagues, as can be seen in the troupes of Domenico Antonio Di Fiore and Gabriele Costantini, whose actors were eager to work on different ‘stages’, showing how varied and intriguing their specialization was. Keywords: Italian Opera, Singers, Naples, Giulia de Caro, Teresa Gandini. Anna Scannapieco I ‘numeri’ delle comiche italiane del Settecento. Primi appunti Preamble and stimulus to more systematic investigations, the paper proposes an initial review of the actresses demography in Italy in the 18th century. Beyond its significant quantitative impact, the female component is significant above all because it attests the persistence of that mixture of different performative languages which is the distinctive feature of the Commedia dell’Arte, and that – not yet overwhelmed by the sectoral progress of professional skills –, is still visible in the 18th century. From a preliminary anagraphic survey, and through the sieve of exemplary events (like that of many actresses, as the Medebach and Marliani, Passalacqua and Rosina Costa, Teresa Gandini; Maria Donati, Antonia D’Arbes, Teodora Ricci and her sis- 311 SUMMARIES ters, Faustina Tesi), it emerges clearly the phenomenon of actresses who build their professionalism even as acrobats, dancers, singers and even businesswomen: this phenomenon is a particularly eloquent, when compared to a historical and legal context in which the capacity deficit (that excluded women from the public sphere and from holding officia and munera) had the full force of law and in which the status of ‘owner’ collided with that of minus habens. In short, new legal and artistic identities are asserting on the Italian scene of 18th century. Keywords: Commedia dell’Arte, 18th century actresses and ‘multimedia’, Carlo Goldoni, Women’s artistic and juridical identities in the 18th century. Franco Perrelli Il mulo di Lessing In Hamburg Dramaturgy, the lengthy parallel analysis that Lessing devoted to the tragedies of Maffei and Voltaire about the figure of Merope, led him to an Enlightenment re-reading of Aristotle and to an hypothetical reconstruction of Euripides’ Cresphontes. In this way, the German critic was able to underline Euripides’ attitude to a technique of preliminary revelation of the characters and the nodal points of the plot: on one side, it can reduce the suspense; on the other, it avoids the most superficial coups de théâtre, shifting the tragic effect from ‘what’ to ‘how’ it occurs. Contesting the position of Abbé d’Aubignac and supporting Diderot, Lessing realized that a considerable part of this Euripidean technique is based on the remixing of diegesis and dramatic mimesis: it is an uncommon ‘hybrid’ of genres that appears efficacious and extremely useful (just like the intersection from which is generated a mule). Lessing’s analysis had an important and documented influence on the modern theatre: here, we can find a Sophoclean approach (Ibsen) and an Euripidean approach to the drama. In particular, the Euripidean line is developed in Strindberg’s epic dramaturgy and, in all its evidence, in Brecht. Keywords: Drama, Mimesis, Diegesis. Alessandro Tinterri Silvio d’Amico e la nascita del Burcardo Silvio d’Amico played a central role in the birth and development of the Theatrical Collection of the Italian Society of Authors and Publishers (S.I.A.E.), named ‘Burcardo Library and Theatre Collection’, and in the acquisition of Luigi Rasi’s Theatrical Collection. Keywords: Silvio d’Amico, Burcardo Library and Theatre Collection, Theatrical heritage, Luigi Rasi. 312 SUMMARIES DOCUMENTI E TESTIMONIANZE Teresa Megale Eleonora Duse. Nuovi frammenti autografi di un lungo percorso teatrale This essay offers the reading of several Eleonora Duse’s unpublished works, written during a period of time between 1883 and 1921. In these writings a variously assorted network of correspondents (playwrighters, journalists, actors and antiquarians) meets. The autographs (most of them addressed to Achille Torelli) enrich the sources about the study of the actress. In each of them, the personal life of Eleonora Duse intersects with the theatrical profession until her biography merges with her, never satisfied, projects. Keyword: Eleonora Duse, Primary Sources, History of actors, Dramaturgy, Biography, History of the contemporary theatre. ‘Co2.’ Intervista a Giorgio Battistelli a cura di Anna Menichetti On the 16th of June 2015, the premiere of the opera CO2 by Giorgio Battistelli, based on a libretto by Ian Burton and directed by Robert Carsen, opened at the Teatro alla Scala, meeting with great acclaim from the critics and public. After a long period of preparatory work and many changes in the production, the opera coincided with EXPO 2015, addressing, as it does, environmental issues and deliberately broaching exceptionally topical issues in economic, social and political thinking. Highlighting a subject as urgent as the pollution of the Earth in an operatic setting achieved a double effect: it created an opera which functions as a means of reflection on contemporary reality – this is already evident in the title, a chemical formula repeated so often nowadays that it even appears in the recent papal encyclical – and produced sung theatre with no frills which is able to express a universal truth. These elements are at the heart of the opera’s originality: CO2 can rightly be considered the opera of the New Millennium. During the conversation, which took place in Rome on the 30th of March 2015, Giorgio Battistelli talked with great enthusiasm about how important it is to make music theatre an expression of social commitment. When he speaks on this subject, you can perceive his close attention for the theatrical word, for the musicality of his work and for its ethical and ideological content which, however, never falls into the trap of rhetoric. The sincerity and character of the author shine through the interview, as do his writing methods, and in the generous and forthcoming dialogue we get a faithful picture of his painstaking creative process. Keywords: Giorgio Battistelli, CO2 , Teatro alla Scala. 313 SUMMARIES RICERCHE IN CORSO Teresa Ferrer Valls Il punto sul mondo degli attori del Siglo de Oro In Spain exists a rich documentary and bibliographic patrimony about the activities of players and acting companies in the Golden Century. This essay offers an update historiographic overview and highlights the progress allowed by the new technologies and by the publishing of databases containing relevant research tools concerning the stage practice. Keywords: Spanish theatre, Golden Century, Actors. Francesca Simoncini Le prime attrici della compagnia Reale Sarda nel database AMAtI The section is dedicated to the profiles of three important actresses active in the first half of the 19th century: Carlotta Marchionni (1796-1861), Amalia Bettini (18091894), Antonietta Robotti (1817-1864). Francesca Simoncini-Antonio Tacchi Carlotta Marchionni Born into an acting family, she began her career in companies in Tuscany. She gained her first leading actress role in 1811 in the troupe run by her mother, Elisabetta, and by Antonio Belloni, Carlo Calamari and Ferdinando Meraviglia. In 1823 she became the leading actress of the Compagnia Reale Sarda (The Royal Sardinian Company). It is her ability to harmonise her craft, her business sense and the new theories on acting which creates the quality that leads her to achieve a prime position in the history of Italian theatre. Keywords: Biography, Actresses, Repertory, Performances. Daniela Sarà Amalia Bettini ‘Amorosa’, then leading actress, the most appreciated and sought after actress of the 1830s. She had an intense and longstanding relationship with the poet Giuseppe Gioachino Belli. In the latter years of her career she performed in the Compagnia Reale Sarda (The Royal Sardinian Company). Keywords: Biography, Actresses, Repertory, Performances. 314 SUMMARIES Emanuela Agostini Antonietta Robotti As one of the most important leading actresses of the 19th century, she performed in the Ducale di Parma Company (1839-1842) and for a whole decade (1842-1853) in the Compagnia Reale Sarda (The Royal Sardinian Company). After 1853 she founded and directed with her husband Luigi their own companies. Keywords: Biography, Actresses, Repertory, Performances. INDIZI DI PERCORSO E PROGETTI Gianluca Stefani Sebastiano Ricci impresario in angustie a Venezia: i guai della stagione 1718-1719 al Sant’Angelo Sebastiano Ricci was not only one of the greatest painters of the 18th century, but an active impresario in the Venetian opera houses at the beginning of the early 18th century. Thanks to the rediscovery of some notarial and judicial documents in the Archivio di Stato of Venice, we can reconstruct the circumstances under which he became manager of the Teatro di Sant’Angelo in the season 1718-1719, a season marked by his succession to the previous impresario Antonio Moretti (known as Modotto) and by his legal dispute with the violinists Giovan Battista and Ludovico Madonis at the tribunal ‘del Forestier’. Keywords: Sebastiano Ricci, Venice, Teatro di sant’Angelo, Antonio Moretti detto Modotto, Madonis (violinists). Adela Gjata Le regie goldoniane di Renato Simoni (1936-1947) The study aims to reconstruct Renato Simoni’s stage directing investigated through the analysis of the outdoor Goldonian performances set up for the Festival of Venice in the years 1936-1947. These exceptional events employed top level dramatic artists. Simoni was one of the first directors who responsibly exercises his professional function, a profession that struggled to settle in the national theater system. His directing, built on an idea centred on the text, according to Silvio d’Amico’s teaching, is based on a very accurate playwriting, that aims to revalue the Italian drama in its best acting tradition. Simoni never reached a tradition-breaking linguistic innovation, but achieved the connection between the word and the image, that will be a cornerstone of the critical stage directing after World War II. Keywords: Renato Simoni, Carlo Goldoni, Direction, Theater Festival, Biennale of Venice. 315 GLI AUTORI Emanuela Agostini è dottore di ricerca in Storia dello spettacolo presso l’Università di Firenze (tutor: Siro Ferrone). Dal 2006 fa parte della redazione dell’Archivio Multimediale degli Attori Italiani. Tra i suoi ambiti di interesse si segnalano la Commedia dell’Arte e le biografie di attrici e attori italiani dell’Otto e del Novecento. Ha pubblicato il volume Il Bergamasco in commedia. La tradizione di Zanni nel teatro d’antico regime (2012). Teresa Ferrer Valls è professore ordinario di Letteratura spagnola nell’Università di Valencia. Si occupa principalmente del teatro spagnolo dei Secoli d’Oro. Ha pubblicato saggi sul mecenatismo teatrale, sui rapporti tra fasto e teatro di corte, sugli attori e le compagnie teatrali dei secoli XVI e XVII, sulle drammaturghe barocche e su Lope de Vega, Luis Vélez de Guevara, Antonio Mira de Amescua e Cristóbal de Virués. Per quindici anni ha diretto il progetto di ricerca che ha dato origine al grande database Diccionario biográfico de actores del teatro clásico español. DICAT (2008). Attualmente il gruppo diretto da Teresa Ferrer è impegnato nel progetto CATCOM. Las comedias y sus representantes. Base de datos de comedias mencionadas en la documentación teatral (1540-1700). Siro Ferrone, professore ordinario di Storia del teatro e dello spettacolo presso l’Università di Firenze, è autore di libri sulla Commedia dell’Arte e sullo spet- tacolo del Seicento, sul teatro di Carlo Goldoni, sulla drammaturgia dell’Ottocento e sul teatro contemporaneo. Dirige l’Archivio Multimediale degli Attori Italiani, la collana «Storia dello spettacolo», nonché, con Stefano Mazzoni, la rivista annuale cartacea e digitale «Drammaturgia» e il portale telematico d’attualità drammaturgia.fupress.net. Tra i suoi volumi più recenti: La Commedia dell’Arte. Attrici e attori italiani in Europa (XVI-XVIII secolo) (2014); La vita e il teatro di Carlo Goldoni (2011); Attori mercanti corsari. La Commedia dell’Arte in Europa tra Cinque e Seicento (20112, 1993); Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore (2006; ed. francese 2008). Adela Gjata è dottore di ricerca in Storia dello spettacolo presso l’Università di Firenze (tutor: Renzo Guardenti). Ha condotto studi sulle culture teatrali del Novecento. In corso di pubblicazione il volume: Il grande eclettico. Renato Simoni nel teatro italiano del primo Novecento, vincitore del Premio Ricerca ‘Città di Firenze’ 2014. Claudio Longhi, docente di Storia e istituzioni di regia presso l’Università di Bologna, ha pubblicato, tra l’altro: Marisa Fabbri: lungo viaggio attraverso il teatro di regia (2010); L’‘Orlando furioso’ di AriostoSanguineti per Luca Ronconi (2006); La drammaturgia del Novecento tra romanzo e montaggio (1999). Dal 2008 collabora al progetto Archivio Multimediale degli DRAMMATURGIA, ISSN 1122-9365, Anno XII / n.s. 2 - 2015, pp. 317-321 Web: www.fupress.net/index.php/drammaturgia • DOI: 10.13128/Drammaturgia-18383 ISSN 1122-9365 (print), ISSN 2283-5644 (online), Firenze University Press © 2015 Author(s). This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0), which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. GLI AUTORI Attori Italiani. Al lavoro di ricerca affianca l’impegno teatrale attivo: dal 1995 al 2002 è stato assistente di Luca Ronconi e dal 1999 ha iniziato a firmare in proprio la regia di spettacoli per i maggiori teatri italiani. Paologiovanni Maione è docente di Storia della musica presso il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, ricercatore dell’Istituto italiano per gli Studi filosofici di Napoli, consulente per le attività musicologiche della Fondazione Pietà de’ Turchini-Centro di musica antica di Napoli, membro del comitato scientifico della Fondazione Pergolesi-Spontini di Jesi e del Da Ponte Research Center di Vienna. Collabora con vari gruppi di musica barocca. Ha collaborato con la Società italiana di musicologia e attualmente è nel comitato consultivo del settore convegni. Ha pubblicato diversi volumi e suoi saggi sono apparsi in prestigiose riviste italiane e straniere e in libri miscellanei. Sara Mamone, professore ordinario di Storia del teatro e dello spettacolo presso l’Università di Firenze, si è occupata in particolare della civiltà teatrale fiorentina e dei rapporti tra questa e la Francia nei secoli XVI-XVII. Tra i suoi altri campi d’interesse il rapporto fra arte figurativa e arti performative e quello tra mecenati e performers. Tra i suoi lavori: Mattias de’ Medici serenissimo, vero mecenate dei virtuosi. Notizie di spettacolo nei carteggi medicei. Carteggio di Mattias de’ Medici (1629-1667) (2013); Serenissimi fratelli principi impresari. Notizie di spettacolo nei carteggi medicei. Carteggi di Giovan Carlo e di Desiderio Montemagni suo segretario (1628-1664) (2003); Dèi, semidei, uomini. Lo spettacolo fiorentino fra neoplatonismo e realtà borghese (2003); Il teatro nella Firenze medicea (19912, 1981); Firenze e Parigi, due capitali dello spettacolo per una regina: Maria de’ Medici (19882, ed. francese 1990). Stefano Mazzoni, docente di Storia del teatro e dello spettacolo e Storia del teatro antico presso l’Università di Firenze, è specialista della drammaturgia e dell’iconologia degli spazi del teatro antico e moderno in occidente e di storiografia teatrale. Dirige, con Siro Ferrone, la rivista annuale cartacea e digitale «Drammaturgia» e il portale telematico d’attualità drammaturgia.fupress.net. È responsabile della sezione Scena della rivista digitale «Dionysus ex Machina». Tra le sue pubblicazioni: Ludovico Zorzi. Profilo di uno studioso inquieto (2014); L’Olimpico di Vicenza: un teatro e la sua «perpetua memoria» (20102, 1998); Panorama di Pompei: storia dello spettacolo e mondo antico (2008); Atlante iconografico. Spazi e forme dello spettacolo in occidente dal mondo antico a Wagner (20084, 2003); La fabbrica del «Goldoni». Architettura e cultura teatrale a Livorno (1658-1847) (1989); Il teatro di Sabbioneta (1985). Teresa Megale è professore di Storia del teatro e dello spettacolo presso l’Università di Firenze. Tra i campi privilegiati delle sue ricerche: la Commedia dell’Arte, la storia degli attori, la drammaturgia italiana tra Seicento e Novecento. Suo interesse scientifico preminente è la civiltà teatrale napoletana studiata nelle manifestazioni di età moderna e contemporanea. Nel 2006 ha fondato Binario di scambio, compagnia teatrale dell’Ateneo di Firenze, che tuttora dirige. Fa parte di «Drammaturgia» sin dalla sua nascita, nel 1994. Tra le sue pubblicazioni: Mirandolina e le sue interpreti. Attrici italiane 318 GLI AUTORI per ‘La locandiera’ di Goldoni (2008) e le edizioni del Teatro di Manlio Santanelli (2005) e de Il Tedeschino di Bernardino Ricci (1995). Anna Menichetti si è laureata in Drammaturgia musicale e si è diplomata in pianoforte. Ha conseguito una Maîtrise in Etnomusicologia a Nanterre (Paris x) sul teatro del sud est asiatico (Malaysia) e il dottorato in Storia dello spettacolo all’Università di Firenze (tutor: Maurizio Agamennone). Dal 1982 cura programmi di musica, spettacolo e arte per RAI Radio TRE e dal 1989 al 2005 ha condotto le dirette radiofoniche dal teatro alla Scala di Milano. È docente di Musicologia sistematica presso il conservatorio Luigi Cherubini di Firenze. Caterina Pagnini è dottore di ricerca in Storia dello spettacolo presso l’Università di Firenze (tutor: Sara Mamone). Attualmente è docente di Storia della danza e del mimo presso il medesimo Ateneo. È specializzata nella storia del teatro e della danza di Antico regime. Fa parte del comitato direttivo della rivista «Drammaturgia». Tra le sue pubblicazioni: Il teatro del Cocomero dai Medici ai Lorena (Firenze 1701-1748) (in corso di stampa); Costantino de’ Servi, architettoscenografo fiorentino alla corte d’Inghilterra (1611-1615) (2006). Franco Perrelli è professore ordinario di Discipline dello spettacolo presso l’Università di Torino. Specialista del teatro scandinavo e contemporaneo, dal 2002 è nell’editorial board della rivista «Ibsenian Studies» e, dal 2004, ha codiretto «North West Passage», annuario del Centre for Northern Performing Arts Studies dell’Università di Torino. È con- direttore della rivista «Mimesis Journal» e direttore delle collane «Biblioteca dello spettacolo nordico», «Visioni teatrali» e «Studio DAMS». Fra le sue pubblicazioni più recenti: Poetiche e teorie del teatro (2015); Strindberg l’italiano (2015); Storia della scenografia (20132, 2002); Ludvig Josephson e l’Europa teatrale (2012); Strindberg: la scrittura e la scena (2009); I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook (2007); La seconda creazione. Fondamenti della regia teatrale (2005); Echi nordici di grandi attori italiani (2004); William Bloch. La regia e la musica della vita (2001). Daniela Sarà è dottore di ricerca in Storia dello spettacolo presso l’Università di Firenze (tutor: Sara Mamone). Tra il 2006 e il 2014 ha collaborato con varie biografie all’Archivio Multimediale degli Attori Italiani. Tra i suoi ambiti di interesse si segnala il teatro cortigiano e accademico del Seicento italiano. Ha pubblicato saggi sul teatro mediceo. È in fase di elaborazione un volume dedicato al periodo seicentesco del teatro del Cocomero di Firenze. Anna Scannapieco insegna Storia della drammaturgia e Filologia dei testi teatrali presso l’Università di Padova. È membro del Comitato esecutivo dell’Edizione nazionale delle opere di Carlo Goldoni (1993-) e del comitato direttivo delle riviste «Studi goldoniani» n.s. e «Drammaturgia» n.s. Specializzata nella filologia dei testi teatrali, con particolare riferimento alla tradizione di quelli settecenteschi, e nella ricostruzione dei contesti storico-spettacolari di riferimento, annovera, tra le sue ultime pubblicazioni, l’edizione critica delle prime due Opere teatrali di Salvestro cartaio, detto Il Fumoso (2016) e quelle del Ragionamento 319 GLI AUTORI ingenuo e di altri scritti teorici di Carlo Gozzi (2013). Françoise Siguret è stata una pioniera dell’insegnamento di Storia dello spettacolo, così come degli studi sulla retorica dei linguaggi testuali e figurativi, al Département d’Études Françaises dell’Université de Montréal (Canada). Tra le sue numerose opere si segnalano i volumi: Les Fastes de la Renommée (2004); L’Œil surpris, perception et représentation dans la première moitié du XVIIe siècle (1993), nonché la cura del volume Andromède ou le héros à l’épreuve de la beauté (1996); sullo stesso tema, si deve alla sua direzione l’importante convegno Andromède (Paris, Musée du Louvre, 1993). Tra le sue traduzioni dall’italiano si veda quella del volume di Siro Ferrone, Arlequin. Vie et Aventures de Tristan Martinelli (2008). di pubblicazione il volume: Sebastiano Ricci impresario d’opera a Venezia nel primo Settecento, vincitore del Premio Ricerca ‘Città di Firenze’ 2014. Antonio Tacchi (1961-2014) ha studiato attrici e attori italiani tra Sette e Ottocento. Con le sue r icerche, nell’ambito del dottorato in Storia dello spettacolo dell’Università di Firenze e all’interno della redazione dell’Archivio Multimediale degli Attori Italiani, ha posto le basi per uno studio rigoroso e originale delle biografie di attori e del teatro toscano in età lorenese. Francesca Simoncini è professore associato presso l’Università degli studi di Firenze dove insegna Storia del teatro e dello spettacolo. È caporedattrice del progetto Archivio Multimediale degli Attori Italiani (AMAtI) e fa parte del comitato direttivo della rivista «Drammaturgia». Ha pubblicato saggi sul teatro mediceo, sul teatro italiano del secondo Ottocento, sulla Commedia dell’Arte e le monografie Eleonora Duse capocomica (2011); ‘Rosmersholm’ di Ibsen per Eleonora Duse (2005). A n n a M a r i a Te stav e r de i n seg n a Discipline dello spettacolo presso l’Università di Bergamo. Ha indagato la spettacolarità dinastica in Italia e in Europa nei secoli XV-XVII. Attualmente si interessa allo studio delle tecniche di composizione del testo scenico, con particolare riguardo alle affinità e alle differenze di produzione tra teatro dei dilettanti e teatro dei professionisti. Dirige, con Siro Ferrone, la rivista «Commedia dell’Arte. Annuario internazionale», fa parte del comitato direttivo di «Drammaturgia» e del comitato scientifico dell’Archivio Multimediale degli Attori Italiani. Tra i suoi lavori: I canovacci della Commedia dell’Arte (2007); L’officina delle nuvole. Il teatro mediceo nel 1589 e gli ‘Intermedi’ del Buontalenti nel ‘Memoriale’ di Girolamo Seriacopi (1991). Gianluca Stefani è dottore di ricerca in Storia dello spettacolo presso l’Università di Firenze (tutor: Stefano Mazzoni). È caporedattore di drammaturgia.fupress.net ed è stato borsista presso la Fondazione Giorgio Cini. Ha pubblicato saggi sul teatro italiano e sul teatro musicale del primo Settecento veneziano. In corso Alessandro Tinterri insegna Storia del teatro e dello spettacolo e Storia e critica del cinema presso l’Università di Perugia. Si è occupato principalmente di teatro italiano dell’Otto e Novecento, con particolare riguardo al teatro di Pirandello, Bontempelli, Tofano e Savinio. Nel 2006 ha creato la collana «Morlacchi 320 GLI AUTORI Spettacolo». Dal 2015 è consigliere scientifico di Fondazione Ansaldo. Lorena Vallieri è dottore di ricerca in Storia dello spettacolo presso l’Università di Firenze (tutor: Stefano Mazzoni). Ha condotto studi sulle accademie te- atrali bolognesi tra Cinque e Seicento. È caporedattore della rivista annuale «Drammaturgia». Tra i suoi lavori: Accademie, cultura e spettacolo a Bologna nel Cinquecento (in preparazione); Prospero Fontana pittore-scenografo a Bologna (1543) (2014). 321 SAGGI Claudio Longhi, Per Luca Ronconi (1933-2015): quasi una «leçon de tenèbres» 7 Sara Mamone, Drammaturgia di macchine nel teatro granducale fiorentino. Il teatro degli Uffizi da Buontalenti ai Parigi 17 Anna Maria Testaverde, L’avventura del teatro granducale degli Uffizi (1586-1637) 45 Caterina Pagnini, Anna di Danimarca e i ‘Queen’s Masques’ (1604-1611) 71 Françoise Siguret, La lumière et le temps sur la scène baroque : Poetique & Pratique 89 Paologiovanni Maione, «Il possesso della scena»: gente di teatro in musica tra Sei e Settecento 97 Anna Scannapieco, I ‘numeri’ delle comiche italiane del Settecento. Primi appunti 109 Franco Perrelli, Il mulo di Lessing 129 Alessandro Tinterri, Silvio d’Amico e la nascita del Burcardo 141 DOCUMENTI E TESTIMONIANZE Teresa Megale, Eleonora Duse. Nuovi frammenti autografi di un lungo percorso teatrale 151 ‘Co2’. Intervista a Giorgio Battistelli, a cura di Anna Menichetti 169 RICERCHE IN CORSO Teresa Ferrer Valls, Il punto sul mondo degli attori del Siglo de Oro Francesca Simoncini, Le prime attrici della compagnia Reale Sarda nel database AMAtI Francesca Simoncini-Antonio Tacchi, Carlotta Marchionni Daniela Sarà, Amalia Bettini Emanuela Agostini, Antonietta Robotti 197 201 223 241 INDIZI DI PERCORSO E PROGETTI Gianluca Stefani, Sebastiano Ricci impresario in angustie a Venezia: i guai della stagione 1718-1719 al Sant’Angelo Adela Gjata, Le regie goldoniane di Renato Simoni (1936-1947) 263 291 SUMMARIES 309 GLI 317 AUTORI € 20,00 185