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LAUREA SPECIALISTICA IN ECONOMIA AZIENDALE E DIREZIONE
DELLE IMPRESE
ANNO ACCADEMICO 2008-2009
CORSO DI ETICA D’IMPRESA E BILANCIO SOCIALE
PARTE PROF. RUSCONI SU ETICA D’IMPRESA
1) I fondamenti dell’etica dell’economia aziendale
Lo sviluppo della “business ethics”
Una certa volgarizzazione del pensiero dei classici dell’economia e della filosofia
moderna ha presentato spesso il mondo dell’economia (e l’ambiente degli affari in
particolare) come l’area dell’“amoralità”, cioè di una sorta di “zona franca” dalla
morale1.
Questa affermazione ha una sua rilevanza nel senso che invoca l’autonomia delle
competenze tecniche del manager e dell’economista nelle valutazioni delle scelte più
opportune “ai fini dell’uso ottimale di risorse scarse rispetto ai bisogni umani”, ma
non può essere considerata come un totale rifiuto di ogni considerazione morale
nel pensiero e nelle azioni di chi gestisce in modo economico un’organizzazione2.
Uno dei massimi fondatori del pensiero economico moderno, A.Smith, era titolare
della cattedra di filosofia morale all’Università di Glasgow e la sua dottrina
liberistica è portata avanti nel quadro sia di un obiettivo ritenuto moralmente e
socialmente positivo, quale l’aumento del benessere nazionale, sia di una dottrina
morale che comporta un sistema di valori specifico.
Lo stesso premio Nobel Milton Friedman, sostenitore della più radicale
deregolamentazione dell’economia,
1
afferma che dovere sociale del management
Di seguito si useranno i termini “etica e morale”come sinonimi, anche se in realtà nella storia del pensiero filosofico
etico ciò non è scontato, si pensi alla distinzione hegeliana fra moralità ed eticità, la prima legata soprattutto alla
coscienza del soggetto e la seconda come sintesi della contrapposizione antitetica, nel senso della dialettica hegeliana,
fra moralità e diritto (norme positive oggettive).
2
Non va del resto dimenticato che gran parte delle istituzioni, anche quelle più disinteressate e nobili, ha un aspetto
economico, anche se in questa sede ci si occuperà soprattutto di imprese, sia pure con accenno anche ad aziende
particolari come le cosiddette “banche etiche”, meglio definibili come “banche alternative”.
2
aziendale è sì fare profitti3, ma “senza inganno e frode”4e, ancor più, nel quadro del
rispetto della legge e dei valori etici correnti5.
Uno filosofo nordamericano, Gauthier6, parla sì di una ipotetica “free zone”
dell’azione economica, libera da ogni altra motivazione che non sia quella dell’azione
sul mercato, ma, ispirandosi parzialmente al contrattualismo del filosofo inglese
Hobbes, precisa anche che questo stato ideale “fuori dalla morale” funziona solo se si
sottoscrive prima un patto sociale implicito che è conveniente per tutti e che fa sì
che l’automatismo del mercato realizzi le finalità etiche, rispettando i diritti
fondamentali di tutti.
Al di là dell’accettazione o meno di questa impostazione contrattualistica, l’etica
permea di fatto, perlomeno come sfondo, tutto l’agire economico dell’uomo e
può considerarsi superficiale l’affermazione secondo cui è una novità particolare la
considerazione della morale nell’ambito economico.
Anche chi pensa che gli affari vanno condotti senza riferimento specifico all’etica e
cercando unicamente il guadagno, spesso afferma ciò pensando:
1) che esiste un quadro morale (più o meno elastico secondo le varie visioni
dell’etica personale) che non viene intaccato dalla sua azione “interessata a
guadagnare il più possibile”;
2) non dovrebbe ritenere che la legge vada violata7;
3) la ricchezza prodotta e le modalità con cui questa si forma (occupazione,
diffusione delle conoscenze, ecc.) sono ritenute moralmente positive o
almeno neutrali.
Come si può spiegare allora l’esplosione attuale di studi sulla “business ethics”?
Quale è la novità attuale? La novità sta nel fatto che ci si rende conto che rendere
esplicito lo sfondo etico dell’azione economica non è un fatto immediato ed
3
Friedman, Capitalism and Freedom (1962). Per i testi, qui indicati solo con l’anno, vedi la bibliografia al testo di etica,
salvo i casi non presenti in essa, che sono indicati specificamente
4
Ibidem, p.133
5
Friedman (1970).
6
Gauthier (1986).
7
Si tornerà in seguito sul rapporto fra legalità e moralità.
3
automatico e richiede l’ausilio di studi specifici, che richiedono sia competenze
economiche che filosofiche (ed altro).
Dagli anni settanta, all’inizio soprattutto negli Stati Uniti d’America8, si è
diffuso un ampio movimento per lo studio della “business ethics” .
Le cause di questi sviluppi sono state indagate in vari studi, ma grosso modo possono
essere fatte risalire a vari motivi, tra cui il più importante sembra essere la scoperta
di alcuni scandali, in questi casi si parlva più di corruzione9 (come è avvenuto per
esempio con lo scandalo Lockeed negli anni settanta), che mettevano in cattiva luce
molte imprese, soprattutto di grandi dimensioni, contribuendo a minare la popolarità
dell’intero mondo della grande impresa statunitense10.
Il ripetersi di scandali anche in questi ultimi anni, prima sul piano della trasparenza
informativa e gestionale (vedi Enron e Parmalat) e poi, negli ultimi mesi, in relazione
alla spregiudicata gestione finanziaria di varie compagnie (unita a inadeguatezza di
controlli soprattutto negli USA), che sta mettendo in seria difficoltà le economie
mondiali, ripropone con forza ancora una volta la necessità di affrontare la business
ethics.
La scarsità di etica nella finanza e nella trasparenza gestionale porta infatti con sé
gravi danni all’economia,:
1) sospetto sull’operare aziendale, che tra l’altro induce all’aumento dei cosiddetti
“costi di agenzia”, cioè i costi del controllo per prevenire le illegalità e
irregolarità;
8
Scrive F. Riolo nel 1995: Oggi, negli USA, l’etica degli affari è un settore di ricerca e di insegnamento ben
consolidato, con 25 libri di testo, 3 riviste specializzate e 5 a carattere divulgativo e oltre 500 corsi in college, università
e business school con più di 40.000 studenti e 16 centri di ricerca sull’etica: Il 90% delle business school comprende
l’etica tra le materie d’insegnamento.” Riolo (1995), p.42.
9
La corruzione resta comunque un punto critico fondamentale per l’etica dell’impresa. Sull’argomento il corso prevede
un intervento specifico di un rappresentante di vertice dell’associazione “Transparency International”, che si batte da
anni contro la corruzione in tutte le sue forme.
10
“Tra il 1973 e il 1976 la Securities and Exchange Commission, il Department of Justice e l’Internal Revenue Service
scoprirono, analizzando l’attività di 900 grandi corporation, che un terzo di queste aveva costituito appositi fondi neri
per il pagamento di pubblici ufficiali negli Stati Uniti e all’estero. Trentaquattro tra le maggiori corporation statunitensi
confessarono di aver effettuato, tra il 1971 e il 1975, pagamenti illegali a esponenti o rappresentanti di partiti politici,
negli Stati Uniti e all’estero, per 93.700.000 dollari”. Bertolini, Castoldi e Lago, L’introduzione e il funzionamento dei
codici etici nelle imprese e nelle associazioni in Italia (1996), p.3, che rinvia a Benston G.C.S., “Codes of Ethics”, in
“Journal of Business Ethics”, 1989.
4
2) sfiducia nell’affidabilità dei debitori, che è gravissima e potenzialmente
mortale per le istituzioni creditizie e finanziarie, tanto che gli Stati sono
intervenuti di recente per garantire i debiti fra banche; considerando anche che
se le banche bloccano il credito fra loro ciò si ripercuote sull’economia reale (e
non solo sulla finanza) in termini di minori finanziamenti alle imprese,
soprattutto piccole e medie.
Tornando all’aspetto storico, la business ethics si è poi diffusa anche in Europa,
assumendo ovviamente alcune differenti caratterizzazioni rispetto al contesto
statunitense, anche se ci si sta uniformando sempre più, tra l’altro scrivendo gli
studiosi anche su riviste di diffusione mondiale.
Questo movimento sulla “business ethics” ha le seguenti caratteristiche:
a) questi studi sono divenuti da tempo specifiche discipline accademiche, con regolari
corsi universitari a vari livelli11, riviste12 e associazioni13;
b) dibattito, dialogo e talora collaborazione diretta tra filosofi-sociologi-aziendalistieconomisti-teologi ed aziende, con prevalenza negli USA degli studiosi di matrice
filosofica (che insegnano questa materia sia nelle “business schools” che nelle facoltà
umanistiche) ed una certa prevalenza in Europa di esperti e docenti di materie
economiche od aziendal-manageriali;
c) studi di bilancio sociale/di sostenibilità/ambientale;
d) ricerche, anche specifiche, su problematiche etiche connesse a vari aspetti
dell’agire del mondo dell’economia e degli affari14;
e) Introduzione e sviluppo di codici etici.
11
“Oggi, negli Usa, l’etica degli affari è un settore di ricerca e di insegnamento ben consolidato, con 25 libri di testo, 3
riviste specializzate e 5 a carattere divulgativo e con oltre 500 corsi in college, università e business school con più di
40000 studenti e 16 centri di ricerca sull’etica, Il 90% delle business school comprende l’etica tra le materie
di’insegnamento”. Riolo F., Etica degli affari e codici etici aziendali, Edibank, 1995, p.42.
12
Le riviste più note nel mondo accademico (tutte disponibili nella biblioteca dell’Università di Bergamo, unitamente a
vari manuali di Università statunitensi, sono: Journal of Business Ethics , Business Ethics Quarterly e Business Ethics.
A European Review, le prime due statunitensi, la terza europea.
13
In particolare si hanno l’European Business Ethics Network (in cui convergono e detengono gran parte della
leadership studiosi accademici di materie aziendali ed economiche e di filosofia o teologia, esperti di coscirtà di
consulenza, manager ed imprese ed organizzazioni profit e non non profit) e la Society of Business Ethics negli Stati
Uniti. Esiste anche una sezione italiana dell’EBEN. Vi sono altre importanti organizzazioni, come l’europea EABIS,
che tende a collegare in modo stretto studiosi e manager/imprenditori.
14
Si pensi, come esempio, agli studi su: “scalate ostili”, inside trading, “decent salary” (cioè sulla difesa dei lavoratori a
basso reddito), lavoro minorile ecc.
5
Si può trarre come prima conclusione la consapevolezza che le ricerche in questa
direzione sono servite alla nascita di un vasto ed assai importante movimento di studi
e di prese di posizione, che ha portato alla collaborazione tra molti studiosi ed
operatori e sta avendo la conseguenza di diffondere l’idea che l’adeguamento all’etica
non sia un puro fatto soggettivo legato o al “buon senso” volontaristico
dell’imprenditore o al rispetto delle leggi, senza alcuna necessità di approfondire
problemi.
L’analisi comporta comunque spesso difficoltà e soggettività quando i problemi
nascono da situazioni e casi che presentano una sorta di complessità almeno “al
quadrato”, richiedendo competenza elevata sia sul piano economico-aziendale che
su quello etico; senza contare che la gestione aziendale è già di per sé
interdisciplinare, confrontandosi assai spesso con aspetti tecnici, sociologici e
giuridici, oltre che con la necessità di migliorare gli ancora troppo ridotti interscambi
fra economia generale ed economia aziendale.
Accade quindi che lo sviluppo della “business ethics” rischia di cadere vittima di
un eccesso di interdisciplinarità, che, a lungo andare, potrebbe renderla una
disciplina un po’ indefinita, in cui elementi di economia, management, sociologia,
filosofia, teologia, psicologia si mescolano senza tenere conto delle differenze di
competenze specialistiche.
Pur non entrando in questo contesto nel complesso problema dello status delle
discipline scientifiche, è necessario indicare almeno la necessità che si definiscano
anche alcune aree disciplinari più specifiche (cioè con linguaggi e competenze
adeguatamente specialistici) entro cui condurre le ricerche della “business ethics”,
restando comunque quest’ultima punto di riferimento ed ambito di ricerca
indispensabile.
In prima generica approssimazione è possibile, per esempio, distinguere tra l’etica
dell’economia in generale dall’etica dell’economia aziendale.
Nel primo caso si ha a che fare con i grandi problemi dell’etica delle scelte
economiche più generali degli Stati e dei singoli soggetti economici, mentre nel
6
secondo si tratta dell’etica della conduzione dei singoli sistemi aziendali, siano essi
sul mercato (come avviene normalmente per le imprese, incluse le non profit private
che cedono beni o servizi) o si basino su entrate ottenibili da altri, volontarie o
obbligatorie per legge (come lo Stato, le regioni e gli enti locali territoriali).
All’interno di queste aree è necessario poi distinguere sottoaree con discipline ancor
più specialistiche, si pensi all’etica del bilancio d’esercizio o del marketing.
L’etica d’impresa entro l’etica dell’economia aziendale
Contando sulla tradizione di ricerca di lingua tedesca e italiana, si considera l’etica
d’azienda come ramo dell’economia aziendale e si costruisce una disciplina più
specifica che, pur tenendo conto di quanto è studiato dalla più generale “business
ethics”, compie studi più mirati sulla responsabilità morale di quei particolari
soggetti che (individualmente od in gruppo) prendono, nell’ambito del sistema
aziendale, le decisioni rilevanti nella gestione delle aziende,
Senza entrare troppo in pur importanti problemi definitori, dai corsi di laurea
triennale si sa che oggetto dell’economia aziendale è studiare come i sistemi
economici mantengono gli equilibri patrimoniali, economici e finanziari.
Lo studio dell’etica dell’economia aziendale è allora lo studio di come le aziende
affrontano il problema etico mentre cercano di conseguire i loro equilibri.
In questa sede si circoscrive ulteriormente l’argomento esaminando l’etica
dell’impresa orientata al profitto come parte dell’etica dell’economia aziendale,
tralasciando l’esame dell’etica delle imprese non orientate al profitto e dell’etica delle
aziende erogative private e pubbliche.
2. La soggettività morale dell’impresa
Un problema di fondo, usualmente non molto trattato ma che è essenziale per porre
su solide base concettuali lo studio dell’etica d’impresa (e anche l’elaborazione di
codici o altro di simile) è quello della soggettività morale. Si tratta di rispondere
alla domanda se l’impresa è in qualche modo pensabile come una sorta di
7
soggetto morale vero e proprio o se la responsabilità morale può essere fatta
risalire unicamente alle singole persone che ne guidano l’azione.
Nel primo caso l’etica d’impresa diverrebbe semplicemente un ramo dell’etica
individuale e perderebbe molto d’importanza uno studio specifico di carattere eticoaziendale.
Soprattutto negli Stati Uniti si sono proposte diverse teorie filosofiche per affrontare
questo problema.
Si considerino dapprima due posizioni estreme “storiche”, la prima, che attribuisce
all’azienda (pensata per lo più come la grande corporation a capitale diffuso, la
“public company” nordamericana) una sorta di soggettività morale di tipo metafisico
e la seconda che nega ogni possibile responsabilità morale in una grande azienda
concepita come un’unica gigantesca macchina autoreferenziale sul piano etico.
Nel primo caso French attribuisce alla grande “corporation” una personalità
morale
autonoma
rispetto
d’Amministrazione,
anche
basando
il
ai
suo
singoli
membri
ragionamento
del
Consiglio
sull’affermazione
dell’esistenza in questi sistemi aziendali di una struttura decisionale autonoma
rispetto alle persone.
French afferma: “Io spero di fornire la base di una teoria che renda possibile il
trattamento delle grandi aziende come membri della comunità morale, di eguale
condizione rispetto a coloro che tradizionalmente sono riconosciuti come farne parte:
gli esseri umani biologici…”15.
French, respingendo un’interpretazione puramente giuridico - contrattuale dei doveri
etici della “persona”- impresa, afferma che quest’ultima è un “agente” dotato di
“intenzioni” proprie, distinguendo l’attribuzione di responsabilità secondo due
modalità differenti e introducendo un secondo significato rispetto a quello usuale, che
consiste
nella
“resa
dei
conti”
a
qualcuno
(denominata
in
inglese
“accountability”16): dovere rendere conto a qualcuno comporta per French una
15
Franch (1988). Traduzione dello scrivente, contenuta in Rusconi G.F., Etica e impresa, un’analisi economicoaziendale, CLUEB, Bologna, 1997, p.94.
16
Questa parola inglese di difficile traduzione significativa esprime un concetto fondamentale, sul quale si tornerà.
8
serie di scelte che sono di carattere intenzionale e che comportano
“accountability” e quindi una responsabilità morale.
All’opposto Ladd usa il concetto di “organizzazione formale”, con cui indica
“…ogni sorta di burocrazia, privata e pubblica17” ed in cui include anche le grandi
aziende.
Le scelte aziendali possono per Ladd essere assimilate a quelle di un gioco che viene
praticato secondo determinate regole, regole che sono determinate (insieme agli
obiettivi del gioco) da una struttura formale impersonale a cui le persone non
possono ribellarsi, se non lasciando (o sovvertendo) il sistema di finalità, valori e
regole di cui fanno parte.
In
questo
contesto
ogni
intervento
esterno
sul
processo
decisionale
dell’organizzazione viene vissuto unicamente come vincolo e viene rispettato solo
quando fare così non risulta conforme al perseguimento degli obiettivi
dell’organizzazione.
Questa formalità burocratica, basata sull’impersonalità piena dei rapporti,
porta per Ladd ad un meccanismo del tutto indipendente dalle singole persone,
che renderebbe impossibile parlare dell’azienda come soggetto morale: l’unica
cosa che si può fare è intervenire dall’esterno attraverso la regolamentazione
pubblica.
Le opinioni di French e Ladd per un certo verso sono opposte, ma entrambe,
basandosi su una netta contrapposizione tra scelte del gruppo e scelte personali,
tendono ad affermare una deresponsabilizzazione morale della persona che opera
nelle sfere decisionali aziendali.
Nel caso di French questa idea sulla personalità morale di colui che gestisce
l’impresa è la condizione per parlare di quest’ultima come soggetto morale,
mentre per Ladd un’impresa fissa da sé le sue regole del gioco e può essere
indirizzata in modo diverso solo con l’intervento della regolamentazione esterna
vincolante.
17
Ladd (1988),. Tradotto in Rusconi op. cit. p.95.
9
Una terza posizione, più moderata, è quella di Goodpaster e Matthews, che
cercano di fondare filosoficamente una sorta di responsabilità morale dell’azienda,
senza però attribuire a quest’ultima nessun tipo di personalità metafisica, che appare,
oltre che irreale, di fatto deresponsabilizzante.
Goodpaster e Matthews18, richiamandosi al rovescio al Platone della “Repubblica” ,
che usa il concetto di giustizia tra le parti della società come modello per l’equilibrio
tra le componenti dell’anima dell’uomo, attuano quella che definiscono una sorta di
“proiezione morale”, che attribuisce all’impresa quelle caratteristiche di
“conoscenza dell’impatto delle decisioni”, razionalità (non nel senso cieco e
tecnocratico di Ladd, ma in quello della persona umana) e rispetto che definiscono
come tipiche della responsabilità morale della persona umana.
Queste caratteristiche “etiche” vengono in particolare attribuite all’impresa
manageriale con forti caratteristiche di separazione tra proprietà e controllo
anche a causa della notevole dispersione del capitale di proprietà.
Occorre a questo punto fissare alcuni punti fermi:
a) l’unico soggetto morale che esiste come realtà autonoma (pur con tutti i suoi
condizionamenti) è la singola Persona Umana;
b) la soggettività morale dell’azienda va però accettata sul piano operativo,
perlomeno per permettere di studiare i comportamenti etici dell’azienda ed indurla
anche al pieno rispetto dei valori etici.
La teoria economico-aziendale classica può aiutare nella definizione di questo
problema, in quanto essa non studia (come assai utilmente fanno alcune discipline
economiche) il comportamento dei singoli soggetti economici che massimizzano la
loro utilità agendo anche attraverso l’impresa, ma esamina le aziende come sistemi
organizzati e sinergici, guidati, con diversi livelli e responsabilità (anche
individuali), da un vertice che tende a conseguire un equilibrio economicofinanziario-patrimoniale di lungo periodo.
18
Vedi in proposito: Goodpaster K.E., The Principle of Moral Projection, (1987).
Goodpaster K.E. and Matthews J.B. jr, Can a Corporation Have a Conscience, in “Harvard Busienss Review”, JanuaryFebruary, 1982, pp. 132-141, riprodotto in Donaldson e Werhane, op. cit., pp.139-149.
10
Si tratta di aggiungere ai tradizionali vincoli di cui si tiene conto nel
perseguimento degli obiettivi di equilibrio aziendale19 anche quelli connessi con
l’etica, avendo come riferimento il DECISORE AZIENDALE, cioè “quel
SOGGETTO (composto da una o più persone) cui sono “…riconducibili in
ultima analisi l’autorità ed il potere da esercitare nell’ambito delle scelte
aziendali..”
20
connesse al perseguimento degli obiettivi di questa istituzione
economica”.
Si utilizza il concetto di “decisore aziendale” per evidenziare che quello che conta è
trovare chi risponde moralmente delle scelte dell’azienda in quanto ha effettivo
potere; non si tratta però solo di un’etica del singolo decisore perché sulla/e persone/a
che fanno parte del decisore medesimo convergono le interazioni fra tutti coloro che
agiscono nell’impresa, mentre nel contempo ciò non libera dalle responsabilità morali
personali.
Lo stesso riferimento al soggetto economico, che appare detenere il grosso del
potere nella gestione aziendale, è in alcuni casi inadeguato a rappresentare il
”decisore” perché potrebbe in qualche caso non identificare tutti coloro che hanno
una precisa responsabilità etica nella gestione dell’azienda.
Si pensi a poteri informali di alcuni dirigenti che il soggetto economico tollera. Sul
piano della responsabilità giuridica di gestione il soggetto economico, il top
management e gli azionisti in genere non possono scaricare il loro rischio d’impresa
sulle figure che hanno potere informale, ma sul piano etico personale questi
soggetti “informali” hanno comunque le loro responsabilità e non possono del
resto neppure essere ignorati dall’etica dell’economia aziendale.
Quest’ultima disciplina va distinta dall’etica pura in quanto non può che riferirsi al
sistema impresa, con le sue articolazioni e sinergie. L’ETICA DELL’ECONOMIA
AZIENDALE riguarda infatti solo il comportamento etico dei sistemi (strutture e
funzioni) che cercano di conseguire i loro equilibri economico-finanziari e
19
Questi obiettivi sono a loro volta la condizione per il conseguimento del fine dell’azienda (sia essa privata o pubblica,
con o senza fine di lucro) di soddisfare i bisogni dell’uomo.
20
Rusconi (1997), p. 106.
11
patrimoniali, mentre l’etica pura si esprime come dovere morale nelle singole
coscienze, con una precisa scala di valori, in cui il valore moralmente positivo di
mantenere in vita e sviluppo l’azienda (con occupazione, produzione di ricchezza,
ecc.) è subordinato ai principi morali fondamentali di ciascuno. È chiaro che il
rapporto tra etica pura ed etica dell’economia aziendale è tale per cui
quest’ultima non può prescindere dai contenuti della prima, anzi deve calarli in
una complessa realtà in cui problemi tecnici, economici, ideologici, religiosi, ecc.
si intersecano anche con proposte e soluzioni diversificate e concorrenti.
La soggettività morale dell’impresa si fonda quindi sulla consapevolezza che sul
piano operativo il decisore ha una sua responsabilità di ruolo che non elimina le
responsabilità personali, studiate dall’etica pura, con la quale vi può essere una
interazione feconda. La conoscenza dei problemi di etica personale di chi fa
parte del decisore aziendale può infatti contribuire ad una migliore predisposizione
delle strategie etiche aziendali, mentre una più approfondita analisi della
complessa dinamica dei problemi di gestione del decisore aziendale può fornire
interessanti contributi all’etica pura, permettendo di chiarire meglio, grazie alle
competenze tecniche specifiche di cui necessita l’etica dell’economia aziendale,
come si configurano le responsabilità morali in azienda.
Riguardo alla struttura del decisore sono necessarie alcune differenziazioni che
possono essere sintetizzate per le imprese private in tre casi generali, comportando
comunque una schematizzazione che non esclude “zone grige”21:
a) grande azienda a capitale diffuso;
b) grande azienda a “nocciolo duro”;
c) piccola azienda.
a)
Nella grande azienda a capitale diffuso si hanno molti (od anche moltissimi)
azionisti ed il top manager tende ad avere una maggiore indipendenza dalla proprietà
21
Sull’argomento vedi Corbetta G., (1991).
12
azionaria, anche se una piccola minoranza può comunque avere (grazie a patti di
sindacato od altri strumenti) il controllo delle linee generali della politica aziendale.
E’ questa la situazione più studiata, sia per il fatto che questo campo di ricerca è
iniziato negli Stati Uniti, dove il capitalismo manageriale ha avuto maggiori sviluppi,
sia perché queste grandi corporation sono state fino ad ora quelle oggetto delle
maggiori pressioni sociali. In questo tipo di azienda il “decisore” è essenzialmente
formato dal Presidente e, ancor più, dall’Amministratore Delegato e/o da chi li
nomina, anche se con pesi diversi in relazione a come si formano le maggioranze.
Sul piano interpretativo sono qui utilizzabili, anche se ovviamente solo in parte,
entrambi gli approcci “estremi” alla questione dell’azienda come soggetto morale, sia
a causa di una forte presenza della memoria inerziale dell’azienda (vedi French), sia
per la presenza di regole e prassi interne impersonali e consolidate, che possono
tendere a formare nel decisore (qui abbastanza frammentato) un’etica interna
autoreferenziale (vedi Ladd). L’etica dell’impresa si pone come obiettivo studiare
questi influssi e indirizzarli nel senso che ritiene confacente, sia ad un’efficace
strategia etica, sia al rispetto di principi assoluti della coscienza della persona,
principi che potrebbero in taluni casi prescindere anche dal maggiore o minore
successo di lungo periodo sul piano economico-finanziario-patrimoniale.
b)
Un altro caso di struttura proprietaria è quello del “nocciolo duro”, in cui la gestione
è molto più concentrata nelle mani del detentore del capitale di controllo.
In questo caso ci si riferisce alle grandi aziende a capitale di controllo familiare o
finanziario (si pensi a banche od altri enti).
Occorre distinguere tra “decisioni singole” o “di routine”.
Dal mio testo a pagina 108-109
Le decisioni singole sono quelle in cui chi controlla l’azienda pone in atto un comportamento con
cui fa agire l’organizzazione in modo differente da come sarebbe accaduto seguendo le ordinarie
prassi e regole interne, che in ultima istanza hanno l’approvazione generica e indiretta dei vertici
aziendali.
Nel caso di decisioni singole l’imprenditore – capitalista sa che può produrre effetti etici su cui la
sua coscienza morale non si è ancora pronunciata e quindi qui si trova di fronte ad una soggettività
morale dello stesso tipo di quella dell’imprenditore piccolo e monocratico. Per queste decisioni non
13
ha molto senso parlare di responsabilità morale dell’azienda come un tutto e qui il decisore
aziendale viene ad identificarsi con la persona (o le persone) che controlla l’azienda.
Si badi bene di non identificare le decisioni singole con quelle strategiche. Nell’ambito delle
decisioni singole rientrano infatti non solo tutte le fondamentali scelte strategiche dell’azienda, ma
anche le piccole scelte quotidiane che per il manager della “public company” sono più difficili e
senz’altro meno accettabili.
Si pensi in particolare a scelte non conformi alle procedure aziendali e consolidate (ad esempio su
assunzioni e rapporti con il potere politico o con l’amministrazione pubblica22) o ad atteggiamenti e
stili di direzione (più o meno “invadenti”) che “by-passano” gli usuali canali “staff-line”
dell’organigramma aziendale: questo tipo di operazioni “extra-organigramma” sembra ovviamente
possibile molto di più nelle aziende a forte controllo personale o familiare23.
Le decisioni di “routine” comprendono invece le scelte prese “una volta per tutte” e rientrano nello
schema interpretativo proposto per le operazioni ordinarie delle aziende a capitale diffuso24.
Passando ad un’analisi più approfondita, va comunque precisato che la distinzione tra scelte singole
e decisioni e di “routine” va esaminata bene nei dettagli e non ci si può affidare ad una
classificazione rigida e valida una volta per tutte. L’assunzione del personale, per esempio, può
essere un fatto di routine aziendale in certi casi e diventare invece una decisione extraorganigramma in particolari situazioni: si pensi tra l’altro all’ingresso in azienda di persone legate al
capitalista – imprenditore che controlla l’azienda25.
Riguardo alle aziende a capitale di controllo finanziario occorre considerare che in questi casi il
problema della soggettività morale si sposta sulle caratteristiche organizzativo – societarie di chi
detiene il pacchetto di controllo e che, a sua volta, può essere una (o più) società a capitale diffuso o
una (o più) società “familiari”, oppure un “misto” fra i due tipi di struttura azionaria26. Il decisore
aziendale in questo caso tende ad essere un’entità molto complessa ed articolata.
Il discorso sulle aziende a “nocciolo duro” può essere esteso anche alle attività che hanno una
limitata struttura organizzativo- dimensionale - societaria, ma che non sono assimilabili alle piccole
aziende guidate dall’imprenditore factotum.
In questo caso si presume però che al crescere della dimensione aziendale diminuisca il ruolo delle
decisioni consapevoli dell’imprenditore - capitalista27.
Va comunque conclusa questa analisi precisando che:
1) nessuna forma societaria o modalità di governo (“governance”) esclude
totalmente la responsabilità morale di chi detiene quote di proprietà;
2) nel caso di grandi società di capitali controllate da un gruppo di famiglie si
è più vicini al caso “familiare”, anche se con equilibri più complessi.
22
Nota 59 del testo.
Non va dimenticato comunque che le aziende a “nocciolo duro” sono assai diverse tra loro e dipendono anche dalle
caratteristiche della personalità dell’uomo o della famiglia che le gestisce.
24
La responsabilità morale del decisore detentore del capitale di controllo è molto forte anche in questo caso, ma ciò
riguarda solo nel momento della scelta generica di una determinata prassi e la decisione di continuare a seguirla.
25
Vedi nota 62 sull’inserimento di familiari
26
Il problema di complica se nel “misto” si ha anche l’azionista pubblico. nota 63 non completa.
27
Nota 64 I progressi dell’informatica rendono però possibile alzare sempre di più la soglia dimensionale che rende
ancora attuabili molte decisioni consapevoli dell’imprenditore.
23
14
c)
Il caso delle piccolo-medie imprese28 è stato all’inizio trascurato dalla business ethics,
anche perché si è visto che gli occhi erano tutti puntati sulla grande corporation, ora il
discorso è diverso e stanno sviluppandosi abbondantemente gli studi e ricerche
empiriche sullo “small business”
In realtà trascurare le piccole imprese può portare alle seguenti conseguenze :
a) ignorare i problemi etici personali cui si trova di fronte continuamente il
gestore della piccola impresa, il quale tra l’altro non può usare come alibi il
pretesto dell’obbedienza alle regole del gioco di una megastruttura;
b) dimenticare l’esistenza di una “zona grigia”, composta da aziende di mediopiccole dimensioni, cui è difficile, come si è visto, attribuire una specifica
configurazione del decisore aziendale;
c) sottovalutare il ruolo e l’influenza etica dell’insieme delle piccole aziende
monocratiche.
Come si configura il decisore nelle piccole imprese?
“…nelle piccole imprese il decisore è la figura stessa dell’imprenditore factotum, figura che tende a
diffondersi su un piccolo gruppo di persone man mano che l’azienda cresce in articolazione e
complessità.
Per quanto riguarda la presenza in associazioni e consorzi, non sembra potersi parlare di un decisore
in ultima istanza diverso dall’imprenditore, anche se il condizionamento delle forme più strette di
associazionismo può portare alla formazione di una mentalità di gruppo.29”
3 Le problematiche generali dell’etica nell’economia aziendale
Le problematiche di fondo connesse all’applicazione dell’etica all’economia
aziendale sono profonde ed importanti, in particolare se si considerino le complesse
vicende della filosofia morale30 nella storia.
Qui ci si limita a considerare alcuni spunti di collegamento fra le grandi e
fondamentali domande della filosofia morale ed alcuni problemi di “business ethics”,
in particolare connessi all’etica della conduzione delle imprese.
28
Si ricorda che la dimensione si un’azienda è spesso definibile in modo relativo e sempre facendo riferimento ad una
pluralità di parametri.
29
Ibidem, p.110-111.
30
Includendo qui sia la filosofia morale contenutistica che lo studio delle condizioni della moralità in generale o
“filosofia della morale”.
15
Si tratta pertanto di porsi le seguenti domande sull’etica, considerandone poi le
applicazioni all’economia aziendale :
1) Esiste una razionalità etica?
2) Le proposizioni etiche sono oggettive o soggettive?
3) I principi e le scelte morali hanno una giustificazione utilitaristica o
deontologica?
4) Alla base dell’etica si trovano diritti naturali della persona umana?
5) Come si rapporta il pensiero etico alle religioni?
6) In che relazioni sta l’etica con la legge?
1)
Il problema del tipo di fondamento filosofico e dell’oggettività dei contenuti
dell’etica è stato posto in vari termini nella storia del pensiero, ci si limita qui, anche
perché non si sta trattando la questione in termini specificamente filosofici, ad
esaminare in generale il parere di chi considera che i contenuti dell’etica non hanno
un fondamento conoscitivo; in sostanza i giudizi etici non sarebbero per costoro né
veri, né falsi come viene inteso nelle discipline scientifiche.
L’etica dell’economia aziendale diventerebbe in questo caso:
a) una pura analisi socio-psicologica di come si formano i giudizi etici da parte degli
operatori economici;
b) una serie di suggerimenti come chi prende decisioni economiche deve comportarsi
per rispettare i vari contesti di costume etici al solo scopo di non incorrere nella
sanzione dell’ambiente in cui si opera.
Tutto ciò a prescindere dall’etica (anch’essa a questo punto, per costoro, non
razionale, né oggettiva) dell’operatore economico medesimo.
Questo noncognitivismo (o emotivismo) etico ha come conseguenza che il filosofo
morale non deve entrare nel merito della verità o della falsità di quanto affermato sul
bene o sul male, perché ogni affermazione di questo tipo è intesa come basata su un
“atteggiamento del soggetto” (emozione, propensione, atteggiamento emotivo ecc.) e
non su un giudizio di verità o falsità.
16
Queste “emozioni”, che, secondo i non cognitivisti, starebbero alla base dei principi
morali potrebbero essere non l’atteggiamento di una singola persona, ma anche un
consolidato patrimonio storico di una cultura; in ogni caso non sarebbero fondate su
argomentazioni razionali, ma su atteggiamenti sentimentali, emozioni, ecc., di cui la
persona sarebbe più o meno consapevole.
In sostanza, nell’ottica del noncognitivista, il filosofo morale diviene in parte un
sociologo, uno psicologo, ecc., ma non tocca più i contenuti dell’etica, anzi non può
nemmeno fare un ragionamento sulla fondatezza razionale dei principi dell’etica e
parlarne in termini di verità e falsità.
Questa impostazione scettica, al di là del giudizio su di essa, è utile da esaminarsi
perché serve indirettamente ad approfondire due idee:
a) le norme morali per essere accettate debbono prima passare al vaglio di
un’attenta analisi31 e vanno affrontate con argomentazioni ragionate32;
b) la critica neopositivista all’oggettività dei principi morali ha comunque messo
in luce che quest’ultimi hanno anche spesso una forte connotazione emotiva,
non necessariamente nel senso di emozioni momentanee ed individuali, ma che
possono riguardare in qualche modo anche un gruppo od una comunità.
Tutto ciò è importante per non confondere ciò che è ritenuto giusto con ciò che
è “trendy”: l’emozione sui giudizi morali è infatti, tra l’altro, oggi anche molto
più variabile di un tempo e molto influenzabile dai mezzi di comunicazione di
massa.
Il non-cognitivismo si presta comunque alla critica rivolta a tutti gli scetticismi: esso
stesso non può essere dimostrato, perché sarebbe più coerente affermare che,
partendo dal suo presupposto che su ciò che non è sperimentabile-verificabile come si
fa nelle scienze fisico-naturali non si ha né vero o falso, non è possibile nemmeno
verificare che la sua affermazione è vera o falsa.
“Una possibile via d’uscita da questa situazione potrebbe essere cercata fondando la verità o falsità
delle proposizioni etiche su una teologia che superi la tendenza umana a fondare giudizi anche su
31
Rivolgendosi o a principi religiosi (vedi seguito) e/o alla riflessione filosofica.
Quando si dice che Tizio ha torto, ma con insulti, grida e senza argomenti ragionati, si può lasciare intendere di avere
torto anche quando si ha ragione.
32
17
base emotiva, ma questa soluzione comporta necessariamente il crollo delle posizioni empiristiche
radicali che sono connesse al non - cognitivismo ed implica in particolare l’accettazione di una
metafisica (nda al libro: esistenza di un Dio, immortalità dell’anima, una Rivelazione Divina,
ecc.).”33
Appare comunque chiaro che i fondamenti della morale non possono essere della
stessa razionalità della geometria (come avevano pensato alcuni filosofi del ‘600, in
particolare Spinoza) o della fisica, ma si basano su presupposti diversi, sia di tipo
religioso sia di tipo diverso.
Pascal diceva nel Seicento che nelle scienze matematico-naturali non c’è autorità che
conti come tale, ma solo ragionamenti e dimostrazioni, mentre nella teologia, inclusa
la morale, è l’Autorità che costruisce il punto di partenza di principio; anche chi non
condivide l’interpretazione di questo filosofo può comunque convenire che la
razionalità e conoscibilità della morale non può essere ricalcata esattamente su quella
della matematica o della fisica sperimentale.
Si passa ora all’esame dell’oggettività o meno dei contenuti della morale
2)
L’OGGETTIVITÀ DELL’ETICA
Una volta accettato che è possibile ragionare in termini di vero o falso anche
nell’etica, ci si domanda come si possono ricavare contenuti oggettivi: principi, ecc.
Le proposizioni etiche sono relative o oggettive e universali?
Qui si affronta solo il discorso in termini generali, cioè se i principi etici possono
essere solo in se stessi universali ed oggettivi (OGGETTIVISMO ETICO) o se
invece essi sono relativi (RELATIVISMO ETICO)
Vedi testo pagine 36-37-38, primo capoverso, con le seguenti precisazioni:
a) Soggetto Morale Collettivo = insieme di persone, per esempio una comunità,
che condividono gli stessi principi morali, che divengono in un certo senso
oggettivi, ma solo per loro. RELATIVISMO “MODERATO”
33
Libro pagina 35.
18
b) Fallacia del naturalismo = il fatto che si constati che una comunità ha in
comune certi principi non implica di per sé che siano oggettivamente e
universalmente validi.
c) “Relativismo etico” ed “imperialismo etico”: implicazioni per il mondo delle
imprese, in particolare per quanto riguarda operazioni di imprese
multinazionali in Paesi con culture diverse o in ambienti multietnici.
L’accettazione dell’esistenza e della fondatezza di valori etici oggettivi pone il
problema delle basi logico-filosofiche su cui fondarli, in particolare si ha il dibattito
tra utilitaristi, deontologi e altre posizioni (come l’”etica della virtù”).
3)
UTILITARSIMO E DEONTOLOGIA
In questa lezione non si entra su alcuni punti del testo, in particolare sulle più recenti
modificazioni della concezione utilitarista, ma si evidenzia comunque che gli studiosi
di “business ethics” tendono a dividersi soprattutto in utilitari e deontologi, anche se
qualcuno propone la cosiddetta “virtue ethics” e possono trovarsi anche altre
posizioni.
Il contrasto fra utilitaristi (una determinata azione è buona se è atta a produrre
conseguenze positive34) e deontologi (un’azione è buona o meno in sé, a prescindere
dalle conseguenze effettive)35 si riflette nell’etica aziendale in modo particolare,
considerando che il pensiero economico moderno e contemporaneo in genere tende
da identificare il valore di mercato (cioè quanto i soggetti economici sono
liberamente disposti a pagare per avere un determinato bene e/o servizio) con l’utilità,
spesso identificata con il guadagno economico ed il benessere.
I problemi logici dell’utilitarismo consistono nel fatto che:
1) l’utilitarismo può portare a sacrificare il benessere (o anche i diritti)
fondamentale di un individuo, in nome dell’incremento del benessere generale;
34
Questa definizione è volutamente molto generica perché esistono diverse forme di utilitarismo, quella più classica e
antica, definita “utilitarismo dell’atto”, oppure l’”utilitarismo delle regole” o, ancora più recenti, l’”utilitarismo
generale” o la “teoria utilitaria unificata”. Positive qui è soprattutto nel senso di “utile”, da ciò il termine utilitarismo.
35
Basta pensare ai notissimi Bentham, per l’utilitarismo e Kant, per i deontologi.
19
2) come insegna nell’ambito dell’economia politica il teorema di Arrow non
possibile costruire una funzione di utilità collettiva che sia la somma di tante
funzioni di utilità individuali;
3) non si tiene conto adeguatamente delle esigenze di uguaglianza ed in
particolare dei bisogni di coloro che stanno peggio: in sostanza proprio
l’utilitarismo potrebbe implicare un ECCESSIVO SACRIFICIO PER
L’INDIVIDUO36.
4) Il concetto di benessere può essere riduttivo al solo benessere materiale,
rinunciando a considerare il benessere spirituale, culturale e relazionale.
Sul piano delle applicazioni aziendali si può constatare che l’utilitarismo è
fondamentale come spunto per valutare i risultati dell’azione aziendale in termini di
risultati, ma lascia aperti i problemi dei diritti e delle aspettative delle singole
persone, dei valori non strettamente legati all’utilità (più o meno indirettamente intesa
come benessere), oltre a quello del rapporto tra utilità in generale e sua distribuzione
in relazione alle aspettative.
***
In alternativa all’utilitarismo si ha la visione deontologica della morale, in cui si
afferma che l’etica si basa sul rispetto di principi e regole da essi conseguenti.
In questo modo si potrebbero superare le difficoltà dell’utilitarismo sia in relazione
all’inconfrontabilità delle diverse posizioni individuali, poiché si dàil privato ai valori
di principio ed ai diritti.
Per il deontologo si pongono però due problemi fra loro collegati:
36
Due famosi filosofi e sociologi americani, uno più “di sinistra” od una più “di destra”, nel senso americano e sempre
in un quadro di principi grosso modo liberali, affermano in proposito:
a) Rawls (1971) che l’utilitarismo “… costituirebbe una indebita estensione a livello interpersonale di quel principio
di scelta razionale che a livello intrapersonale sancisce come legittimo sottoporre se stessi a sacrifici, anche
notevoli, al fine di ottenere maggiori vantaggi o evitare sacrifici ancor maggiori” da Pontata (1988), p. 264;
b) Nozick (1974) afferma che l’utilitarismo si scontra con il principio per cui la persona umana è inviolabile e quindi
non può essere usata, contro la propria volontà, come mezzo per aumentare la felicità o il benessere generale. Si
tratta di una posizione che è propria non solo dell’imperativo categorico di Kant, ma che è comune a varie visioni
religiose e/o filosofiche.
20
1) va tenuto presente che nell’azione economica il calcolo è elemento essenziale,
poiché in molti casi, pur salvaguardando principi base, è assai arduo parlare di
valori assoluti e non di scelte affrontabili con il calcolo dell’utilità37;
2) va cercato il fondamento dei principi irrinunciabili38 e della gerarchia dei diritti
e dei doveri.
A questo punto si deve entrare nel successivo problema, che ovviamente non si pone
per l’utilitarista, salvo che nel definire l’utilità stessa come un principio, legato alle
motivazioni di fondo attribuite all’agire umano.
Prima di passare ai diritti umani, si accenna ora anche ad una serie di altre visioni che
emergono sui fondamenti dei contenuti delle proposizioni etiche.
Oltre alle posizioni antiutilitaristiche di Rawls e Nozicke altri, che sostanzialmente si
rifanno ad argomentazioni di tipo deontologico, si può accennare al filosofo
neoaristotelico39 americano, studioso di etica d’impresa, Solomon, che rifiuta
l’approccio basato su principi e regole 40, proponendo un’etica della virtù che si fonda
sulla ricerca dell’eccellenza dei comportamenti etici (più che sul rispetto dei divieti e
delle regole) e sulla consapevolezza che il comportamento virtuoso si rafforza sempre
più praticandolo.
4)
I DIRITTI UMANI FONDAMENTALI
Al confronto fra utilitarismo e deontologia si collega il problema dei diritti umani
fondamentali: basta pensare alla relazione fra successo competitivo e lavoro minorile
o alle relazioni economiche con regimi non rispettosi dei diritti dell’uomo41.
37
Un imprenditore che deve decidere se assumere personale interno od affidarsi a consulenti non tocca sempre principi
generali ma cerca la soluzione migliore per la sua azienda in termini di risultato
38
Tra questi principi potrebbe esserci anche quello della maggiore ricchezza prodotta, che non si baserebbe più
sull’utilità individuale combinata, ma su un giudizio generale di bontà del benessere collettivo, sempre con la possibilità
di vincoli dovuti ad altri principi, per es la vita umana: non posso non curare più gli ammalati per ridurre al minimo la
spesa sanitaria e investire di più nella ricerca e nelle infrastrutture
Il discorso qui è ovviamente approssimativo perché la riduzione a zero della spesa sanitaria pubblica avrebbe anche
effetti negativi sul piano economico.
39
Aristotele affermava che la virtù si acquisisce praticandola, è un “habitus”, un “abitudine”, non però nel senso
riduttivo di qualcosa di inconsapevole.
40
P. 155-156 del mio libro.
41
Il problema etico qui è molto complicato dalle condizioni di miseria che possono comportare lo sfruttamento del
minore come unica possibilità di sussistenza per lui e/o per la sua famiglia: non si dimentichi che molti casi di sviluppo
21
L’esistenza di diritti umani inalienabili, parte essenziale di doveri di tipo
deontologico, può essere proposta sulla base di varie basi:
1) una legge naturale comune a tutti gli uomini;
2) una legge fondata sulla teologia, magari anche insieme alla posizione 1);
3) una sorta di contratto sociale implicito nell’umanità42.
In presenza di una molteplicità di posizioni su alcuni diritti non è sempre possibile
trovare principi comuni per tutti i decisori aziendali, soprattutto a livello
internazionale ed interculturale.
Anche chi crede in determinati principi può farli valere per sé, ma non sempre potrà
imporli per legge, ammesso e non concesso che ciò sia sempre giusto, dipendendo ciò
dal grado di “privatezza” e non socialità che si attribuisce a questi principi.
La descrizione dei singoli problemi sarà affrontata nelle lezioni sui contenuti.
Resta comunque da considerare che:
“1) senza un minimo di diritti inalienabili (e di conseguenti doveri) che pongono dei limiti alle
scelte individuali (ndr: legate alle finalità strategiche sugli equilibri aziendali) non si può parlare di
obbligazioni morali nell’ambito dell’operare economico-aziendale;
2) l’assenza del riconoscimento di vincoli etici antecedenti alle valutazioni economiche soggettive
è un grave pregiudizio al funzionamento del sistema di mercato nel suo complesso”43.
5)
ETICA AZIENDALE E RELIGIONE
La riflessione filosofica attraversa anche i rapporti degli studi di etica con i contenuti
delle religioni, non dimenticando che il pensiero teologico si esprime molto anche
con categorie concettuali tratte dalla filosofia.
Indubbiamente l’etica dell’economia aziendale deve fare i conti sia con il pensiero
religioso, sia con la pluralità di visioni religiose, ponendo così diversi problemi
pratici a chi opera nel mondo aziendale, anche prescindendo dalla legislazione.
industriale (inclusa la rivoluzione industriale inglese) sono stati caratterizzati anche da diffuso sfruttamento dei minori:
non appare però sicuramente etico lasciare a casa i genitori disoccupati (o dare loro un salario di fame, inadeguato
anche a basse condizioni di reddito nazionale) ed assumere i figli che sono considerati come meglio “gestibili”.
42
Nella versione “forte” di un contratto che fa nascere i diritti (Hobbes in politica, per certi versi Gauthier in business
ethics) ed in quella debole di un contratto firmato per difendere principi assoluti che già esistono, ma che non si riesce a
fare rispettare (Locke, in politica).
43
Mio libro, p. 78.
22
Basta tenere presente il recente dibattito sull’estensione del lavoro domenicale od il
possibile boicottaggio di editori o produttori che non rispettano i valori morali (si
pensi al problema della violenza nelle trasmissioni televisive e cinematografiche od
alla pornografia).
Il problema più importante in questo caso è quello del rapporto tra magistero
religioso-teologico-morale e contenuti tecnico-economici in cui si manifesta
l’autonomia della ragione tecnico-scientifica. Si tratta ovviamente di una questione
che riguarda tutte le religioni, anche in relazione al loro maggiore o minore grado di
regolamentazione dei vari aspetti della vita sociale ed economica.
6)
ETICA AZIENDALE E LEGISLAZIONE
Eticità e legalità sono strettamente collegate e pongono tra l’altro importanti
considerazioni di principio che possono verificarsi nel concreto processo decisionale
aziendale:
1) valore etico in sé del rispetto della legge;
2) problemi etici che si manifestano in casi di assenza di legislazione o quando il
rispetto di alcune leggi si scontra con principi etici di fondo.
Il rispetto della legge ha già in sé un importante valore etico, poiché contribuisce a
mantenere la convivenza civile ed a evitare che la mancanza della legalità aumenti i
costi per i controlli (i cosiddetti “costi di agenzia”), generando, quando è diffusa e
poco controllata, il predominio del più forte o del più astuto, svilendo così le
principali doti che sono connesse alla convivenza civile ed alla produzione di
benessere personale e sociale.
La diffusione della cultura della legalità può quindi aiutare molto la crescita
economica e anche la maturazione civile e morale dei cittadini.
Se ci si trova infatti in una situazione in cui la violazione della legalità non è un fatto
patologico limitato, ma è diffusa anche tra molti “normali cittadini”, il rispetto delle
leggi assume un’importante dimensione etica e può persino scontrarsi con la
competitività aziendale.
23
Basta ricordare che la diffusione della scorrettezza nei bilanci d’esercizio può portare
a una sfiducia generalizzata verso i bilanci, con danni sia nelle richieste di fido alle
banche, sia dal punto di vista della fiducia dei mercati finanziari.
4. Etica e successo aziendale: strategie etiche ed etica assoluta
Questo argomento viene qui affrontato solo in termini teorici generali, poiché verrà
ripreso in seguito in relazione agli investitori etici.
É l’etica un vincolo ulteriore all’azienda, un costo, qualcosa che genera uno
svantaggio competitivo rispetto ad un’eventuale concorrenza meno etica?
Gli studi degli ultimi 20-25 anni hanno mostrato che il discorso non è così scontato,
poiché pare che in molti casi essere etici sia conveniente, anzi alcuni studiosi
affermano che l’eticità è una delle condizioni di sopravvivenza e sviluppo di lungo
periodo dell’azienda44.
Di converso ci si può porre allora un’altra domanda: che valore morale ha
comportarsi eticamente quando ciò contribuisce anche al successo competitivo?
Per rispondere bisogna innanzi tutto ricordare che l’etica dell’economia aziendale è
una disciplina che studia come il decisore del sistema aziendale si rapporta all’etica e
riguarda:
1) le condizioni per avere delle strategie etiche tali da mantenere in equilibrio il
sistema aziendale, includendo in particolare sia le relazioni con l’etica pura e
personale di coloro che hanno a che fare con l’azienda (rischio di boicottaggi), sia
rapporti con eventuali membri minoritari del decisore45; si può parlare più
specificamente in questo caso di ETICA STRATEGICA perché una buona
strategia etica è anche utile all’azienda ed al suo profitto46; dal punto di vista delle
strategie etiche chi si comporta male lo fa perché ha una sorta di “miopia
44
Vedi Vittorio Coda dell’Università Bocconi, in proposito
Si è visto che qui si è in qualche modo in una zona grigia tra strategia e valori assoluti, nella misura in cui i membri
minoritari hanno comunque un po’ di potere e responsabilità nelle decisioni aziendali.
46
Per la Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica, il successo aziendale è etico quando è finalizzato al Bene Comune, cioè
quando le strategie aziendali vincenti migliorano le condizioni di vita degli uomini senza discriminazioni e violazione di
diritti morali. In questo caso il profitto deve essere uno strumento per realizzare il Bene Comune.
45
24
imprenditoriale”, miopia che dovrebbe ridursi nella misura in cui l’etica si
inserisce a pieno titolo nella formulazione delle strategie aziendali;
In questo contesto si ha la figura professionale di una sorta di responsabile etico (o
chiamato con termini analoghi), cioè di colui che, di solito in dipendenza diretta
dai vertici dell’azienda, gestisce la responsabilità sociale e l’etica per conto
dell’azienda, che costituiscono quindi un vincolo come, ad esempio, quello
finanziario, quello produttivo o quello di marketing; ciò a prescindere dal
convincimento etico di chi prende le decisioni per l’azienda.
2) l’etica pura di coloro che fanno parte del decisore e che devono decidere anche
nei casi in cui la strategia migliore sul piano competitivo viola alcuni loro principi
di etica personale; si può parlare qui di ETICA ASSOLUTA, perché riguarda i
principi del decisore: è questo un campo relativamente improprio per l’economia
aziendale, perché è più di competenza dell’etica pura (filosofia e/o teologia
morale), ma questo argomento non può non essere affrontato nelle scelte
aziendali, soprattutto non si può considerare l’etica dell’economia aziendale
come un puro studio della convenienza competitiva che risulta dal rispetto
etica.
Nell’ambito del sistema azienda il decisore deve anche tenere conto dell’etica pura
dei vari stakeholder, questo anche solo per ragioni di etica strategica, perché
vanno in questa prospettiva considerate le reazioni dei vari stakeholder al mancato
rispetto dei loro principi da parte dell’azienda (boicottaggi, ecc.)
Il problema della moralità del comportamento etico per conseguire il successo
aziendale si pone allora su due piani:
1) dal punto di vista soggettivo della persona, dei suoi valori morali: in questo
caso il rispetto dell’etica strategica può dire poco, qui la reale eticità del
soggetto decisore può emergere con più facilità nei casi in cui le ragioni della
strategia competitiva si scontrano quelle dell’etica personale;
2) dal punto di vista dello studio delle condizioni etiche della gestione: qui si
può parlare di comportamento almeno oggettivamente etico.
25
Concludendo questo punto, è in ogni caso importante considerare che le strategie
etiche implicano comunque lo studio dei problemi non strettamente economico –
finanziari che sono connessi alle operazioni aziendali, comportando due fondamentali
conseguenze anche nel caso in cui la motivazione di partenza del rispetto dell’etica è
unicamente salvaguardare gli interessi degli azionisti e degli equilibri aziendali:
1) si evita il più possibile la “miopia manageriale”, che danneggia sia dal punto di
vista etico, che da quello economico-finanziario-patrimoniale,
2) si “forma” un management che conosce e affronta i problemi etici; ciò può
costituire una premessa anche per riflessioni che, magari poco per volta,
possono indurre al rispetto dei principi morali del decisore anche nei rari casi
di conflitto con la massimizzazione di lungo periodo del valore per gli
azionisti: in questi casi, riallacciandosi a quanto affermano i sostenitori
dell’Etica della virtù (Solomon, Zamagni), si può dire che l’etica viene appresa
e compresa praticandola.
5 L’approccio stakeholder ed i problemi di etica d’impresa
Prima di entrare, ovviamente in modo sintetico, nei contenuti di alcuni problemi tipici
dell’etica d’impresa, bisogna precisare che l’etica del decisore aziendale si esercita
nei riguardi di tutti coloro che in qualche modo hanno a che fare con le sue decisioni
(vengono da esse condizionati, “affected”).
Nella tematica sulla responsabilità sociale un termine molto usato è quello di
“stakeholder”, ora assai diffuso, ma che spesso viene usato in modo acritico e
generico.
Gli studi manageriali hanno infatti applicato in modo ampio dall’inizio degli anni
ottanta il concetto di “stakeholder”47, che fa riferimento a coloro che, volenti o
nolenti, hanno una qualche “posta di scommessa” (letteralmente stake”) nell’azienda.
In Italia si usa assai spesso come traduzione di stakeholder “portatori di interessi”, ma
ciò indica uno sbilanciamento a favore di un concetto strumentale di stakeholder,
47
Freeman,1984, Strategic Management: A Stakeholder Approach, Pitman, Boston.
Freeman and Reed,1983, Stockholders and Stakeholders: A New Perspective on Corporate Governance,
in “Academy of Management Review”, pp.88-107..
26
perché sul piano etico i legittimi interessi sono subordinarti ai diritti/doveri dei vari
stakeholder.
All’inizio48 lo “stakeholder approach” è legato in particolare alle tematiche della
gestione strategica delle aziende, cioè delle loro scelte e progetti per stare in
equilibrio e sviluppo sul mercato nel lungo e lunghissimo periodo, in particolare si
tende ad allargare gli interlocutori da considerare nell’elaborazione delle strategie. Ci
si rende infatti conto che, per svilupparsi in termini di competitività e di redditività,
un’azienda non deve solo direttamente riferirsi agli interessi degli azionisti, gli
“stockholder” (pur tenendo conto, ma solo come vincolo, anche di chi intrattiene con
essa relazioni di mercato49), ma deve considerare anche altri interlocutori, che essa
“raggiunge” in qualche modo nei loro interessi e diritti e la cui reazione (campagne di
stampa, lobbying politico-istituzionale, demotivazione e conflittualità sociale, ecc.)
potrebbe portare anche a mettere in crisi equilibri economico-finanziari di aziende
altrimenti solide e competitive. Lo stesso mercato può del resto essere utilizzato per
specifiche finalità etico - sociali: si pensi a investitori etici (vedi terzo credito del
corso), ecc..
Un approccio stakeholder che si concentri unicamente sull’esigenza di andare
incontro all’ esigenza di sopravvivenza e competitività può essere definito come
“strumentale”50 ed è in linea di principio compatibile con una visione della
responsabilità sociale ritenuta unicamente collegata al successo competitivo sul
mercato. In particolare, si cerca di evitare la “miopia imprenditoriale” sul piano
dell’etica, “miopia” che può spesso essere dovuta ad una visione riduttiva delle reali e
complesse condizioni della gestione dell’azienda, oltre che ad un orientamento della
gestione al breve periodo.
Anche nell’ambito di una visione volta alla massimizzazione del valore per gli
azionisti, orientare la gestione solo su ad un orizzonte finalizzato al risultato
competitivo, soprattutto se ciò avviene nel breve periodo, può infatti portare a non
48
Freeman e Reed (1983), Freeman (1984).
Si pensi ai clienti od ai finanziatori.
50
Donaldson and Preston,1995, The Stakeholder Theory of The Corporation: Concepts, Evidence and Implications, in
“Academy of Management Review”, pp. 65-91.
49
27
considerare le, presenti o future, esigenze extramercato di importanti stakeholder non
economici. Queste esigenze possono sorgere del resto anche dalla diffusione ed
esplicitazione di nuovi bisogni e/o dall’affermarsi di movimenti di opinione su
argomenti in precedenza trascurati nelle normali relazioni giuridico – contrattuali; si
pensi a quanto è successo con l’ambientalismo e con i movimenti sui diritti degli
animali. In questo caso possono soprattutto risentirne la redditività e la competitività
nel lungo periodo.
La visione strategica può anche combinarsi con un’impostazione più “sociale” e
“plurifinalistica” rispetto alla semplice massimizzazione del valore per gli azionisti,
affermando che una condotta eticamente e socialmente responsabile non solo può
portare nel lungo periodo alla migliore redditività possibile, ma addirittura è
condizione della stessa sopravvivenza dell’azienda come sistema (Coda e Freeman si
avvicinano a questa posizione).
Si può parlare in questo caso di una sorta di “equifinalità”, nel senso che la
massimizzazione del valore per gli azionisti è interdipendente (e mutuamente
vincolante) con il realizzarsi degli obiettivi degli altri stakeholder.
In generale, quando si parla di approccio strumentale agli stakeholder non si fa però
riferimento alla dottrina qui definita come “plurifinalistica”, ma ad ogni
interpretazione della gestione che tiene conto dei vari stakeholder per sole finalità
strategiche.
Si hanno comunque altri approcci agli stakeholder, in particolare si segnalano quello
descrittivo51 e quello etico52.
Nel primo approccio, che può considerarsi propedeutico agli altri, si affronta il
rapporto tra gli stakeholder in termini di analisi delle loro relazioni, senza dare
indicazioni di politica aziendale.
Nel secondo caso il riferimento agli stakeholder affronta i loro diritti specifici.
Questa differenza fra approcci emerge dai vari lavori, anche se:
51
52
Vedi il già citato lavoro di Donaldson e Preston.
Ibidem.
28
a) vi è chi la rifiuta, affermando che vi è solo un approccio corretto a fondamento di
una teoria degli stakeholder;
b) vi è chi cerca, criticato da altri, di unificare i vari approcci.
In conclusione di queste osservazioni, si rileva che lo “scarto” fra approccio
strategico-strumentale ed approccio etico emerge nei casi in cui l’etica assoluta del
decisore si scontra con le esigenze di strategia per massimizzare la redditività per gli
azionisti.
In questa sede è utile accennare anche ad alcune considerazioni generali sul rapporto
tra etica d’impresa e approccio stakeholder, che si esprimono in alcune domande:
1) fino a che punto si allarga il concetto di stakeholder?
2) quali sono i diritti legittimi degli stakeholder?
3) quali sono i fondamenti dell’approccio etico agli stakeholder?
Queste tre domande evidenziano ancora di più le differenze tra un approccio
unicamente strategico - strumentale ed uno etico - normativo agli stakeholder.
Quando l’approccio agli stakeholder è unicamente strategico - strumentale i problemi
qui sopra elencati svaniscono perché nell’ambito della formulazione delle strategie si
deve solo tenere conto delle aspettative degli stakeholder e renderle compatibili con
gli equilibri aziendali, pur sempre nel rispetto della legge.
Nel caso di un approccio etico invece queste domande vanno poste:
1) Il concetto di stakeholder dovrebbe allargarsi fino a comprendere tutti coloro che
hanno un legittimo interesse da tutelare che viene condizionato (affected) dall’attività
dell’azienda, va pertanto escluso chi richiede prestazioni senza averne il diritto
(malavita organizzata, terroristi, concussori, corrotti, ecc.), mentre va incluso anche
chi non è in grado di avere voce, si pensi alle generazioni future.
2) La definizione della legittimità di un diritto si pone ovviamente sui due piani,
giuridico e morale:
a) sul piano giuridico i diritti devono essere protetti dalla legge e quindi, al
di là di ogni problema etico, in uno Stato civile non resta al decisore che
prenderne atto; in situazioni dove l’illegalità è in qualche modo tollerata
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il rispetto delle leggi assume invece, come si è visto, un maggiore rilievo
etico;
b) la presenza di diritti non comporta però la “sclerotizzazione” della vita
aziendale, ciò sarebbe la fine dell’impresa libera e di ogni libertà
d’azione degli stakeholder (gli stessi sindacati dei lavoratori dipendenti
perderebbero ogni potere d’iniziativa), perché, al di là del rispetto dei
diritti fondamentali, resta l’azione autonoma dei vari stakeholder in una
libera dialettica economica e sociale; ciascuno di loro può liberamente
puntare verso l’equilibrio che ritiene a lui più favorevole (si pensi ai
contratti con i sindacati ed i fornitori): il decisore aziendale che applica
l’approccio stakeholder (supportato dalla collaborazione in ciò da parte
degli altri stakeholder dell’azienda, che seguono lo stesso approccio)
cercherà però di equilibrare tutto ciò in base alle aspettative legittime ed
ai diritti dei vari stakeholder, tenendo anche conto dell’etica pura sua
personale e di quella dei suoi interlocutori.
3) Alcuni studiosi hanno messo in luce che l’approccio etico agli stakeholder manca
di basi filosofiche solide53: al di là del discorso su quali debbano essere queste basi di
filosofia e/o teologia morale, resta il fatto che, se si vuole fondare l’approccio
stakeholder su basi etiche, è indispensabile fare riferimento ad esse ed ai loro
fondamenti, anche se in società eticamente plurali potranno su alcuni casi punti
coesistere etiche differenti.
6 Contenuti dell’etica nell’economia aziendale
Punto di riferimento è qui il testo Rusconi (1997) su “etica e impresa”:
53
Vedi Argandona, “The Stakeholder Theory and the Common Good”, in Journal of Business Ethics, pp. 1093- 1102,
in cui si fonda la validità dell’approccio etico agli stakeholder sulla teoria del Bene Comune che è portata avanti dalla
Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica.
30
capitoli 8.1, 8.2 (va ricordato l’accenno allo standard SA8000, che certifica le
aziende di tutto il mondo in merito ai diritti fondamentali dei dipendenti (ad es:
orario di lavoro ragionevole, niente discriminazioni razziali, di sesso, politiche o
sindacali, salute, ecc.), 8.3 (solo la discussione sulla teoria del bluff), 8.6 (solo le
ipernorme di Donaldspn e Dunfee ).
Conoscenza delle caratteristiche generali della TAVOLA ETICA.
Bergamo, 20 novembre 2008
Gianfranco Rusconi