Le guerre civili Gaio Mario La carriera di Gaio Mario generale e politico romano, per sette volte console della repubblica romana, è particolarmente emblematica della situazione nella tarda repubblica, in quanto si sviluppa attraverso fatti e circostanze che, in seguito, porteranno alla caduta della Repubblica romana. Le sue vicende si intrecciano con quelle di Silla, che si porrà come suo antagonista nella trasformazione dello stato romano. Mario nacque come homo novus, cioè proveniente da una famiglia della provincia italiana che non faceva parte della nobiltà romana, e seppe distinguersi e giungere alla ribalta della vita pubblica di Roma per merito della propria competenza militare. L'oligarchia dominante fu costretta, suo malgrado, a cooptarlo nel proprio sistema di potere. A causa del verificarsi di una situazione di grande pericolo per la minaccia di invasioni su larga scala, gli si dovette concedere un potere militare senza precedenti nella storia di Roma, e questo a scapito del rispetto delle leggi e delle tradizioni vigenti, che dovettero essere adattate alla nuova situazione di emergenza. Alla fine fu varata una profonda riforma della leva militare, che in passato raccoglieva solamente proprietari terrieri, e che da allora fu aperta anche a cittadini provenienti dalle classi dei nullatenenti. Nel lungo termine questa riforma ebbe l'effetto di cambiare in modo radicale e irreversibile la natura dei rapporti fra l'esercito e lo stato. Gaio Mario nacque nel 157 a.C. ad Arpino nel Lazio meridionale La città era stata conquistata dai Romani alla fine del IV secolo a.C., ed aveva ricevuto la cittadinanza romana senza diritto di voto (civitas sine suffragio). Soltanto nel 188 a.C. le vennero concessi i pieni diritti civili. Plutarco riferisce che il padre era un manovale, ma la notizia non è confermata da altre fonti, e tutto lascia pensare che sia falsa. Infatti i Marii avevano relazioni con ambienti della nobiltà romana, partecipavano da protagonisti alla vita politica della piccola cittadina e appartenevano all'ordine equestre. Le difficoltà che incontrò agli esordi della sua carriera a Roma dimostrano semmai quanto fosse arduo per un homo novus affermarsi nella società romana del tempo. Nel 134 a.C. Mario si distinse per le notevoli attitudini militari dimostrate in occasione dell'assedio di Numanzia, in Spagna, tanto da farsi notare da Publio Cornelio Scipione (in seguito soprannominato Emiliano o Africano Minore). Non è dato sapere con certezza se venne in Spagna al seguito dell'esercito di Scipione, oppure se si trovasse già in precedenza a servire nel contingente che, con scarso successo, da tempo cingeva d'assedio Numanzia. Sta di fatto che Mario parve fin dall'inizio molto interessato a far carriera politica in Roma stessa. Infatti si candidò per la carica di tribuno militare. Lo storico Sallustio ci informa che il suo nome era del tutto sconosciuto agli elettori, ma che alla fine i rappresentanti delle tribù lo elessero per merito del suo eccellente stato di servizio e su raccomandazione di Scipione Emiliano. Successivamente si ha notizia di una sua candidatura alla carica di questore ad Arpino. È probabile che egli utilizzasse le posizioni di comando ad Arpino per raccogliere dietro di sé un consistente numero di clienti su cui fare affidamento per le successive mosse che aveva in animo di compiere. Tuttavia sono solo congetture in quanto nulla si conosce della sua attività come questore. Nel 120 a.C. Mario fu eletto tribuno della plebe per il 119 a.C.. A quanto sembra si era già candidato alla carica nel 121 a.C., ma senza successo. Un ruolo determinante ebbe, nell'occasione, il sostegno della potente famiglia dei Cecilii Metelli, verso i quali probabilmente aveva un rapporto di clientela. Durante il suo tribunato Mario perseguì una linea vicina alla fazione dei popolari, facendo in modo che venisse approvata, fra l'altro, una legge che limitava l'influenza delle persone di censo elevato nelle elezioni. Negli anni intorno al 130 a.C. si era introdotto il metodo del ballottaggio scritto nelle elezioni per le nomine dei magistrati, per l'approvazione delle leggi e per l'emanazione delle sentenze legali, in sostituzione del metodo tradizionale di votazione orale. Poiché i nobiles cercavano sistematicamente di influenzare l'esito dei ballottaggi con la 1 minaccia di controlli ed ispezioni, Mario fece approvare un'apposita legge per far costruire uno stretto corridoio da cui i votanti dovevano passare per depositare il proprio voto nell'urna al riparo dagli sguardi indiscreti degli astanti. In conseguenza di ciò Mario si alienò la potente famiglia dei Metelli, che da quel momento in poi diventarono suoi fieri oppositori. Successivamente Mario si candidò per la carica di edile plebeo, ma senza successo. Nel 116 a.C. riuscì, di stretta misura, a farsi eleggere pretore per l'anno successivo e fu immediatamente accusato di brogli elettorali (ambitus.) Riuscito a malapena a farsi assolvere da questa accusa, esercitò la carica senza che si verificassero avvenimenti degni di particolare menzione. Terminato il mandato ricevette il governatorato della Hispania Ulterior, dove fu necessario intraprendere alcune campagne militari contro le popolazioni celtiberiche mai del tutto sottomesse. Il governatorato e le guerre gli fruttarono ingenti ricchezze personali, come sempre accadeva ai comandanti romani. Le vittorie ottenute gli permisero, tornato a Roma, di richiedere ed ottenere il trionfo. La carriera di Mario tuttavia non sembrava destinata a grandi successi fino al 110 a.C.. In quell'anno gli fu proposto un matrimonio con una giovane esponente della aristocrazia, Giulia Maggiore, figlia del senatore Caio Giulio Cesare (futura zia di Giulio Cesare). Mario accettò, divorziando dalla sua prima moglie Grania. La gens Iulia era una famiglia patrizia di antichissime origini (faceva risalire la propria discendenza a Iulo, figlio di Enea, e a Venere), ma, nonostante ciò, i suoi appartenenti avevano, per ragioni finanziarie, notevoli difficoltà a ricoprire cariche più elevate di quella di pretore (solamente una volta, nel 157 a.C. un Giulio Cesare era stato console). Il matrimonio permise alla famiglia patrizia di rimettere in sesto le proprie finanze e diede a Mario la legittimità per candidarsi al consolato. Il figlio che ne nacque, Caio Mario il giovane, vide la luce nel 109 (o 108) a.C., quindi il matrimonio probabilmente fu contratto nel 110 a.C. . Come abbiamo visto, la famiglia di Mario era per tradizione cliente dei Metelli, e Cecilio Metello aveva appoggiato la campagna elettorale di Mario per il tribunato. Sebbene i rapporti con i Metelli si fossero in seguito deteriorati, la rottura non dovette essere definitiva, tanto è vero che Q. Cecilio Metello, console nel 109 a.C., prese con sé Mario come suo legato nella campagna militare contro Giugurta, re della Numidia. I legati erano originariamente semplici rappresentanti del Senato, ma, gradualmente, era invalso l'uso di adibirli a compiti di comando alle dipendenze dei comandanti generali. Quindi, molto probabilmente, Metello ottenne che il Senato nominasse Mario legato, in modo che potesse servire alle sue dipendenze nella spedizione che si accingeva a compiere in Numidia. Questo rapporto conveniva ad entrambi, in quanto, mentre Metello si avvantaggiava dell'esperienza militare di Mario, questi rafforzava le sue possibilità di aspirare in seguito al consolato. Va osservato che, se la gravità della rottura con Metello del 119 a.C., alla luce di quanto avvenne in seguito, fu probabilmente riferita in modo esagerato, quella che si determinò riguardo alla condotta della guerra in Numidia fu invece molto più seria e foriera di conseguenze. Nel 107 a.C. Mario si convinse che i tempi erano maturi per candidarsi alla carica di console. A quanto pare chiese a Metello il permesso di recarsi a Roma per portare a termine il proprio proposito, ma Metello gli raccomandò di astenersi, e probabilmente gli consigliò di aspettare il tempo necessario per potersi candidare insieme al figlio ventenne dello stesso Metello, cosa che avrebbe rimandato tutto di almeno venti anni. Mario fu costretto a fare buon viso a cattivo gioco, ma nel frattempo, durante tutta l'estate del 107, fece in modo di guadagnarsi il favore della truppa, allentando notevolmente la rigida disciplina militare, e di accattivarsi anche i commercianti italici del posto, ansiosi di intraprendere i propri lucrosi traffici, assicurando a tutti che, se avesse avuto mano libera, avrebbe potuto, in pochi giorni e con la metà delle forze a disposizione di Metello, concludere vittoriosamente la campagna con la cattura di Giugurta. Entrambi questi influenti gruppi si affrettarono a inviare a Roma messaggi in appoggio di Mario, con cui si suggeriva di affidargli il comando, e si criticava Metello per il modo lento e inconcludente con cui stava conducendo la campagna militare. In effetti la strategia di Metello prevedeva una lenta, metodica e capillare sottomissione di tutto il territorio. Alla fine Metello dovette cedere, rendendosi conto, a ragione, che non gli conveniva mettersi contro un subordinato tanto influente e vendicativo. In queste circostanze è facile immaginare il modo trionfale con cui Mario, alla fine del 108, fu eletto console per l'anno successivo. La sua campagna elettorale fece leva sull'accusa, rivolta a Metello, di scarsa risolutezza nel condurre la guerra contro Giugurta. Viste le ripetute sconfitte militari subite negli anni fra il 2 113 e il 109, nonché le accuse di spudorata corruzione rivolte a molti esponenti dell'oligarchia dominante, è facile comprendere come l'onesto uomo fattosi da sé, e affermatosi percorrendo faticosamente tutti i gradini della carriera, fu eletto a furor di popolo, essendo visto come l'unica alternativa ad una nobiltà divenuta corrotta e incapace. Tuttavia il Senato aveva ancora un asso nella manica. Infatti la lex Sempronia stabiliva che il Senato aveva facoltà di decidere ogni anno quali province dovessero essere affidate ai consoli per l'anno successivo. Alla fine dell'anno, e appena prima delle elezioni, il Senato decise di sospendere le operazioni contro Giugurta e di prorogare a Metello il comando in Numidia. Mario non si perse d'animo e si servì di un espediente già sperimentato nell'anno 131 a.C. In quell'anno si era stati infatti in disaccordo su chi avrebbe dovuto comandare la guerra contro Aristonico in Asia, e un tribuno aveva fatto approvare una legge che autorizzava un'apposita elezione per decidere a chi affidare il comando. Mario fece approvare una legge simile anche in quell'anno (108 a.C.), risultando eletto a grande maggioranza. Metello ne fu profondamente offeso, tanto che, al suo ritorno, non volle nemmeno incontrarsi con Mario, dovendosi accontentare del trionfo e del titolo di Numidico che gli vennero generosamente concessi. Mario aveva un estremo bisogno di raccogliere truppe fresche e, a questo scopo, introdusse una profonda riforma del sistema di reclutamento, foriera di conseguenze di un'importanza di cui lui stesso, al momento, probabilmente non comprese la portata. Tutte le riforme agrarie attuate dai Gracchi si basavano sul tradizionale principio secondo cui erano esclusi dal servizio di leva i cittadini il cui reddito era inferiore a quello stabilito per la quinta classe di censo. I Gracchi, con le loro riforme, avevano cercato di favorire i piccoli proprietari terrieri, che da sempre avevano costituito il nerbo degli eserciti romani, in modo da fare aumentare il numero di quelli che avevano i requisiti per essere arruolati. Nonostante i loro sforzi, tuttavia, la riforma agraria non risolse la crisi del sistema di arruolamento, che aveva avuto lontana origine dalle sanguinose guerre puniche del secolo precedente. Si cercò quindi di trovare una soluzione semplicemente abbassando la soglia minima di reddito per appartenere alla quinta classe da 11.000 a 3.000 sesterzi, ma nemmeno questo fu sufficiente, tanto che già nel 109 a.C. i consoli erano stati costretti a derogare dalle restrizioni sugli arruolamenti imposte dalle leggi graccane. Nel 107 a.C. Mario ruppe ogni indugio e decise di arruolare senza alcuna restrizione riguardo al censo e alle proprietà fondiarie del potenziale soldato. D'ora in avanti le legioni di Roma saranno composte prevalentemente da cittadini poveri, il cui futuro, al termine del servizio, dipendeva unicamente dai successi conseguiti dal proprio generale, che era solito loro assegnare parte delle terre frutto delle vittorie riportate. Di conseguenza i soldati avevano il massimo interesse ad appoggiare il proprio comandante, anche quando si scontrava con i voleri del senato, composto dai rappresentanti dell'oligarchia dominante, ed anche quando andava contro il pubblico interesse, che, a quell'epoca, veniva di fatto impersonato dal Senato stesso. Va notato che Mario, persona fondamentalmente corretta e fedele alle tradizioni, non si avvalse mai di questa potenziale enorme fonte di potere, cosa che invece fece dopo vent'anni il suo ex questore Silla. Ben presto Mario si rese conto che concludere la guerra non era così facile come egli stesso si era in precedenza vantato di poter fare. Dopo essere sbarcato in Africa verso la fine del 107 a.C. costrinse Giugurta a ritirarsi in direzione Sud-Ovest verso la Mauritania. Nel 107 suo questore era stato nominato Lucio Cornelio Silla, rampollo di una nobile famiglia patrizia caduta economicamente in disgrazia. A quanto pare Mario non fu contento di avere alle proprie dipendenze un simile giovane dissoluto, ma, inaspettatamente, Silla dimostrò sul campo di possedere grandi qualità di comandante militare. Nel 105 a.C. Bocco, re di Mauritania e suocero di Giugurta, nonché suo riluttante alleato, si trovò di fronte l'esercito romano in avanzata. I romani gli fecero sapere di essere disponibili ad una pace separata e Bocco invitò Silla nella sua capitale per condurvi le trattative. Anche in questa circostanza Silla si dimostrò particolarmente abile e coraggioso; in effetti, Bocco rimase a lungo dubbioso se consegnare Silla a Giugurta oppure, come poi avvenne, Giugurta a Silla. Alla fine, Bocco fu convinto a tradire Giugurta, che fu subito consegnato nelle mani dello stesso Silla. La guerra era così conclusa. Poiché Mario era il comandante dotato di imperium e Silla militava alle sue dirette dipendenze, l'onore della cattura di Giugurta spettava interamente a Mario, ma era chiaro che gran parte del merito andava riconosciuto personalmente a Silla, tanto che gli fu consegnato un anello con un sigillo commemorativo dell'evento. Al momento la cosa non fece particolarmente scalpore, ma in seguito Silla si vanterà di essere stato il vero artefice della conclusione vittoriosa della guerra. Mario, intanto, si guadagnava fama di eroe del momento. Il suo valore stava per essere messo alla prova da un'altra grave emergenza che incombeva su Roma e sull'Italia. 3 L'arrivo in Gallia del popolo dei Cimbri e la vittoria da loro conseguita su Marco Giunio Silano, il cui esercito fu totalmente annientato, aveva provocato un inizio di ribellione da parte delle tribù celtiche che erano state di recente assoggettate dai romani nella parte meridionale del paese. Nel 107 a.C. il console Lucio Cassio Longino venne completamente sconfitto da una tribù locale, e l'ufficiale di grado più elevato fra quelli sopravvissuti (Gaio Popilio Lenate), figlio del console dell'anno 132, riuscì a mettere in salvo quanto restava delle forze romane solo dopo aver ceduto metà degli equipaggiamenti ed aver subito l'umiliazione di far marciare il proprio esercito sotto il giogo, in mezzo allo scherno dei vincitori. L'anno successivo (106 a.C.) un altro console, Quinto Servilio Cepione, marciò contro le tribù stanziate nella zona di Tolosa, che si erano ribellate a Roma, e si impossessò di un'enorme somma di denaro custodita nei santuari dei templi. La maggior parte di questo tesoro sparì misteriosamente durante il trasporto verso Massilia (l'odierna Marsiglia) e, molto probabilmente, fu lo stesso Cepione che ordinò il finto furto per impossessarsi dell'oro. Cepione fu confermato nel comando anche per l'anno successivo, mentre uno dei nuovi consoli, Gneo Mallio Massimo, si unì a lui nelle operazioni in Gallia meridionale. Al pari di Mario, anche Mallio era un uomo nuovo, e la collaborazione fra lui e Cepione si dimostrò subito impossibile. I Cimbri e i Teutoni erano entrambi composti da tribù di ceppo germanico che, nel corso delle proprie migrazioni, erano apparse sul corso del fiume Rodano proprio mentre l'esercito di Mallio si trovava nella stessa zona. Cepione, che era accampato sulla riva opposta del fiume, si rifiutò in un primo momento di venire in soccorso del collega minacciato, decidendosi ad attraversare il fiume solo dopo che il Senato gli aveva ordinato di cooperare con Mallio. Tuttavia egli si rifiutò di unire le forze dei due eserciti, e si mantenne a debita distanza dal collega. I Germani approfittarono della situazione e, dopo aver sbaragliato Cepione, distrussero anche l'esercito di Mallio il 6 ottobre del 105 a.C. presso la città di Arausio. I Romani dovettero combattere con il fiume alle spalle che impediva loro la ritirata, e, stando alle cronache, furono uccisi 80.000 soldati e 40.000 ausiliari. Le perdite subite nel decennio precedente erano state molto gravi, ma questa sconfitta, provocata soprattutto dall'arroganza della nobiltà che si rifiutava di collaborare con i più capaci capi militari non nobili, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Non soltanto le perdite umane erano state enormi, ma l'Italia stessa era ormai esposta all'invasione delle orde barbariche. Il malcontento del popolo contro l'oligarchia aveva raggiunto ormai l'esasperazione. Nell'autunno del 105, mentre si trovava ancora in Africa, Mario fu rieletto console. L'elezione in absentia era una cosa abbastanza rara, e inoltre una legge successiva all'anno 152 a.C. imponeva un intervallo di almeno 10 anni fra due consolati successivi, mentre una del 135 a.C. sembra che proibisse addirittura che questa carica potesse essere rivestita per due volte dalla stessa persona. La grave minaccia incombente dal nord fece tuttavia passare sopra ad ogni legge e consuetudine, e Mario, ritenuto il più abile comandante disponibile, fu rieletto console per 5 ben volte consecutive (dal 104 al 100 a.C.), cosa mai avvenuta in precedenza. Al suo ritorno a Roma, il 1 febbraio 104 a.C., vi celebrò il trionfo su Giugurta, che fu prima portato come un trofeo in processione, e infine giustiziato in carcere. Nel frattempo i Cimbri si erano diretti verso la Spagna, mentre i Teutoni vagavano senza una meta precisa nella Gallia settentrionale, lasciando a Mario il tempo di approntare il proprio esercito, curandone in modo molto attento l'addestramento e la disciplina. Uno dei suoi legati era ancora L. Cornelio Silla, e questo dimostra che in quel momento i rapporti fra i due non si erano ancora deteriorati. Sebbene avesse potuto continuare a comandare l'esercito in qualità di proconsole, Mario preferì farsi rieleggere console fino all'anno 100, in quanto questa posizione lo metteva al riparo da eventuali attacchi di altri consoli in carica. L'influenza di Mario divenne in quel periodo talmente grande che era addirittura in grado di influenzare la scelta dei consoli che in ogni anno dovevano essere eletti insieme a lui, e pare che egli facesse in modo che venissero scelti quelli che riteneva più malleabili. Nel 103 a.C. i Germani indugiavano ancora nelle proprie scorribande in Spagna ed in Gallia, e questo fatto, insieme alla morte del console collega Lucio Aurelio Oreste, consentì a Mario, che stava già marciando verso nord, di rientrare a Roma per venirvi confermato console per l'anno 102, insieme ad un nuovo collega. Nel 102 a.C. i Cimbri dalla Spagna tornarono in Gallia, e, insieme ai Teutoni, decisero di invadere l'Italia. Questi ultimi avrebbero dovuto puntare a Sud dirigendosi verso le coste del Mediterraneo, mentre i Cimbri dovevano penetrare nell' Italia settentrionale da Nord-Est attraversando il passo del Brennero. Infine i Tigurini, la tribù celtica loro alleata che aveva sconfitto Longino nel 107 pensavano di attraversare le Alpi provenendo da Nord-Ovest. La decisione di dividere in questo modo le loro forze si sarebbe dimostrata 4 fatale, poiché diede ai Romani, avvantaggiati anche dalle linee di approvvigionamento molto più corte, la possibilità di affrontare separatamente i vari contingenti, concentrando le proprie forze laddove era di volta in volta necessario. Nel frattempo Mario aveva organizzato nel migliore dei modi la propria armata. I soldati erano stati sottoposti ad un addestramento che mai in precedenza si era visto, ed erano abituati a sopportare senza lamentarsi le fatiche delle lunghe marce di avvicinamento, dell'allestimento degli accampamenti e delle macchine da guerra. Dapprima decise di affrontare i Teutoni, che si trovavano in quel momento nella provincia della Gallia Narbonense e si stavano dirigendo verso le Alpi. In un primo momento rifiutò lo scontro, preferendo arretrare fino ad Aquae Sextiae (l'attuale Aix en Provence), un insediamento fondato da Gaio Sestio Calvo, console nel 109 a.C., in modo da sbarrare loro il cammino. Alcuni contingenti di Ambroni, avanguardia dell'esercito dei Germani, si lanciarono avventatamente all'attacco delle posizioni romane, senza aspettare l'arrivo di rinforzi, e 30.000 di essi rimasero uccisi. Mario schierò poi un contingente di 30.000 uomini per tendere un'imboscata al grosso dell'esercito dei Germani, che presi alle spalle e attaccati frontalmente, furono completamente sterminati e persero 100.000 uomini; quasi altrettanti ne furono catturati. Il collega di Mario Quinto Lutazio Càtulo, console nel 102, non ebbe altrettanta fortuna, non riuscendo a impedire che i Cimbri forzassero il passo del Brennero avanzando nell'Italia settentrionale verso il finire del 102 a.C. Mario apprese la notizia mentre si trovava a Roma, dove fu rieletto console per l'anno 101 a.C. Il senato gli accordò il trionfo ma lui rifiutò perché ne voleva fare partecipe anche l'esercito, quindi lo posticipò ad una vittoria contro i Cimbri. Immediatamente si mise in marcia per ricongiungersi con Catulo, il cui comando fu prorogato anche per il 101. Infine, nell'estate di quell'anno, a Vercelli, nella Gallia Cisalpina, in una località allora chiamata Campi Raudii, ebbe luogo lo scontro decisivo. Ancora una volta la ferrea disciplina dei Romani ebbe la meglio sull'impeto dei barbari, e almeno 65.000 di loro (o forse 100.000) perirono, mentre tutti i sopravvissuti furono ridotti in schiavitù. I Tigurini, a questo punto, rinunciarono al loro proposito di penetrare in Italia da Nord-Ovest e rientrarono nelle proprie sedi. Catulo e Mario, come consoli in carica, celebrarono insieme uno splendido trionfo, ma, nell'opinione popolare, tutto il merito venne attribuito a Mario. In seguito Catulo si trovò in contrasto con Mario, divenendone uno dei più acerrimi rivali. Come ricompensa per avere sventato il pericolo dell'invasione barbarica, Mario venne rieletto console anche per l'anno 100 a.C. Gli avvenimenti di quell'anno, tuttavia, non gli furono propizi. Nel corso di questo anno il tribuno della plebe Lucio Apuleio Saturnino richiese con forza che si varassero riforme simili a quelle per cui si erano in passato battuti i Gracchi. Propose quindi una legge per l'assegnazione di terre ai veterani della guerra appena conclusasi e per la distribuzione da parte dello stato di grano a prezzo inferiore a quello di mercato. Il senato si oppose a queste misure, provocando così lo scoppio di violente proteste, che presto sfociarono in una vera e propria rivolta popolare, e a Mario, come console in carica, fu chiesto di reprimerla. Sebbene egli fosse vicino al partito popolare, il supremo interesse della repubblica e l'alta magistratura da lui rivestita gli imposero di assolvere, sebbene riluttante, a questo compito. Dopodiché lasciò ogni carica pubblica e partì per un viaggio in Oriente. Durante gli anni di assenza di Mario da Roma, e subito dopo il suo ritorno, Roma conobbe alcuni anni di relativa tranquillità. Nel 95 a.C., tuttavia, venne approvata una legge che decretava che tutti coloro che non fossero cittadini romani, cioè coloro che provenivano da altre città italiche dovessero essere espulsi da Roma. Nel 91 a.C. Marco Livio Druso fu eletto tribuno e propose una grande distribuzione di terre appartenenti allo Stato, l'allargamento del senato e la concessione della cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi di tutte le città italiche. Il successivo assassinio di Druso provocò l'immediata insurrezione delle città-stato italiche contro Roma, e la Guerra Sociale degli anni 91 a.C. - 88 a.C. Mario fu chiamato ad assumere, insieme a Silla, il comando degli eserciti chiamati a sedare la pericolosa rivolta. Le guerre mitridatiche 5 Finita la guerra in Italia si aprì un nuovo fronte in Asia, dove Mitridate, re del Ponto, nel tentativo di allargare verso occidente i confini del suo regno, invase la Grecia. Posto di fronte alla scelta se affidare il comando dell'inevitabile guerra contro Mitridate a Silla o Mario, il Senato, in un primo momento, scelse Silla. In seguito, tuttavia, quando il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo, appoggiato da Mario cercò di far passare una legge per distribuire gli alleati italici nelle tribù cittadine, in modo da influenzare con il loro voto i comizi ne nacque uno scontro nel quale il figlio del console Quinto Pompeo Rufo trovò la morte. Silla sfuggito alla confusione si rifugiò nella casa dello stesso Mario. Intanto la legge venne approvata e le tribù che adesso contenevano anche i nuovi cittadini fecero passare una legge secondo la quale veniva affidata a Mario la guerra contro Mitridate. Intanto Silla raggiunse l'esercito a Nola e Mario fece mandare due tribuni per portare l'esercito a Roma. Ma l'esercito uccise i tribuni e Silla fece marciare l'esercito su Roma. Mario all'arrivo di Silla abbandonò precipitosamente Roma, rifugiandosi in esilio. Gneo Ottavio e Lucio Cornelio Cinna furono eletti consoli nell'87 a.C., mentre Silla, nominato proconsole, si mise in marcia verso oriente con l'esercito. Mentre Silla conduceva la sua campagna militare in Grecia, a Roma il confronto fra la fazione conservatrice di Ottavio, rimasto fedele a Silla, e quella popolare e radicale di Cinna si inasprì sfociando in aperto scontro. A questo punto, nel tentativo di avere la meglio su Ottavio, Mario, insieme al figlio, rientrò dall'Africa con un esercito ivi raccolto e unì le proprie forze a quelle di Cinna, che aveva radunato truppe filomariane ancora impegnate in Campania contro gli ultimi socii ribelli. Gli eserciti alleati entrarono in Roma, di modo che Cinna fu eletto console per la seconda volta e Mario per la settima. Seguì una feroce repressione contro gli esponenti del partito conservatore: Silla fu proscritto, le sue case distrutte e i suoi beni confiscati. Nel primo mese del suo mandato, tuttavia, all'età di 71 anni, Mario morì. Cinna fu in seguito rieletto console per altre due volte, per poi morire, vittima di un ammutinamento, mentre si dirigeva con l'esercito verso la Grecia. L'armata di Silla, dopo aver concluso vittoriosamente la campagna nel Ponto, rientrò in Italia sbarcando a Brindisi nell'83 a.C., e sconfisse il figlio di Mario, Gaio Mario il giovane che morì in combattimento a Preneste, alle porte di Roma. Gaio Giulio Cesare, nipote della moglie di Mario, sposò una delle figlie di Cinna. Dopo il ritorno di Silla a Roma si instaurò un regime di restaurazione che perpetrò le più feroci repressioni, tanto che Giulio Cesare fu costretto a fuggire in Cilicia, dove rimase fino alla morte di Silla nel 78 a.C. Nell'88 a.C., quando fu dichiarato nemico pubblico da Silla e fu costretto a fuggire da Roma, Mario si rifugio' tra le paludi di Minturnae. I magistrati locali decretarono la sua morte per mano di uno schiavo cimbro il quale, tuttavia, mosso a compassione o intimorito non diede corso alla esecuzione. Silla Silla apparteneva ad un ramo povero della gens dei Cornelii, famiglia di antichissima origine patrizia, ma in quell'epoca senza alcuna influenza nella vita politica della città. Conosceva molto bene le lettere latine e greche. Aveva un animo grande, era cordiale nell'amicizia, era astuto e aveva l'abilità di nascondere deliberatamente i suoi pensieri. Nei rapporti coniugali non era stato molto onesto giacché aveva già tradito sua moglie Giulia. Amava la gloria e i piaceri ma questo non lo distoglieva dai doveri civili. Infine sapeva elargire i beni e soprattutto il denaro. Completamente privo di mezzi economici, Silla trascorse gli anni della gioventù ai margini dei circoli politicamente più influenti di Roma. In che modo il giovane si procurò le risorse economiche per poter essere ammesso nel rango senatorio non è dato sapere, sebbene alcune fonti facciano allusione all'eredità di un'anziana prostituta d'alto bordo dalla quale s'era fatto mantenere fino ad oltre i trent'anni. Nel 107 a.C. Silla fu nominato questore di Gaio Mario, del quale era cognato avendo sposato la sorella minore della moglie di Mario, Giulia, nel periodo in cui questi stava assumendo il comando della spedizione militare contro Giugurta, re della Numidia. Del ruolo giocato da Silla in questo conflitto si è già detto. La fama che gliene derivò gli servì da trampolino di lancio per la carriera politica, ma provocò il risentimento e la gelosia di Mario nei suoi confronti. Nonostante ciò Silla continuò a servire nello stato maggiore di Mario per tutta la durata della difficile campagna condotta in 6 Gallia contro le tribù germaniche dei Cimbri e dei Teutoni (104 – 103 a.C.). Silla si distinse anche in questa occasione, aiutando il console Quinto Lutazio Catulo, rivale di Mario, a sconfiggere i Cimbri nella Battaglia dei Campi Raudii, presso Vercelli, nel 101 a.C. Al suo ritorno a Roma, Silla riuscì a farsi eleggere pretore urbano, e i suoi avversari non mancarono di accusarlo di aver corrotto all'uopo molti degli elettori. In seguito fu assegnato al governo della Cilicia, regione situata nell'odierna Turchia. Nel 92 a.C. si assistette ad un avvenimento storico per quell'epoca. La Repubblica romana ed il grande Impero dei Parti vennero a contatto in modo del tutto pacifico. Una delegazione inviata dal sovrano parto, Mitridate II, si incontrò sulle rive dell'Eufrate con il pretore Lucio Cornelio Silla, governatore della nuova provincia di Cilicia. Nel 92 a.C., Silla incontrò un satrapo dei Parti: questo primo incontro fissò sull'Eufrate il confine tra i due imperi. Al termine del 92 a.C. Silla lasciò il Medio Oriente e rientrò a Roma, dove si unì al partito degli oppositori di Gaio Mario. In quegli anni la Guerra Sociale (91-88 a.C.) era al suo culmine. L'aristocrazia romana si sentiva minacciata dalle ambizioni di Mario che, vicino alle posizioni del partito popolare, aveva già conseguito il consolato per 5 anni di seguito, dal 104 a.C. al 100 a.C. Nella repressione di quest'ultimo moto di ribellione delle popolazioni italiche alleate di Roma, Silla si mise particolarmente in luce come brillante e geniale stratega, eclissando sia Mario che l'altro console Gneo Pompeo Strabone (padre di Gneo Pompeo Magno). Una delle sue imprese più famose fu la cattura di Aeclanum, capitale degli Irpini, ottenuta incendiando il muro di legno che difendeva la città assediata. Come conseguenza, nell'88 a.C., ottenne per la prima volta il consolato, insieme a Quinto Pompeo Rufo. Assunta la carica, Silla poco dopo assunse l'incarico dal Senato di governare la provincia d'Asia, per compiervi una nuova spedizione in Oriente e combattervi quella che poi sarebbe stata denominata la prima guerra mitridatica. Si lasciò tuttavia alle spalle, a Roma, una situazione assai turbolenta. Mario era ormai vecchio, ma nonostante ciò, aveva ancora l'ambizione di essere lui, e non Silla, a guidare l'esercito romano contro il re del Ponto Mitridate VI e, per ottenere l'incarico, convinse il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo a fare approvare una legge che sottraeva a Silla il comando, già formalmente conferito, della guerra contro Mitridate e lo attribuiva a Mario. Appresa la notizia Silla, accampato in quel momento nell'Italia meridionale in attesa di imbarcarsi per la Grecia, scelse le 6 legioni a lui più fedeli e, alla loro testa, si diresse verso Roma stessa. Nessun generale, in precedenza, aveva mai osato violare con l'esercito il perimetro della città. La cosa era talmente contraria alle tradizioni che Silla esentò gli ufficiali dal parteciparvi. Spaventati da tanta risolutezza, Mario ed i suoi seguaci fuggirono dalla città. Dopo avere preso una serie di provvedimenti per ristabilire la centralità del Senato come guida della politica romana, Silla lasciò di nuovo Roma, per intraprendere la guerra contro Mitridate. Approfittando dell'assenza di Silla, sul finire dell'87 a.C. Mario riuscì a riprendere il controllo della situazione. Con il sostegno del console Lucio Cornelio Cinna (suocero di Gaio Giulio Cesare), ottenne che tutte le riforme e le leggi emanate da Silla fossero dichiarate prive di validità e che lo stesso Silla fosse ufficialmente dichiarato "nemico pubblico" e costretto perciò all'esilio. Insieme, Mario e Cinna eliminarono fisicamente un gran numero di sostenitori di Silla, e furono eletti consoli per l'anno 86 a.C. Mario morì pochi giorni dopo l'elezione e Lucio Valerio Flacco fu nominato console suffectus al suo posto, mentre Cinna rimase a dominare incontrastato la politica romana, essendo rieletto console negli anni successivi. Nel frattempo Silla si era recato in Grecia, dove portò alla caduta Atene nel marzo dell'86 a.C.. Il generale romano vendicò quindi l'eccidio asiatico di Mitridate, compiuto su Italici e cittadini romani, compiendo un'autentica strage nella capitale achea. Silla proibì, invece, l'incendio della città, ma permise ai suoi legionari di saccheggiarla. Il giorno seguente il comandante romano vendette il resto della popolazione come schiavi. Catturato Aristione, chiese alla città come risarcimento del danno di guerra, circa venti chili di oro e 600 libbre d'argento, prelevandole dal tesoro dell'Acropoli. Poco dopo fu la volta del porto di Atene del Pireo. Da qui Archelao decise di fuggire in Tessaglia, attraverso la Beozia, dove portò ciò che era rimasto della sua iniziale armata, radunandosi presso le Termopili con quella del generale di origine tracia, Dromichete. 7 Con l'arrivo di Silla in Grecia nell'87 a.C. le sorti della guerra contro Mitridate erano quindi cambiate a favore dei Romani. Espugnata quindi Atene ed il Pireo, il comandante romano ottenne due successi determinanti ai fini della guerra, prima a Cheronea, ed infine ad Orcomeno. Contemporaneamente, agli inizi dell'85 a.C., il prefetto della cavalleria, Flavio Fimbria, dopo aver ucciso il proprio proconsole, Lucio Valerio Flacco, a Nicomedia prese il comando di un secondo esercito romano. Quest'ultimo si diresse anch'egli contro le armate di Mitridate, in Asia, uscendone più volte vincitore, riuscendo a conquistare la nuova capitale di Mitridate, Pergamo,e poco mancò che non riuscisse a far prigioniero lo stesso re. Intanto Silla avanzava dalla Macedonia, massacrando i Traci che sulla sua strada gli si erano opposti. Quando Mitridate seppe della sconfitta ad Orcomeno, rifletté sull'immenso numero di armati che aveva mandato in Grecia fin dal principio, e il continuo e rapido disastro che li aveva colpiti. In conseguenza di ciò, decise di mandare a dire ad Archelao di trattare la pace alle migliori condizioni possibili. Dopo una serie di trattative iniziali, Mitridate e Silla si incontrarono a Dardano, dove si accordarono per un trattato di pace, che costringeva Mitridate a ritirarsi da tutti i domini antecedenti la guerra, ma ottenendo in cambio di essere ancora una volta considerato "amico del popolo romano". Un espediente per Silla, per poter tornare nella capitale a risolvere i suoi problemi personali, interni alla Repubblica romana. Quando fu raggiunto dalla notizia della morte di Cinna, nell'84 a.C., lasciò l'Oriente e si mise in marcia verso Roma, ottenendo l'appoggio, tra gli altri, del giovane Gneo Pompeo Magno, destinato a diventare di l’ a poco una figura di primo piano nella politica romana. Dopo un periodo iniziale di stasi delle operazioni militari, nel novembre dell'82 a.C. l'armata di Silla sconfisse le forze consolari al comando di Gneo Papirio Carbone nella Battaglia di Porta Collina. L'esito di questa battaglia fu determinato in modo risolutivo dal sostegno del futuro triumviro Marco Licinio Crasso. Subito dopo la battaglia, essendo morti entrambi i consoli, Silla fu nominato dittatore a tempo indeterminato: i suoi poteri comprendevano il diritto di vita e di morte, la possibilità di presentare leggi, di effettuare confische, di fondare città e colonie, di scegliere i magistrati. Fu sulla base di questi poteri che Silla realizzò un'articolata serie di riforme che dovevano, nelle sue intenzioni, risolvere la crisi in cui si dibatteva da decenni lo stato romano. Silla depose poi la dittatura nel corso dell'81. Divenuto padrone assoluto della città, Silla instaurò un vero e proprio regno del terrore, mettendo al bando e dichiarando fuori legge (prima proscrizione) tutti gli oppositori politici, offrendo ricompense a chi li avesse uccisi. I più colpiti furono i cavalieri, che erano sempre stati ostili a Silla: ne furono uccisi 2.600 e i loro beni, messi all'asta a prezzi irrisori, finirono nelle tasche dei Sillani. Il giovane Caio Giulio Cesare, come genero di Cinna, fu costretto ad abbandonare precipitosamente la città, ma ebbe salva la vita grazie all'intercessione di alcuni amici influenti. Silla annotò poi nelle proprie memorie di essersi pentito di averlo risparmiato, viste le ben note ambizioni politiche del giovane. Ormai virtualmente senza opposizioni, Silla attuò una serie di riforme tese a mettere il controllo dello stato saldamente nelle mani del Senato, allargato per l'occasione da 300 a 600 senatori. La nomina a senatore fu resa, inoltre, automatica al raggiungimento della carica di questore, mentre prima era demandata alla scelta dei censori. Per evitare l'accumulo di poteri si stabilì un limite minimo di età per le varie magistrature: trent'anni per i questori, quaranta per i pretori, ecc. Il potere dei tribuni della plebe fu inoltre fortemente ridimensionato: le loro proposte dovevano essere approvate preventivamente dal Senato e il loro diritto di veto limitato. Il potere giudiziario fu restituito al Senato, sia per i reati più gravi sia per le cause di corruzione che la riforma graccana aveva demandato ai cavalieri. In definitiva tutte le sue azioni erano animate dall'intento di restituire al partito aristocratico il controllo della città. Introdusse inoltre la legge per cui i vincitori di riconoscimenti quali le corone militari di grado pari o superiore alla civica sarebbero stati ammessi di diritto in senato indipendentemente dall'età, questo fu il motivo per cui Caio Giulio Cesare all'età di vent'anni ebbe accesso al Senato. Nella sua veste di dittatore a vita Silla venne eletto console per la seconda volta nell'80 a.C. Cresceva intanto l'insofferenza verso gli eccessi compiuti dai suoi uomini. Un suo liberto fu denunciato in un processo, e sconfitto grazie alle arringhe del giovane Marco Tullio Cicerone. Silla, sorprendendo tutti, l'anno 8 successivo decise di abbandonare la politica per rifugiarsi nella propria villa di campagna, con l'intento di accingersi a scrivere le proprie memorie e riflessioni. I problemi politici e sociali che avevano portato alla guerra civile non erano però affatto risolti. Silla aveva ristabilito l'ordine oligarchico in virtù della forza derivatagli dagli eserciti, al cui appoggio ricorreranno sia i sostenitori che gli avversari del nuovo corso da lui instaurato. Da Silla in poi la vita politica e civile dello Stato sarà condizionata dall'elemento militare: disporre di un esercito da usare contro gli avversari, e se il caso contro le istituzioni, divenne l'obiettivo principale dei più ambiziosi capi politici che aspiravano al potere. Il sistema costituzionale romano uscì distrutto dalla guerra civile. E l'esempio di Silla trovò presto un imitatore d'eccezione proprio in un uomo che aveva idee opposte alle sue: Giulio Cesare. Pompeo Magno Pompeo Magno era figlio di Gneo Pompeo Strabone, un uomo estremamente ricco proveniente dal Piceno. Questo ramo della famiglia dei Pompei era tradizionalmente rurale, il che lo sottoponeva inevitabilmente ai pregiudizi della élite cittadina. La sua famiglia aveva raggiunto il consolato per la prima volta solo 35 anni prima. Di conseguenza aveva un lignaggio rispettabile ma di recente nobiltà, un leggero neo che lo segnò durante tutto la sua competizione politica con i più potenti patrizi di Roma. Pompeo Strabone, era stato un importante generale ed il primo della famiglia a diventare senatore, essendo stato eletto l'89 a.C.. Il figlio Pompeo crebbe negli accampamenti militari, coinvolto con l'esercito e gli affari politici. Strabone aveva combattuto prima con Gaio Mario, poi con Lucio Cornelio Silla nelle guerre civili dell'88-87 a.C.. A 17 anni, Pompeo era oramai completamente coinvolto nelle guerre di suo padre. Inoltre aveva un suo protetto, un giovane ufficiale suo coetaneo, Marco Tullio Cicerone. Secondo Plutarco, favorevole a Pompeo, era un giovane popolare, considerato un po' simile ad Alessandro Magno. Strabone morì nei conflitti tra Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla, lasciando al giovane Pompeo il controllo dei suoi affari e della sua fortuna. Malgrado la sua gioventù, Pompeo fu al fianco di Silla dopo il suo ritorno dalla seconda guerra mitridatica (83 a.C.). A Roma, Silla prevedeva difficoltà con Lucio Cornelio Cinna e trovò assai utili tanto il giovane ventitreenne che le tre legioni di veterani del padre di questi. Questa alleanza politica accelerò la carriera di Pompeo a Roma. Silla, ora dittatore, con il controllo assoluto della città, forzò il divorzio dal marito di Emilia Scaura, la figliastra incinta per farle sposare il suo giovane alleato. Pompeo. da parte sua, era semplicemente felice di divorziare da Antistia, una matrona di origine plebea e di prendere la patrizia Emilia. Il giovane Pompeo era ora in un'ottima posizione nei ranghi di Silla, nondimeno lontano dal suo consiglio privato. Durante le campagne di Silla attraverso l'Italia, Pompeo incontrò due individui che avrebbero entrambi modellato il futuro suo e di Roma: Marco Licinio Crasso e Gaio Giulio Cesare. Pompeo venne a contatto con Crasso nell'esercito. Come Pompeo, era stato lasciato con una piccola fortuna e con la forza militare di suo padre ed aveva parteggiato per Silla. I due avrebbero sviluppato una rivalità che sarebbe durata negli anni a venire. Pompeo incontrò per la prima volta Cesare quando Silla portò Cesare davanti a lui e chiese a Cesare di divorziare da sua moglie Cornelia, la figlia di Cinna. Quando Cesare rifiutò, Silla lo perdonò. Quando Pompeo encomiò l'azione, Silla rispose dicendo che desiderava lasciare alcuni nemici vivi per le avventure successive. Pompeo vide Cesare così non tanto come un nemico, ma come un ostacolo rispettato. Anche se la sua età giovane lo faceva essere privatus (un uomo che non deteneva una carica politica del cursus honorum o connessa ad esso), Pompeo era un uomo molto ricco e un generale di talento con il controllo di tre legioni di veterani. Inoltre, era ambizioso di gloria e potere. Felice di recepire i desideri del genero e di riordinare la sua situazione come dittatore, Silla inviò Pompeo in Sicilia per recuperare dai Mariani l'isola strategicamente molto importante, poiché produceva la maggior parte del grano per Roma; senza di questo la popolazione dell'Urbe avrebbe sofferto la fame e ci sarebbero certamente state delle 9 sommosse. Pompeo si occupò della resistenza con mano dura e i cittadini protestarono per i suoi metodi, senza esito. Scacciò le forze avversarie dalla Sicilia, mettendo a morte Gneo Carbone, e poi andò in Africa, in cui continuò la sua serie ininterrotta di vittorie nel 82-81 a.C. Il suo sterminio spietato delle forze avversarie generò un odio amaro fra i mariani sopravvissuti. Proclamato sul campo imperator dalle sue truppe in Africa, Pompeo richiese un trionfo per le sue vittorie africane. Pompeo rifiutò di sciogliere le sue legioni e si presentò con la sua richiesta alle porte di Roma dove, sorprendentemente, Silla consentì ad assegnargli il trionfo. La reputazione di Pompeo genio militare, e gli occasionali giudizi negativi, continuarono quando richiese l'imperium proconsulare (anche se non aveva ancora ricoperto la carica di console) per andare in Spagna e combattere contro Sertorio, un generale mariano che continuava a governare la Spagna. Pompeo rifiutò di sciogliere le sue legioni fino a che la sua richiesta non fu accettata e si unì con Metello Pio contro Sertorio. La campagna contro la brillante guerriglia del generale durò dal 76 a.C. al 71 a.C. È significativo che la guerra infine fu vinta solo grazie all'assassinio di Sertorio e non perché Pompeo o Metello Pio fossero stati in grado di ottenere una netta vittoria sul campo di battaglia. Nei mesi successivi alla morte del Sertorio, tuttavia, Pompeo rivelò uno dei suoi talenti più significativi: il genio per l'organizzazione e la gestione di una provincia conquistata. Sistemi di governo giusti e generosi fecero estendere il suo controllo su tutta la Spagna e sulla Gallia meridionale. Fu quando Marco Licinio Crasso si trovò in difficoltà contro Spartaco alla fine della rivolta degli schiavi del 71 a.C., che Pompeo tornò in Italia con il suo esercito per mettere fine alla sommossa. Gli avversari, specialmente Crasso, sostennero che Pompeo stava sviluppando azioni per arrivare alla fine della campagna e raccogliere tutta la gloria per il successo ottenuto. Ciò avrebbe assicurato l'inimicizia perenne tra Crasso e Pompeo, che durò per più di un decennio. Tornato a Roma, Pompeo celebrò il suo secondo trionfo extralegale per le vittorie in Spagna. Gli ammiratori vedevano in Pompeo il generale più brillante dell'epoca. Nel 71 a.C., a soli 35 anni, Pompeo fu eletto per la prima volta console, per il 70 a.C. come partner più giovane di Crasso, grazie all'appoggio irresistibile della popolazione romana. Nel 69 a.C., Pompeo era il beniamino delle masse romane anche se molti ottimati erano profondamente sospettosi delle sue intenzioni. Il suo primato nello stato fu accresciuto da due incarichi proconsolari straordinari, senza precedenti nella storia romana. Nel 67 a.C., due anni dopo il suo consolato, Pompeo fu nominato comandante di una flotta speciale per condurre una campagna contro i pirati che infestavano il Mar Mediterraneo. Questo incarico, come ogni cosa nella vita di Pompeo, fu circondato da polemiche. La fazione conservatrice del Senato era sospettosa sulle sue intenzioni ed impaurita dal suo potere. Gli ottimati provarono con ogni mezzo ad evitarla. Significativamente, Cesare faceva parte di quella manciata di senatori che sostennero il comando di Pompeo fin dall'inizio. La nomina allora fu avanzata dal tribuno della plebe Aulo Gabinio che propose la Lex Gabinia, che assegnava a Pompeo il comando della guerra contro i pirati del Mediterraneo, con un ampio potere che gli assicurava il controllo assoluto sul mare ed anche sulle coste per 50 miglia all'interno, ponendolo al di sopra di ogni capo militare in oriente. E mentre Lucio Licinio Lucullo era ancora impegnato con Mitridate e Tigrane II d'Armenia, Pompeo riusciva a ripulire l'intero bacino del Mediterraneo dai pirati, strappando loro l'isola di Creta, le coste della Licia, della Panfilia e della Cilicia, dimostrando straordinaria precisione, disciplina ed abilità organizzativa (nel 67 a.C.). La Cilicia vera e propria, che era stata covo di pirati per oltre quarant'anni, fu così definitivamente sottomessa. In seguito a questi eventi la città di Tarso divenne la capitale dell'intera provincia romana. Furono poi fondate ben 39 nuove città. La rapidità della campagna indicò che Pompeo aveva avuto talento, come generale, anche in mare, con forti capacità logistiche. Fu allora incaricato di condurre una nuova guerra contro Mitridate VI re del Ponto, in Oriente (nel 66 a.C.), grazie alla lex Manilia, proposta dal tribuno della plebe Gaio Manilio, ed appoggiata politicamente da Cesare e Cicerone. Questo comando gli affidava essenzialmente la conquista e la riorganizzazione 10 dell'intero Mediterraneo orientale, avendo il potere di proclamare quali fossero i popoli clienti e quelli nemici con un potere illimitato mai prima d'allora conferito ad altri, ed attribuendogli tutte le forze militari al di là dei confini dell'Italia romana. Tale incarico fu il secondo in cui Cesare si espresse a favore di Pompeo. Le campagne di Pompeo durarono dal 66 a.C. al 62 a.C. con tale capacità militare ed amministrativa che, Roma annesse gran parte dell'Asia sotto un saldo controllo. Pompeo non solo distrusse Mitridate, ma sconfisse anche Tigrane il grande, re di Armenia, con cui in seguito fissò dei trattati. Conquistò la Siria, allora sotto il dominio di Antioco XIII, e poi mosse verso Gerusalemme, che occupò in breve tempo. Decise quindi di riorganizzare l'Oriente romano e le alleanze che vi gravitavano attorno. A Tigrane II lasciò l'Armenia; a Farnace il Bosforo; ad Ariobarzane la Cappadocia ed alcuni territori limitrofi; ad Antioco di Commagene aggiunse Seleucia e parti della Mesopotamia che aveva conquistato; a Deiotaro, tetrarca della Galazia, aggiunse i territori dell'Armenia minore, confinanti con la Cappadocia; fece di Attalo il principe di Paflagonia e di Aristarco quello della Colchide; nominò Archelao sacerdote della dea venerata a Comana; ed infine fece di Castore di Phanagoria, un fedele alleato e amico del popolo romano. Pompeo impose insomma una riorganizzazione generale ai re delle nuove province orientali, tenendo intelligentemente conto dei fattori geografici e politici connessi alla creazione di una nuova frontiera di Roma in oriente. Le ultime campagne militari avevano così ridotto il Ponto, la Cilicia campestre, la Siria (Fenicia, Coele e Palestina) a nuove province romane, mentre Gerusalemme era stata conquistata. La provincia d'Asia era stata a sue volta ampliata, sembra aggiungendo Frigia, parte della Misia adiacente alla Frigia, in aggiunta Lidia, Caria e Ionia. Il Ponto fu quindi aggregato alla Bitinia, venendo così a formare un'unica provincia di Ponto e Bitinia. A ciò si aggiungeva un nuovo sistema di "clientele" che comprendevano dall'Armenia di Tigrane II, al Bosforo di Farnace, alla Cappadocia, Commagene, Galazia, Paflagonia, fino alla Colchide. Con l'inverno del 63-62 a.C. Pompeo distribuì donativa all'esercito pari a 1.500 dracme attiche per ciascun soldato, ed in proporzione agli ufficiali, il tutto per un costo complessivo di 16.000 talenti. Poi si recò ad Efeso, dove s'imbarcò per l'Italia e per Roma (autunno del 62 a.C.). Sbarcato a Brindisi congedò i suoi soldati e li rimandò alle loro case. Mentre si avvicinava alla capitale fu accolto da continue processioni di gente di ogni età, compresi i senatori, tutti ammirati per la sua incredibile vittoria conseguita contro un nemico tanto temibile ed irriducibile come Mitridate, ed, allo stesso tempo, avendo portato così tante nazioni ad essere poste sotto il controllo romano, estendendo i confini repubblicani fino all'Eufrate. Per questi successi il Senato gli decretò il meritato trionfo il 29 settembre del 61 a.C.e fu acclamato da tutta l'assemblea con il nome di Magnus. Si trattava del suo terzo trionfo (celebrato il giorno del quarantacinquesimo compleanno). Durò due interi giorni l'enorme parata di prede, prigionieri, l'esercito e i vessilli che descrivevano scene di battaglia riempirono tutta la strada tra il Campo Marzio ed il tempio di Giove Ottimo Massimo. Per completare i festeggiamenti, Pompeo offrì un banchetto trionfale e fece parecchie donazioni al popolo di Roma, aumentando ulteriormente la sua popolarità. Tornato a Roma, desiderava candidarsi per un secondo consolato. Le leggi romane dichiaravano che un generale non poteva attraversare il pomerium senza perdere il diritto al trionfo, ma un candidato doveva essere in città per presentarsi personalmente per l'elezione. Pompeo provò ad usare la diplomazia e chiese al senato di posporre l'elezione consolare per il giorno dopo il trionfo. Gli ottimati, guidati da Catone Uticense, si opposero fortemente e forzarono Pompeo a scegliere. Il generale scelse il trionfo, ma non poté candidarsi per il consolato. Se non poteva essere scelto, almeno poteva corrompere gli elettori per scegliere il suo candidato, Afranio. Secondo parecchie fonti, ci fu uno scandalo enorme con gli elettori che si dirigevano in massa alla casa di Pompeo fuori del pomerium. Pompeo era ormai all'apice del successo, ma durante i cinque anni di assenza da Roma era sorta nell'Urbe una nuova stella. Occupato com'era in Asia durante i disordini seguiti alla congiura di Catilina, fu il giovane Giulio Cesare ad opporre la sua volontà a quella del console Cicerone e del resto degli ottimati. Il suo vecchio collega ed avversario, Crasso, aveva prestato fondi a Cesare per farlo emergere politicamente. 11 Cicerone era in eclissi, perseguitato dalle cattive intenzioni di Publio Clodio e dalle sue bande. Nuove alleanze erano state create e l'eroe delle conquiste asiatiche stava per essere messo fuori dai giochi. Di nuovo a Roma, Pompeo abilmente allontanò i suoi eserciti, smentendo i timori che intendesse passare dalle sue conquiste al dominio di Roma come dittatore. Tuttavia era pur sempre un sommo stratega; cercò semplicemente nuovi alleati e tirò le fila dietro le scene politiche. Gli ottimati avevano combattuto di nuovo per avere il controllo di gran parte del potere reale nel senato; nonostante i suoi sforzi, Pompeo trovò che le loro azioni erano contro di lui. I suoi cospicui accordi in Oriente non furono ratificati subito. Le terre pubbliche che aveva promesso ai suoi veterani non arrivavano. Pompeo, anche se aveva fissato una linea prudente per evitare di offendere i conservatori, era sempre più sconcertato dalla riluttanza degli ottimati a riconoscere i suoi solidi successi. La frustrazione e la costernazione lo avrebbero spinto ben presto verso nuove e ineluttabili alleanze politiche. Pompeo e Crasso non avevano stima e fiducia reciproche, ma nel periodo antecedente al 61 a.C. si ritenevano entrambi ostacolati: una tassa proposta da Crasso era stata rigettata e i veterani di Pompeo restavano ignorati. Cesare, di ritorno dal servizio in Spagna e pronto per candidarsi al consolato si inserì tra i due uomini, riuscendo in qualche modo a creare un'alleanza politica sia con Pompeo che con Crasso (il cosiddetto primo triumvirato). Pompeo e Crasso lo avrebbero aiutato ad essere eletto console e lui avrebbe usato il proprio potere di console per favorire le loro leggi. Il consolato tempestoso di Cesare del 59 a.C. portò a Pompeo non solo la terra e gli insediamenti che desiderava, ma anche una nuova moglie: la giovane figlia di Cesare, Giulia. Dopo che Cesare si fu assicurato il comando proconsolare in Gallia alla fine dell'anno consolare, a Pompeo fu dato il governo della Hispania Ulterior, cosicché potesse restare a Roma. Cesare stava accrescendo la sua fama di genio militare. Dal 56 a.C. i legami fra i tre uomini cominciarono a sfilacciarsi; Cesare chiamò prima Crasso, poi Pompeo ad una riunione segreta a Lucca per ripensare sia la strategia che le tattiche. Ormai Cesare non era più il socio sottoposto e silenzioso del trio. A Lucca fu deciso che Pompeo e Crasso avrebbero di nuovo avuto il consolato nel 55 a.C. Alla loro elezione, il comando di Cesare in Gallia sarebbe stato prolungato per altri cinque anni, mentre Crasso avrebbe ricevuto il comando in Siria (da dove sarebbe potuto partire per conquistare la Partia ed estendere i propri successi). Pompeo avrebbe continuato a governare la Spagna dopo il loro anno consolare. Questa volta, tuttavia, l'opposizione ai tre uomini era al culmine; si ricorse alla corruzione su una scala senza precedenti per assicurare l'elezione di Pompeo e di Crasso nel 55. I loro sostenitori ricevettero la maggior parte dei restanti incarichi importanti. Anche se all'inizio Pompeo aveva avuto la presunzione di poter sconfiggere Cesare ed arruolare eserciti soltanto ponendo il suo piede sul suolo dell'Italia, nella primavera del 49 a.C., quando Cesare passò il Rubicone e le sue legioni attraversavano la penisola, Pompeo ordinò di abbandonare Roma. Le sue legioni fuggirono a sud verso Brundisium, dove Pompeo intendeva ritrovare nuovo vigore per intraprendere la guerra contro Cesare in Oriente. Durante quegli eventi, quasi incredibilmente, né Pompeo né il Senato pensarono a prelevare le ampie risorse dell'erario, che furono lasciate a disposizione di Cesare quando il suo esercito entrò a Roma. Essendo riuscito a sfuggire per poco a Cesare con la fuga a Brindisi, Pompeo riguadagnò sicurezza nell'assedio di Dyrrhachium, dove Cesare si era trovato in grande difficoltà. Tuttavia, non riuscendo a sfruttare il momento critico di Cesare, Pompeo perse la possibilità di distruggere le sue armate. Con Cesare alle costole, i conservatori condotti da Pompeo fuggirono in Grecia. Gli eserciti si scontrarono nella battaglia di Farsalo nel 48 a.C. Lo scontro fu duro per entrambi gli schieramenti ma alla fine le truppe del futuro dittatore di Roma conquistarono la vittoria, segnando così l'inequivocabile sconfitta di Pompeo. Come tutti gli altri conservatori, egli dovette fuggire per salvarsi la vita. Incontrò la moglie Cornelia e il figlio Sesto Pompeo sull'isola di Lesbo. Ricongiuntosi con la propria famiglia Pompeo decise di rifugiarsi in Egitto. Arrivato in Egitto, il destino di Pompeo fu deciso dai consiglieri del giovane re Tolomeo. Due vecchi compagni d’armi prezzolati lo uccisero prima del suo incontro con Tolomeo. Gli fu tagliata la testa come trofeo e il corpo fu sprezzantemente lasciato incustodito e nudo, sulla spiaggia, dove venne ritrovato dal 12 suo liberto, Filippo, che organizzò un semplice funerale cremando il corpo su una pira ricavata dal fasciame di una nave. Cesare arrivò poco dopo. Come regalo di benvenuto ricevette la testa di Pompeo ed il suo anello in un cesto. Cesare, però, non fu contento di vedere il suo nemico, una volta suo alleato e genero, assassinato dai traditori. Depose Tolomeo ed elevò Cleopatra al trono dell'Egitto. Cesare diede le ceneri di Pompeo e l'anello a Cornelia, che le portò indietro nelle sue proprietà in Italia. Alla fine del 45 a.C., Pompeo fu deificato dal senato su richiesta di Cesare. Per ironia della sorte, Cesare fu assassinato, alle Idi di marzo del 44 a.C., nel teatro di Pompeo, ai piedi della statua del suo defunto rivale. Si dice che in punto di morte Cesare abbia rivolto preghiere al suo migliore amico, genero e maggior avversario. Pompeo fu l'uomo politico più in vista della Roma repubblicana, e parve impossibile che nonostante il suo potere fosse stato abbattuto da Cesare. Forse per questo Pompeo venne idealizzato come eroe dal tragico destino quasi immediatamente dopo Farsalo: Plutarco lo ha ritratto infatti come il vero Alessandro romano, puro di cuore e di mente, distrutto dalle ciniche ambizioni della classe politica che lo attorniava Giulio Cesare Al pari di Pompeo Gaio Giulio Cesare (Gaius Iulius Caesar) fu tra i protagonisti della tarda età repubblicana. Ebbe un ruolo cruciale nella transizione del sistema di governo all’impero, del quale fu ritenuto da molti il fondatore. Fu dictator di Roma alla fine del 49 a.C., nel 47 a.C., nel 46 a.C. con carica decennale e dal 44 a.C. come dittatore perpetuo. Con la conquista della Gallia estese il dominio della res publica romana fino all'oceano Atlantico e al Reno; portò gli eserciti romani ad invadere per la prima volta la Britannia e la Germania e a combattere in Spagna, Grecia, Egitto, Ponto e Africa. Il primo triumvirato, l'accordo privato per la spartizione del potere con Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso, segnò l'inizio della sua ascesa. Dopo la morte di Crasso (Carre, 53 a.C.), Cesare si scontrò con Pompeo e la fazione degli optimates per il controllo dello stato. Nel 49 a.C., di ritorno dalla Gallia, guidò le sue legioni attraverso il Rubicone, pronunciando le celebri parole «Alea iacta est», e scatenò la guerra civile, con la quale divenne capo indiscusso di Roma: sconfisse Pompeo a Farsalo (48 a.C.) e successivamente gli altri optimates, tra cui Catone Uticense, in Africa e in Spagna. Con l'assunzione della dittatura a vita diede inizio a un processo di radicale riforma della società e del governo, riorganizzando e centralizzando la burocrazia repubblicana. Il suo operato provocò la reazione dei conservatori, finché un gruppo di senatori, capeggiati da Marco Giunio Bruto, Gaio Cassio Longino e Decimo Bruto, cospirò contro di lui uccidendolo, alle Idi di marzo del 44 a.C.(15 marzo 44) Nel 42 a.C., appena due anni dopo il suo assassinio, il Senato lo deificò ufficialmente, elevandolo a divinità. L'eredità riformatrice e storica di Cesare fu quindi raccolta da Ottaviano Augusto, suo pronipote e figlio adottivo. Le campagne militari e le azioni politiche di Cesare sono da lui stesso dettagliatamente raccontate nei Commentarii de bello Gallico e nei Commentarii de bello civili. Numerose notizie sulla sua vita sono presenti negli scritti di diversi storici. Altre informazioni possono essere rintracciate nelle opere di autori suoi contemporanei, come nelle lettere e nelle orazioni del suo rivale politico Cicerone, nelle poesie di Catullo e negli scritti storici di Sallustio. Cesare nacque a Roma il 13 luglio del 101 o, secondo altri, il 12 luglio del 100 a.C. da un'antica e nota famiglia patrizia, la gens Iulia, che annoverava tra gli antenati anche il primo e grande re romano, Romolo, e discendeva da Iulo (o Ascanio), figlio del principe troiano Enea, secondo il mito figlio a sua volta della dea Venere. 13 Nonostante le origini aristocratiche, la famiglia di Cesare non era ricca per gli standard della nobiltà romana, né particolarmente influente. Ciò rappresentò inizialmente un grande ostacolo alla sua carriera politica e militare, e Cesare dovette contrarre ingenti debiti per ottenere le sue prime cariche politiche. Inoltre, negli anni della giovinezza dello stesso Cesare, lo zio Gaio Mario si era attirato le antipatie della nobilitas repubblicana (anche se successivamente Cesare riuscì a riabilitarne il nome) e questo metteva anche lo stesso Cesare in cattiva luce agli occhi degli optimates. Il padre, suo omonimo, era stato pretore nel 92 a.C. e aveva probabilmente un fratello, Sesto Giulio Cesare, che era stato console nel 91 a.C., e una sorella, Giulia, che aveva sposato Gaio Mario intorno al 110 a.C. La madre era Aurelia Cotta, proveniente da una famiglia che aveva dato a Roma numerosi consoli. Il futuro dittatore ebbe due sorelle, entrambe di nome Giulia: Giulia maggiore, probabilmente madre di due dei nipoti di Cesare, Lucio Pinario e Quinto Pedio, menzionati insieme a Ottaviano nel suo testamento, e Giulia minore, sposata con Marco Azio Balbo, madre di Azia maggiore e di Azia minore, a sua volta madre di Ottaviano. La famiglia viveva in una modesta casa della popolare e malfamata Suburra, dove il giovane Giulio Cesare fu educato da Marco Antonio Gnifone, un illustre grammatico nativo della Gallia. Cesare trascorse il suo periodo di formazione in un'epoca tormentata da gravi disordini. La città di Roma era divisa in due fazioni contrapposte: gli optimates, favorevoli al potere aristocratico, e i populares o democratici, che sostenevano la possibilità di rivolgersi direttamente all'elettorato. Pur se di nobili origini, fin dall'inizio della sua carriera Cesare si schierò dalla parte dei populares, scelta sicuramente condizionata dalle convinzioni dello zio Gaio Mario, capo dei populares e rivale di Lucio Cornelio Silla, sostenuto da aristocrazia e Senato. Nell'86 a.C. lo zio Gaio Mario morì, e nell'85 a.C., quando Cesare aveva solo sedici anni, morì il padre Gaio Giulio Cesare il Vecchio. L'anno seguente Cesare ripudiò la sua promessa sposa Cossuzia per sposare Cornelia Cinna Minore, figlia di Lucio Cornelio Cinna, alleato e amico di Gaio Mario. Il nuovo legame con una famiglia notoriamente schierata con i popolari, oltre alla parentela con Mario, causarono problemi non indifferenti al giovane Cesare negli anni della dittatura di Silla. Questi cercò di ostacolarne in tutti i modi le ambizioni; la situazione poi si aggravò quando il dittatore, avuta la meglio su Mitridate VI, rientrò in Italia e sconfisse i seguaci di Mario nella battaglia di Porta Collina, nell'82 a.C. . Ormai capo indiscusso di Roma, Silla si autoproclamò dittatore perpetuo per la riforma delle leggi e la restaurazione della repubblica, e iniziò ad eliminare i suoi avversari politici; ordinò a Cesare di divorziare da Cornelia poiché non era patrizia, ma Cesare rifiutò. Silla meditò allora di farlo uccidere, ma dovette poi desistere dopo i numerosi appelli rivoltigli da più parti Cesare, temendo per la sua vita, lasciò comunque Roma, prima ritirandosi in Sabina e poi, raggiunta la giusta età, partendo per il servizio militare in Asia, come legato del pretore Marco Minucio Termo. Fu Minucio ad ordinare al giovane legato di recarsi presso la corte di Nicomede IV, sovrano del piccolo stato della Bitinia. Di questa missione si parlò a lungo a Roma, ove si diffuse la voce che Cesare avesse avuto una relazione amorosa con il sovrano, come testimoniano i canti intonati dai legionari dello stesso Cesare oltre trentacinque anni dopo. In ogni modo, come legato di Minucio durante l'assedio di Mitilene, Cesare partecipò per la prima volta ad uno scontro armato, distinguendosi per il suo coraggio, tanto che gli fu conferita la corona civica, che veniva concessa a chi, in combattimento, avesse salvato la vita ad un cittadino. In seguito alle riforme promulgate da Silla, a chi fosse stata conferita una corona militare sarebbe stato garantito l'accesso al Senato. Rientrato a Roma Minucio, Cesare rimase in Cilicia, partecipando come patrizio romano a diverse operazioni militari che si svolsero in quella zona, come l'azione contro i pirati (che proprio in Cilicia avevano il loro punto di forza) sotto il comando di Servilio Isaurico. In quanto di famiglia patrizia, lì fu associato con alcuni incarichi a vari comandanti romani. Dopo due anni di potere assoluto, Silla si dimise dalla carica di dittatore, ristabilendo il normale governo consolare. Cesare rientrò a Roma solo quando ebbe notizia della morte di Silla (78 a.C.), e il suo ritorno coincise con il tentativo di ribellione anti-sillana capeggiato da Marco Emilio Lepido e bloccato da Gneo Pompeo. Cesare, non fidandosi delle capacità di Lepido, che pure lo aveva contattato, non partecipò 14 alla ribellione, e iniziò invece a dedicarsi alla carriera forense come pubblico accusatore e a quella politica come esponente dei popolari e nemico dichiarato degli ottimati. In questa fase, benché ancora giovanissimo, egli dimostrò già una grandissima intelligenza politica, evitando di rimanere implicato in un'insurrezione male organizzata e destinata a naufragare nell'insuccesso. Cesare, che non si era apertamente schierato contro la politica sillana, evitando di partecipare all'insurrezione di Lepido, decise di sostenere l'accusa di concussione contro Gneo Cornelio Dolabella, per atti durante il suo mandato di governatore in Macedonia e quella di estorsione contro Gaio Antonio Ibrida. Entrambi gli accusati erano membri influenti del partito degli ottimati e in entrambi i casi, anche se l'accusa fu pronunciata con perizia, perse le cause: Dolabella, che probabilmente si era macchiato anche di vari crimini durante le proscrizioni sillane, fu assolto dall'accusa di concussione grazie all'abilità oratoria dei suoi avvocati. Benché l'esito del processo non compaia nell'opera di nessuno storico, è probabile che anche Ibrida riuscì ad evitare la condanna. Cesare, che sapeva fin dal principio che le sue azioni legali non avevano alcuna possibilità di riuscita, attraverso l'esordio nel mondo forense si accreditò come importante rappresentante della fazione dei populares, anche se l'esito negativo dei processi lo convinse a lasciare Roma una seconda volta per evitare le vendette della nobilitas sillana. Egli decise allora, nel 74 a.C., di recarsi a Rodi, vera e propria meta di pellegrinaggio per i giovani romani delle classi più alte, desiderosi di apprendere la cultura e la filosofia greca. Durante il viaggio fu però rapito dai pirati, che lo portarono sull'isola di Farmacussa, una delle Sporadi meridionali a sud di Mileto. Quando questi gli chiesero di pagare venti talenti, Cesare rispose che ne avrebbe consegnati cinquanta e mandò i suoi compagni a Mileto perché ottenessero la somma di denaro con cui pagare il riscatto, mentre lui sarebbe rimasto a Farmacussa con due schiavi ed il medico personale. Durante la permanenza sull'isola, Cesare compose numerose poesie; più in generale, mantenne un comportamento piuttosto particolare con i pirati, trattandoli sempre come se fosse lui ad avere in mano le loro vite e promettendo più volte che una volta tornato libero li avrebbe fatti uccidere tutti. Quando i suoi compagni ritornarono, portando con sé il denaro che le città avevano offerto loro per pagare il riscatto, Cesare si rifugiò nella provincia d'Asia, governata dal propretore Marco Iunco. Giunto a Mileto, Cesare armò delle navi e tornò in tutta fretta a Farmacussa, dove catturò senza difficoltà i pirati, li fece uccidere e poté anzi restituire i soldi che i suoi compagni avevano dovuto richiedere per il riscatto. Terminata la vicenda dei pirati, Cesare prese parte alla guerra contro Mitridate VI del Ponto, combattendo nella provincia d'Asia ed arruolando navi e milizie ausiliarie. Nel 73 a.C., mentre ancora si trovava in Asia, fu eletto nel collegio dei pontefici, per compensare il fatto che avesse perso la carica del flaminato per fuggire da Silla. Tornato a Roma, fu eletto tribuno militare alle elezioni del 72 a.C. per l'anno seguente, risultando addirittura il primo degli eletti. Si impegnò dunque nelle battaglie politiche sostenute dai populares, ovvero l'approvazione della Lex Plotia (che avrebbe permesso il rientro in patria di coloro che erano stati esiliati dopo aver partecipato all'insurrezione di Lepido) e il ripristino dei poteri dei tribuni della plebe, il cui diritto di veto era stato notevolmente ridimensionato da Silla, per evitare colpi di mano da parte dei populares. Il ripristino della tribunicia potestas fu però ottenuto soltanto nel 70 a.C., l'anno del consolato di Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso. Entrambi avevano acquisito un grande prestigio portando a termine rispettivamente la guerra contro Quinto Sertorio in Spagna, e quella contro gli schiavi guidati da Spartaco. Crasso in particolare era in stretti rapporti con Cesare (lo aveva aiutato infatti più volte finanziandone le campagne elettorali) ma, per quanto incredibilmente ricco grazie alle proscrizioni sillane, dovette far appoggio durante la sua campagna elettorale sul carisma del nascente leader popolare. Cesare fu eletto questore per il 69 a.C.. Dopo il consolato di Pompeo e Crasso, il clima politico romano si stava avviando al cambiamento, grazie al quasi totale smantellamento della costituzione sillana che i due consoli avevano operato. Nel 69 a.C. Cesare pronunciò dai Rostri del Foro, secondo l'antico costume, gli elogi funebri per la zia Giulia, vedova di Gaio Mario, e per la moglie Cornelia, figlia di Lucio Cornelio Cinna. Nel farlo, mostrò per la prima volta in pubblico dal periodo sillano le immagini di Gaio Mario e del figlio Gaio Mario il giovane, e il popolo le accolse plaudente. Nell'elogio per Giulia,Cesare esaltava la 15 discendenza della zia per parte di madre da Anco Marzio, evidenziando come negli esponenti della gens Iulia scorresse ora anche il sangue regale accanto a quello divino. Sempre nel corso del 69 a.C., Cesare si recò nella Spagna Ulteriore, governata dal propretore Antistio Vetere. Lì si dedicò ad un'intensa attività giudiziaria e grazie al suo grande impegno poté anche accattivarsi le simpatie della popolazione, che liberò dai pesi fiscali che Metello aveva imposto. Dopo aver votato per l'approvazione della Lex Gabinia e della Lex Manilia, Cesare fu eletto edile curule (aedilis curulis) nel 65 a.C.. Grazie al suo comportamento poté consacrarsi definitivamente come nuovo leader del movimento popolare, conquistandosi le simpatie di tutta la popolazione romana. Cesare si propose come continuatore della politica antisillana: fece infatti rimettere in piedi i trofei ottenuti da Mario per le vittorie contro Cimbri e Teutoni, e decise, quando fu a capo del tribunale, di considerare come omicidi le uccisioni dei proscritti sotto Silla. Altro grandissimo successo fu per Cesare l'elezione nel 63 a.C. a pontefice massimo, dopo la morte di Quinto Cecilio Metello Pio, che era stato nominato da Silla. Cesare, per quanto scettico, si era battuto perché il pontificato tornasse ad essere, dopo la riforma sillana, una carica elettiva, e comprendeva perfettamente quale aspetto avrebbe avuto la sua figura se insignita della carica di tutore del diritto e del culto romano. A sfidarlo c'erano però rappresentanti della fazione degli optimates molto più anziani e già da tempo giunti al culmine del cursus honorum. Cesare allora, aiutato anche da Marco Licinio Crasso, si procurò grandi somme di denaro che usò per corrompere l'elettorato, e fu dunque costretto a pagare un prezzo altissimo per la sua elezione: il giorno del voto, uscendo di casa, promise infatti alla madre che ella lo avrebbe rivisto pontefice oppure esule. La nettissima vittoria di Cesare gettò nel panico gli optimates, mentre costituì per il neoeletto pontefice una nuova acquisizione di prestigio, in grado di assicurargli la nomina a pretore per l'anno seguente. Nel frattempo, per evidenziare l'importanza della sua carica cominciò ad attuare una politica volta ad accattivarsi anche le simpatie di Pompeo Magno. Nel 63 a.C. irruppe sulla scena politica Lucio Sergio Catilina. Nobile decaduto, egli tentò più volte di impadronirsi del potere: organizzò una prima congiura nel 66 o nel 65 a.C., a cui Cesare prese probabilmente parte. La congiura, che avrebbe portato all'elezione di Crasso come dittatore e dello stesso Cesare come suo magister equitum, fallì per l'improvviso abbandono del progetto da parte di Crasso, o forse perché Cesare si rifiutò di dare il segnale convenuto che avrebbe dovuto dare inizio al programmato assalto al senato. Quando nel 63 la seconda congiura di Catilina fu scoperta da Marco Tullio Cicerone, Lucio Vezio, amico di Catilina, fece i nomi di alcuni congiurati, includendo tra essi anche Cesare. Questi fu scagionato dalle accuse grazie al tempestivo intervento di Cicerone, ma resta assai probabile che avesse partecipato, almeno inizialmente, anche a questa seconda congiura. Ad avvalorare l'ipotesi è il discorso che lo stesso Cesare pronunciò in senato in difesa dei congiurati Lentulo e Cetego: dopo la sua fuga, Catilina aveva lasciato a loro le redini della congiura, ma i due erano stati scoperti grazie a un abile piano congegnato da Cicerone, principale accusatore di Catilina e responsabile del fallimento della congiura. Discutendo sulla pena cui condannare Lentulo e Cetego, molti senatori avevano proposto la condanna a morte; Cesare, invitando tutti a non prendere decisioni avventate e dettate dalla paura, propose invece di confinare i congiurati e di confiscare loro i beni. Il discorso di Cesare, che aveva convinto molti senatori, fu però seguito da un altro, molto acceso, pronunciato da Marco Porcio Catone Uticense, che riuscì a reindirizzare il senato verso la condanna a morte dei congiurati. Lentulo e Cetego furono quindi condannati a morte senza che gli fosse concessa la provocatio ad populum. Il discorso di Cesare, grazie al quale egli si presentò come un uomo saggio e poco vendicativo, fu molto gradito al popolo, che sperava nei benefici che Catilina gli avrebbe concesso; è però probabile che con le sue parole il futuro dittatore tentasse anche di salvare dalla morte degli amici e compagni politici con i quali aveva indubbiamente collaborato. Dopo la morte della moglie Cornelia nel 68 a.C., Cesare sposò Pompea, nipote di Silla. Nel 62 a.C., tuttavia, a seguito di uno scandalo che aveva coinvolto la domma, Cesare la ripudiò. Eletto pretore, nel 61 a.C. fu poi governatore della provincia della Spagna ulteriore, dove condusse operazioni contro i Lusitani; acclamato imperator, gli fu tributato il trionfo una volta tornato a Roma. Cesare fu tuttavia costretto a rinunciarvi, in quanto per celebrare il trionfo avrebbe dovuto mantenere le sue vesti di militare e restare fuori dalla città di Roma: il propretore chiese dunque al senato il permesso di candidarsi al consolato in absentia, 16 attraverso i suoi legati, ma Catone l'Uticense fece in modo che la richiesta fosse respinta. Cesare, posto di fronte ad una scelta particolarmente importante per la sua carriera futura, preferì dunque salire il gradino successivo del cursus honorum e candidatosi nel 60 a.C. fu eletto console per l'anno 59 a.C. Nel 60 a.C., Cesare stipulò un'alleanza strategica con due tra i maggiori capi politici dell'epoca: Crasso e Pompeo. Questo accordo privato fu successivamente chiamato dagli storici primo triumvirato; non si trattava di una vera magistratura, ma di un accordo tra privati che, data l'influenza dei firmatari, ebbe poi notevolissime ripercussioni sulla vita politica, dettandone gli sviluppi per quasi dieci anni. Crasso era l'uomo più ricco di Roma (aveva infatti finanziato la campagna elettorale di Cesare per il consolato) ed era un esponente di spicco della classe dei cavalieri. Pompeo, dopo aver brillantemente risolto la guerra in Oriente contro Mitridate ed i suoi alleati, era il generale con più successi alle spalle. Il rapporto tra Crasso e Pompeo non era dei più idilliaci, ma Cesare con la sua fine abilità diplomatica seppe riappacificarli, vedendo in un'alleanza tra i due l'unico modo in cui egli stesso avrebbe potuto raggiungere i vertici del potere. Crasso serbava infatti verso Pompeo un certo rancore, da quando quegli aveva celebrato il trionfo per la guerra contro Sertorio in Spagna e per la vittoria contro gli schiavi ribelli, che soffocata la rivolta di Spartaco cercavano di fuggire dall'Italia per attraversare l'arco alpino: ogni merito era andato a Pompeo, mentre Crasso, vero artefice della sofferta vittoria su Spartaco, aveva potuto celebrare soltanto un'ovazione. Pompeo avrebbe dovuto sostenere la candidatura al consolato di Cesare, mentre Crasso l'avrebbe dovuta finanziare. In cambio di quest'appoggio, Cesare avrebbe fatto in modo che ai veterani di Pompeo venissero distribuite delle terre, e che il Senato ratificasse i provvedimenti presi da Pompeo in Oriente; al contempo, com'era desiderio di Crasso e dei cavalieri, fu ridotto di un terzo il canone d'appalto delle imposte della provincia d'Asia. A rinsaldare ulteriormente quanto previsto dal triumvirato, Pompeo sposò Giulia, la figlia di Cesare. Nel 59 a.C., l'anno del suo consolato, Cesare portò al servizio dell'alleanza la sua popolarità politica e il suo prestigio, e si adoperò per portare avanti le riforme concordate con gli altri triumviri. Nonostante la forte opposizione del collega Marco Calpurnio Bibulo, che tentò in ogni modo di ostacolare le sue iniziative, Cesare ottenne comunque la ridistribuzione degli appezzamenti di ager publicus per i veterani di Pompeo, ma anche per alcuni dei cittadini meno abbienti. Bibulo, una volta accortosi del fallimento della sua sterile politica volta esclusivamente alla conservazione dei privilegi da parte della nobilitas senatoriale, si ritirò dalla vita politica: in questo modo pensava di frenare l'attività del collega, che invece poté attuare in tutta tranquillità il suo rivoluzionario programma. Cesare infatti programmò la fondazione di nuove colonie in Italia, e per tutelare i provinciali riformò le leggi sui reati di concussione (lex Iulia de repetundis), facendo approvare allo stesso tempo delle leggi che favorissero l'ordo equestris: con la lex de publicanis egli ridusse di un terzo la somma di denaro che i cavalieri dovevano pagare allo stato, favorendo così le loro attività. Fece infine promulgare una legge che imponeva al senato di stilare le relazioni di ogni seduta (gli acta senatus). In questo modo Cesare si assicurava l'appoggio di tutta la popolazione romana, ponendo le basi per il suo futuro successo. Durante il consolato, grazie all'appoggio dei triumviri, Cesare ottenne con la Lex Vatinia il proconsolato delle province della Gallia Cisalpina e dell'Illirico per cinque anni, con un esercito composto da tre legioni. Poco dopo un senatoconsulto gli affidò anche la vicina provincia della Gallia Narbonense, il cui proconsole era morto all'improvviso. Il senato sperava con le sue mosse di allontanare il più possibile Cesare da Roma, proprio mentre egli stava acquisendo una sempre maggiore popolarità. Cesare seppe comprendere le potenzialità che l'incarico affidatogli presentava: in Gallia egli avrebbe potuto conquistare immensi bottini di guerra (con i quali saldare i debiti contratti nelle campagne elettorali), e avrebbe acquisito il prestigio necessario per attuare la sua riforma della res publica. Prima di lasciare Roma, nel marzo del 58 a.C., Cesare incaricò il suo alleato politico Publio Clodio Pulcro, tribuno della plebe, di fare in modo che Cicerone fosse costretto a lasciare Roma. Clodio fece allora approvare una legge con valore retroattivo che puniva tutti coloro che avevano condannato a morte dei cittadini romani senza concedere loro la provocatio ad populum: Cicerone fu quindi condannato per il suo comportamento in occasione della congiura di Catilina, venne esiliato, e dovette lasciare Roma e la vita 17 politica. In questo modo Cesare cercava di assicurarsi che, in sua assenza, il senato non prendesse decisioni che compromettessero la realizzazione dei suoi piani. Allo stesso scopo, Cesare si liberò anche di un altro esponente dell'aristocrazia senatoria, Marco Porcio Catone, che venne allontanato da Roma inviandolo propretore a Cipro. Per evitare inoltre di divenire oggetto delle accuse legali dei suoi avversari, si appellò alla lex Memmia, secondo la quale nessun uomo che si trovava fuori dall'Italia a servizio della res publica poteva subire un processo giuridico. Mentre si trovava ancora a Roma, Cesare venne a sapere che gli Elvezi, stanziati tra il lago di Costanza, il Rodano, il Giura, il Reno e le Alpi retiche, si accingevano ad attraversare il territorio della Gallia Narbonense. C'era dunque il pericolo che essi, al loro passaggio sul territorio romano, compissero razzie e incitassero alla rivolta il popolo che ivi risiedeva, gli Allobrogi; i territori che si sarebbero svuotati, potevano poi divenire meta delle migrazioni di altri popoli germanici, che si sarebbero trovati a vivere al confine con lo stato romano, dando origine a un pericolo da non sottovalutare. Il 28 marzo Cesare, avuta notizia che gli Elvezi, bruciate le loro città, erano giunti sulle rive del Rodano, fu costretto a precipitarsi in Gallia, dove giunse il 2 aprile, dopo pochissimi giorni di viaggio. Disponendo solo di poche truppe insufficienti a contrastare il nemico fece distruggere il ponte sul Rodano per impedire che gli Elvezi lo attraversassero, ed iniziò a reclutare in tutta la provincia forze ausiliarie, disponendo, inoltre, la creazione di due nuove legioni nella Gallia Cisalpina e ordinando a quelle stanziate ad Aquileia di raggiungerlo al più presto. Il generale romano avanzò verso Ariovisto, che aveva attraversato il Reno e l'Ill e, dopo un ultimo fallimentare negoziato, si decise a dare battaglia, presso l'odierna Mulhouse, ai piedi dei Vosgi. I Germani furono duramente sconfitti e massacrati dalla cavalleria romana mentre tentavano di salvarsi attraversando il fiume. Con la vittoria su Ariovisto, Cesare, fermate le invasioni germaniche e posto il Reno come confine tra la Gallia e la Germania stessa, salvò le popolazioni galliche dal pericolo dell'invasione, stabilendo così una propria egemonia sul territorio. Dopo aver svernato nella Gallia Cisalpina, nel 57 a.C., avvalendosi dell'aiuto degli alleati Edui e delle due nuove legioni che aveva fatto arruolare, Cesare decise di portare la guerra nel nord della Gallia. Qui i Belgi erano da tempo pronti all'attacco, consci del fatto che se Cesare si fosse completamente impossessato della Gallia avrebbero perso la loro autonomia. Il generale, radunate le forze, marciò allora verso il nord, dove i Belgi si erano radunati in un unico esercito di oltre 300.000 uomini. Raggiuntili, diede battaglia e li sconfisse una prima volta vicino a Bibrax presso il fiume Axona, provocando loro molte perdite. Cesare avanzò ancora, quando altri Belgi, in massima parte Nervi, decisero di unirsi nuovamente per combattere l'esercito romano. Essi attaccarono di sorpresa l'esercito romano, ma Cesare seppure con grandi difficoltà riuscì a respingerli e a contrattaccare, capovolgendo le sorti della battaglia: ottenne infatti la vittoria, riuscendo a uccidere moltissimi nemici. Portate a termine altre brevi operazioni, Cesare poté dirsi padrone dell'intera Gallia Belgica, e all'arrivo dell'inverno tornò nuovamente nella Gallia Cisalpina. Nel 56 a.C. ad insorgere furono i popoli della costa atlantica, dopo che Cesare aveva mandato il giovane Publio Crasso a esplorare le coste della Britannia, lasciando così intuire il suo progetto di espansione verso nord-ovest. Per contrastare gli insorti, Cesare fece allestire una flotta di navi da guerra sulla Loira e dopo aver inviato i propri uomini nei punti nevralgici della Gallia per evitare ulteriori ribellioni si diresse verso la Bretagna, per combattere i Veneti. Dopo aver espugnato alcune città nemiche, egli decise di attendere la flotta appena costruita, che giunse al comando di Decimo Giunio Bruto Albino. Con essa poté facilmente avere la meglio sui Veneti e, dopo averli sconfitti, li fece uccidere o ridurre in schiavitù, per punire la condotta incresciosa che avevano tenuto nei riguardi degli ambasciatori romani. Nel 55 a.C. i popoli germanici degli Usipeti e dei Tencteri, che assieme costituivano una massa di 430 000 uomini, si spinsero fino al Reno e occuparono le terre dei Menapi. Cesare, allertato dalla possibilità 18 di un'avanzata germanica in Gallia, si affrettò a raggiungere la Belgica, e impose loro di tornare oltre il Reno. Quando questi si ribellarono agli accordi, Cesare ne fece imprigionare a tradimento gli ambasciatori e ne assaltò a sorpresa gli accampamenti, uccidendo quasi 200 000 tra uomini, donne e bambini. L'azione, particolarmente cruenta, suscitò la sdegnata reazione di Catone, che propose al senato di consegnare Cesare ai Galli, in quanto colpevole di aver violato i diritti degli ambasciatori. Il senato, invece, proclamò una lunghissima supplicatio di ringraziamento di ben quindici giorni. Subito Cesare, costruito in gran fretta un ponte di legno sul Reno, condusse una breve spedizione in Germania per intimidire gli abitanti del luogo e scoraggiare altri eventuali tentativi di invasione. Nell'estate del 55 a.C., Cesare decise di invadere la ricca e misteriosa Britannia. Dopo alcune operazioni preventive, salpò con ottanta navi e due legioni per sbarcare nei pressi di Dover, poco lontano da dove lo attendeva l'esercito nemico. Dopo un duro combattimento, i Britanni furono sconfitti e decisero di sottomettersi a Cesare, ma tornarono quasi subito alla ribellione, non appena appresero che parte della flotta romana era stata danneggiata dalle tempeste, che impedivano l'arrivo di rinforzi. Attaccati di nuovo i Romani, i Britanni risultarono, però, nuovamente sconfitti, e furono costretti a chiedere la pace e a consegnare numerosi ostaggi. Cesare tornò allora in Gallia, dove dislocò le legioni negli accampamenti invernali; intanto, però, molti dei Britanni si rifiutarono di inviare gli ostaggi promessi, e Cesare cominciò a programmare una nuova campagna. Nel 54 a.C., assicuratosi la fedeltà della Gallia, il generale salpò nuovamente verso la Britannia con ottocento navi e cinque legioni. Sbarcò senza incontrare nessuna resistenza, ma, non appena si fu accampato, venne attaccato dai Britanni guidati da Cassivellauno, che sconfisse in due diverse battaglie. Cesare decise allora di portare la guerra nelle terre dello stesso Cassivellauno, oltre il Tamigi, e attaccò fulmineamente i nemici: dopo che ebbe riportato delle facili vittorie, molte tribù gli si sottomisero e Cassivellauno, sconfitto, fu costretto ad avviare le trattative di pace, che stabilirono che egli avrebbe offerto ogni anno un tributo e degli ostaggi a Roma. Cesare si ritirò allora dalla Britannia stabilendo numerosi rapporti di clientela che posero la base per la conquista dell'isola nel 43 d.C. Il proconsole dislocò le sue legioni negli hiberna, quando già in più zone si respirava aria di rivolta. Il capo degli Eburoni Ambiorige, in particolare, decise di prendere d'assedio un accampamento e, convinti con l'inganno i soldati ad uscire allo scoperto, li aggredì, massacrando quindici coorti. Spinto dal successo, attaccò un altro accampamento, retto da Quinto Cicerone; questi si comportò in modo prudente, e attese l'arrivo di Cesare, che mise in fuga l'esercito nemico di 60 000 uomini. Contemporaneamente, anche il luogotenente di Cesare, Tito Labieno, fu attaccato dai Treviri ma, sebbene in svantaggio numerico, li sconfisse, uccidendo anche il loro stesso capo. All'inizio del 53 a.C., Cesare portò il numero delle sue legioni a dieci, arruolandone una ex novo e ricevendone un'altra da Pompeo. Fermata una rivolta nella Belgica, marciò contro Treviri, Menapi ed Eburoni, affidando parte delle truppe al luogotenente Tito Labieno. Lo stesso Cesare sottopose a crudeli razzie le terre dei Menapi, che furono costretti a sottometterglisi, mentre Labieno, mediante vari stratagemmi, poté avere facilmente la meglio sui Treviri e sugli Eburoni. Venuto a conoscenza delle vittorie del suo luogotenente, Cesare decise di passare di nuovo il Reno, costruendovi un nuovo ponte, per punire i Germani che avevano appoggiato la rivolta gallica ed evitare che dessero ospitalità ai promotori della rivolta stessa. Accortosi del rischio che avrebbe corso inoltrandosi in territori a lui sconosciuti, decise di tornare indietro lasciando in piedi il ponte (ad eccezione della parte terminale) come monito della potenza romana. Decise dunque di condurre l'intero esercito contro gli Eburoni e il loro capo Ambiorige; i popoli limitrofi, impauriti dall'entità delle forze dei Romani, accettarono di sottomettersi a Cesare, e Ambiorige si ritrovò così isolato. Molti Galli, anzi, si unirono ai Romani e iniziarono a combattere gli Eburoni; questi, non senza reagire, furono gradualmente sconfitti e massacrati, così che alla fine dell'estate Cesare poté ritenere vendicate le sue quindici coorti. Ultimo atto della guerra di Gallia fu la rivolta guidata dal capo degli Arverni Vercingetorige, attorno al quale si strinsero tutti i popoli celti, inclusi gli "storici" alleati dei Romani, gli Edui. 19 La rivolta ebbe inizio dalle azioni dei Carnuti, ma ben presto a prenderne il comando fu Vercingetorige che, eletto re degli Arverni, si guadagnò l'alleanza di tutti i popoli limitrofi. Cesare, allertato, si affrettò a tornare in Gallia, lasciando la Pianura Padana dove si trovava a svernare. Vercingetorige decise di marciargli contro, ma il proconsole in risposta cinse d'assedio la città di Avarico: riuscì ad espugnarla dopo quasi un mese con l'ausilio di imponenti opere di ingegneria militare, mentre il re degli Arverni, benché potesse contare su di un esercito ben più numeroso di quello di Cesare, si sottrasse allo scontro. Fu quindi costretto ad assistere impotente al massacro di tutta la popolazione della città (oltre 40 000 persone), ma riuscì ad ottenere l'appoggio di altre popolazioni galliche. 20 Le popolazioni della Gallia ai tempi delle guerre di Cesare Affidato ai luogotenenti l'incarico di occuparsi del resto della Gallia, Cesare puntò su Gergovia, capitale degli Arverni, dove Vercingetorige si era asserragliato. Sconfitto, anche se di misura, in uno scontro, Cesare fu costretto a togliere l'assedio, preoccupato dalle voci che gli annunciavano una defezione degli Edui, suoi storici alleati. Intanto Vercingetorige, che si vide confermare il comando della guerra dall'assemblea pangallica, evitò nuovamente una vera battaglia in campo aperto, e decise di rinchiudersi nella città di Alesia. Lì Cesare lo raggiunse e fece costruire una doppia linea di fortificazione che si estendeva per oltre 17 chilometri: egli, infatti, si aspettava l'arrivo di un esercito di rinforzo, e temeva che i suoi 50 000 legionari potessero rimanere schiacciati tra le forze nemiche. Di fatti, dopo oltre un mese, a sostegno dei 60 000 assediati giunsero altri 240 000 armati, che attaccarono le dieci legioni di Cesare: egli, guidando l'esercito in prima persona assieme a Labieno, ottenne una decisiva vittoria e costrinse Vercingetorige a consegnarsi. 21 La Gallia dopo le conquiste di Cesare Finiva così la ribellione gallica, e Roma poteva dirsi ormai padrona di una nuova immensa estensione territoriale. Tra il 51 e il 50 a.C., Cesare non ebbe infatti che da sedare alcune rivolte locali, e poté riconciliarsi con le tribù che aveva combattuto: nel 50, infine, dichiarò la Gallia, ormai totalmente in suo possesso, provincia romana, e nel 49 a.C. le sue legioni poterono finalmente tornare in Italia. Dopo aspri dissensi con il senato, Cesare varcò in armi il fiume Rubicone, che segnava il confine politico dell'Italia; il senato, di contro, si strinse attorno a Pompeo e, nel tentativo di difendere le istituzioni repubblicane, decise di dichiarare guerra a Cesare (49 a.C.). Dopo alterne vicende, i due contendenti si affrontarono a Farsalo, dove Cesare sconfisse irreparabilmente il rivale. Pompeo cercò quindi rifugio in Egitto, ma lì fu ucciso (48 a.C.). Anche Cesare si recò perciò in Egitto, e lì rimase coinvolto nella contesa dinastica scoppiata tra Cleopatra VII ed il fratello Tolomeo XIII: risolta la situazione, riprese la guerra, e sconfisse il re del Ponto Farnace II a Zela (47 a.C.). Partì dunque per l'Africa, dove i pompeiani si erano riorganizzati sotto il comando di Catone, e li sconfisse a Tapso (46 a.C.). I superstiti trovarono rifugio in Spagna, dove Cesare li raggiunse e li sconfisse, questa volta definitivamente, a Munda (45 a.C.). Il patto triumvirale, che aveva legato Cesare a Pompeo e Crasso, era ormai del tutto inesistente, da quando Crasso, come era stato deciso nel 55 a.C. in un incontro tra i tre triumviri a Lucca (dove Cesare si era visto prorogare per un altro quinquennio il proconsolato nelle Gallie), si era recato in Siria a combattere i Parti ed era morto a Carre. 22 Territori romani e stati indipendenti alla morte di Cesare Il senato, intimorito dai successi di Cesare, aveva dunque deciso di favorire Pompeo, nominandolo consul sine collega nel 52 a.C., perché frenasse le ambizioni del suo vecchio alleato. Anche negli anni seguenti il senato aveva fatto in modo che i consoli eletti fossero sempre appartenenti alla factio dei pompeiani e che osteggiassero dunque le mosse del proconsole di Gallia; Cesare, di contro, aveva in mente di ottenere il consolato per il 49 a.C., in modo da poter tornare a Roma senza divenire oggetto di procedure penali e, una volta rientrato nell'Urbe, impadronirsi del potere. Per questo, nel 50 a.C., gestendo le sue scelte politiche dalla Gallia Cisalpina, richiese al senato la possibilità di candidarsi al consolato in absentia, ma se la vide nuovamente negare, come già era successo nel 61 a.C. Comprese le intenzioni del senato, Cesare fece avanzare ai suoi tribuni della plebe Marco Antonio e Gaio Scribonio Curione una proposta che prevedeva che tanto lui quanto Pompeo avrebbero sciolto le loro legioni entro la fine dell'anno. Il senato, invece, ingiunse a entrambi i generali di inviare una legione per la progettata spedizione contro i Parti, mentre elesse consoli per il 49 a.C. Lucio Cornelio Lentulo Crure e Gaio Claudio Marcello, feroci avversari di Cesare. Questi fu dunque costretto a lasciare andare una delle sue legioni, che si radunò con quella offerta da Pompeo nel sud dell'Italia; gli uomini di Cesare, tuttavia, svolsero un importante lavoro di disinformazione, convincendo Pompeo che il loro amato generale era in realtà odiato dai suoi soldati per il suo comportamento dispotico. Cesare, intanto, ordinò ad Antonio e Curione di avanzare una nuova proposta in senato, chiedendo di poter restare proconsole delle Gallie conservando solo due legioni e candidandosi in absentia al consolato. Sebbene Cicerone fosse favorevole alla ricerca di un compromesso, il senato, spinto da Catone, rifiutò la proposta di Cesare, ordinando anzi che sciogliesse le sue legioni entro 23 la fine del 50 a.C. e tornasse a Roma da privato cittadino per evitare di divenire hostis publicus. Cesare ordinò allora ai tribuni della plebe di osteggiare, tramite il diritto di veto, il senato, ma questi, al principio del 49 a.C., furono costretti a scappare da Roma. Cesare allora decise di varcare con le sue legioni il confine politico della penisola italiana, il fiume Rubicone. Il 9 gennaio ordinò a cinque coorti di marciare fino alla riva del fiume, ed il giorno successivo lo attraversò, pronunciando la storica frase "alea iacta est". Con quest'atto Cesare dichiarò ufficialmente guerra al senato ed alla res publica, divenendo nemico dello stato romano. Si diresse verso sud spostandosi lungo la costa adriatica, nella speranza di poter raggiungere Pompeo prima che lasciasse l'Italia, per tentare di riconciliarsi con lui; Pompeo, al contrario, allarmato, si rifugiò in Puglia, con l'obbiettivo di raggiungere assieme alla sua flotta la penisola balcanica. L'inseguimento da parte dello stesso Cesare fu inutile, in quanto Pompeo riuscì a scappare assieme ai consoli in carica e a gran parte dei senatori a lui fedeli, e a mettersi in salvo a Durazzo. Cesare allora, rientrato a Roma dopo anni di assenza, si impossessò delle ricchezze contenute nell'erario e decise poi di marciare contro la Spagna (che gli accordi di Lucca avevano assegnato a Pompeo); giunto in Provenza, lasciò tre legioni al comando di Decimo Bruto e Gaio Trebonio con l'incarico di assediare Marsiglia, che cadde in mano ai cesariani solo dopo mesi di assedio. Egli invece proseguì verso la penisola iberica, dove combatté contro i tre legati di Pompeo che amministravano la regione: dopo mesi di scontri riuscì ad avere la meglio e poté tornare in Italia. Assunta per pochi giorni la dittatura e ottenuta l'elezione al consolato per il 48 a.C., Cesare decise di attaccare Pompeo nella penisola balcanica, salpando da Brindisi nel gennaio del 48 a.C. assieme al suo luogotenente Marco Antonio. Il primo scontro contro i pompeiani si ebbe a Durazzo, dove Cesare subì una pericolosa sconfitta di cui Pompeo non seppe approfittare. Si arrivò allo scontro in campo aperto, però, solo il 9 agosto, presso Farsalo: qui le forze di Pompeo, ben più numerose, furono sconfitte, e i pompeiani furono costretti a consegnarsi a Cesare, sperando nella sua clemenza, o a fuggire. Pompeo cercò rifugio in Egitto, presso il faraone Tolomeo XIII, suo vassallo, ma il 28 settembre, per ordine dello stesso faraone, fu ucciso. Cesare, che si era lanciato all'inseguimento del rivale, se ne vide presentare pochi giorni dopo la testa imbalsamata. In Egitto era in corso una contesa dinastica tra lo stesso Tolomeo XIII e la sorella Cleopatra VII. Cesare, nell'intento di punire il faraone per l'uccisione di Pompeo, decise di riconoscere come sovrana del paese Cleopatra, con la quale intrattenne una relazione amorosa e generò un figlio, Tolomeo XV, meglio noto come Cesarione. La scelta di Cesare non fu ben accolta dalla popolazione di Alessandria d'Egitto, che lo costrinse a rinchiudersi con Cleopatra nel palazzo reale; qui il generale romano, disponendo di pochissimi soldati, fu costretto a costruire opere di fortificazione, e a rimanere bloccato nel palazzo fino all'arrivo dei rinforzi. Tentò più volte di rompere l'assedio usando le poche navi che aveva a disposizione, ma fu sempre respinto. Temendo che il generale alessandrino si potesse impossessare delle poche navi rimaste le fece incendiare, nell'incendio andò distrutta la famosa Biblioteca D'Alessandria che conteneva testi unici e di inestimabile valore. Dopo mesi di assedio, Cesare fu liberato e poté riprendere attivamente la guerra contro i Pompeiani, che si erano ormai riorganizzati: il re del Ponto Farnace II, a suo tempo alleato di Pompeo, aveva attaccato i possedimenti romani, mentre molti esponenti della nobilitas senatoriale si erano rifugiati, sotto il comando di Catone l'Uticense, in Africa. Cesare decise di recarsi in Siria per combattere Farnace, che aveva sconfitto le scarne guarnigioni romane: dopo alcuni fallimentari tentativi di trattativa, Cesare mosse contro Farnace a Zela, dove lo sconfisse senza nessuna fatica, costringendolo a ritirarsi verso nord. Qui Farnace tentò di riorganizzarsi reclutando nuove truppe, ma fu sconfitto e ucciso da un suo ex collaboratore. Ristabilita la pace in Oriente, nel 46 a.C. Cesare tornò a Roma, dove alcune legioni al comando di Marco Antonio si stavano ribellando, in attesa della somma di denaro che lo stesso Cesare aveva promesso loro prima della battaglia di Farsalo. Con un'abile mossa, Cesare fece leva sull'orgoglio dei legionari e sull'attaccamento che provavano verso di lui per convincerli a rimanere al suo servizio, e con essi partì per l'Africa. Qui i pompeiani, che erano sotto la guida di Catone, avevano radunato un grande esercito, affidato a Tito Labieno e Quinto Cecilio Metello Pio Scipione Nasica, e avevano stretto alleanza con il re di Numidia 24 Giuba I. Dopo alcune scaramucce, Cesare diede battaglia presso Tapso, dove sconfisse l'esercito avversario. Metello e Giuba morirono in battaglia, mentre Catone, che era a capo della rivolta, venuto a sapere della sconfitta, si suicidò a Utica. Labieno e i due giovani figli di Pompeo, Gneo e Sesto, riuscirono invece ad evitare la cattura e a rifugiarsi in Spagna. Pacificata l'Africa, Cesare poté tornare a Roma nel corso del 46 a.C., dove fu gioiosamente accolto dalla popolazione: la pace sembrava essere tornata, e l'Italia non aveva dovuto essere il teatro di nuove violenze, come lo era stata durante le precedenti guerre civili. Di Cesare, anzi, si lodava la clemenza, che lo aveva spinto a risparmiare ed accogliere presso di sé tutti i pompeiani che gli si erano presentati dopo Farsalo, e ad evitare nuovi eccidi come le proscrizioni sillane, di cui aveva rischiato di rimanere vittima nella giovinezza. Giunto a Roma, inoltre, poté annunciare l'annessione delle Gallie e della Numidia e la conferma del protettorato sull'Egitto, assicurando così all'Urbe un migliore rifornimento di generi alimentari (tra cui il grano e l'olio), che allontanava il pericolo di carestie ed altri eventuali problemi di approvvigionamento. Tra l'agosto e il settembre del 46 a.C., celebrò quattro volte il trionfo, per tutte le campagne militari che aveva con successo portato a termine: quella di Gallia, quella in Egitto, quella in Siria contro Farnace e quella in Africa. In ogni occasione Cesare, vestito di abiti di porpora, percorse sul carro trionfale la via Sacra, mentre dietro di lui scorrevano i legionari, il bottino e i prigionieri. Ad ornare il corteo, in quell'occasione, ci fu Vercingetorige che, catturato da Cesare ad Alesia, era da cinque anni rinchiuso in prigione; terminata la celebrazione fu subito strangolato. In occasione dei suoi trionfi, Cesare offrì agli abitanti di Roma rappresentazioni teatrali, corse, giochi di atletica, lotte tra gladiatori e ricostruzioni di combattimenti terrestri e navali (si trattò delle prime naumachie mai rappresentate a Roma), e organizzò dei banchetti ai quali presero parte oltre duecentomila persone. Utilizzando i bottini delle varie campagne, che ammontavano a oltre 600 000 sesterzi, poté finalmente elargire le somme di denaro che aveva da tempo promesso al popolo e ai legionari: ogni abitante dell'Urbe beneficiò di 75 denari, a cui se ne andarono ad aggiungere altri 25 come indennizzo per il ritardo nella consegna dei denari stessi; ogni legionario, invece, ricevette 24 000 sesterzi e un lotto di terra. Cesare, infine, annullò le pigioni che ammontavano, a Roma, a meno di 1000 sesterzi, e quelle che ammontavano, in tutto il resto dell'Italia, a meno di 500. Contemporaneamente, Cesare poté soddisfare le rivendicazioni dei populares, avviando la riorganizzazione del mondo romano. Ordinò un censimento degli abitanti di Roma in modo da poter migliorare la gestione cittadina, e fondò nuove colonie nelle province dove fece insediare oltre 80 000 tra esponenti del sottoproletariato urbano di Roma e soldati in congedo: in questo modo poté rifondare città come Cartagine e Corinto, distrutte in guerra quasi centocinquant'anni prima. La pace ristabilita dopo Tapso si rivelò quanto mai precaria, e già sul finire del 46 a.C. Cesare fu costretto a recarsi in Spagna, dove i pompeiani si erano ancora una volta riorganizzati sotto il comando dei superstiti della guerra d'Africa, i due figli di Pompeo e Tito Labieno. Si trattò della più difficile e sanguinosa di tutte le campagne della lunga guerra civile, dove l'abituale clemenza lasciò il passo ad efferate crudeltà da ambo le parti. La guerra si concluse con la battaglia di Munda, nell'aprile del 45 a.C., dove Cesare affrontò finalmente i suoi avversari sul campo, e li sconfisse irreparabilmente. Si trattò, comunque, della più pericolosa delle battaglie combattute da Cesare, che arrivò persino a disperare della vittoria e a pensare di darsi la morte. Tito Labieno cadde sul campo, mentre Gneo Pompeo fu ucciso poco tempo dopo; solo Sesto riuscì a salvarsi, rifugiandosi in Sicilia. Alla vittoria contribuì, seppure in minima parte, il giovane pronipote dello stesso Cesare, Ottavio, che, giunto in Spagna dopo un lungo periodo di malattia, diede prova del suo valore, spingendo lo zio ad adottarlo nel testamento. Tornato a Roma nell'ottobre, Cesare, eliminato finalmente ogni oppositore, celebrò il trionfo sui figli di Pompeo che aveva appena sconfitto nella campagna ispanica: si trattava di un qualcosa che non era affatto contemplato dalla tradizione romana, che permetteva la celebrazione di un trionfo solo su genti esterne e non su cittadini romani. Anche Silla, che pure aveva riformato la res publica secondo il suo volere, non aveva celebrato alcun trionfo per le vittorie nella guerra civile contro i populares. Il comportamento di Cesare, che apparve anche ai suoi contemporanei come un pericoloso errore politico, turbò profondamente 25 il popolo romano, che vide così festeggiare le distruzione della stirpe del più forte e più sventurato tra i Romani. Alla fine della prima campagna di Spagna, nel 49 a.C., Cesare prese il potere a Roma come dictator, titolo che mantenne fino alla morte nel 44 a.C., e ottenne il consolato per l'anno successivo. Dopo esser stato nominato dictator con carica decennale nel 47 a.C., e detenendo anche il titolo di imperator, fu ripetutamente eletto console nel 46, nel 45 e nel 44 a.C., quando, il 14 febbraio, ottenne anche la carica di dittatore a vita, che sancì definitivamente il suo totale controllo su Roma. Assunta la dittatura, Cesare continuò l'attuazione di alcune di quelle riforme che erano state portate avanti da Silla quasi cinquant'anni prima. Decise di estendere la cittadinanza romana agli abitanti della Gallia Cisalpina, e portò a novecento il numero dei senatori, inserendo nell'assemblea degli uomini a lui fedeli. Intese, inoltre, rafforzare le assemblee popolari a detrimento del senato stesso, che avrebbe dovuto gradualmente perdere la propria autonomia decisionale. Fu il primo, poi, a tentare di adattare la burocrazia della res publica alle nuove esigenze che essa mostrava di avere: dopo la conquista della Gallia e l'espansione ad Oriente c'era bisogno di una migliore gestione del potere e di un apparato statale più efficiente. Egli, perciò, con il duplice obiettivo di risolvere i neonati problemi e di offrire cariche ai suoi sostenitori politici: a) aumentò il numero dei magistrati: i questori passarono da venti a quaranta, i pretori da otto a sedici, gli edili furono sei. I consoli rimasero due, con l'aggiunta di altri due magistrati che, seppure privi di qualsiasi imperium consolare, potevano poi svolgere le funzioni dei proconsoli; b) si fece attribuire il diritto di nominare metà dei magistrati, e poteva comunque raccomandarne altri e fare in modo che venissero eletti ugualmente; c) mise mano alla composizione del senato: per supplire alle numerose perdite dovute alla guerra civile, immise nel senato molti nuovi membri a lui fedeli, portando fino a ottocento o novecento il numero dei membri dell'assemblea, fissato in precedenza da Silla a seicento, e ammettendovi anche uomini originari delle province spagnole e galliche. Rinnovò l'organizzazione dei municipi italiani e, per quanto riguarda l'amministrazione provinciale, decise di limitare la durata degli incarichi dei governatori (che, per i proconsoli, poteva raggiungere i cinque anni) a un anno per i propretori e due anni per i proconsoli. Tutti questi provvedimenti rimasero in vigore anche dopo la morte di Cesare grazie ad un accordo tra il leader del senato Cicerone e quello cesariano Antonio che, in cambio, dovette accettare la concessione di un'amnistia ai cesaricidi. Più volte nel corso della sua lunga carriera politica Cesare favorì la nascita di nuove opere architettoniche, sempre con l'obiettivo di stupire la plebe ed acquisire così una popolarità sempre maggiore. Cesare lanciò un vasto programma di opere pubbliche che prevedeva la costruzione di un nuovo foro presso l'Argileto. Con la dittatura, raggiunto il culmine del potere, Cesare poté adoperare ogni mezzo per la costruzione di opere sempre più grandiose: con il pretesto della celebrazione dei giochi per il suo trionfo, fece ingrandire il circo costruendovi nuovi settori di scalinate, in modo che vi potessero prendere posto più persone; ordinò la realizzazione di uno stadio per i lottatori nel Campo Marzio e fece scavare sulla riva del Tevere un bacino che ospitasse naumachie. Cercò anche di rinnovare il vecchio foro, programmando la costruzione di una nuova curia, in quanto la Curia Hostilia era stata distrutta nel 52 a.C. da un incendio. Cesare diede il via alla costruzione di una nuova struttura, la Curia Iulia, la cui realizzazione si interruppe durante il lungo periodo delle guerre civili per essere poi ripresa da Augusto e completata nel 29 a.C. Quando fu portato a termine il grande bacino per le naumachie, Cesare progettò anche la costruzione di un tempio di Marte, che doveva essere più grande di qualsiasi altro, di una nuova basilica che doveva sorgere nell'area della vecchia basilica Sempronia, e di un nuovo immenso teatro stabile in pietra, ai piedi del monte Tarpeo. Cesare non poté vedere realizzati i suoi progetti a causa della sua prematura morte, ma essi furono portati a termine da Augusto, che costruì, infatti, il tempio di Marte Ultore, la basilica Giulia e il teatro di Marcello. Non fu invece mai realizzata la biblioteca che Cesare intendeva costruire per raccogliervi 26 le opere in lingua latina e greca, per la cui realizzazione si stava già adoperando, prima della morte del dittatore, Marco Terenzio Varrone. Per decongestionare la città di Roma, che con il continuo arrivo di nuovi abitanti che andavano ad ingrossare le file del sottoproletariato urbano era ormai decisamente sovrappopolata, Cesare decise di modificarne i confini amministrativi, allargando il perimetro del pomerium ad un miglio romano (1480 metri) dalle antiche mura. Questa misura fu appena sufficiente, tanto che Augusto, pochi anni più tardi, dovette rimettere mano all'organizzazione dell'Urbe allargandone il perimetro e stabilendone la suddivisione in quattordici rioni (regiones). Per migliorare la gestione cittadina, Cesare decise di censirne la popolazione, escogitando per questo un metodo innovativo, che soppiantasse il vecchio procedimento che prevedeva il passaggio dei cittadini, divisi per tribù, presso gli "uffici" di coloro che si occupavano del censimento. Cesare dispose che il censimento fosse organizzato nei singoli quartieri, e che se ne dovessero occupare i proprietari degli immobili che ospitavano le case. Il metodo dovette essere efficace, perché anche Augusto lo adottò per censire la popolazione, una volta preso il potere. Svetonio, senza riferire il risultato di questo censimento, dice che esso permise di abbassare da 320 000 a 150 000 il numero di coloro che, in quanto nullatenenti, beneficiavano delle assegnazioni di grano da parte dello stato. Inoltre, per evitare che si creasse occasione di malcontento, Cesare decise che, anno per anno, i pretori avrebbero tirato a sorte i nomi di coloro che, morto un beneficiario delle assegnazioni, ne avrebbero preso il posto. Un ultimo progetto, che Cesare attuò con l'obiettivo di migliorare quanto più possibile la circolazione in una città dalle strade strette e spesso ingombre, fu quello di vietare durante il giorno la circolazione a tutti i veicoli a ruote, ad eccezione dei carri per le processioni e di quelli adoperati per il trasporto di materiali da costruzione nei cantieri. Questa legge fu votata e approvata soltanto dopo la morte di Cesare, ma restò in vigore per molti secoli, dimostrando quindi che la necessità di migliorare la circolazione per le vie di Roma continuò a lungo a farsi sentire. Le guerre civili che Cesare condusse suscitarono forti difficoltà economiche: c'era, per esempio, il bisogno di stipendiare tutti i legionari dislocati nei luoghi delle diverse spedizioni. A partire dal 49 a.C., allora, Cesare si dotò di una propria zecca personale, che lo seguiva sul teatro di ogni sua operazione e coniava le monete di cui c'era un bisogno sempre crescente. Non si trattava di una pratica nuova: il senato, infatti, l'aveva autorizzata già in precedenza per i grandi corpi di spedizione di Lucio Licinio Lucullo o di Pompeo Magno in Oriente, ma Cesare prese l'iniziativa spontaneamente, impossessandosi, senza alcuna autorizzazione, delle riserve auree contenute nell'erario. Egli apportò, comunque, due grandi innovazioni alla monetazione, che furono poi riprese da Ottaviano e Marco Antonio per divenire d'uso comune in tutta l'epoca imperiale. Cesare per primo, infatti ordinò la coniazione di monete in oro; in più fece imprimere il proprio ritratto sulle monete. A Roma non erano mai state emesse monete in oro se non temporaneamente e in momenti di grandissimo pericolo (come le fasi cruciali della seconda guerra punica) dietro la decisione del senato. L'emissione dell'aureus, dunque, si ricollegava all'idea di attingere alle riserve d'oro per salvare la res publica in pericolo; inoltre, l'elevato valore della moneta (un aureus valeva 25 denari o 100 sesterzi) facilitava l'assegnazione di gratifiche ai soldati. I soggetti rappresentati sulle facce delle monete, infine, avevano un forte valore propagandistico. Una volta divenuto unico padrone di Roma, Cesare, sebbene avesse ormai raggiunto un'età venerabile, era deciso ad attuare nuove campagne di espansione, sempre sull'esempio dell'uomo che ne aveva ispirato le imprese militari, Alessandro Magno. Intendeva quindi vendicare la sconfitta di Crasso a Carre contro i Parti e sottomettere l'intera Europa continentale, attuando una campagna nella zona danubiana contro i Daci di Burebista, una in Dalmazia ed un'altra contro le popolazioni della Germania libera, che troppo spesso avevano interferito nel corso della difficile conquista della Gallia. A causa della sua morte violenta e prematura, Cesare non poté attuare nessuna delle campagne che aveva programmato. Benché fossero già stati nominati coloro che avrebbero condotto la campagna contro i 27 Parti, della cui organizzazione si stava occupando anche il giovane Ottaviano, e fossero già stati incaricati i magistrati che avrebbero retto lo stato durante l'assenza di Cesare, essa non fu mai realmente portata a termine, tanto che la zona orientale dell'impero rimase sempre una delle più instabili. Tuttavia, più tardi, nel 20 a.C., Augusto si accordò con i Parti ed ottenne la restituzione delle insegne sottratte a Crasso a Carre. Le altre imprese che Cesare preparava furono invece portate a termine in tempi successivi: la Dalmazia fu completamente assoggettata da Augusto dopo la rivolta dalmato-pannonica del 6-9; la Germania fu occupata solo per un ventennio sotto Augusto, ed i confini romani rimasero a dove li aveva lasciati Cesare, sul Reno; la Dacia, infine, fu conquistata da Traiano nel 106, dopo due campagne militari. A Cesare va comunque il merito di aver sottomesso il mondo celtico, che costituiva uno dei principali pericoli per l'espansione romana in Europa: sebbene si trattasse di civiltà meno complesse di quella di Roma, la loro forza militare, riposta soprattutto nella cavalleria, era notevole, e la loro presenza ai confini dell'Italia causava una situazione di costante pericolo. Per contro i Galli, una volta entrati a far parte dello stato romano, furono tra le prime popolazioni provinciali a ricevere la cittadinanza, accettando di buon grado il processo di romanizzazione. Giulio Cesare è considerato, tanto dagli autori moderni quanto dai suoi contemporanei, il più grande genio militare della storia romana. Egli seppe stabilire con i suoi soldati un rapporto tale di stima e devozione appassionata, da poter mantenere la disciplina evitando sempre il ricorso alla violenza contro i suoi stessi uomini. Nel corso della campagna di Gallia, Cesare non vietò mai ai suoi soldati di far bottino, ma il legionario doveva aver sempre ben chiaro l'obiettivo finale, e le sue azioni non dovevano in nessun modo condizionare i piani operativi della campagna del suo comandante. Conscio della situazione disagiata dei soldati, che venivano di solito ricompensati al congedo con una concessione di ager publicus ma che fino a quel momento erano costretti a vivere con poco, di sua iniziativa, tra il 51 e il 50 a.C. decise di raddoppiarne la paga, che passò da 5 a 10 assi al giorno (pari a 225 denarii annui). La riforma fu così ben accolta che la paga del legionario rimase invariata fino a quando l'imperatore Domiziano (81-96) prese nuovi provvedimenti. Egli fu, inoltre, il primo a comprendere che una dislocazione di parte delle forze militari repubblicane (legioni e truppe ausiliarie) doveva costituire la base per un nuovo sistema strategico di difesa globale lungo tutti i confini, ed in particolare in quelle aree "a rischio". Durante la campagna di Gallia, infatti, negli inverni posizionava le sue legioni in aree strategiche, in modo che la situazione rimanesse tranquilla nei momenti in cui non ci fosse la possibilità di intervenire prontamente in caso di necessità. Creò un cursus honorum per il centurionato, che si basava sui meriti del singolo individuo, tanto che a seguito di gesti particolari di eroismo, alcuni soldati potevano essere promossi ai primi ordines, dove al vertice si trovava il primus pilus o primipilare di legione. Inoltre, poteva anche avvenire che un primus pilus venisse promosso a tribunus militum. Si andava indebolendo, pertanto, la discriminazione tra ufficiali e sottufficiali, e si rafforzava lo spirito di gruppo e la professionalità delle unità. Egli, contrariamente a quanto avevano fatto molti dei suoi predecessori, che fornivano alle truppe donativi occasionali, reputò fosse necessario dare continuità al servizio che i soldati prestavano, e istituì il diritto ad un premio per il congedo: era da tempo in uso la consuetudine di donare appezzamenti di terreno ai veterani, ma si trattava di qualcosa che, almeno fino ad allora, era sempre avvenuto a discrezione dei generali e del senato. Cesare nominò consoli per il 44 a.C. se stesso e il fidato Marco Antonio, e attribuì invece la pretura a Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino. Quest'ultimo, spinto anche dalla delusione causatagli dal non aver ottenuto il consolato, si fece interprete dell'insofferenza di ampia parte della nobilitas, e incominciò ad organizzare una congiura anticesariana. Trovò l'appoggio di molti uomini, tra cui molti dei pompeiani passati dalla parte di Cesare, e anche alcuni tra coloro che erano sempre stati al fianco dello stesso Cesare a partire dalla guerra di Gallia, come Gaio Trebonio, Decimo Giunio Bruto Albino, Lucio Minucio Basilo e Servio Sulpicio Galba. 28 I congiurati, e primo tra loro lo stesso Cassio, decisero di cercare l'appoggio di Marco Bruto: egli era infatti un lontanissimo discendente di quel Lucio Giunio Bruto che nel 509 a.C. aveva scacciato il re Tarquinio il Superbo e istituito la repubblica, e poteva rappresentare il capo ideale per una congiura che si proponeva di uccidere un nuovo tiranno. Bruto era inoltre nipote e grande ammiratore di Catone Uticense, e poteva infine trovare nella propria filosofia, a metà tra lo stoicismo e la dottrina accademica, le convinzioni per combattere Cesare, al quale era comunque legato. Il più influente tra i personaggi romani a non aderire alla congiura fu Cicerone, che, pur essendo amico di Bruto e sperando nell'eliminazione del tiranno Cesare, decise di tenersi fuori dal complotto; egli tuttavia, auspicò che assieme a Cesare fosse ucciso anche Marco Antonio che, non a torto, vedeva come un possibile successore del dittatore. Secondo la tradizione, la morte di Cesare fu preceduta da un incredibile numero di presagi il cui valore era radicato nella cultura romana. Il giorno delle Idi di marzo, cioè il 15, Calpurnia pregò dunque Cesare di restare in casa, ma quegli, che la sera prima aveva detto, a casa di Lepido, che avrebbe preferito una morte improvvisa allo sfinimento della vecchiaia, sebbene si sentisse poco bene, fu convinto dal congiurato Decimo Bruto Albino a recarsi comunque in senato, in quanto sarebbe sembrato sconveniente che non salutasse neppure tutti i senatori che si erano riuniti per nominarlo, proprio quel giorno, re. Cesare, che poco più di un mese prima aveva imprudentemente deciso di congedare la scorta che sempre lo accompagnava, uscì dunque in strada, Entrato in senato, si andò a sedere ignaro al suo seggio, dove fu subito attorniato dai congiurati che finsero di dovergli chiedere grazie e favori. Mentre Decimo Bruto intratteneva il possente Antonio fuori dalla Curia, per evitare che prestasse soccorso, al segnale convenuto, Publio Servilio Casca Longo sfoderò il pugnale e colpì Cesare al collo, causandogli una ferita superficiale e non mortale. Cesare invece, per nulla indebolito, cercò di difendersi con lo stilo che aveva in mano, e apostrofò il suo feritore dicendo "Scelleratissimo Casca, che fai?" o gridando "Ma questa è violenza!" Casca, allora, chiese aiuto al fratello e tutti i congiurati che si erano fatti attorno a Cesare si scagliarono con i pugnali contro il loro obiettivo: Cesare tentò inutilmente di schivare le pugnalate dei congiurati, ma quando capì di essere circondato e vide anche Bruto farglisi contro, raccolse le vesti per pudicizia e alcuni dicono si coprisse il capo con la toga prima di spirare, trafitto da ventitré coltellate. Cadde ai piedi della statua di Pompeo, pronunciando ultime parole che sono state riferite in vario modo: "Anche tu Bruto, figlio mio!") Come erede principale a cui spettavano i tre quarti delle sue ricchezze, Cesare lasciò il giovane pronipote diciottenne Ottavio, che si trovava nell'Illirico, ad Apollonia, poiché doveva sovraintendere all'organizzazione dei preparativi per le due grandi spedizioni che Cesare aveva intenzione di intraprendere: quella contro i Daci di Burebista e l'altra contro i Parti, in Oriente. Ottavio, una volta informato dell'uccisione del prozio, decise di tornare a Roma per reclamare i suoi diritti di figlio adottivo e di erede di Cesare. Assieme a lui erano stati nominati eredi Lucio Pinario e Quinto Pedio, a cui spettò il restante quarto del patrimonio di Cesare; solo Ottavio, però, poté prendere, in quanto suo figlio adottivo, il nome del defunto, divenendo così Gaio Giulio Cesare Ottaviano. Cesare lasciò inoltre agli abitanti di Roma trecento sesterzi ciascuno e i suoi giardini sulle rive del Tevere. Il 20 marzo il corpo di Cesare fu cremato nel foro: i cesaricidi avevano inizialmente pensato di buttarlo nel Tevere subito dopo l'assassinio, ma il proposito era rimasto incompiuto in quanto molti senatori, spaventati da quanto era successo, avevano subito lasciato il senato. Marco Antonio, che era divenuto il nuovo leader cesariano (Ottaviano era ancora in Illirico), fece costruire la pira nel campo Marzio, in prossimità della tomba della figlia di Cesare, Giulia, e fece collocare nel foro, vicino ai Rostri, un'edicola dove fece esporre la toga insanguinata che Cesare indossava al momento della morte. Innumerevoli persone sfilarono nel campo Marzio per portare doni e si celebrarono dei ludi in memoria del defunto. Antonio, lesse poi, come laudatio funebris, il decreto con cui il senato aveva conferito a Cesare tutti gli onori umani e divini e con cui gli stessi senatori si erano impegnati a proteggere Cesare. Decise, poi, di far trasportare il corpo del defunto per il foro, portato a braccio da magistrati su di un lenzuolo, in modo che fossero ben visibili le pugnalate che egli aveva ricevuto. 29 Nessun diritto di successione poté mai reclamare Cesarione, figlio naturale di Cesare, concepito con la regina d'Egitto, Cleopatra VII, durante il suo soggiorno del 48 a.C. La regina egiziana rimase famosa per essere stata non solo l'amante di Marco Antonio dopo la morte del dittatore, ma soprattutto per aver collaborato con lui al fine di creare un nuovo impero in Oriente che potesse contrastare il crescente potere di Ottaviano in Occidente. Il dissenso nato così tra Antonio e Ottaviano determinò una nuova guerra civile che culminò con la morte degli stessi Antonio e Cleopatra nel 30 a.C. e la trasformazione, attuata da Ottaviano, della Repubblica romana in impero. Si dice che nel 42 a.C., quando gli eserciti di Marco Antonio e Ottaviano si apprestavano ad attaccare quelli dei cesaricidi Bruto e Cassio a Filippi, la figura di un uomo di incredibile grandezza e d'aspetto spaventoso fosse apparsa nella tenda di Bruto. Questi, riconosciuta la figura di Cesare, chiese all'ombra chi fosse. Essa rispose: "Il tuo cattivo demone, Bruto. Mi rivedrai a Filippi", e Bruto coraggiosamente rispose a sua volta: "Ti vedrò". Pochi giorni dopo, a Filippi, quando la vittoria dei cesariani era ormai certa, Cassio si suicidò con il pugnale con cui aveva trafitto Cesare, e poco dopo anche lo stesso Bruto, per non cadere in mano nemica, si diede la morte. Così, a due anni dall'assassinio di Cesare, tutti coloro che avevano preso parte alla congiura avevano perso la vita, e la vendetta del divus era compiuta. L’ opera di Cesare come scrittore - racchiusa principalmente nei suoi commentari sulla guerra in Gallia (De bello Gallico) e sulla guerra civile contro Pompeo e il senato (De bello civili) - pone Giulio Cesare tra i più grandi maestri di stile della prosa latina. Le narrazioni, apparentemente semplici ed in stile diretto, sono di fatto un annuncio molto sofisticato del suo programma politico, in modo particolare per i lettori di media cultura e per la piccola aristocrazia d'Italia e delle province dell'Impero. Le sue principali opere letterarie giunte sino a noi sono i commentari sulle campagne per sottomettere i Galli, fra il 58 e il 52 a.C. (Commentarii de bello Gallico). L'opera consta di sette libri, più un libro ottavo, composto probabilmente dal luogotenente di Cesare, Aulo Irzio, per completare il resoconto della campagna e coprire il lasso di tempo che separa la guerra di Gallia da quella civile: si tratta di un'opera che presenta interessanti riferimenti etnografici sulle popolazioni incontrate durante il viaggio. Cesare, per aumentare l'obiettività dell'opera, usa la terza persona, anche se si tratta chiaramente di un metodo per esaltare la sua figura personale e per metterla in rilievo nella narrazione e nelle vicende descritte. Le descrizioni sono comunque fredde e asettiche, prive di enfasi retorica e partecipazione emotiva: anche le scelte più terribili, come quelle di sterminare migliaia di persone, appaiono così non solo necessarie, ma addirittura prive di un'alternativa. Il De bello Gallico risulta così essere un'apologetica opera di propaganda della campagna di Gallia. Oltre a quest’opera sono sicuramente di Cesare Commentarii de bello civili, cioè i CC contro le forze di Pompeo e del senato:. in tre libri Cesare vi spiega e racconta la guerra civile del 49 a.C. ed il suo rifiuto di ubbidire al senato; Di Cesare è anche un epigramma in versi su Terenzio, del quale sono giunti a noi solo alcuni frammenti. Le opere perdute includono diverse orazioni (in una di esse - l'elogio funebre della zia Giulia - si affermava la discendenza della gens Iulia da Iulo e quindi da Enea e Venere); un trattato in due libri su problemi di lingua e stile (De analogia), terminato nell'estate del 54; vari componimenti poetici giovanili; una raccolta di detti memorabili; un poema sulla spedizione in Spagna nel 45; un pamphlet in due libri, intitolato Anticato o Anticatones, contro la memoria di Catone Uticense, scritto in polemica con l'elogio di Catone composto da Cicerone su richiesta di Bruto. Infine, opere spurie sono, oltre al libro ottavo del De bello Gallico, tre opere del cosiddetto Corpus Caesarianum: • il Bellum Hispaniense, sulla guerra in Spagna 30 • il Bellum Africum, sulla guerra in Africa • il Bellum Alexandrinum, sulla guerra in Medio Oriente ed Egitto Gli autori di queste opere erano probabilmente dei luogotenenti molto fedeli a Cesare, tra i quali figurano Gaio Oppio e, forse nella redazione del Bellum Alexandrinum, lo stesso Aulo Irzio. Cesare fu, oltre che grande protagonista politico delle vicende del suo tempo, anche importante oratore. Le sue orazioni sono andate perdute: esiste un rifacimento dello storico Sallustio di quella pronunziata il 5 dicembre del 63, mentre di altre orazioni è rimasta solo notizia. I giudizi degli antichi sull'eloquenza di Cesare erano concordemente positivi. Giulio Cesare non ebbe mai il titolo di "principe del senato" o di "augusto" come Ottaviano. Tuttavia fu dittatore dal 49 a.C. al 44 a.C., come non era mai successo in precedenza, e il titolo di imperatore nel suo significato moderno corrispose al titolo di Caesar (Cesare) nella storia di Roma almeno fino all'inizio della tetrarchia. Lo storico Svetonio infatti, nelle sue Vite dei dodici Cesari (De vita Caesarum), chiama per l'appunto Cesari (Caesares) i dodici imperatori di cui tratta, ed inizia la sua narrazione proprio a partire da Giulio Cesare. Il nome "Cesare" rimane in molte lingue come sinonimo di "comandante", "leader"; il tedesco Kaiser, il russo Zar ed il persiano Scià hanno la stessa radice del nome di Cesare, e ci furono in tempi successivi molti imperatori con quel nome. 31 32 33 34 35