L’Italia longobarda I Longobardi sono una gens, ossia un gruppo i cui componenti non sono uniti da un legame di tipo etnico, ma eminentemente culturale. Essi sono convinti di avere un’ascendenza comune. Il mito della origo gentis Langobardorum vuole che essi siano originari della Scandinavia e che si siano stanziati alla fine del I secolo d.C. alle foci dell’Elba – dove in effetti lasciano testimonianza della loro presenza –, per migrare intorno al V secolo in Pannonia (l’odierna Ungheria). Da qui, durante la guerra greco-gotica, singoli gruppi di guerrieri longobardi si muovono verso l’Italia dove prendono parte al conflitto, alle dipendenze del generale bizantino Narsete. Immagine tratta da www.roth37.it Una delle principali caratteristiche dei Longobardi è la centralità delle armi e dell’arte della guerra nel loro codice culturale. La più alta fascia sociale è costituito da un’aristocrazia di cavalieri, che legittimano il loro potere con l’esercizio militare. Riuniti in assemblea (il gairenthinx) tali cavalieri detti arimanni (termine che deriva da mann = uomo e heer = esercito, quasi a sottolineare il legame fra le due cose) eleggono il proprio re. Quest’ultimo è essenzialmente un capo militare ed è privo del potere sacrale che generalmente suole contraddistinguere i sovrani delle popolazioni germaniche: suo simbolo è la lancia, la principale arma di offesa dei cavalieri. A un grado più basso della scala sociale stanno gli aldii, un gruppo sociale che non gode della piena libertà ma che può disporre di una certa autonomia in ambito economico. Alla base della piramide sociale si trovano i servi che si dedicano all’agricoltura o alla pastorizia: schiavi privi di qualsiasi diritto. Cellula fondamentale della società longobarda è la fara (termine che ha la stessa radice del verbo tedesco farhen = andare, quasi a ribadire la natura di “popolo in marcia” dei longobardi), un rappruppamento di tipo familiare con funzioni di unità militare. A capo di ogni fara si trova un duca (termine bizantino, adottato dai longobardi durante il loro soggiorno in Pannonia), responsabile dei rapporti fra il sovrano e gli uomini liberi appartenenti al suo gruppo. I Longobardi giungono in Italia nella primavera del 568, valicando le Alpi Giulie: si tratta di 100-150.000 persone – guerrieri, donne, bambini, schiavi – con il loro seguito di bestiame, sotto il comando del re Alboino, come racconta Paolo Diacono, un longobardo vissuto nell’VIII secolo alla corte di Carlo Magno e autore della Historia Langobardorum, principale fonte delle notizie su tale popolo. La prima città conquistata è Forum Iulii, l’odierna Cividale del Friuli. Da qui i Longobardi muovono alla conquista di tutta l’Italia settentrionale: l’offensiva si conclude nel 572, con la presa – per fame – della città di Pavia, destinata a diventare capitale del regno. La seconda offensiva condotta dai duchi longobardi, dal 574 al 584 – un periodo durante il quale non viene eletto alcun re – conduce alla conquista di vaste porzioni di territorio nell’Italia centrale e meridionale, che hanno per centro rispettivamente le città di Spoleto e Benevento. Immagine tratta da www.mondimedievali.net I primi decenni della presenza longobarda in Italia sono caratterizzati da vicende drammatiche e tormentate: morti violente dei sovrani, lotte con i bizantini ancora presenti in Italia, lotte fra duchi longobardi fedeli all’arianesimo e duchi convertitisi al cattolicesimo, contrasti con la corte di Pavia. In questo periodo agitato spicca per le sue qualità di mediatrice fra la corona longobarda e la Chiesa di Roma la figura della regina Teodolinda. Originaria della Baviera, cattolica, andata in sposa al re longobardo Autari, alla morte di questi – secondo quanto racconta Paolo Diacono –, Teodolinda sceglie autonomamente come secondo marito e re il principe turingio Agilulfo. La regina ha una notevole influenza sul governo: riesce a dare prova di grande capacità diplomatiche con la Chiesa di Roma, sviluppando un rapporto epistolare con papa Gregorio Magno, e facilita il passaggio dei Longobardi dall’arianesimo e dal paganesimo al cattolicesimo. L’appoggio dato alla religione cattolica è reso palese dal placet concesso al missionario irlandese Colombano per costruire a Bobbio un’abbazia destinata a diventare famosissima. Nel corso del VII secolo si consolida la potenza regia. I duchi si trasformano gradualmente in funzionari al servizio del sovrano. Parallelamente procede una sistemazione dei territori conquistati, che vengono strutturati in ducati, distretti pubblici dominati da città di rilevanti dimensioni dove ha sede il potere ducale. A capo dei più piccoli centri urbani, spesso fortificati, i castra, si trovano i centenari o sculdasci che, insieme ai decani, collaborano con i duchi, mentre i latifondi agricoli di proprietà regia sono gestiti dai gastaldi. Gradualmente, anche per i frequenti contatti nelle campagne, che i Longobardi prediligono alle città, fra gli invasori e gli indigeni latini si comincia ad attuare quella fusione che conduce alla formazione di una popolazione omogenea. Segni del rafforzamento del potere regio e del controllo del territorio sono il ruolo di preminenza che la città di Pavia – sede del palatium regio e degli uffici centrali – accentua e la promulgazione, nel 643, di un codice: l’Editto di Rotari, dal nome del sovrano che lo pubblica. Scritto in un latino rozzo, infarcito di termini germanici latinizzati in maniera grossolana, l’Editto di Rotari è un testo diviso in 388 articoli. Le norme contenute che interessano la sfera del diritto penale, familiare, patrimoniale e militare sono indirizzate solo ai Longobardi. Anche se gli indigeni continuano a servirsi di un diritto romano cristallizzatosi nella consuetudine locale, è significativo che gli invasori si vogliano servire di leggi scritte in latino, segno di una volontà di unificazione delle due popolazioni. Con tale codice il sovrano Rotari intende disciplinare i suoi sudditi, arrogando al re il monopolio della violenza. In particolare viene proibita la faida, la vendetta personale o familiare, a favore del guidrigildo, la composizione dell’offesa tramite il risarcimento del danno. Esso però è commisurato al livello sociale dell’offeso, e pertanto maggiore nel caso in cui la vittima sia un arimanno, minore nel caso in cui sia un aldio. Nell’VIII secolo il processo di commistione fra elementi longobardi ed elementi indigeni è concluso. Forte della stabilità della nuova “società mista” il re Liutprando tenta una nova azione di espansione territoriale in Italia centrale. Qui, proprio nel VI secolo, la Chiesa di Roma aveva gettato le basi per il proprio potere temporale, grazie anche all’azione di papa Gregorio Magno, un uomo nobile di ascendenza latina e molto colto. Egli, consapevole della forza imperiale nell’Impero d’Oriente e della mancanza di un’autorità forte nella parte occidentale, aveva concentrato gli sforzi di proclamare il primato romano su quest’ultima. Grazie a un patrimonio fondiario esteso in Italia, Dalmazia, Gallia, Sardegna, Sicilia, Corsica e Africa e amministrato con rigore, il papato si pone come principale forza politico-economica in Occidente, in grado anche di foraggiare le forze bizantine presenti sulla penisola italiana. Grazie alla sua spiccata personalità il vescovo di Roma diviene così un punto di riferimento imprescindibile non solo all’interno della sua città, ma anche su un orizzonte molto più ampio. Evitando ogni contrasto con Costantinopoli, rivolgendosi all’imperatore come un suddito, Gregorio – che in risposta al titolo di «patriarca ecumenico» preso dal vescovo di Costantinopoli assume quello di «servo dei servi di Dio» – non rinuncia in Occidente a usare toni e modi da sovrano, chiamando «figli» i suoi intelocutori, fossero anche sovrani o principi. Con ciò Gregorio rinsalda le prerogative papali e lascia ai suoi successori in eredità un ruolo eminentemente rafforzato. Quando nel 728 i Longobardi arrivano alle porte di Roma e conquistano la rocca di Sutri, la rilasciano liberata dietro precisa richiesta pontificia. Particolarmente significativo appare il fatto che il castello non viene restituito al funzionario bizantino preposto al controllo del territorio di Roma, ma proprio alla chiesa. Proprio in questi anni, basandosi sulle estese proprietà fondiarie laziali, la Chiesa di Roma porta avanti un’azione di esautoramento dei poteri bizantini a proprio vantaggio. Non a caso, a metà dell’VIII secolo, durante il pontificato di Paolo I, viene redatto nella cancelleria pontificia un famosissimo falso, smascherato nel Quattrocento dal filologo Lorenzo Valla: la Constitutum Costantini – meglio nota come “la donazione di Costantino” – un atto secondo il quale l’imperatore, guarito da una grave malattia da papa Silvestro I, avrebbe donato alla chiesa di Roma i territori occidentali dell’impero. Con tale documento la chiesa si candida a legittima erede della Roma imperiale, in contrasto con i Longobardi che mirano a estendere il loro dominio sulla penisola. Nella seconda metà dell’VIII secolo, le ambizioni espansionistiche del re longobardo Astolfo vengono bloccate dall’alleanza fra la chiesa di Roma e la dinastia franca dei Pipinidi, che nel 751 avevano deposto l’ultimo sovrano merovingio. Il nuovo sovrano dei Franchi, Pipino il Breve accetta l’invito di papa Stefano II a intervenire militarmente in Italia. Malgrado il tentativo dell’ultimo re dei longobardi, Desiderio, di allearsi a sua volta con i Franchi dando in sposa la figlia, Ermengarda al figlio di Pipino, Carlo, il futuro Carlo Magno, alla richiesta di aiuto contro i Longobardi di papa Adriano I, i Franchi scendono in Italia. Fra il 773 e il 774 Carlo, ripudiata la moglie, sconfigge più volte l’esercito longobardo e prende Pavia. Il principe ereditario, Adelchi, riesce a sfuggire alla cattura, rifugiandosi presso i Bizantini. Tuttavia, il regnum langobardorum non cessa di esistere: esso viene inglobato, mantenendo identità separata e una certa autonomia, all’interno dei possedimenti franchi. Grazie ad accordi di non belligeranza, continuano a rimanere indipendenti i duchi longobardi di Benevento, la cui stella tramonterà solo nell’XI secolo di fronte all’ascesa dei Normanni. La presenza araba in Europa Nel corso del VII secolo nella penisola dell’Arabia si sviluppa una forza politica in grado di imporsi sullo scacchiere internazionale. Al monoteismo predicato dal profeta Maometto si converte già prima della sua morte tutta la popolazione araba; i suoi diretti successori, i quattro califfi estendono ulteriormente le conquiste, che culmineranno nell’VIII secolo. Sotto i califfi della dinastia omayyade, che fissano a Damasco la capitale, l’impero arabo si estende dall’Indo alla Penisola iberica; sotto la successiva dinastia abbaside, che sposta la capitale a Bagdad, l’impero si rinsalda dal punto di vista amministrativo. Esso è un insieme di regni autonomi, che sopravviveranno alla caduta dell’impero, fissata nel 945, e che conserveranno e tramanderanno le tradizioni religiose, politiche e culturali arabe. Immagine tratta da www.valsesiascuole.it L’Arabia è una penisola. Una parte del territorio, quella definita in latino classico Arabia felix – l’odierna regione dello Yemen – è costituita da terre fertili e ricche di acqua. Essa è caratterizzata da un’intensa vita urbana e commerciale, poiché le popolazioni indigene, sedentarie, svolgono un’attività di intermediazione commerciale fra l’India, la Birmania e l’Africa e le regioni mesopotamiche e mediterranee. L’organizzazione politica è di tipo monarchico. Per gran parte del territorio peninsulare, si estendono lande desertiche. Qui i beduini vivono di allevamento, di commercio carovaniero e di razzie. Riuniti in tribù di pari, che posseggono collettivamente i beni, i beduini sono guidati da un capo eletto al loro interno, che prende le decisioni assistito da un consiglio. Personaggio rilevante all’interno delle comunità è il poeta, custode delle memorie della tribù e loro cantore. La religione seguita è di tipo politeistico (si adorano alberi e pietre sacre ma anche divinità come la dea del Sole o Allah, la divinità suprema), anche se in alcune zone – in virtù dell’attività carovaniera – vi sono segni dell’influenza ebraica e cristiana. Pratica diffusa è quella del pellegrinaggio in luoghi ritenuti sacri. Il più importante è la città della Mecca – snodo commerciale di grande importanza, controllato dalla tribù dei quraishiti -, dove si innalza un famoso santuario: la Ka’ba (ossia cubo): un edificio cubico che la leggenda vuole sia stato costruito da Abramo e dal figlio Ismaele per custodire la Pietra Nera portata sulla terra dall’arcangelo Gabriele. Malgrado l’evidente matrice biblica della leggenda fedeli di tutti i tipi convengono alla Ka’ba, poiché durante la tregua del pellegrinaggio è possibile stringere affari, comporre conflitti, saldare debiti e così via. La predicazione religiosa di Maometto modifica in maniera irreversibile questa realtà, anche e soprattutto dal punto di vista politico. Sulla sua figura sono pochi i dati biografici, la più parte ricavati dal Corano, il libro sacro dei musulmani, e dai Detti del profeta, oltre che da alcune biografie scritte poco dopo la sua morte. Nato nel 570 circa, orfano ed educato dal nonno, sovrintendente delle acque della Mecca, all’età di venticinque anni Maometto sposa una ricca vedova, Khadigia, e ormai privo di preoccupazioni materiali, si dedica alla meditazione. La leggenda vuole che nel 610 gli appaia l’arcangelo Gabriele inviato da Allah per esortarlo alla predicazione. Il messaggio che di lì a tre anni Maometto diffonde è estremamente lineare. Maometto invita ad adorare Allah come unico dio e a sottomettersi totalmente a lui (islam = sottomissione); annunzia il giudizio finale in cui gli uomini saranno condannati o assolti per le azioni commesse in terra; predica la generosità e l’aiuto ai poveri e condanna alcune pratiche tribali esistenti, come il matrimonio tra consanguinei e l’infanticidio delle femmine. Il monoteismo promosso da Maometto viene accolto con favore dai ceti meno abbienti e dagli schiavi e affascina anche alcuni componenti dei gruppi sociali più alti, ma trova una forte opposizione tra i quraishiti, timorosi che il nuovo culto cancelli il pellegrinaggio alla Mecca. La prima comunità di sottomessi (muslim, da cui deriva il termine musulmano) è vittima delle persecuzioni dei quraishiti; alcuni di essi si dirigono verso l’Etiopia cristiana, dato che il loro credo appare simile per molti versi al cristianesimo (legame evidente nei versetti del Corano che inneggiano alla Vergine Maria e ammettono il concepimento per opera dello Spirito Santo di Gesù Cristo); altri, fra cui lo stesso Maometto, nel 622 riparano a Yathrib, una città commerciale importante sulla via carovaniera che lega la Mecca al Medio Oriente e all’Egitto. Questa emigrazione (égira) dà inizio all’era musulmana, che comincia nel giorno corrispondente al 16 luglio 622. Yathrib viene dichiarata Madinat an-nabi, città del profeta, da cui il nome ancora corrente di Medina. Qui Maometto continua la sua predicazione. In un primo momento appare forte l’influenza ebraica: Maometto condivide con gli ebrei i precetti alimentari e le norme sul digiuno; inoltre invita a pregare in direzione di Gerusalemme. Tuttavia, la concezione ebraica che vede nel popolo d’Israele quello “eletto” da Dio relega lo stesso Maometto, arabo, in una posizione marginale e la religione che predica una pallida imitazione dell’ebraismo. Pertanto, Maometto accusa i gruppi di ebrei residenti a Medina di solidarizzare con i nemici dell’Islam: pertanto gli ebrei sono costretti ad abbandonare la città. A partire da questo momento, i musulmani in preghiera si rivolgono verso la Mecca, mentre viene codificato il ramadam, un lungo periodo di astinenza della durata di un mese lunare dalla collocazione variabile nel corso dell’anno. Durante il soggiorno a Medina Maometto riesce a compattare le fila musulmane; i seguaci di Maometto si dedicano per sopravvivere alle antiche attività predatorie tipiche dei beduini – assaltano e razziano le carovane, si danno al brigantaggio – e da ciò traggono un prestigio che ne contribuisce a ingrossare i ranghi. Ben presto il piccolo gruppo originario è tanto forte da attaccare la Mecca: l’11 gennaio del 630, ottavo anno dell’ègira, Maometto e i suoi seguaci entrano nella città, da quel momento sacra ai musulmani. L’ingresso trionfale segna il definitivo successo di Maometto che riesce a convertire quasi tutte le tribù della regione. Quanto il profeta muore, nel 632, gode di un immenso prestigio: l’Arabia è unita sotto il segno dell’Islam. Alla base della religione vi è il Corano, il libro in cui il musulmano ricerca la risposta agli interrogativi umani non solo in materia di religione, ma anche di relazioni sociali, di politica e di economia. essere un buon musulmano significa adempiere a cinque compiti fondamentali, i cosiddetti «cinque pilastri»: professare la fede, pregare, pagare l’elemosina stabilita per legge, digiunare durante il ramadam, compiere almeno una volta nella vita il pellegrinaggio alla Mecca. Accanto al rispetto di questi cinque principi fondamentali, il buon musulmano deve avere «buoni costumi»: deve innazitutto promuovere la gihad, ossia combattere militarmente quanti sono nemici dell’Islam. Sin dagli anni della successione a Maometto – il periodo cosiddetto dei califfi «ben guidati» (Abu Bakr – suocero del profeta, Omar, Othman e Alì – cugino e genero del profeta) – la storia dell’Islam si caratterizza per la carica espansionistica. Non è tanto l’idea di «guerra santa» a spingere i musulmani all’attacco, come molta storiografia ottocentesca e novecentesca ha sostenuto, quanto il fatto di poter contare su una recente ma solida struttura statale la cui forza è data dalla mancanza di lotte e contrasti fra l’autorità civile e quella religiosa; altri elementi che giocano a loro favore sono la capacità di truppe e generali, molti dei quali avevano combattuto nell’esercito bizantino, la fragilità degli imperi circonvicini, la preferenza nei loro confronti della popolazione che via via assoggettano e che preferisce un dominio lontano, esterno e neutrale come quello arabo. Conquistato gran parte del Medio oriente, gli arabi, che fissano prima la loro capitale a Damasco e poi a Baghdàd, si spingono fino all’Asia centrale; in Occidente, una volta conquistata l’Africa settentrionale, superano lo stretto di Gibilterra e si stanziano in Spagna. Due sconfitte campali fermano la morsa con la quale l’Islam sembra stringere il mondo cristiano. Nel 718 l’imperatore Leone III Isaurico ferma l’offensiva islamica sotto le mura di Costantinopoli; nel 732 il franco Carlo Martello sconfigge gli arabi nella battaglia di Poitiers. Tuttavia, successivamente gli arabi conquistano la Sicilia, una postazione centrale nel Mediterraneo, in grado di garantire loro continui contatti con il mondo cristiano. Così, le relazioni fra l’Islam e l’Europa cristiana non si esauriscono con gli scontri militari. Gli europei beneficiano della sincretica cultura arabo-islamica, formatasi grazie all’assimilazione e all’elaborazione, per mezzo di un’unica lingua e di un’unica religione, della cultura ellenica, ebraica e persiana, con significativi innesti indiani e cinesi. La peculiarità di questa cultura, contraddistinta dalla tolleranza, è data dal fatto che gli arabi non tentano di convertire le popolazioni che conquistano, in quanto il Corano proibisce ogni forma di conversione forzata. Sono gli stessi popoli dominati a scegliere la nuova religione: elemento che favorisce la fusione con l’elemento arabo e dà alla luce, in diversi campi, a indiscussi capolavori. In architettura ancora oggi visibili, fra gli altri, sono il palazzo dell’Alhambra a Granada, l’Alcazar a Siviglia, il convento di Monreale in Sicilia (dove gli arabeschi si mescolano a dettagli bizantini e normanni); innumerevoli progressi vengono compiuti in ambito filosofico (l’arabo Averroè traduce e commenta l’antico filosofo greco Aristotele), in campo medico (con gli studi di Avicenna), in astronomia e in matematica (non è un caso che il termine algebra derivi dall’arabo); notevole è anche l’attività letteraria che trova il suo apice nelle novelle de Le mille e una notte. Inoltre, proprio nel momento in cui nel mondo cristiano si afferma un ideale di vita ascetico, nel mondo musulmano si pone l’accento sull’operosità e sulle capacità di trasformazione della natura grazie alla fatica e all’impegno dell’uomo. In Sicilia gli arabi modificano il paesaggio con nuove colture quali gli agrumi, il riso, il gelso, la canapa, il cotone, la canna da zucchero, rendono fertile il territorio con raffinate opere di ingegneria idraulica che servano all’irrigazione e promuovono la piccola proprietà contadina ai danni del latifondo. Ben presto in Occidente giungono damaschi pregiati, sottili mussoline e la carta, conosciuta grazie a reiterate relazioni con la Cina. I contatti dei musulmani con il mondo cristiano, tuttavia, non si riducono all’intermediazione commerciale per via marittima (ancora, non è casuale che molte parole del gergo marinaresco derivino dall’arabo: arsenale, darsena, dogana, ammiraglio); a partire dalla loro affermazione sul Mediterraneo e per molti secoli, gli arabi sono temuti per le razzie che perpetrano sulle coste cristiane alla ricerca di schiavi. Con il loro definitivo stanziamento sulle coste nordafricane viene meno l’unità mediterranea, come ha sottolineato lo storico Henry Pirenne: una frattura che accelera la ruralizzazione del mondo europeo, che sembra ritirarsi per un periodo lungo dalle sponde del mare dominato per secoli.