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Il plurilinguismo come risorsa-Cognini Edith - riassunto

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riassunto Il plurilinguismo
come risorsa - Cognini Edith
Didattica Pedagogica
Università di Torino
27 pag.
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Parte prima
Coordinate teoriche e politiche linguistiche
educative
Inizialmente il bi/plurilinguismo era associato a fenomeni di schizofrenia, crisi d’identità e confusione mentale. Peal e
LAMBERT (1962) mostrano che il bi/plurilinguismo non è uno svantaggio.
Macnamara (1967): bilingue è colui che ha un minimo di competenza in una lingua ulteriore a quella materna (che sia
anche solo in una delle 4 skills).
Diebold (1972): anticipa la “competenza parziale”, affermando che bilingue è colui che capisce ma non può interagire
in L2.
Titone (1972): bilingue è colui che non deve tradurre in L1 per produrre in L2.
Beatens Beardsmore (1982): colui che ha acquisito pari competenze in L1 ed L2. Si parla di continuum linguistico,
anticipando gli studi di “bilinguismo dinamico” (translanguaging).
Hamers e Blanc (2000) notano come queste definizioni si soffermino solo su un unico aspetto di bilinguismo, cioè la
padronanza e le competenze, ignorando le dimensioni extralinguistiche.
Gosjean (1989) fa notare che il problema è che un bilingue è stato spesso erroneamente considerato come la somma di
due monolingui.
Li Wei (2000). Prende in considerazione il livello culturale, psicologico, sociologico e comunicativo.
Mackey: è necessario andare oltre la sfera LINGUISTICA.
Fattori biologici e ambientali. La neuroscienza si è occupata di questo argomento e in Italia il maggior esponente è
Franco Fabbro. Un soggetto è bilingue se conosce 2 lingue, 2 dialetti o una lingua e un dialetto.
Le due lingue sono sempre presenti nella mente del soggetto, ma non creano confusione poiché non interferiscono tra
loro. Questo principio di inibizione viene studiato da Green (1986). A questo principio di inibizione viene associato
quello della soglia di attivazione (Activation Threshold Hypotesis): l’attivazione sarà tanto più spontanea tanto più
frequente sarà l’utilizzo della lingua in questione.
Bilinguismo o plurilinguismo non vanno però confusi con diglossia , cioè la comprensione di più lingue o varietà
diverse di lingua socio-funzionalmente differenziate. Nei contesti diglossici la varietà della lingua si divide per
prestigio: elevato o basso.
La dilalìa si differenzia dalla diglossia perché il codice A è usato, almeno da una parte della comunità, anche nel
parlato convenzionale usuale, e perché, pur essendo chiara la distinzione funzionale di ambiti di spettanza A e B
rispettivamente, vi sono impieghi e domini in cui vengono usati di fatto ed è normale usare, sia l’una che l’altra
varietà, se alternativamente o congiuntamente.
Differenze tra bi e plurilinguisti a livello psicolinguistico: maggiore flessibilità cognitiva, maggiore consapevolezza
metalinguistica, ecc. studio comunque ancora in evoluzione.
Il fattore età: luogo comune che il bilinguismo sia affetto dal fattore età. Bilinguismo precoce (infanzia), precoce
simultaneo (acquisizione contemporanea di due lingue), precoce consecutivo (imparano a scuola), bilinguismo tardivo
(dopo la pubertà).
Non esiste una correlazione diretta tra la variabile età e la capacità di apprendimento di una L2.
Bilinguismo bilanciato: competenza elevata in entrambe le lingue, ovvero capace di utilizzare entrambe le lingue in
diversi domini.
Bilinguismo dominante: uso predominante di una lingua rispetto all’altra, che non riesce a coprire tutti i domini.
A seconda dell’ambiente o necessità, la lingua più debole può diventare dominante, e viceversa.
Weinreich (1953): distinzione tra bilinguismo coordinato (impara la seconda lingua in un contesto differente dalla
famiglia) e bilinguismo composito (impara la L2 in famiglia. Affine al concetto di bilinguismo consecutivo nelle
famiglie di immigrati).
Weinreich sottolinea come in un sistema linguistico composito di due segni (latino o cirillico) si associano
immediatamente al medesimo sistema di significati (libro). Nel “bilinguismo subordinato”, un soggetto pensa prima in
lingua dominante per poi tradurre in L2.
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Velocità della memoria influenzata dal livello di proficiency e la loro distanza/vicinanza tipologica. Più le lingue sono
vicine, maggiore sarà la possibilità per l’apprendente di trasferire risorse già a disposizione nel proprio repertorio
linguistico ai fini di una Ln.
Successivamente sarà Jim Cummins ad approfondire il rapporto tra le competenze linguistiche in L1/L2 e
l’importante ruolo del transfer nell’acquisizione di L2. L’ipotesi dell’interdipendenza linguistica (linguistic
interdependence hypothesis) viene chiarita attraverso la nota metafora dell’iceberg: mentre al di sopra della
superficie le punte dell’iceberg, corrispondenti alle lingue note, sono riconoscibili e apparentemente separate,
sotto la superficie – fuor di metafora, nella mente dell’apprendente − le due lingue operano attraverso il
medesimo sistema centrale di processazione. Questa competenza nota come CUP (Common Underlying
Proficiency), faciliterebbe i processi di transfer, ovvero il passaggio di nozioni e saperi linguistici da una lingua
all’altra. Metodo OPOL (One Person One Language), a tutt’oggi largamente praticato da molte famiglie e nei
contesti educativi per
l’infanzia sin dai primissimi anni di vita .
1.3.4 Uso funzionale delle abilità linguistiche
COMPRENDERE UNA LINGUA MA NON PARLARLA? Bilinguismo ricettivo (o passivo) e bilinguismo
produttivo (o attivo). “Passivo” spesso si trasforma in “latente”: può avvenire che con il tempo la lingua possa andare
perduta. Il fatto che non sia più “attivo” non significa che non abbia più importanza nell’acquisizione linguistica.
1.3.5 Valore sociale e rappresentazioni delle lingue
Si prende in considerazione lo status delle lingue coinvolte e i rapporti di potere tra queste intercorrenti. Nei
soggetti in cui l’acquisizione di una seconda lingua avviene successivamente a quella della L1 (bilinguismo
consecutivo), la L2 va necessariamente a modificare, oltre che l’organizzazione mentale delle conoscenze
pregresse, anche lo status e il mantenimento della prima. In base a queste considerazioni, Lambert (1974)
distingue fra bilinguismo additivo (le due lingue vengono sviluppate e mantenute parallelamente) e bilinguismo
sottrattivo (la graduale perdita di una lingua dovuta all’uso crescente dell’altra). È il caso della seconda
generazione provenienti da famiglie migranti, per i quali la LO è spesso una lingua associata all’esperienza
migratoria e ad una cultura minoritaria. Se l’ambiente circostante (familiare, sociale, scolastico) attribuisce
sufficiente valore ad entrambe le lingue, è possibile che il soggetto trarrà i massimi benefici dalla sua esperienza
bilingue e che L1 fungerà da supporto all’acquisizione di L2 e viceversa.
Fishman (1977): distinzione tra ‘bilinguismo popolare’ (folk bilingualsim. Tipico di quei membri appartenenti ad
una comunità linguistica minoritaria che si trovano nella necessità di apprendere la L2, lingua dominante della
comunità ospitante e, quindi, dotata di alto prestigio nel contesto dato) e ‘bilinguismo elitario’ (elite bilingualism.
Il bilinguismo elitario è legato ad uno status di prestigio della lingua obiettivo, generalmente una lingua seconda
o straniera ricercata soprattutto dai ceti medio-alti come valore aggiunto nella formazione linguistica dei propri
figli).
Classificazione delle tipologie di bilinguismo (adattato da Butler)
114) Focus
Tipologia
Organizzazione
dei
codici linguistici e delle
unità di significato
Composito / Coordinato
/ Subordinato
(Weinreich, 1953)
Relazione
tra
le
competenze in L1 e L2
Bilanciato /
Dominante
(Peal, Lambert, 1962)
Caratteristiche
apprendimento
di L2
Differenze
funzionali
nella memorizzazione e
nella
mappatura
cerebrale della lingua
Aspetti correlati e
implicazioni educative
Differenze funzionali;
legato al fattore età (?)
Concettualizzazione e
valutazione
della
competenza linguistica;
Difficoltà nel rendere
operative le distinzioni e
testare le differenze
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Caratteristiche
aggiuntive in contesto
plurilingue
Maggiore complessità e
diversità
nell’organizzazione
della memoria in base
alle
differenze
tipologiche e ai livelli di
proficiency delle lingue
note
Maggiore complessità
nella
concettualizzazione
e
ipotesi
dell’interdipendenza
linguistica e del livello
soglia di Cummins
Forte influenza del
valore sociale di L1 sul
suo
mantenimento;
supporto nello sviluppo
della literacy in L2
Effetto
dell’apprendimento di
L2 sulla conoscenza di
L1
Additivo / sottrattivo
(Lambert, 1974)
L2 come arricchimento,
con o senza perdita di
L1; statuto di una lingua
in un dato contesto
Status della lingua e
contesto di acquisizione;
supporto della L1
Elitario / Popolare
(Fishman, 1977)
Elettivo/Circostanziale
(Valdés,
Figueroa,
1994)
Precoce (simultaneo /
consecutivo) /
Tardivo
(Genesee et al., 1978)
Ricettivo / Produttivo
(Valdés,
Figueroa,
1994)
Differenze di status e
valore delle lingue
implicate
Supporto nello sviluppo
della literacy in L2
Differenze legate all’età
di acquisizione di L1/L2
e alla scolarizzazione
Differenze
neurolinguistiche;
ipotesi del periodo
critico
Uso della lingua a
prescindere dai livelli di
proficiency
e
dall’identità
Età di acquisizione
Uso funzionale delle
abilità linguistiche
Differenze funzionali e
motivazionali
misurazione
delle
competenze plurilingui
Maggiore complessità
dell’ apprendimento di
una lingua aggiuntiva a
partire da quelle già
acquisite;
maggiore
diversità dello statuto
delle lingue implicate
Maggiore diversità dei
valori sociali attribuiti a
più lingue
Maggiore
diversità
nell’ordine
di
acquisizione; può avere
più L1 e/o L2
Maggiore diversità delle
differenze
funzionali
nelle varie lingue e
domini d’uso implicati
1.4 Valorizzare il plurilinguismo: benefici e qualche falso mito
Il grande beneficio di modificare gli atteggiamenti linguistici e far emergere il valore intrinseco di ogni idioma, a
prescindere da quello attribuitogli dalla società nel caso di lingue minoritarie, e facendo in modo che gli stessi
individui plurilingui ne possano prendere consapevolezza.
Su un piano cognitivo, valorizzare il bi/plurilinguismo significa dare visibilità e potenziare la capacità
dell’apprendente di saper riflettere sul funzionamento e sulla struttura della lingua, ovvero di fare leva sulla sua
consapevolezza metalinguistica (language awareness; Hawkins, 1984).
I soggetti plurilingui mostrano di possedere una maggiore consapevolezza circa la natura convenzionale del
linguaggio e una maggiore flessibilità mentale dovuta alla conoscenza di più lingue. Il fatto che essi debbano
precocemente focalizzarsi sulla forma della lingua per poter essere in grado di differenziare i due codici
permetterebbe loro di concentrarsi maggiormente sulle caratteristiche astratte delle lingue e, pertanto, di
sviluppare una maggiore capacità di trattarle come dei sistemi formali. La conoscenza e l’apprendimento di più
lingue sviluppa dunque una maggiore capacità di distinguere tra la forma e il significato delle parole,
consentendo di intuire come ad esempio il concetto di ‘libro’ (significato) possa essere associato a più parole in
diverse lingue (significante). Questa maggiore disponibilità di significanti aumenta la capacità di riflessione sul
linguaggio in generale e sui vari sistemi linguistici in particolare, stimolandone l’acquisizione.
Un altro potenziale beneficio del bi/plurilinguismo, ampiamente riportato in letteratura, è quello legato
all’attenzione selettiva, ovvero alla maggiore capacità di concentrarsi su un determinato oggetto di interesse e di
rielaborare le informazioni rilevanti senza farsi distrarre da informazioni accessorie o dati inutili (cfr. Bialystock,
2001). Attenzione selettiva e indipendenza dal campo contribuiscono inoltre ad una spiccata capacità di problemsolving. il possesso di due sistemi di rappresentazione, inoltre, aumenta la flessibilità e l’originalità del pensiero.
I parlanti bi/plurilingui imparano più precocemente a cogliere le necessità comunicative dell’interlocutore, a
cambiare lingua o registro per adattarsi ai suoi bisogni, sviluppando in sostanza una maggiore empatia
comunicativa.
Capitolo 2. Plurilinguismo e educazione linguistica
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Una visione del repertorio plurilingue degli studenti come un vantaggio ed una risorsa di apprendimento. Con
questa ‘svolta plurilingue’ o multilingual turn, i documenti di politica linguistica dell’Unione Europea e, ancor
più, quelli prodotti dal Consiglio d’Europa hanno largamente promosso l’adozione di una prospettiva plurilingue
nell’insegnamento/apprendimento delle lingue, a partire dal Quadro comune europeo di riferimento (2001) in
poi.
Il termine plurilinguismo si riferisce alla capacità dei parlanti di usare più di una lingua; esso considera dunque le
lingue dal punto di vista di coloro che le parlano e di coloro che le apprendono. Il termine multilinguismo, invece,
rimanda alla presenza di più lingue in una determinata area geografica, indipendentemente da coloro che le parlano.
Così, il fatto che due o più lingue siano presenti in un’area geografica non implica automaticamente che gli abitanti di
quell’area siano in grado di usare più di una di queste lingue; alcuni non ne parlano che una sola.
Conteh e Meier (2014) e May (2014) parlano di “svolta plurilingue” (multilingual turn). Essa si fonda sulla
consapevolezza che apprendenti ed insegnanti portano in classe diversi saperi e risorse linguistiche che rappresentano
una sfida, ma anche una grande opportunità nell’apprendimento linguistico ed oltre.
La definizione di questo ‘nuovo’ paradigma si intreccia con la storia di altre ‘svolte’ plurilingui in ambiti di
ricerca affini, come ad esempio la sociolinguistica e, soprattutto, il campo di studi noto come critical applied
linguistics. Tra i suoi fondatori, spicca la figura di Alastair Pennycook che, nei suoi lavori, mette in evidenza la
reciproca influenza tra la dimensione educativa e quella sociale: secondo questa impostazione le classi
scolastiche non riflettono semplicemente il mondo esterno ma sono considerate sistemi sociali e culturali a pieno
diritto che possono a loro volta influenzare l’ambiente sociale esterno. Occupandosi di plurilinguismo la didattica
delle lingue prende così sempre più consapevolezza dell’inestricabile legame tra dimensione sociale e educazione
linguistica, riconoscendo l’importante ruolo delle famiglie e delle comunità nella costruzione degli
apprendimenti degli alunni.
il plurilinguismo stesso viene concepito come una sorta di lingua franca (multilingua francas) in cui “le lingue
sono strettamente interconnesse e tra loro fuse al punto che il livello di fluidità rende difficile stabilire dei confini
che possano indicare la compresenza di diverse lingue.
Si passa così progressivamente da una visione che vede nel bi/plurilinguismo un deficit ad una prospettiva di
valorizzazione del fenomeno. L’importante implicazione che ne deriva è che le lingue non sono realtà fisse e
monolitiche, ma appartengono a tutti coloro che le usano e non solo a chi le ha apprese come prima lingua.
Il focus dell’attenzione degli studi nell’ambito dell’insegnamento linguistico si sposta così dal modello ideale del
native speaker alla nozione più complessa e fluida di “voce” (Makoni e Pennycook, 2012) e, parallelamente,
all’idea di lingua come pratica sociale (Heller, 2007; Pennycook, 2010) che si ritroverà anche nel Quadro
comune europeo attraverso la nozione di “agente sociale” (cfr. §2.3)27. Secondo questa prospettiva, al fine di
gestire e comunicare le proprie appartenenze e identità, il locutore/attore plurilingue deve crearsi una sua ‘voce’
personale in ciascuna delle lingue note, attraverso le sue diverse lingue e in tutto il suo repertorio linguistico.
Questa voce personale è l’espressione della sua stessa identità e una prospettiva sul mondo che gli permettono di
agire come soggetto plurilingue e pluriculturale.
2.2 Il multi-/plurilinguismo nelle politiche linguistiche europee: competenze chiave
Numerose sono le iniziative, i progetti ed i programmi europei che, a partire dagli anni Cinquanta del secolo
scorso, incoraggiano l’apprendimento di più lingue e la valorizzazione della diversità linguistica e culturale
dell’Unione. È soprattutto dal 2000 che le istituzioni europee si impegnano costantemente per una sempre
maggiore diffusione del multilinguismo. La diversità linguistica e culturale costituisce infatti un elemento
costitutivo dell’Unione Europea e della sua identità fin dal Trattato di Roma (Commissione Europea, 2005), nel
quale il principio della “unità nella diversità” viene assunto come suo valore fondante, in antitesi al modello del
melting pot statunitense in cui le differenze, al contrario, si fondono. Anche dal punto di vista sociale e culturale
la posizione dell’Europa a favore del multilinguismo è chiara, in quanto
[l]e competenze linguistiche aumentano […] le possibilità di lavorare, studiare e viaggiare in tutta Europa e
permettono la comunicazione interculturale.
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Le politiche linguistiche europee a favore dello sviluppo del multilinguismo hanno investito molto sulla
formazione e sull’educazione linguistica, articolandosi attorno a due assi principali (Luise, 2013):
- l’avvicinamento precoce alla diversità linguistica e culturale attraverso l’inserimento delle LS nei curricula fin
dalla scuola dell’infanzia e, in modo correlato, la formazione e l’aggiornamento degli insegnanti, la ricerca e la
diffusione di metodologie e tecnologie didattiche;
- l’educazione permanente, che coinvolge l’intera persona facendo in modo che ogni sua esperienza possa
fungere da possibile fonte di educazione, come ben compendiato nelle espressioni Lifelong Learning e Lifewide
Learning; formazione e istruzione lungo tutto l’arco della vita vi costituiscono un requisito fondamentale per
esercitare una cittadinanza attiva e democratica che, in una società multilingue e multiculturale, richiede
necessariamente competenze linguistiche e interculturali.
Le istituzioni europee si sono ampiamente occupate anche della tutela delle lingue minoritarie e regionali, dei
dialetti, delle comunità alloglotte all’interno dei paesi membri, nonché della promozione della diversità
linguistica e dell’aumento delle competenze in lingue straniere europee e non, perseguiti attraverso una crescente
diversificazione dell’offerta linguistica delle istituzioni formative, il sostegno alla mobilità internazionale di
studenti e docenti, ecc. Tuttavia, come ha fatto notare Luise, in questa azione politica e culturale ormai radicata
in Europa rimane in ombra un aspetto linguistico che diviene sempre più importante, presente e visibile nelle
società dei paesi membri: la presenza delle lingue materne ed etniche dei milioni di immigrati ormai cittadini
stabili nel vecchio continente.
Finché l’educazione dei migranti si concentrerà solo sulla conoscenza della lingua del Paese ospitante e trascurerà di
considerare i repertori plurilingui dei migranti come una risorsa, le politiche di integrazione sono destinate a fallire. Al
contrario, i repertori plurilingui di questi alunni possono essere sfruttati come capitale didattico per l'apprendimento.
L’attenzione alla madrelingua e alla cultura rafforzerà l'identità degli alunni migranti e migliorerà la loro fiducia in se
stessi.
Più recentemente il Consiglio dell’Unione europea ha emanato delle nuove Raccomandazioni relative alle
competenze chiave all’apprendimento permanente (Consiglio dell’Unione europea, 2018) che mettono in luce un
importante cambiamento di prospettiva in tal senso. Tra le 8 raccomandazioni proposte trovano infatti una
definizione la “competenza alfabetica funzionale” e la “competenza multilinguistica”, che nel documento
precedente erano denominate rispettivamente competenza di “comunicazione nella madrelingua” e competenza
di “comunicazione nelle lingue straniere”. Si tratta con evidenza di una scelta terminologica che implica
l’assunzione, da parte delle istituzioni europee, di una prospettiva più flessibile ed inclusiva verso le competenze
linguistiche dell’individuo, in cui si tiene conto della pluralità linguistica e culturale che caratterizza molti dei
cittadini dell’Unione, sempre più multilingue e multiculturale. In particolare, riconoscendo la necessità di
sviluppare e potenziare le competenze di literacy lungo l’arco della vita si prende atto del fatto di almeno due
evidenze importanti. In primo luogo, il fatto che non sempre la “lingua madre” corrisponde alla lingua di
scolarizzazione del contesto di istruzione formale o alla lingua ufficiale del paese in cui si vive, anche se
temporaneamente, aspetto di cui necessariamente le istituzioni formative sono chiamate a farsi carico. In secondo
luogo si sottolinea la presenza di cittadini che, nonostante non siano più in età scolare, hanno necessità di
potenziare o sviluppare le competenze di letto-scrittura e più ampiamente comunicative, prendendo
sostanzialmente atto della variabilità delle competenze linguistico-comunicative negli apprendenti a debole o
nulla scolarizzazione e, più ampiamente, nei cosiddetti adulti low-skilled. Tali competenze, base degli
apprendimenti e dello sviluppo di interazioni linguistiche efficaci, sono considerate ‘funzionali’ alla piena
partecipazione dell’individuo nella società e sono strettamente correlate alla capacità di saper interagire
funzionalmente in più lingue, all’esigenza di sviluppare cioè competenze alfabetiche plurali e a vari livelli di
padronanza.
La prima competenza chiave (“competenza alfabetica funzionale”) è strettamente correlata alla seconda
(“competenza multilinguistica”): esse condividono infatti la necessità di sviluppare le principali abilità
linguistiche (comprensione e produzione orale, comprensione e produzione scritta) in una varietà di contesti
sociali e culturali. Viene inoltre posto un forte accento sull’importanza delle competenze interculturali,
sottolineando come, in un mondo sempre più globalizzato e caratterizzato dalla mobilità delle persone, sia
fondamentale il possesso di competenze utili alla mediazione tra lingue e culture diverse, come pure tra mezzi di
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comunicazione differenti. A tale riguardo, le Raccomandazioni fanno espresso riferimento al QCER, o meglio al
suo volume integrativo noto come Companion Volume (Consiglio d’Europa, 2018). Grazie ad esso il Quadro si è
arricchito infatti di nuovi descrittori relativi alla mediazione, all’interazione online, come pure di un ulteriore
livello linguistico (Pre-A1) che possa tener conto anche di competenze parziali precedenti all’A1.
Lingua e cultura di origine (LO), lingua e cultura straniera (LS), lingua e cultura del Paese di arrivo (L2) sono – o
dovrebbero poter diventare − parti costitutive di pari dignità di una più ampia “competenza multilinguistica”.
2.3 La competenza plurilingue e pluriculturale: dal Quadro Comune al Companion Volume
Si evidenzia la necessità di ricorrere ad una definizione flessibile di plurilinguismo, in grado di rendere conto
della diversità delle situazioni e dei profili individuali alla luce degli usi effettivi che ne fa il parlante nel contesto
sociale. Il concetto di plurilinguismo trova diffusione grazie al Quadro in cui ne viene data la seguente
definizione: la capacità che una persona, come soggetto sociale, ha di usare le lingue per comunicare e di
prendere parte a interazioni interculturali, in quanto padroneggia, a livelli diversi, competenze in più lingue ed
esperienze in più culture. Si noti innanzitutto come la dimensione ‘plurilingue’ sia qui strettamente correlata a
quella ‘pluriculturale’, a sottolineare come il connubio lingua-cultura sia bidirezionale e inscindibile. Dando
inoltre dignità anche a “livelli diversi” di conoscenza delle lingue, la definizione mette l’accento sul valore delle
‘competenze parziali’, ovvero competenze di diverso livello e in differenti domini (personale, educativo,
pubblico, professionale) in una o più lingue apprese lungo il proprio percorso biografico. La teoria della
multicompetenza di Vivian Cook (2002): ciascuna lingua ulteriore che si acquisisce va a modificare l’assetto
preesistente. Il parlante di riferimento dell’insegnamento linguistico non è più solo un ipotetico parlante nativo,
ma l’apprendente stesso in quanto “agente sociale” che, a seconda del contesto e dell’interlocutore, seleziona dal
proprio repertorio linguistico le risorse più idonee alla situazione data.
Solo recentemente la competenza plurilingue e pluriculturale ha trovato una descrizione dettagliata nel CEFR.
Companion Volume with new descriptors (Consiglio d’Europa, 2018), nel quale compaiono 52 nuovi descrittori
ad essa afferenti, che ribadiscono l’importanza di fare leva sulle conoscenze pregresse dell’apprendente nello
sviluppare ulteriori competenze linguistico-comunicative. Con alcune eccezioni per i livelli più alti (C1-C2) e più
bassi (Pre-A1), tali descrittori di competenza sono forniti per tutti i livelli linguistici ed organizzati in 3
sottocompetenze.
Ne sintetizziamo qui i tratti principali, rimandando al documento per una trattazione più specifica:
a) la capacità di fare ricorso al proprio repertorio pluriculturale (building on pluricultural repertoire), in cui sono
inclusi descrittori e nozioni afferenti alla competenza interculturale, come, ad esempio, la sensibilità verso le
differenze, la tolleranza verso l’ambiguità, la disponibilità ad offrire e chiedere chiarimenti per evitare
fraintendimenti.
b) la comprensione plurilingue (plurilingual comprehension), che fa riferimento alla capacità di usare le proprie
conoscenze e competenze (anche parziali) in una o più lingue come risorse per la comprensione di testi in
ulteriori lingue e raggiungere così i propri scopi comunicativi.
c) la capacità di fare ricorso al proprio repertorio plurilingue (building on plurilingual repertoire), in cui sono
inclusi aspetti che caratterizzano entrambe le sottocompetenze precedenti: nel costruire la propria competenza a
partire dal repertorio pluriculturale, l’agente sociale ricorre anche a tutte le risorse linguistiche a sua disposizione
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al fine di comunicare efficacemente in un contesto multilingue e/o in una situazione di mediazione in cui gli
interlocutori non condividono la medesima lingua. I descrittori di questa sottocompetenza contemplano, tra altri
concetti chiave, la capacità di adattarsi alla situazione e di saper prevedere quando e in che misura l’uso di più
lingue è utile ed appropriato; la capacità di saper adeguare la propria produzione linguistica in base alle
competenze linguistiche degli interlocutori.
Dopo il primo tentativo del QCER, con il Companion Volume la prospettiva delle politiche linguistiche educative
europee è ancora più netta: da una visione ‘verticale’ o monoglossica del bi/plurilinguismo, che dava esclusiva
importanza all’apprendimento separato di più lingue e al raggiungimento di performance linguistiche sul modello
del native speaker, si passa ad una visione più ‘orizzontale’ e democraticao o eteroglossica, in cui viene
valorizzata anche la capacità di saper mettere in relazione le diverse lingue-culture note o le loro varietà ai fini di
una comunicazione e di un apprendimento efficaci.
2.4 L’educazione plurilingue e interculturale nel contesto europeo: alcuni quadri di riferimento
Nel Quadro non viene cioè esplicitato in modo sufficientemente chiaro il ruolo della lingua di scolarizzazione
con cui è impartita l’educazione a partire dai primi anni scolastici, ma che può non coincidere con la lingua
‘materna’, ulteriore elemento con cui confrontarsi.
Il progetto del Consiglio d’Europa noto come “Lingue nell’educazione, Lingue per l’educazione” (Languages in
Education, Languages for Education), si propone di dare unitarietà alle politiche linguistiche educative europee
e, parallelamente a livello locale, di integrare tutti gli insegnamenti linguistici nell’ottica di un’economia
curricolare e cognitiva. I contributi di questo ampio progetto della Divisione Politiche Linguistiche del Consiglio
d’Europa sono raccolti sulla Piattaforma delle risorse e dei riferimenti per l’educazione plurilingue e
interculturale. il Documento Europeo di Riferimento per le Lingue dell’Educazione − noto con l’acronimo
DERLE − riportano inoltre al centro del dibattito le linee di orientamento già delineate nel capitolo 8 del QCER a
riguardo della relazione tra competenza plurilingue e costruzione curricolare: rimettendo in questione la
separatezza dei curricoli linguistici in contesto educativo, viene avanzata la proposta di un curricolo plurilingue
in cui tutte le lingue dell’educazione possano trovare una propria collocazione.
2.4.1 Le lingue dell’educazione
La pubblicazione nota come DERLE è un ricco documento nel quale si esplora, tra altre importanti nozioni, il
concetto di “lingue dell’educazione”. Tutte le lingue in qualche maniera presenti nel contesto scolastico (lingue
nazionali/ufficiali, straniere, regionali, minoritarie, ecc.) compartecipano allo sviluppo delle competenze
plurilingui e interculturali funzionali all’esercizio della cittadinanza. Al centro di questa visione olistica
dell’apprendimento linguistico si colloca dunque la lingua di scolarizzazione (language.s of schooling), in genere
la lingua ufficiale o ‘nazionale’ di un determinato Paese, che può declinarsi al plurale nei contesti bilingui. Essa
viene intesa al contempo come materia scolastica e disciplina d’insegnamento al pari di altre (“lingua come
materia”) e come lingua veicolare degli apprendimenti disciplinari nelle altre materie (“lingua/e delle altre
materie”) e, pertanto, trasversale al curricolo. Il DERLE accenna inoltre ad una terza dimensione della lingua di
scolarizzazione, legata alla sua funzione di “mezzo linguistico di trasmissione formale o implicita dei valori e
delle norme della società / comunità (nazionale, regionale, minoritaria) considerata”, cui è associato l’importante
ruolo di lingua principale della socializzazione e dell’educazione in contesto scolastico.
2.4.2 Il curricolo plurilingue
La Guida per i curricoli indica così gli orientamenti e le azioni concrete da mettere in atto ai fini
dell’implementazione dell’EPI (educazione plurilingue e interculturale) nei curricoli scolastici, facendosi sintesi,
nella sua versione aggiornata del 2016, degli orientamenti metodologici e degli approcci utili diffusi, anche
grazie ad altri documenti ed azioni europei, negli anni precedenti.
Per raggiungere tale obiettivo, la Guida per i curricoli propone due prospettive o possibilità di integrazione e, per
ciascuna di esse, due ambiti di attuazione che facilitino la convergenza tra lingue:
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1. l’evoluzione del curricolo verso una migliore sinergia degli apprendimenti, che presuppone a sua volta:
- un migliore coordinamento tra insegnamenti delle LS e classiche;
- la ricerca sistematica di coerenza e di economia tra i diversi insegnamenti;
2. 2. l’EPI come finalità esplicita del curricolo:
- per le lingue straniere e classiche;
- per la lingua di scolarizzazione, base stessa dell’EPI.
La proposta curricolare della Guida per i curricoli si articola intorno a due dimensioni tra loro interrelate,
caratterizzate dalla ricerca di coerenza o continuità nei curricoli di ogni ordine e grado scolastico:
- una dimensione orizzontale, intesa come coerenza sincronica, per livello e per anno, ovvero come ricerca di
trasversalità tra le lingue e le altre discipline in termini di obiettivi, contenuti, metodi, materiali e modalità di
valutazione;
- una dimensione verticale, intesa come continuità a livello diacronico e, quindi, come progressione nello
sviluppo di competenze lungo il percorso scolastico ed oltre (lifelong learning).
«economia curricolare»: l’organizzazione coerente delle parti che costituiscono l’intero curricolo relativo alle
lingue. tale nozione si rivela utile per realizzare una razionalizzazione complessiva delle varie lingue coinvolte
nel curricolo scolastico: tra le lingue come discipline linguistiche (DL), tra le discipline cosiddette “non
linguistiche” (DNL) ed infine tra queste due (DL e DNL).
Nell’intento di sfruttare le diverse trasversalità e di stimolare il transfer di competenze e conoscenze, si
individuano nel DERLE 3 aree di razionalizzazione.
Si tratta dunque di ripensare i curricoli scolastici intorno a nuove progettualità ed attività plurilingui che
promuovano gli scambi tra insegnanti e tra studenti, e che incoraggino questi ultimi alla familiarizzazione anche
con altre lingue oltre a quelle generalmente insegnate a scuola, come nel caso del curricolo minimo.
Ciò premesso, è importante sottolineare che l’EPI va vista, non come una rivoluzione, ma piuttosto come
un’evoluzione delle politiche linguistiche europee che, a loro volta, hanno nel tempo preso atto delle
trasformazioni delle odierne società, sempre più multilingui e multiculturali. Nella stessa prospettiva ‘evolutiva’
vanno lette anche le proposte dei documenti qui esaminati e, in particolare, quelle della Guida per i curricoli.
2.4.3 Competenze e risorse dell’apprendente
Le competenze globali individuate dal CARAP (“consapevolezza dei fenomeni linguistici”), riportate in dettaglio
nel riquadro sottostante, si articolano al loro interno in diverse sottocompetenze, il cui sviluppo può essere
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particolarmente favorito dall’implementazione degli approcci plurali. Si tratta nello specifico dell’approccio
interculturale, dell’éveil aux langues, della didattica integrata delle lingue e dell’intercomprensione tra lingue
affini.
Riquadro n. 1: Le competenze globali dell’apprendente nel CARAP
Nella concezione del CARAP, le competenze globali dell’apprendente sono valide per ogni lingua e cultura e riguardano le
relazioni tra lingua e cultura. Queste competenze più generali mobilitano diverse forme di sapere, saper fare, saper essere o
“risorse interne” dell’apprendente, nella riflessione come nell’azione. Tali competenze sono organizzate intorno a sette
“zone” principali
C1. Competenza nel gestire la comunicazione linguistica e culturale in un contesto di alterità
- C1.1. Competenza di risoluzione dei conflitti/ostacoli/malintesi
- C1.2. Competenza di negoziazione
- C1.3. Competenza di mediazione
- C1.4. Competenza di adattamento
C2. Competenza di costruzione e di ampliamento di un repertorio linguistico e culturale plurale
- C2.1. Competenza nel trarre profitto dalle proprie esperienze interculturali/interlinguistiche
- C2.2. Competenza nell’attivare, in contesti di alterità, procedure di apprendimento più sistematiche, più controllate
C3. Competenza di decentramento
C4. Competenza nell’attribuire senso a elementi linguistici e/o culturali non familiari
C5. Competenza di distanziamento
C6. Competenza nell’analizzare in maniera critica la situazione e le attività (comunicative e/o di apprendimento) nelle quali
si è impegnati.
C7. Competenza nel riconoscimento dell’Altro, dell’alterità.
Nella prospettiva del CARAP, congiuntamente alle succitate competenze globali, per saper apprendere le lingue
l’apprendente deve poter sviluppare tre livelli di “risorse interne”, ovvero:
- knowledge [K]: conoscenze dichiarative (sapere)
- attitudes [A]: atteggiamenti (saper essere)
- skills [S]: abilità procedurali (saper fare)
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La lista dei “saper essere” prende in considerazione i fattori personali così come riportati nel QCER riguardanti
dimensioni quali gli atteggiamenti, le motivazioni, i valori e l’identità.
Le abilità procedurali o saper fare [S] corrispondono invece ad azioni come “sapere osservare/analizzare”, “saper
identificare/situare”, “saper confrontare”, “saper parlare a proposito delle lingue e delle culture”, ecc.
Il REFIC (Référentiel de compétences de communication plurilingue en intercompréhension) ha concepito
nell’ambito del progetto europeo Miriadi, utile ad una migliore comprensione delle competenze di
comunicazione in un contesto di apprendimento/insegnamento attraverso l’intercomprensione.
Il quadro si propone di offrire una guida per la programmazione di percorsi formativi e una base per la
valutazione delle competenze acquisite attraverso l’intercomprensione. Esso è accompagnato da un ulteriore
referenziale, il REFDIC (Référentiel de compétences en didactique de l’intercompréhension) che, a sua volta,
descrive le competenze didattiche del docente che intenda proporre un percorso formativo di questo tipo nelle
proprie classi. Entrambi i quadri si rivolgono dunque agli insegnanti e ai loro formatori, seppure con diverse
finalità: mentre il REFIC riguarda i saperi, i saper fare, gli atteggiamenti e le strategie più efficaci che un
insegnante o un formatore di insegnanti può mettere in atto in classe e che deve egli stesso poter sviluppare, il
REFDIC si focalizza sui saperi, i saper fare, gli atteggiamenti e le strategie necessarie all’insegnante/formatore
per inserire la didattica dell’intercomprensione nella propria pratica professionale.
Il REFIC in particolare, mantenendo la suddivisione concettuale in competenze e risorse interne dell’apprendente
del CARAP, declina i descrittori in cinque dimensioni, di cui le prime due sono di tipo procedurale e
metalinguistico e le altre tre di natura comunicativa: 1. il soggetto e l’apprendimento plurilingue; 2. le lingue e le
culture; 3. la comprensione della lettura; 4. la comprensione orale; 5. l’interazione plurilingue.
Diversamente dal CARAP, i descrittori di competenza sono organizzati su tre livelli di progressione che qui
descriviamo brevemente, rimandando al documento per un approfondimento: 1. Sensibilizzazione; 2. Pratica; 3.
Perfezionamento.
Obiettivo principale del primo livello, è sensibilizzare gli studenti circa il proprio repertorio linguistico e
culturale.
2.5 Educazione linguistica e plurilinguismo: la prospettiva italiana
L’immigrazione in Italia è caratterizzata da una forte diversificazione dei Paesi di origine dei migranti :
nonostante la concentrazione di alcune nazionalità dominanti (ad es., romena, albanese, marocchina), gli
immigrati rappresentano oltre 195 diverse cittadinanze che portano con sé una grande varietà di lingue ufficiali e
non ufficiali, presenti nei ricchi repertori plurilingui dei “nuovi” italiani. Una distinzione importante, a tale
riguardo, è quella operata da Vedovelli (2014) che, rifacendosi alla nozione di “spazio linguistico italiano” di
Tullio De Mauro (1980), distingue il plurilinguismo come tratto endogeno italiano dal neoplurilingualismo, o
plurilinguismo esogeno in quanto indotto dalle lingue immigrate che si sono progressivamente aggiunte al già
ricco paesaggio multilingue della penisola. Questa distinzione non solo ci ricorda che il plurilinguismo fa parte
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della storia linguistica del nostro Paese ma, come si vedrà, risulta una categoria utile nell’interpretazione delle
attuali politiche linguistiche educative italiane e nell’elaborazione di percorsi educativi volti alla valorizzazione
dei repertori linguistici degli apprendenti.
2.5.1
L’educazione linguistica in Italia: un concetto precursore
Le origini della storia dell’educazione linguistica nel nostro Paese si possono ricondurre alla seconda metà
dell’Ottocento, quando il filologo D’Ovidio utilizza questa espressione nell’ambito dei dibattiti linguistici e
pedagogici emersi in seguito alle mutate condizioni sociali, culturali e scolastiche dell’Italia unificata. Esso
figura successivamente negli studi e nelle proposte di Lombardo Radice dei primi del Novecento, che anticipa
molte delle ipotesi e dei concetti che verranno elaborati nel corso del Novecento, tra cui la valorizzazione del
repertorio linguistico dell’apprendente (ivi compresi i dialetti), la concezione di errore come esito di una
competenza in costruzione, la variabilità degli usi nella lingua scritta orale e, soprattutto, la necessità di prendersi
cura degli svantaggiati. Nel 1979 con i nuovi programmi della scuola media unica, il concetto trova la sua prima
menzione ufficiale ed applicazione. Inizialmente l’espressione veniva utilizzata con due accezioni diverse, che
rinviano ai due principali gruppi di studiosi che se ne sono occupati: da un lato l’educazione linguistica è
concepita come insegnamento dell’italiano nella sua dimensione scolastica e sociale e riconducibile
all’impostazione di De Mauro e del gruppo GISCEL (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione
Linguistica), dall’altro si riferisce alla proposta di Titone (1961) di “educazione linguistica integrata” che include
l’apprendimento-insegnamento delle lingue (materna, nazionale, seconde, straniere, classiche) e dei linguaggi
non verbali, di cui sono esponenti gli studiosi di didattica delle lingue straniere. Ebbero luogo numerose
iniziative, scatenate dalla incombente necessità di progredire in ambito pedagogico e di rifondare, in particolare,
l’insegnamento linguistico. Tra le più importanti, citiamo la pubblicazione della nota Lettera a una professoressa
nel 1967, opera collettiva della scuola di Barbiana animata da don Lorenzo Milani, un atto di accusa contro una
scuola iperselettiva che respinge i più poveri ed è incapace di comprenderne le potenzialità.
È in questo contesto di rinnovamento che il Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione
Linguistica (GISCEL), fondato in seno alla Società di Linguistica Italiana, elabora le Dieci Tesi per l’educazione
linguistica democratica. Le prime 4 tesi auspicano la fondazione di un nuovo progetto di educazione linguistica
efficace, che si fondi sulla centralità del linguaggio verbale e ponga al centro l’apprendente. Nelle tesi V-VII il
documento si sofferma poi sui limiti della didattica linguistica tradizionale considerata oscura, anacronistica e
poco efficace. A questa pars destruens del documento segue una pars costruens, più propositiva, in cui si
individuano i principi dell’EL democratica (Tesi VIII), per porre poi l’attenzione sulla formazione dei docenti
(Tesi IX) e sul necessario rinnovamento della scuola (Tesi X). Per prime esse sottolineano inoltre il bisogno di
dare visibilità e tenere conto delle “lingue” di tutti gli alunni, in quanto la scuola deve poter assumere “come
traguardo il rispetto e la tutela di tutte le varietà linguistiche (siano esse idiomi diversi o usi diversi dello stesso
idioma)”.
La tesi VIII, in particolare, è il cuore stesso della proposta per un’educazione linguistica effettivamente
‘democratica’, i cui principi fondamentali sono elencati in dieci punti. Tra altri importanti aspetti, vi si sottolinea
(GISCEL, 1975: Tesi VIII):
- la necessità di riconoscere i retroterra linguistico-culturali degli allievi, facendone un punto di partenza di ogni
successiva azione didattica, in modo da “arricchire il patrimonio linguistico dell’allievo attraverso aggiunte e
ampliamenti che, per essere efficaci, devono essere studiatamente graduali”;
- l’opportunità di sviluppare le capacità linguistiche produttive e ricettive nelle loro dimensioni sia scritta sia
orale, “creando situazioni in cui serva passare da formulazioni orali a formulazioni scritte di uno stesso
argomento per uno stesso pubblico e viceversa”;
- l’importanza di stimolare “la capacità di passaggio dalle formulazioni più accentuatamente locali, colloquiali,
immediate, informali, a quelle più generalmente usate, più meditate, riflesse e formali”;
- l’opportunità di praticare tutte le varietà linguistiche, addestrando alla “conoscenza e all’uso di modi
istituzionalizzati d’uso della lingua comune (linguaggio giuridico, linguaggi letterari e poetici ecc.)” ma avviando
anche, nei livelli postelementari, allo “studio della realtà linguistica circostante, dei meccanismi della lingua e dei
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dialetti, del funzionamento del linguaggio verbale, del divenire storico delle lingue, sempre con particolare
riferimento agli idiomi più largamente noti in Italia e insegnati nella scuola italiana”.
Si propone in sostanza un modello plurale di educazione linguistica o, come propone Bosisio (2005), di
“educazione plurilinguistica”, non più centrata sulla grammatica, ma la cui “bussola è la funzionalità
comunicativa di un testo parlato o scritto e delle sue parti a seconda degli interlocutori reali”. Nei nuovi
programmi per la scuola media unica del 1979 si accolgono diverse sollecitazioni proposte dalle Dieci Tesi.
I tratti di modernità e di innovazione proposti dal GISCEL nelle Dieci Tesi saranno poi ripresi anche per la lingua
straniera.
Come è evidente da quanto finora illustrato, le Dieci Tesi hanno molto in comune con le istanze educative
promosse dal Consiglio d’Europa.
2.5.2
L’educazione plurilingue nelle politiche educative italiane
La via Italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri (MPI, 2007), un documento
redatto dall’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’intercultura, segnò in quel
momento un importante avanzamento concettuale e operativo nell’approccio alla diversità linguistico-culturale e
al plurilinguismo nella scuola italiana. Volto a proporre un modello nazionale di integrazione degli alunni
stranieri, il documento pone l’accento sulla necessità di valorizzare il plurilinguismo sia come tratto comune
della scuola (plurilinguismo di sistema), sia come ricchezza della persona (plurilinguismo individuale), in modo
che esso possa rappresentare un’opportunità per tutti gli alunni e non solo per quelli stranieri; si sottolinea inoltre
l’importanza del mantenimento delle LO, in quanto diritto della persona e risorsa cognitiva a vantaggio
dell’apprendimento dell’italiano L2 e delle LS.
Sebbene ne sia stata diffusa successivamente una nuova versione (MIUR, 2018), le Indicazioni del 2012 restano
a nostro avviso il riferimento più completo e chiaro circa il senso dell’EPI nel contesto educativo italiano . Nelle
Indicazioni nazionali e nuovi scenari del 2018, che rivisitano ed aggiornano alcune delle istanze già presenti
nella precedente versione, si invita alla realizzazione di una scuola al passo con la complessità delle società
odierne, chiamata a formare un cittadino globale oltre che europeo. In entrambe le versioni sono ravvisabili
diversi concetti chiave dell’EPI e dell’educazione linguistica democratica già delineati, come ad esempio:
- la trasversalità della dimensione linguistica nel curricolo e la conseguente necessità che tutti i docenti siano
insegnanti della lingua italiana in quanto lingua di scolarizzazione, acquisendo anche le competenze
metodologiche per insegnarla come L2;
- la necessità di dare priorità all’apprendimento della lingua di scolarizzazione in quanto strumento di
comunicazione e di accesso ai saperi, valorizzando al contempo i repertori linguistici di ciascun alunno e la
conoscenza di altre lingue europee.
L’appropriazione di più lingue permette all’alunno di decentrarsi dal proprio sistema linguistico-culturale per
divenire gradualmente consapevole dell’esistenza di diverse varietà di mezzi espressivi nelle varie lingue,
concepite come strumenti di comunicazione, ma anche di espressione e di pensiero.
Per sottolineare l’importanza delle pratiche di inclusione degli alunni immigrati, incentivarne lo sviluppo e
monitorarne l’efficacia, l’anno successivo l’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli studenti stranieri e
per l’intercultura elabora il documento Diversi da chi? Raccomandazioni per l’integrazione degli alunni stranieri
e per l’intercultura (MIUR, 2015). Le Raccomandazioni, rielaborando in forma sintetica i punti principali delle
Linee Guida del 2014, ripropongono all’attenzione delle istituzioni scolastiche dieci punti e proposte derivate
dalle migliori pratiche scolastiche esistenti, utili a strutturare i percorsi formativi in considerazione dei contesti
scolastici sempre più eterogenei, al fine di garantire il diritto allo studio e alla formazione degli alunni di origine
straniera. I dieci punti mirano anche a tradurre in azioni concrete i contenuti della “Buona Scuola” in tema di
integrazione degli alunni stranieri, ribadendo – tra altri aspetti − l’importanza di azioni come l’inserimento
immediato degli alunni stranieri neo-arrivati, il sostegno dell’apprendimento dell’italiano L2, il coinvolgimento
delle famiglie nel progetto educativo dei figli.
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Valorizzare la diversità linguistica. L’integrazione scolastica dei bambini e dei ragazzi con origini migratorie ha
seguito in questi anni modalità prevalentemente di tipo “compensativo”, sottolineando soprattutto le carenze e i vuoti
e riconoscendo molto poco i saperi acquisiti e le competenze di ciascuno, ad esempio, nella lingua materna. La
diversità linguistica rappresenta infatti un’opportunità di arricchimento per tutti, sia per i parlanti plurilingue, che per
gli autoctoni, i quali possono precocemente sperimentare la varietà dei codici e crescere più aperti al mondo e alle sue
lingue (MIUR, 2015).
Nonostante il titolo propizio e il contenuto condivisibile del documento, l’approccio sembra tradire una visione
riduttiva del plurilinguismo rispetto ai documenti precedenti, purtroppo ancora diffusa nella scuola. Si nota infatti
la presenza di una categorizzazione piuttosto fuorviante: al “parlante plurilingue” (straniero) viene contrapposto
l’alunno “autoctono” (locale) come se quest’ultimo non fosse a sua volta portatore di altre lingue e varietà o, più
probabilmente, come se queste non fossero degne di considerazione. Non troppo implicitamente emerge dunque
come il (neo)plurilinguismo sia considerato prerogativa dell’alunno con background migratorio, mentre l’alunno
non alloglotto – che non gode del privilegio di essere plurilingue − viene identificato con la propria appartenenza
al territorio.
Dopo la visione dell’alunno alloglotto come “svantaggiato”, sembrano dunque affermarsi nuove categorizzazioni
ugualmente riduttive e pericolose, che vedono il plurilinguismo come appannaggio solo di alcuni e non di altri.
Parte seconda
Verso una didattica plurilingue:
approcci, esperienze, contesti
L’approccio dell’éveil aux langues (letteralmente “risveglio alle lingue”), variamente definito come
Sensibilizzazione alle lingue e alle culture, Consapevolezza dei fenomeni linguistici o Awakening to Languages, è
uno tra i primi approcci plurali a diffondersi in ambito scolastico, soprattutto nei contesti della scuola
dell’infanzia e primaria di area francofona, in virtù degli obiettivi educativi che si prefigge di raggiungere.
L’alunno viene incoraggiato a confrontare le lingue del proprio repertorio con quelle oggetto di analisi, con
l’obiettivo di far riflettere su che cosa siano le lingue e il linguaggio. Tale processo può essere condotto a vari
livelli di complessità tenendo conto del grado di sviluppo cognitivo degli alunni, ma sempre con l’obiettivo
principale di facilitare la costruzione della consapevolezza metalinguistica e promuovere atteggiamenti di
apertura verso la diversità linguistica e l’apprendimento di più lingue. L’EAL si sviluppa come applicazione ed
estensione dei principi del movimento denominato Language Awareness, diffusosi in Gran Bretagna negli anni
Ottanta grazie all’opera di Eric Hawkins (1984). Ponendo l’accento sul ruolo trasversale della lingua nel
curricolo scolastico (“bridging subject”), il Language Awareness intendeva stimolare una riflessione sui
fenomeni linguistici attraverso un approccio comparativo utile a mettere in relazione le varie lingue presenti in
classe. L’approccio EAL è in seguito al centro di due progetti europei:
- il progetto Evlang (1997-2001), acronimo di Éveil aux Langues à l’école primaire, che ha consentito di
dimostrare gli effetti positivi di questo approccio sugli atteggiamenti degli alunni;
- il progetto Jaling (2000-2004), acronomio di Janua Linguarum, che ha permesso di verificare le condizioni
necessarie per un efficace inserimento curricolare dell’approccio in contesto scolastico.
Un altro importante risvolto educativo di questo approccio si ha inoltre sul piano motivazionale: la creazione ed
il rinforzo di un atteggiamento positivo verso le lingue straniere aumenta la motivazione verso l’apprendimento
linguistico in generale e verso l’apprendimento di alcune lingue in particolare, diverse da quelle generalmente
proposte dal curricolo scolastico: sollecitato a dare pari dignità a tutti i codici linguistici, l’alunno potrà quindi
essere maggiormente motivato ad apprendere una lingua diversa o ulteriore rispetto alle consuete opzioni offerte
dal sistema scolastico.
In sintesi, l’EAL può essere considerato un approccio a carattere interdisciplinare, che riunisce al suo interno più
dimensioni cui corrispondono altrettanti obiettivi:
- una dimensione linguistica e cognitiva, in quanto si mira alla comprensione dei fenomeni linguistici, al
funzionamento delle lingue e dei linguaggi e alla loro trasversalità rispetto alle discipline “non linguistiche”;
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- una dimensione sociolinguistica, per l’accento posto sulla diversità linguistica e sulle relazioni gerarchiche
esistenti tra le lingue e le loro varietà nei contesti plurilingui;
- una dimensione psicologica, mirante a favorire il decentramento dell’alunno rispetto alla propria lingua o alla
lingua di scolarizzazione, quando diversa dalla prima;
- una dimensione emotiva, per l’attenzione dedicata allo sviluppo di un atteggiamento positivo nei confronti della
diversità linguistico-culturale.
3.2 Diffusione e contesti di applicazione dell’éveil aux langues
Il Risveglio alle lingue ha incontrato un riconoscimento istituzionale a dimensione variabile a seconda dei
contesti e dei paesi in cui è stato implementato. Il Risveglio alle lingue è, tuttavia, ancora poco noto e diffuso nel
sistema scolastico italiano, sebbene già da qualche anno siano presenti diverse pratiche didattiche e ricerche
sperimentali che ne applicano i principi fondamentali. Un caso particolare è quello della Val d’Aosta, sia per la
presenza di curricula scolastici bilingui, sia per l’adozione di una versione adattata alle esigenze locali delle
Indicazioni nazionali, nella quale l’EAL è espressamente citato e suggerito come approccio per riconoscere e
consolidare la competenza plurilingue degli alunni valdostani. Nelle scuole dell’infanzia valdostane il Risveglio
alle lingue viene proposto attraverso percorsi ludici che possono coinvolgere, oltre ad italiano e francese,
l’inglese, il tedesco, e, in particolare, il francoprovenzale che, in alcuni contesti, è la lingua di famiglia
maggiormente parlata dagli allievi. Tra le sperimentazioni italiane ispirate all’EAL, si segnalano in particolare il
progetto “Insieme per un futuro più equo” condotto in una scuola primaria della provincia di Genova; il progetto
“Noi e le nostre lingue” realizzato nelle scuole primarie di Torino; il progetto “Lingue e culture in movimento”
(Cognigni e Vitrone, 2016; 2017), condotto in un Istituto Comprensivo del Maceratese. I tre progetti
condividono molte finalità, tra cui l’intento di ovviare alla mancanza di comunicazione tra scuola e famiglia −
spesso più accentuata nei contesti migratori − coinvolgendo le famiglie nelle attività della scuola e/o nel
mantenimento delle lingue di origine; la volontà di stimolare ed approfondire l’interesse verso la diversità
linguistica e culturale, creando atteggiamenti positivi verso le lingue presenti nel proprio ed altrui repertorio
linguistico; l’intenzione di sviluppare la consapevolezza che la lingua è un sistema complesso ed arbitrario
attraverso l’impiego di attività di riflessione e di manipolazione di più codici linguistici.
Attività n. 1: “Parole puzzle” e “parole mattoncino”
L’obiettivo dell’attività, tratta dal progetto “Noi e le nostre lingue” (Andorno, Sordella, 2017), è permettere anche
agli alunni più giovani una riflessione giocosa ma significativa sui meccanismi di flessione e derivazione relativi
alla morfologia delle lingue flessive (es. lingue indoeuropee) e sui meccanismi di composizione tipici delle lingue
isolanti (es. il cinese).
Si propone un breve testo in lingua farsi in cui ricorrono diverse forme derivate dalla parola dokhtar (ragazza)
sulle quali viene attirata l’attenzione della classe. Gli alunni sono sollecitati a notare somiglianze e diversità tra le
parole e a fare ipotesi sulle funzioni dei suffissi in esse presenti rapportandoli con la lingua italiana.
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Per introdurre il concetto di lingue isolanti, si possono proporre esempi dal cinese o altra lingua logo
grammatica, utilizzando la metafora delle “parole mattoncino”, ovvero parole che non si compongono tra loro ma
che, appunto, ‘isolano’ il significato di un messaggio in singole parole. Dopo aver mostrato l’ideogramma di base
电 [diàn] che indica il concetto di “elettricità”, si propone agli alunni di fare ipotesi sul significato delle parole
composte create dall’unione con altri ideogrammi come ad esempio “ombra”, “scala”, “veicolo” (fig. 7) o,
viceversa, proponendo di coniare altre parole composte dando delle flashcard di ideogrammi combinabili con
“elettricità”.
Capitolo 4. La didattica integrata delle lingue:
il transfer come potenziale di apprendimento
4.1 Sviluppo e caratteristiche della didattica integrata delle lingue
La didattica integrata delle lingue (d’ora in poi DIL) si sviluppa agli inizi del 2000 con l’obiettivo principale di
stimolare l’alunno a stabilire dei collegamenti tra un numero definito di lingue, corrispondenti a quelle apprese in
contesto scolastico.
Eddy Roulet, grazie alle sue riflessioni e proposte, ha reso operativa quella che definisce “una pedagogia integrata
delle lingue materna e seconde”. Saranno poi Danièle Bailly e Christiane Luc (1992) a proporre in Francia una
versione più pratica dell’approccio, utile a sottolineare la trasferibilità delle competenze apprese in L1
nell’apprendimento di una lingua straniera. Tra gli orientamenti metodologici di questo approccio rientra la didattica
delle lingue terziarie (Tertiärsprachendidaktik), sviluppatasi a partire dagli anni ’90 con lo scopo di promuovere
l’apprendimento/insegnamento di una L3 (ad es. il tedesco) sfruttando le opportunità del transfer offerte dalla
conoscenza di una L2 ad essa affine (ad es. l’inglese).
Il transfer viene qui inteso a più livelli:
- sul piano delle abilità e competenze linguistiche la L2 funge da lingua-ponte, costituisce cioè un transfer bridge utile
all’accesso alla nuova lingua straniera, in modo da ottimizzare tempi e modalità di acquisizione della L3;
- sul piano delle abilità cognitive comuni, mira a valorizzare e trasferire le esperienze e competenze già maturate dagli
apprendenti attraverso l’apprendimento della L2 (ad es. in ciò che concerne i fenomeni linguistici e le strategie di
apprendimento e d’ uso) nell’apprendimento della lingua obiettivo, ricorrendo sistematicamente alla riflessione
comparativa/contrastiva sui fenomeni linguistici uguali o simili presenti nella L2 e nella L3.
A partire dal modello del German-after-English, Neunen (2004) concettualizza in cinque principi le caratteristiche
principali della didattica delle lingue terziarie:
1) Apprendimento cognitivo: implica la comparazione sistematica tra L1-L2-L3, la presa in carico e la discussione
delle strategie e delle tecniche di apprendimento utilizzate dagli apprendenti e di come queste possano essere estese e
potenziate. Si attualizza attraverso la crescente acquisizione di:
- conoscenze dichiarative, riguardanti la consapevolezza e conoscenza delle/sulle lingue oggetto di studio (language
awareness);
- conoscenze procedurali, inerenti alla conoscenza e consapevolezza dei propri processi di apprendimento delle lingue
straniere (language learning awareness).
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2) Comprensione come base e punto di partenza dell’apprendimento: ha lo scopo di rendere espliciti i meccanismi
della comprensione permettendo all’apprendente di “mettere in parole” i processi cognitivi ad essa sottesi.
3) Significatività del contenuto: per sua vocazione, la didattica delle lingue terziarie si rivolge ad apprendenti
adolescenti, i quali abbiano già esperienza dell’apprendimento di una lingua straniera. È importante dunque che le
attività didattiche e i materiali proposti si basino su contenuti significativi e motivanti per questa fascia di età, legati al
loro mondo esperienziale e capaci di stimolarne l’iniziativa o la ricerca personale. 4) Significatività dei testi: in modo
coerente con quanto espresso dai principi precedenti, presuppone l’impiego di vari tipi di testi significativi proposti
attraverso l’uso di specifiche strategie, come per esempio:
- l’esplorazione induttiva della lingua obiettivo (rispetto a lessico, grammatica, pronuncia ed ortografia) attraverso
l’analisi di testi paralleli ad hoc in L1, L2 e L3 o parte di esse, contenenti specifici fenomeni linguistici corrispondenti
agli obiettivi glottodidattici;
- la comprensione globale di testi autentici inerenti ad aree tematiche che presentino un lessico “condiviso” nella
lingua-ponte e nella lingua obiettivo, come per esempio internazionalismi ed anglicismi nel caso del German-afterEnglish.
5) Economia del processo di apprendimento: stante il minor tempo dedicato alle lingue terziarie nei curricoli
scolastici, il quinto principio invoca la necessità di un’«economia didattica» che, nella DIL, si concretizza nel ricorso
alla comparazione sistematica tra le lingue, soprattutto a livello grammaticale e lessicale, ad esempio attraverso la
discussione delle differenze e delle aree sensibili all’interferenza, l’impiego di glossari per immagini bi/plurilingui,
ecc. utili a capitalizzare al meglio il tempo a disposizione dell’insegnante e a rendere l'apprendimento degli alunni più
efficace.
4.2 Dalla DIL al curricolo plurilingue
Viene pubblicato nel 2008 un numero monografico nella rivista multilingue Babylonia (Brohy e Rezgui, 2008), nel
quale si dà conto dello sviluppo epistemologico dell’approccio e di alcune sue applicazioni nelle scuole svizzere.
Secondo la proposta di Wokusch (2008a: 12-14), la DIL può essere intesa come un approccio olistico che ingloba in
parte gli altri approcci plurali, caratterizzandosi intorno a sei principi di base:
1. Curriculum diversificato e coordinato (coerenza verticale): riguarda l’elaborazione e la condivisione di competenze
specifiche per ciascuna lingua insegnata, attese al termine di ciascun grado scolastico; il coordinamento dei piani di
studio e l’armonizzazione dei mezzi di insegnamento in funzione dei profili di competenza attesi; lo sviluppo
coordinato delle competenze produttive e ricettive nelle lingue insegnate (es. competenze produttive in L2 e
competenze ricettive sulla L3, invertendo successivamente la precedenza data).
2. Sviluppo di competenze funzionali efficaci in ciascuna delle lingue insegnate: introduce forme di insegnamento che
privilegiano l’utilizzo della lingua in contesti significativi e reali, come ad esempio la didattica per compiti, la
didattica basata su specifici contenuti o l’insegnamento di discipline non linguistiche attraverso la lingua straniera
facilita il contatto diretto con altre lingue-culture, secondo un orientamento che viene definito “pedagogia dei
contatti”.
3. Coerenza e continuità delle modalità didattiche proposte agli studenti: fa riferimento all’adozione di modalità
didattiche tra loro coerenti per l’insegnamento di specifici aspetti della lingua (es. lessico, grammatica, ecc.), come ad
esempio l’analisi induttiva di un fenomeno grammaticale per inferire delle regole, le tecniche di apprendimento e la
struttura del lessico (es. famiglie di parole, principi di derivazione, ecc.); implica, nella misura del possibile, l’impiego
di una terminologia comune tra gli insegnanti di lingue, l’adozione di tecniche di verifica e griglie di valutazione
comuni, di modalità di autovalutazione condivise;
4. Risveglio alle lingue; diversità linguistica e culturale; dimensione (inter)culturale: prevede la promozione della
diversità linguistica e culturale attraverso l’EAL alla scuola primaria e secondaria, lo sviluppo di un atteggiamento di
curiosità verso le lingue-culture da parte dell’alunno al fine di potenziarne la competenza socioculturale e pragmatica,
il confronto esplicito e non giudicante tra le lingue della scuola, le lingue-culture di origine degli alunni e le lingueculture straniere insegnate.
5. Valorizzazione del potenziale di transfer: prende in considerazione le strategie di comunicazione e di
apprendimento sollecitate attraverso l’azione di tutte le lingue insegnate; riguarda la sensibilizzazione ai meccanismi
di funzionamento generale delle lingue, in modo da rendere gli apprendenti consapevoli che alcuni di questi
meccanismi e le abilità cognitive sviluppate attraverso lo studio della L1 o di altre lingue straniere (es. l’abilità di
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lettura, la capacità di pianificazione di un testo scritto ecc.) possono essere fruttuosamente trasferite nello studio di
altre lingue.
6. Sviluppo di strategie di comunicazione e di apprendimento efficaci: promuove l’autonomia di apprendimento e il
ricorso a materiali autentici nelle lingue affini a quella/e insegnata/e al fine di favorire lo sviluppo di capacità di
intercomprensione e, più in generale, di strategie di comprensione; impiega modalità didattiche di tipo
intercomprensivo, fondate cioè sul riconoscimento di somiglianze lessicali e morfologiche tra le lingue di una stessa
famiglia linguistica.
Nell’intento di attuare ciò che abbiamo definito curricolo plurilingue, la DIL opera in base a due principi fondamentali
che agiscono sul piano sia cognitivo sia didattico:
- il principio dell’anticipazione, che riguarda da un lato l’ordine di acquisizione delle lingue;
- il principio di retroazione che, viceversa, fa riferimento a come, sul piano cognitivo, l’apprendimento di un’ulteriore
lingua ristrutturi le conoscenze già acquisite.
Compito degli insegnanti di lingue sarebbe, per converso, quello di sviluppare negli apprendenti una “competenza
strategica trasversale” in modo tale che il transfer di conoscenze, competenze e strategie da una lingua all’altra diventi
sempre più automatico e spontaneo.
Per perseguire tale scopo sono percorribili tre diverse modalità o livelli progressivi che richiamano i principi di
Wokusch sopra enunciati:
1) un livello minimo o preliminare mirerà alla creazione di una “cultura” comune tra i docenti di area linguistica,
prevedendo ad esempio lo scambio reciproco di informazioni;
2) un livello intermedio potrà prevedere un lavoro di programmazione congiunto su delimitate aree specifiche
del curricolo, di cui verranno definiti obiettivi, contenuti, metodi di insegnamento e procedure di valutazione
almeno parzialmente comuni;
3) un livello avanzato di DIL si prefiggerà di attuare un vero e proprio curricolo integrato delle lingue,
nell’ambito del quale gli insegnanti sono chiamati a:
- integrare gli obiettivi in sequenze didattiche comuni;
- sfruttare e potenziare la trasferibilità delle strategie e delle acquisizioni linguistiche e pragmatiche;
- raccordare le modalità di valutazione in modo ancora più preciso;
- promuovere l’uso di più lingue in classe, valorizzando l’alternanza linguistica;
- creare occasioni di confronto interlinguistico, sulla base delle somiglianze/diversità tra le lingue
dell’educazione.
4.3 Didattica integrata e insegnamento bi/plurilingue
Tutti questi approcci mirano all’acquisizione parallela ed integrata delle lingue e delle discipline coinvolte, ma varia in
genere l’equilibrio tra acquisizione delle competenze linguistiche ed acquisizione del contenuto disciplinare.
Seppure questi approcci varino sensibilmente in riferimento al numero delle discipline del curricolo coinvolte (una,
molte o tutte) ed al tipo di esposizione alla lingua da insegnare ed al suo impiego, essi sono accomunati dal ruolo che
la lingua svolge al loro interno che, da semplice “lingua come materia”, assume la natura di “lingua delle altre
materie”, caratterizzata da specifici tratti:
- formalità: ricorre ad uno stile più formale, soprattutto nel testo scritto;
- specificità: fa riferimento a precisi campi semantici e utilizza termini specifici per designare i concetti;
- astrattezza: seleziona termini più astratti in riferimento alla collocazione di verbi ed avverbi (ad esempio, “subisce
un incremento esponenziale” in luogo di “cresce più velocemente”);
- esplicitezza: utilizza una lingua più esplicita e dettagliata, a seconda della forma del discorso;
- coesione: idee, frasi e parti di frasi sono strettamente legate tra loro attraverso l’uso di pronomi, la subordinazione, la
ripresa di termini, ecc.;
- coerenza: è più coerente e orientata allo scopo in riferimento alla struttura del testo e del discorso.
In sintesi, affinché un insegnamento bi/plurilingue possa considerarsi anche “plurale”, le lingue coinvolte dovrebbero
essere in qualche modo compresenti − se non addirittura “alla pari”, come suggerisce De Pietro (2014) − in modo che
ciascuna possa fungere da specchio all’altra e collaborare insieme al potenziamento delle abilità metalinguistiche
dell’apprendente. Come sottolinea De Pietro (2014), porre l’accento sulla relazione tra le lingue-culture
nell’insegnamento bi/plurilingue induce a riflettere sulla nozione stessa di pluralità che, in questo tipo di approcci, può
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assumere la forma della pluralità intrinseca, più specificamente riferibile alla dimensione linguistica, o della pluralità
estrinseca, riferibile alle dimensioni pluridisciplinare e multimodale.
4.4 Pratiche didattiche e contesti di applicazione della DIL
In Italia, paese non iscritto al Centro di Graz, la DIL ha trovato applicazione soprattutto nel campo dell’insegnamento
del tedesco come L3. Le attività proposte fanno leva sulle conoscenze pregresse in lingua inglese per far apprendere il
tedesco come lingua terziaria, facendo in modo che risulti per l’apprendente più ‘raggiungibile’ sul piano cognitivo e
psico-affettivo. Utili termini di paragone per evidenziare le similarità tra le due lingue saranno inoltre la dimensione
strutturale, per esempio in riferimento all’ordine dei costituenti nella frase o altri elementi grammaticali simili come la
forma comparativa, ecc.
Alcuni studi hanno sottolineato come una DIL che sfrutti l’inglese come lingua-ponte possa essere di notevole aiuto
soprattutto con apprendenti la cui L1 è tipologicamente lontana dalla L3, come è il caso di molti studenti di origine
orientale ed asiatica che apprendono una lingua europea. Più la lingua obiettivo è affine all’inglese, più questa lingua
può svolgere la sua funzione di lingua-ponte.
Va tuttavia precisato che il livello più avanzato della DIL può risultare una sfida notevole nella scuola secondaria
italiana, dove la progettazione comune di attività e percorsi tra docenti di diversa disciplina non sempre è facilmente
attuabile. Ciò nondimeno una DIL è in questo contesto più che desiderabile, in quanto aiuterebbe a sostenere lo
sviluppo delle abilità metalinguistiche e a valorizzare le strategie di transfer tra le lingue del curricolo, attuate spesso
in modo spontaneo ed autonomo dagli alunni adolescenti.
Al di là dell’insegnamento del tedesco L3, nel nostro Paese la DIL non ha avuto grande diffusione. Essa può tuttavia
rivelarsi un approccio di particolare utilità, ad esempio nei contesti di educazione degli adulti, come gli studenti di
italiano L2 in mobilità internazionale e, laddove sia garantito un livello adeguato di conoscenza della lingua-ponte, gli
apprendenti di italiano L2 in contesto migratorio.
Capitolo 5. L’intercomprensione tra lingue affini
come approccio didattico
5.1 L’intercomprensione tra lingue affini: una definizione
L’intercomprensione tra lingue affini (d’ora in poi IC), prima di essere un approccio plurale, è una pratica
comunicativa sociale, una forma di comunicazione plurilingue spontanea in cui ciascun interlocutore si esprime nella
propria lingua, impegnandosi a farsi comprendere e sforzandosi al contempo di comprendere la lingua degli altri. La
prima comparsa del termine intercomprensione si attesta già all’inizio dello scorso secolo in un lavoro del dialettologo
francese Ronjat che utilizza il termine in riferimento al rapporto tra provenzale e franco-pronvenzale, prima di
apparire come denominazione specifica nei progetti europei sulla didattica dell’IC nella seconda metà degli anni ’90 .
Il prefisso inter- sottolinea il rapporto di reciprocità tra le lingue implicate. I progetti della cosiddetta saga “Gala”
(Galatea, Galanet e Galapro), EuRom4 ed Eurom5, Ariadna/Minerva che, insieme ad altri, hanno permesso la
teorizzazione dei principi didattici dell’approccio plurale noto come “intercomprensione tra lingue affini”:
L’intercomprensione tra lingue affini prevede un lavoro parallelo su due o più lingue che appartengono ad una stessa
famiglia (lingue romanze, germaniche, slave, ecc.) sia che si tratti della famiglia alla quale appartiene la lingua madre
dell’apprendente (o la lingua di scolarizzazione) sia che si tratti della famiglia di una lingua che egli ha appreso come
lingua straniera.
5.2 Intercomprensione e abilità di ricezione
Nella sua accezione più nota, l’IC mira a facilitare la comprensione di lingue mai studiate prima sulla base delle
affinità intercorrenti tra le lingue già note e la/e lingua/e obiettivo. I primi studi e sperimentazioni didattiche si sono
occupati prevalentemente di lingue appartenenti alla stessa famiglia linguistica o “imparentate”. Quando la famiglia o
gruppo linguistico è lo stesso della L1 dell’apprendente (ad es. il gruppo delle lingue romanze per gli italofoni), il
processo di IC sarà particolarmente efficace in quanto si fa leva su ciò che si conosce già bene, la propria L1. A certe
condizioni è tuttavia possibile comprendere anche una “lingua lontana”, ovvero né imparentata né vicina, facendo leva
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sugli indizi extralinguistici, la propria conoscenza del mondo e tutto ciò che permette di attivare l’expenctancy
grammar.
Come altri approcci plurali, la didattica dell’IC si caratterizza quindi per un lavoro parallelo su più lingue. Questo
principio della simultaneità distingue l’IC da approcci più diffusi o singoli, in cui si affronta separatamente
l’apprendimento/insegnamento di una lingua. L’obiettivo centrale dell’IC è però la comprensione, realizzata appunto
attraverso l’accostamento contemporaneo a più lingue; ciò − contrariamente a quanto si possa pensare − non comporta
confusione o sovraccarico cognitivo ma, al contrario, facilita l’apprendimento e promuove lo sviluppo delle strategie
di comprensione, che potranno poi essere messe a frutto per lo studio di altre lingue. Oltre a potenziare le abilità di
comprensione scritta, attraverso la lettura e l’analisi comparata di più lingue la didattica dell’IC permette di attivare il
processo di memorizzazione delle ‘nuove’ lingue implicate, mantenendo al contempo attive le conoscenze nelle lingue
di cui si ha una competenza almeno parziale. In questo contesto di simultaneità assume particolare importanza la
comparazione interlinguistica, un procedimento tipico della linguistica comparativa che conduce a mettere in
relazione più sistemi linguistici evidenziandone differenze e somiglianze. Un altro importante principio che
caratterizza la didattica dell’IC è il principio di immersione: l’apprendente viene ‘immerso’ nelle lingue implicate
senza che ci sia stato precedentemente un apprendimento esplicito, almeno di buona parte di esse. La comprensione è
possibile non solo grazie alle affinità tra le lingue messe in gioco e quelle del repertorio linguistico dell’apprendente,
ma anche alle strategie e competenze maturate attraverso la propria esperienza di lettore e di apprendente di LS.
Il principio di immersione sfrutta tali strategie e competenze, attivando l’interscambio tra diversi processi afferenti ai
due emisferi cerebrali:
- un processo dall’alto o top-down (emisfero destro), attraverso il quale l’apprendente è invitato a considerare il senso
globale del testo,
- un processo dal basso o bottom-up (emisfero sinistro) che permette la decodifica del testo (il riconoscimento delle
lettere, la combinazione di lettere in parole, il riconoscimento di gruppi logici di significato ecc.), individuando le
corrispondenze linguistiche intercorrenti tra la lingua obiettivo e le lingue già note.
Al principio di immersione fa da sfondo l’assunto dell’autenticità: i testi utilizzati non sono graduati o semplificati
come è consuetudine negli approcci ‘singoli’, ma sono tratti dalla vita reale senza che vi sia stato un precedente
adattamento o semplificazione del testo.
A tale proposito è utile approfondire le modalità di guidare alla comprensione scritta utilizzate dal noto metodo
Eurom5, che mira all’apprendimento ricettivo simultaneo di cinque lingue romanze (portoghese, spagnolo, catalano,
italiano e francese):
Fase 1 (ascolto del testo oralizzato): in una prima fase di approccio al testo si propone la lettura in classe del brano,
integrandola all’ascolto del testo oralizzato. Questo duplice accostamento al brano non solo permette un primo
approccio globale al testo utile a coglierne le informazioni principali, ma può aiutare a capire qual è la costruzione
della fraseFase 2 (lettura globale del testo): un aiuto importante alla comprensione globale del testo è dato dalla traduzione
plurilingue del titolo, utile a fornire un primo contesto e a chiarire eventuali parole chiavi importanti per l’accesso al
senso. Segue quindi una prima lettura silenziosa dell’intero testo in una delle lingue obiettivo, che permetterà di
sollecitare negli apprendenti ipotesi ed inferenze sul contenuto dell’articolo e sul significato degli elementi linguistici
in esso presenti.
Fase 3 (trasposizione del testo in L1): a questo punto si procederà con un approccio più analitico o bottom-up al testo
in cui gli apprendenti sono invitati a fare una sorta di “traduzione all’impronta” del testo.
Fase 4 (consultazione dei sussidi alla comprensione): se la comprensione dettagliata risulterà difficoltosa si potrà
ricorrere ad uno o più aiuti forniti a seconda delle specifiche necessità:
- Aiuti strategici: questa funzione attiva strategie per comprendere le cosiddette “parole fantasma”, parole oscure che
possono bloccare la comprensione. L’apprendente è stimolato ad interpretare il significato della parola mancante
desumendolo dal contesto.
- Aiuti strutturali: sono aiuti che permettono al lettore di orientarsi sin da subito nel testo, ad esempio facendogli
individuare in modo intuitivo la posizione di soggetto, verbo, ecc. Nel caso in cui gli aiuti strutturali precedenti non
abbiano permesso una completa decodifica del messaggio, è possibile inoltre ricorrere a traduzioni plurilingui,
utilizzate in particolare in presenza di parole ‘opache’ o di espressioni idiomatiche che possono bloccare la
comprensione.
- Rinvii grammaticali: questa funzione permette di rinviare a delle tavole comparative con spiegazioni delle regole
grammaticali nelle diverse lingue romanze.
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Si noti che il metodo Eurom5 si fonda sul concetto di ‘trasposizione’ e non semplicemente di traduzione nella L1.
Nell’insegnamento delle lingue, almeno sul piano teorico, si promuove generalmente uno sviluppo progressivo più o
meno parallelo delle diverse abilità linguistiche a partire dai livelli più bassi definiti dal QCER. In un’ottica
intercomprensiva le abilità linguistiche sono invece in evidente dissimmetria in quanto si privilegiano le strategie di
ricezione scritta e orale dell’apprendente. Poiché si basa sull’uso di materiali autentici e sullo sfruttamento delle
conoscenze pregresse, l’IC permette infatti di partire sin da subito da un livello relativamente alto, soprattutto per
l’abilità di lettura (A2-B1), facendo in modo che l’apprendente possa raggiungere in breve tempo (20-30 ore) un
livello B1-B2 del QCER nell’abilità di ricezione scritta. I vantaggi della pratica dell’IC non si limitano però alle sole
abilità di ricezione: L’abilità di lettura condiziona e promuove chiaramente quella dell’ascolto, ed entrambe possono a
loro volta influire positivamente sullo sviluppo di altre abilità linguistiche.
5.3 Dall’intercomprensione all’intercomunicazione
Parallelamente, con l’avvento del Web 2.0, si delinea un proficuo filone di studi e ricerca applicata orientata
all’interazione in IC a distanza scritta e allo sviluppo dei processi di apprendimento cooperativo online. È stato
osservato che nelle interazioni in IC a distanza sono presenti molte tracce dell’oralità che, come in altri contesti di
comunicazione mediata dal computer (CMC), rendono la scrittura in forum una dimensione sospesa tra la varietà orale
e quella scritta. Pur avvenendo attraverso il canale scritto, l’IC in interazione a distanza non rappresenta quindi
un’attività utile allo sviluppo della sola ricezione scritta, ma può rappresentare un utile ponte verso l’oralità.
Nell’interazione sincrona delle chat, in particolare, l’uso linguistico diventa ancora meno controllato avvicinandosi
piuttosto a quello che Berruto (2005) definisce “parlato grafico”. Nelle chat, infatti, si ricorre spesso a mezzi grafici
per compensare gli elementi paraverbali e non verbali tipici dell’orale, come l’uso degli emoticons ed emoji.
Attraverso i canali della scrittura mediata dal computer (chat, social networks, ecc.), si possono acquisire inoltre atti di
parola tipici della conversazione orale e informazioni culturali sulle lingue mezzo di interazione, più difficilmente
reperibili nei consueti materiali didattici e che potranno rivelarsi utili in un contesto di interazione orale in presenza.
Inoltre, anche gli apprendenti più insicuri o più timidi possono prendere la parola, esprimendosi in L1 o in una lingua
di loro preferenza. L’IC interattiva online è particolarmente efficace quando ciascun interlocutore applica una serie di
strategie di semplificazione e facilitazione orientate allo specifico repertorio linguistico dell’interlocutore, che rendono
la propria produzione linguistica più accessibile all’altro. Tale processo, definito da Balboni (2009) “interproduzione”,
in quanto preludio all’ “intercomunicazione” si rivelerà un concetto particolarmente fecondo nella ricerca e nella
pratica dell’IC. Già nelle raccomandazioni presenti nel progetto Galanet, nella sezione “Esprimersi nella propria
lingua in modo adeguato” si invitava i ‘galanauti’ a fare uso di un linguaggio semplice e trasparente nell’interazione
scritta a distanza, evitando al contempo di abbassare la qualità del messaggio o di diminuirne eccessivamente il grado
di spontaneità ed autenticità.
5.4 Progetti, pratiche e contesti d’insegnamento dell’IC
Il portarle Web MIRIADI (Mutualisation et innovation pour un réseau de l’intercompréhension à distance), esito
dell’omonimo progetto europeo coordinato da Sandra Garbarino (2012-2015), ha permesso la continuazione e la
stabilizzazione dei corsi di IC online già promossi dalle piattaforme Galanet (per studenti) e Galapro (per formatori).
L’ampia partnership internazionale del progetto ha creato uno spazio virtuale flessibile su cui si svolgono a tutt’oggi
diverse sessioni di formazione IC per gli studenti di vari ambiti educativi e per gli insegnanti. La piattaforma contiene
numerose risorse educative, inclusa una ricca Base di Attività in Intercomprensione (BAI) che riunisce tutte le attività
di insegnamento e valutazione create negli anni durante i corsi di formazione, i progetti di ricerca e le sperimentazioni
didattiche. Come altri approcci plurali, l’IC può trovare collocazione non solo nell’ambito delle ore di “lingua come
disciplina”, ma anche durante l’insegnamento delle discipline cosiddette ‘non linguistiche’, integrandosi utilmente ad
una metodologia di tipo CLIL/EMILE. Diverse sono infatti le possibili interazioni e zone di sovrapposizione tra IC e
CLIL/EMILE. Entrambe le metodologie promuovono un abbandono del concetto di “interferenza” a favore di quello
di “inferenza”, intesa come la capacità interpretativa dell’apprendente nel mettere a confronto le diverse lingue
implicate e, per converso, del code-switching come strategia di apprendimento.
Capitolo 6. Il translanguaging
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come pratica didattica inclusiva
6.1 Gli studi sul translanguaging: un’introduzione
Negli ultimi anni il concetto di translanguaging si è imposto all’attenzione di sociolinguisti e glottodidatti grazie alla
diffusione di un’ampia letteratura sul tema di matrice prevalentemente anglosassone. Quando si parla di
translanguaging si fa generalmente riferimento a due prospettive di ricerca tra loro interrelate: nella sua accezione
sociolinguistica il concetto si riferisce allo studio delle pratiche discorsive delle comunità bilingui, mentre secondo
una prospettiva educativa fa riferimento ad un approccio didattico in cui gli insegnanti mettono in relazione queste
pratiche con quelle attuate nei contesti dell’educazione formale. Il concetto odierno di translanguaging come pratica
didattica si fonda quindi sulla consapevolezza che le lingue sono tra loro interconnesse e compresenti, tanto nella
mente quanto negli usi dei parlanti bi/plurilingui.
Il termine deriva dalla traduzione dell’espressione gallese trawsieithu, introdotta negli anni Ottanta da Cen Williams
(1994). Nel suo significato originario, il termine si riferiva ad una pratica didattica basata sull’alternanza tra gallese ed
inglese nelle attività scolastiche, ad esempio nel passaggio dalla ricezione alla produzione scritta. In Galles il
translanguaging assume presto legittimità politica ed educativa grazie ad una specifica promozione da parte del
governo che lo diffonde nelle scuole associandolo al concetto di dual literacy, ovvero la capacità di saper parlare,
leggere e scrivere agilmente in entrambe le lingue e di sapersi muovere in modo sicuro e fluido tra queste per scopi
specifici. Fu poi Colin Baker (2001) a tradurre il termine in inglese e a diffonderlo in ambito anglosassone, in cui
molti studiosi di linguistica educativa lo approfondiscono ampliando la proposta di Williams.
Il translanguaging viene infatti definito come “un approccio al bilinguismo che non è centrato sulle lingue, come è
stato spesso il caso, ma sulle pratiche dei bilingui che sono immediatamente osservabili”. Il focus si sposta quindi
dalle lingue tradizionalmente oggetto di apprendimento/insegnamento (named languages), viste come sistemi a sé
stanti delimitati da confini sociali e politici, al soggetto plurilingue che le vive e le pratica quotidianamente.
García espande dunque la nozione educativa originaria del translanguaging includendovi i processi cognitivi e le
pratiche comunicative quotidiane dei bilingui nei diversi contesti sociali, definendolo come “un potente meccanismo
per costruire saperi, includere gli altri e mediare intese tra i gruppi linguistici”. Mossi ad impiegare tutte le risorse
linguistiche a propria disposizione, gli studenti vengono in tal modo messi in condizione di sfruttare appieno tutte le
proprie potenzialità di apprendimento. Inoltre, secondo le autrici, la pratica del translanguaging in classe faciliterebbe
l’adozione di un approccio creativo e critico alla comunicazione, permettendo di comprendere quando, dove, con chi
e, soprattutto, perché alcuni usi linguistici sono accettati in determinate situazioni e non in altre.
6.2 Dal plurilinguismo al translanguaging: una svolta epistemologica?
Il translanguaging può essere considerato affine al concetto europeo di plurilinguismo e, sul fronte educativo, alla
nozione di educazione plurilingue e interculturale. Più recentemente, la nozione di plurilinguismo proposta dal
Consiglio d’Europa è stata criticata ed abbandonata in quanto ritenuta il prodotto di un’economia neoliberista in cui il
plurilinguismo è associato alla competitività sul mercato del lavoro ed esaltato come strumento per ottenere profitto
economico e successo personale. Inoltre, fondandosi sul concetto di named languages, la nozione europea di
plurilinguismo lascerebbe sostanzialmente invariate le gerarchie linguistiche in contesto sociale e socioeducativo,
rivelandosi infine una nozione poco funzionale rispetto ai propri scopi.
Un aspetto di forte contatto tra il translanguaging e l’educazione plurilingue è dato invece, a nostro avviso, dalla
prospettiva soggettiva sulle competenze dell’apprendente plurilingue, corrispondente cioè a quella del parlante stesso
e non da quello dell’istituzione scolastica o della società in cui è inserito, che le vuole separate nell’uso come
nell’insegnamento. Lo stesso concetto di competenza plurilingue e pluriculturale, a partire dalla sua prima
formulazione negli studi preparatori al Quadro Comune in poi, afferma che le lingue non sono giustapposte o sommate
l’una all’altra nella mente dell’apprendente, ma che vanno a costituire un’unica metacompetenza, intesa come la
capacità di usare progressivamente diverse competenze in diverse lingue. Si tratta dunque di una competenza
composita e multifunzionale che il parlante plurilingue può mettere in gioco sia per apprendere (con) le lingue,
trasferendo ad esempio i “saper fare” appresi attraverso altre lingue in quella obiettivo, sia per comunicare in contesto
plurilingue, sfruttando i meccanismi dell’intercomprensione e sollecitando le lingue comuni presenti nei repertori
linguistici degli interlocutori. La soggettività dell’apprendente di lingue, da sempre al centro dell’attenzione di chi si
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occupa di didattica del plurilinguismo, è infatti da tempo oggetto di indagine e punto di riferimento per la didattica
delle lingue. Proponendosi come svolta, il translanguaging mira a scardinare l’“ideologia monoglossica” sottostante a
molte pratiche di insegnamento linguistico, che vedono le lingue come entità isolate. García e Kleyn pongono il
translanguaging in contrapposizione non solo con i modelli più tradizionali di bilinguismo, ma anche con altri concetti
consolidati nell’ambito degli studi sul bi/plurilinguismo, come ad esempio il bilinguismo additivo, l’ipotesi di
interdipendenza linguistica di Cummins, la nozione di code-switching. Tutte queste nozioni condividerebbero infatti
una medesima prospettiva esterna sul bi/plurilinguismo che vede le lingue come sistemi separati ed autonomi, non
corrispondente al punto di vista soggettivo del parlante plurilingue che le percepisce invece come un continuum.
Secondo le autrici, la differenza fondamentale tra code-switching e translanguaging sta nel fatto che il primo si
focalizza essenzialmente sull’alternanza tra le named languages, mentre il secondo fa riferimento agli effettivi usi dei
parlanti plurilingui che attingono dal proprio repertorio adattando di volta in volta i propri usi linguistici alla specifica
situazione. Il concetto di code-switching viene però qui identificato unicamente con la commutazione di codice,
ovvero il passaggio da una lingua all’altra all’interno di un medesimo discorso, non prendendo in esame altri fenomeni
correlati come l’alternanza di codice, ovvero la scelta che il parlante plurilingue opera dell’una o dell’altra lingua a
seconda della situazione o dell’ambito comunicativo in cui si trova. Né si accenna al fenomeno dell’enunciazione
mistilingue o code-mixing, che prevede il passaggio intrafrasale da una lingua all’altra, ampiamente trattato negli studi
sul bi/plurilinguismo e sulla comunicazione plurilingue.
García e Wei (2014) respingono inoltre l’ipotesi della Common Underlinying Proficiency (CUP) di Cummins (1981),
sulla base della considerazione che essa si fonda sulla separatezza tra le lingue implicate (L1, L2, ecc.): il
translanguaging viene contrapposto a tale ipotesi in quanto più idoneo a testimoniare come “le pratiche linguistiche
degli studenti translingui non sono separate in una L1 e una L2, o nella lingua di casa e quella della scuola, ma le
trascende entrambe”. Alcuni studiosi di translanguaging hanno messo in dubbio l’esistenza stessa delle lingue,
concludendo ulteriormente che il multilinguismo individuale o plurilinguismo non esiste. La negazione dell’esistenza
delle lingue (named languages) e il conseguente abbandono di concetti ad essa correlabili (bilinguismo additivo,
plurilinguismo, ipotesi dell’interdipendenza linguistica, linguaggio accademico, code-switching, ecc.) può
rappresentare un ambito di dibattito – seppure controverso – per gli studiosi, ma resta poco operativo sul fronte delle
politiche linguistiche educative e nella formazione degli insegnanti. Concordiamo con la prospettiva di MacSwan
(2017), il quale sostiene che l’uso politico dei nomi delle lingue possa e debba essere distinto dalle idealizzazioni
sociali e strutturali utilizzate negli studi sulla diversità linguistica. Nel suo modello multilingue integrato di
bilinguismo individuale in cui distingue le grammatiche dai repertori linguistici, MacSwan sostiene che i bilingui,
come i monolingui, hanno un unico repertorio linguistico ma non un’unica grammatica mentale unitaria e
indifferenziata. Questa considerazione permetterebbe di riconoscere l’unicità degli usi linguistici dei bi/plurilingui
senza necessariamente negare l’esistenza delle lingue e del multilinguismo individuale.
6.3 Praticare il translanguaging: dalla progettazione didattica alle attività in classe
García, Johnson e Seltzer (2017) sottolineano l’importanza di tre dimensioni utili all’implementazione in aula di una
didattica del translaguanging: 1. la postura dell’insegnante (stance); 2. la progettazione e pianificazione delle attività
didattiche (design); 3. la promozione del cambiamento (shifts).
In merito al primo punto si sottolinea l’importanza per il docente di assumere una “postura filosofica”, a volte
controcorrente rispetto al pensiero comune, che non si accontenti di obiettivi minimi e modalità dispensative in caso di
difficoltà a raggiungere gli standard nazionali ma che, per dirla in una formula, “miri ad amplificare invece che
semplificare”. A seconda dei casi, il docente può assumere due “posture” sostanzialmente differenti: può cioè
‘limitarsi’ ad una postura facilitante (scaffolding stance), fondata cioè sulla convinzione che la presa in carico del
repertorio linguistico dell’apprendente debba fungere da impalcatura temporanea per l’acquisizione della lingua di
scolarizzazione e all’autonomia di apprendimento, oppure può decidere di adottare una postura trasformativa
(transformative stance), capace cioè di implicare a più livelli lingue diverse dalla L1, con l’obiettivo di scardinare le
gerarchie linguistiche consolidate dal potere dello stato politico e, per il suo tramite, dall’istituzione scolastica. A
questo riguardo, García e Wei sottolineano come il translanguaging costituisca una “pedagogia trasformativa capace
di sollecitare le soggettività dei bilingui”, in quanto vengono messe continuamente in gioco le loro lingue e le loro
identità.
Acquisita una certa consapevolezza riguardo la necessità di coinvolgere l’intero repertorio linguistico degli
apprendenti nella prassi didattica e adottata una postura adeguata (stance), l’insegnante potrà quindi progettare
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percorsi didattici e pianificare attività (design), promuovendo nell’istituzione scolastica dei cambiamenti (shifts), che
sono tanto ideologici quanto operativi.
Ai fini del design, il modello definito da Ofelia García e dal gruppo di ricerca del Cuny-Nysieb propone una procedura
didattica articolata in due componenti principali, ovvero il Translanguaging Unit Design, che consiste in una serie di
elementi preliminari utili alla successiva pianificazione dettagliata delle attività ovvero il Translanguaging
Instructional Design Cycle. In modo più specifico, il Translanguaging Unit Design si compone di:
- una sezione con alcune domande stimolo (essential questions), collegate alle tematiche e agli scopi del percorso
didattico da attuare;
- una sezione con gli obiettivi e le competenze definiti dall’amministrazione a livello statale e federale (content
standards);
- una sezione con gli obiettivi disciplinari e linguistici (content and language objectives), dove questi ultimi
riguardano abilità e conoscenze linguistiche generali e specifiche al contenuto disciplinare oggetto di studio;
- una sezione con gli obiettivi specifici al translanguaging (translanguaging objectives);
- una sezione relativa alle forme di valutazione (assessments), con riferimento alla valutazione da parte del docente,
degli alunni e delle loro famiglie;
- una sezione con indicazione dei testi e dei materiali audiovisivi che verranno usati durante le attività in classe (texts),
sia nella lingua di scolarizzazione che nelle altre lingue coinvolte.
L’implementazione di una didattica del translanguaging si fonda su tre elementi o azioni fondamentali: a) favorire una
gestione collaborativa/cooperativa della classe; b) utilizzare una varietà di risorse educative plurilingui e multimodali;
c) introdurre strategie didattiche di translanguaging.
a) Favorire una gestione collaborativa/cooperativa della classe: una didattica del translanguaging prevede
necessariamente una diversa organizzazione della classe rispetto a quella tradizionale, come per esempio la creazione
di gruppi strategici con apprendenti che possiedono diversi livelli di competenza nella lingua di scolarizzazione (L1),
ma condividono una medesima lingua di origine (LO). In caso di singoli studenti che abbiano una LO diversa da tutti
gli altri, si suggerisce di fare ricorso a dizionari bilingui e traduttori online.
b) Utilizzare una varietà di risorse educative plurilingui e multimodali: La compresenza di una pluralità di codici,
verbali e non, non solo facilita l’accesso ai contenuti della lezione agli studenti plurilingui, ma dà a tutta la classe la
possibilità di avere una prospettiva ampia e critica sull’argomento affrontato. Lo spazio linguistico della classe può
essere inoltre organizzato secondo quella che García et al. (2017) definiscono “ecologia plurilingue”, facendo cioè in
modo che le diverse pratiche plurilingui degli alunni siano sempre compresenti e visibili. Tra le strategie suggerite a
questo scopo si cita ad esempio:
- l’impiego di poster e cartelli in più lingue, che riportino ad esempio il lessico o le espressioni utili alla
comunicazione in classe;
- la realizzazione di tabelloni con parole chiave o mappe concettuali plurilingui, relative a specifici argomenti trattati;
- la creazione di schemi che mettano a confronto le eventuali affinità linguistiche tra le lingue presenti in aula;
- il ricorso a video con sottotitoli nella lingua di scolarizzazione o nelle LO degli alunni, ecc.
L’intera istituzione scolastica può diventare un ambiente “ecologico”, dotando i vari locali con scritte e cartelloni
plurilingui, ma soprattutto garantendo la possibilità di accedere ad una biblioteca attrezzata con libri, riviste e giornali
nelle principali lingue presenti a scuola o ad un laboratorio informatico con risorse multimediali bi/plurilingui. Questa
ecologia plurilingue permetterà non solo di valorizzare a tutto tondo le lingue presenti nei repertori linguistici degli
alunni, ma consentirà il mantenimento e l’ampliamento della competenza nella LO, grazie all’esposizione a varietà
diverse da quella parlata in casa.
Realizzare una didattica del translanguaging vuol dire infine mettere in gioco un’altra preziosissima ‘risorsa’, aprendo
il contesto scolastico alla collaborazione delle famiglie e delle comunità di riferimento degli alunni.
c) Introdurre strategie didattiche di translanguaging: Anche nel caso dei programmi bilingui si raccomanda di creare
occasioni di translanguaging, utili a non compartimentalizzare gli apprendimenti nelle due lingue obiettivo e
all’esercizio di quel bilinguismo dinamico tipico degli apprendenti bi/plurilingui. In questo tipo di contesti si
suggerisce, quando possibile, di utilizzare testi tradotti o con traduzione a fronte in modo da garantire la comprensione
di parole, frasi e concetti complessi anche ai bilingui emergenti. Questo tipo di strategia non solo permette l’accesso al
senso, ma dà agli studenti la possibilità di prendere visione contemporaneamente delle due lingue oggetto e/o veicolo
di studio, stimolandoli a notarne similarità e differenze.
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- scaffolding plurilingue: fornire una traduzione degli obiettivi della lezione, delle parole chiave, delle consegne e dei
concetti principali della lezione, in modo da dare a tutti gli studenti un’idea generale dei temi che verranno trattati;
- presentazioni e letture plurilingui: permettere agli studenti di fare delle presentazioni o di leggere all’intera classe
brevi testi o indicazioni nella propria lingua o in modalità bilingue, anche quando la comprensione da parte dei
compagni non è garantita. In tal caso l’obiettivo è soprattutto di tipo educativo, poiché questa pratica – come nel caso
dell’EAL −dà legittimità a tutte le lingue presenti in classe, mettendo in evidenza la loro funzione di risorse di
apprendimento;
- scrittura creativa: realizzare dei lavori di scrittura creativa basati sul translanguaging, come per esempio poesie o
altri testi, eventualmente a partire dall’analisi di testi letterari plurilingui con fenomeni di code-switching e codemixing;
- revisione di traduzioni: dare la possibilità di mettere in discussione e correggere dei testi tradotti attraverso i
traduttori online che, come noto, possono dare esiti piuttosto imprecisi. Gli studenti, cui è affidato il compito di
correggere la traduzione nella loro LO, ad esempio proiettandola sulla LIM, assumono così il ruolo di esperti
linguistici, con il risvolto positivo che l’intera classe viene esposta a diverse lingue e sistemi di scrittura;
- coinvolgimento delle famiglie: prevedere attività che mettano in relazione le pratiche scolastiche con quelle
domestiche, in modo che la famiglia diventi risorsa linguistica e di conoscenza per gli alunni bi/plurilingui. Questa
pratica intende valorizzare le appartenenze linguistico-culturali di tutti gli alunni rafforzando al contempo le relazioni
scuola-famiglia.
In riferimento allo studio delle discipline del curricolo scolastico, Kleyn (2016) cita inoltre alcune strategie didattiche
diffuse, cui si aggiunge spesso una curvatura plurilingue:
- la selezione di testi in più lingue che riflettano l’esperienza degli alunni e/o il loro background culturale;
- l’impiego di strategie di comparazione interculturale sui temi oggetti di studio, soprattutto in presenza di alunni che
sono stati scolarizzati in sistemi culturali differenti;
- l’impiego di strategie di comparazione interlinguistica, in particolare in riferimento a parole chiave e termini
specialistici affini nelle lingue presenti in classe (nel caso specifico spagnolo e inglese);
- la promozione dell’apprendimento esperienziale attraverso attività di tipo pratico o laboratoriale, soprattutto per
discipline con parti applicative come le scienze;
- il ricorso a fonti primarie e testi autentici in cui le strategie di translanguaging sopra descritte per la L2 possano
fungere da utile supporto per l’accesso al senso.
Un’ultima importante attenzione va riservata alla fase della valutazione: soprattutto quando l’obiettivo è quello di
valutare l’apprendimento del contenuto, si suggerisce di accettare risposte anche in altre lingue comprensibili al
docente. In tal modo si assicura allo studente la possibilità di essere valutato a partire dal suo repertorio linguistico
effettivo e al docente di rendersi conto che gli obiettivi disciplinari siano stati raggiunti, al di là di eventuali difficoltà
linguistiche nella lingua di scolarizzazione. In ogni caso, nel translanguaging la valutazione è un processo plurale e
partecipato (assessments) che, oltre alla prospettiva del docente, include quella degli alunni attraverso
l’autovalutazione e la valutazione tra pari; quella delle loro famiglie (connexión), che valutano quanto appreso dai
propri figli a scuola, quanto essi stessi hanno appreso tramite loro o quanto del proprio sapere potrebbero ancora
condividere con la classe.
6.4 Diffusione e contesti di applicazione del translanguaging: l’apporto italiano
Nel nostro Paese il translanguaging è ancora poco diffuso e conosciuto, sebbene inizi a trovare applicazione in diverse
realtà scolastiche nell’ambito di progetti sperimentali. Questo, probabilmente, in dipendenza anche di alcune criticità
legate all’applicabilità stessa del translanguaging, che hanno portato ad una parziale rimodulazione del modello di
matrice statunitense. Una prima possibile criticità riguarda, a nostro parere, il diverso background migratorio di
riferimento e, con esso, le lingue di origine degli alunni plurilingui. In gran parte delle sperimentazioni condotte in
contesto nord-americano i repertori linguistici degli alunni comprendono in prevalenza lo spagnolo, configurando
spesso un contesto di tipo bilingue o, comunque, con un numero limitato di altre LO. Come noto, nel nostro Paese le
provenienze migratorie sono invece molteplici e spesso distribuite in modo disomogeneo lungo la penisola.
Negli esempi di translanguaging presenti in letteratura, inoltre, viene spesso data per implicita la capacità di bambini
e ragazzi bilingui di saper leggere e scrivere nella LO, competenza tutt’altro che scontata negli alunni di origine
straniera nelle classi italiane, soprattutto per quelli di seconda generazione, la cui LO è spesso oggetto di erosione
linguistica, quando questa non viene del tutto abbandonata. Più frequentemente la loro competenza in LO è di tipo
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orale, non è cioè sempre supportata dalla presenza di un’adeguata abilità di letto-scrittura e, tanto meno, utile allo
studio delle discipline scolastiche. Anche in presenza di un’effettiva alfabetizzazione bilingue (biliteracy), tale
competenza resta pur sempre limitata a specifici domini, come ad esempio quello personale o familiare. Uno dei primi
progetti italiani a sperimentare il translanguaging nel nostro Paese, è il progetto LI.LO (Lingua Italiana. Lingua
d’Origine) a cura di Firpo e Sanfelici (2016) dell’Università di Genova. Basandosi sul modello statunitense del CunyNysieb, a partire dall’a.a. 2013/2014 le studiose hanno condotto un progetto di ricerca-azione in una scuola secondaria
di I grado di Genova, il quale è stato poi esteso anche alla città di Milano. Data l’ampia presenza di alunni di origine
ispanofona nell’area genovese, il progetto si prefigge di mettere a frutto la loro conoscenza dello spagnolo per
migliorare la propria performance scolastica in italiano e, parallelamente, di fare in modo che l’intera classe possa
affinare le competenze in lingua spagnola. Il progetto dedica particolare attenzione al mantenimento dello spagnolo
come LO, ma anche allo sviluppo dei linguaggi accademici, delle competenze metalinguistiche e di quelle
interculturali. Nonostante gli alunni ispanofoni fossero nati e scolarizzati in Italia, gli esiti dei test iniziali in lingua
italiana erano infatti inferiori a quelli dei compagni italofoni. Sono stati quindi avviati dei laboratori extra-curricolari
in cui gli alunni di origine ispanofona potessero ripercorrere ed approfondire i contenuti disciplinari di geografia e
storia utilizzando sia l’italiano sia lo spagnolo, con il sostegno delle nuove tecnologie.
Tra altre proposte didattiche, il progetto si caratterizza per la realizzazione di:
- attività volte alla valorizzazione dei repertori linguistici sul piano visivo (es. ritratti di lingue), la creazione di
bacheche, cartelloni e dizionari plurilingui, anche in relazione ai contenuti disciplinari;
- attività di storytelling bilingue o nelle diverse LO presenti in classe, con il coinvolgimento di genitori e con il
supporto di mediatori;
- attività cooperative, in piccoli gruppi linguisticamente omogenei o eterogenei, mirate alla gestione, sia in fase
ricettiva sia in fase produttiva, di testi plurilingui contenenti elementi linguistici nelle lingue e dialetti presenti in
classe.
Proponendosi in continuità con gli orientamenti europei e nazionali sull’educazione plurilingue, il progetto ha adattato
la proposta metodologica nord-americana ricorrendo all’Unità di Lavoro/Apprendimento (UdLA) come procedura
didattica per portare in classe il translanguaging. Essa si concretizza in una struttura di pianificazione a due elementi,
denominata Quadro generale dell’Unità e Fasi di Sviluppo, dove il Quadro generale dell’Unità si rifà prevalentemente
agli orientamenti europei e nazionali (Nuove Competenze Chiave Europee, obiettivi di apprendimento delle
Indicazioni Nazionali, competenze e risorse del FREPA/CARAP) e le Fasi di Sviluppo sono in continuità con il
Translanguaging Instructional Design Cycle. Un altro progetto italiano ispirato alla didattica del translanguaging è lo
studio di caso condotto da Coppola e Moretti (2018) che, a partire dall’a.s. 2015/16, hanno svolto una sperimentazione
nella scuola del I ciclo con lo scopo di verificare le potenzialità di alcune tecniche dialogiche e supporti tecnologici
nelle classi ad abilità differenziate. Obiettivo principale dello studio è “verificare se e in quale misura l’uso
contemporaneo dell’intero repertorio linguistico della classe (L1, L2, LS) in attività cooperative, svolte spesso con
l’ausilio di supporti tecnologici, potesse incidere positivamente sull’apprendimento linguistico, assecondando i
confronti interlinguistici e la riflessione sulle L1 e L2, e, nel contempo, potesse anche favorire atteggiamenti positivi
nei confronti delle differenti lingue e culture”.
A tale scopo la sperimentazione ha previsto l’elaborazione di un modulo plurilingue dal titolo “In quante lingue
mangi?”, composto da due Unità di lavoro (UdL) di 32 ore ciascuna, in cui la prima si focalizza sullo sviluppo della
competenza lessicale e di quella metalinguistica, mentre la seconda mira allo sviluppo delle abilità di comunicazione e
testuale. Il tema del cibo è stato sviluppato tenendo conto di strategie e tecniche tipiche degli approcci plurali e del
translanguaging come ad esempio:
- lo svolgimento di task che prevedono l’uso contemporaneo delle 4 lingue insegnate in classe e frequenti ricorsi anche
alle L1 degli alunni;
- l’adozione della comparazione intra- ed interlinguistica e della riflessione metalinguistica come strategie ricorrenti
(ad es. l’osser-vazione di fenomeni linguistici e la formulazione di ipotesi sul loro funzionamento, la riflessione sulla
variabilità linguistica in relazione all’uso ecc.), a partire dal translanguaging spontaneo degli alunni;
- l’uso della tecnologia come supporto al docente e al singolo alunno (es. tramite l’impiego di interfacce web e
dizionari elettronici) e, in funzione cooperativa, nei gruppi di lavoro attraverso la metodologia di matrice dialogica
nota come Cooperative BYOD147;
- l’impiego di attività a carattere interculturale come interviste, narrazioni, testimonianze, ecc. che prevedano il
coinvolgimento dei familiari degli alunni e delle comunità linguistiche del territorio.
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Oltre alla dimensione cooperativa e tecnologica, il progetto si caratterizza per un’attenzione particolare alla
dimensione della valutazione della competenza plurilingue, elaborando proposte di testing plurilingue: i test realizzati,
composti da un numero variabile di prove, sono stati somministrati online agli alunni nelle 4 lingue curricolari del
progetto attraverso l’uso di un’interfaccia dedicata (Coppola e Moretti, 2018). Come si evince dagli 800 testi raccolti
nei due anni di sperimentazione, la metodologia utilizzata si è rivelata efficace nel favorire l’uso attivo di tutte le
lingue presenti in aula e la riflessione metalinguistica, nel migliorare la capacità degli alunni di gestire il proprio
repertorio linguistico in modo funzionale ai diversi contesti d’uso, nel facilitare inoltre lo scambio interculturale in
classe.
Conclusioni: premesse per una “via italiana” alla didattica plurilingue
I progetti e le esperienze esaminati in questo lavoro testimoniano che una didattica plurilingue è, non solo possibile,
ma anche auspicabile nell’odierna scuola multiculturale, dati i suoi numerosi vantaggi e le dinamiche positive che
ingenera nella classe plurilingue.
Una didattica plurilingue costituisce purtuttavia un’opportunità perseguibile solo a partire da una prospettiva bottomup, contestualizzata, che tenga in considerazione le specifiche caratteristiche sociolinguistiche e socioculturali del
contesto di apprendimento e della sensibilità e disponibilità dei suoi attori e co-attori (docenti, alunni, famiglie,
comunità locale) a mettersi in gioco. La contestualizzazione, essendo un processo, procede però per gradi o passi
successivi. Sulla base delle esperienze prese in esame, è possibile individuare una progressione d’insieme negli
approcci qui descritti e ai fini dell’implementazione di un curricolo plurilingue verticale che sia fondato sulla
centralità dell’alunno, delle sue capacità e dei suoi bisogni. Alle funzioni fortemente educative dell’EAL, che come
visto risulta un approccio particolarmente adatto agli apprendenti più giovani a partire dalla scuola dell’infanzia in poi,
nei livelli scolastici successivi seguiranno approcci in cui assumono maggiore rilevanza come risorse di
apprendimento la riflessione metalinguistica e il transfer intra-/interlinguistico: elementi, questi, presenti in diversa
misura nell’intercomprensione tra lingue affini e nella didattica integrata delle lingue a seconda delle abilità cognitive
degli apprendenti. Il translanguaging, in quanto approccio plurilingue flessibile a dimensione variabile, può essere
impiegato già a partire dalla scuola dell’infanzia al pari dell’EAL, per poi modellarsi sugli specifici obiettivi educativi
e disciplinari di ciascun ordine e grado scolastico.
Contesti educativi di applicazione degli approcci plurilingui:
Le attività e i progetti didattici qui descritti lasciano intravvedere linee di intervento praticabili e risvolti educativi
promettenti, sebbene l’implementazione di un’effettiva educazione plurilingue e interculturale nel contesto scolastico
italiano sia ancora un processo in divenire non privo di criticità. Una delle principali risiede nella difficoltà di
oltrepassare una diffusa “logica del progetto”, per cui molte esperienze positive rimangono spesso confinate
nell’ambito di uno specifico progetto scolastico o di una singola sperimentazione di ricerca – che spesso coincidono −
con la profusione di molte energie da parte di tutti gli attori coinvolti (docenti, alunni, famiglie, ricercatori…), senza
che queste riescano a trovare una loro legittimità o continuità nella programmazione scolastica quotidiana. Inoltre,
l’ampia diversità linguistica presente nelle classi plurilingui italiane e il disequilibrio di abilità e competenze nelle LO
degli alunni, tipica di molti bilingui emergenti, costituisce spesso una notevole sfida per i docenti della scuola italiana;
sia in via generale, sia anche perché non sempre possono contare su una conoscenza delle LS e/o delle LO dei loro
apprendenti, né tanto meno dei suoi linguaggi accademici, utili ad adottare una reale postura trasformativa
(transformative stance). Privilegiare modalità compensative è, dunque, condizione necessaria ma non sufficiente
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affinché l’ampia diversità linguistica e culturale presente nelle odierne classi plurilingui possa essere ‘valorizzata’
oltre che ‘inclusa’, rendendola parte attiva dei processi cognitivi e relazionali che l’insegnante è chiamato a
sollecitare: “la domanda chiave è dunque se sia possibile passare dall’uso di pratiche inclusive occasionali ad un
quadro più strutturato e ordinario della didattica basata sul translanguaging nel contesto scolastico italiano”.
Per implementare una didattica plurilingue efficace e superare tale occasionalità, ci sembra fondamentale che i docenti
possano adottare una “lente plurilingue” (Cummins, 2017b) attraverso cui rileggere ed amplificare il proprio operato
quotidiano. Questa rilettura in prospettiva plurilingue dovrebbe poter coinvolgere il più ampio numero di discipline in
modo da creare degli “spazi translinguistici” complementari agli obiettivi ed alle competenze da perseguire (cfr.
Carbonara e Martini, 2019), e, con essa, il più ampio numero di docenti che collaborano all’educazione dei medesimi
studenti.
Come dimostra la gran parte dei progetti italiani qui esaminati, una “via italiana” alla didattica plurilingue dovrebbe
inoltre tenere in considerazione le specificità sociolinguistiche del nostro Paese per poter valorizzare tanto gli idiomi
stranieri quanto quelli locali, dando pari dignità a ciascuno di essi indipendentemente dal loro status sociale e politico.
Essa dovrebbe fondarsi cioè su una ‘visione plurale del plurilinguismo’, ovvero dei plurilinguismi (Moore, 2006),
capace di prendere in carico sia il plurilinguismo endogeno della penisola italiana sia del plurilinguismo esogeno o
“neoplurilinguismo”, che vede oggi la presenza di una moltitudine di nuove lingue dovuta alle immigrazioni verso il
nostro Paese. Ne consegue l’opportunità di implementare una didattica riflessiva, basata sul confronto intralinguistico
oltre che su quello interlinguistico, in primis nella e attraverso la lingua di scolarizzazione, con l’obiettivo di
sviluppare negli apprendenti una graduale consapevolezza della variazione sociolinguistica che caratterizza l’italiano
(differenza tra italiano standard e dialetti, tra varietà standard e substandard, ecc.). In questa prospettiva, i concetti di
“spazio linguistico italiano” (De Mauro, 1980) e di “educazione linguistica democratica” (GISCEL, 1975) continuano
certamente a costituire uno strumento interpretativo di grande attualità, utile a prendere in carico l’ampia diversità dei
profili degli allievi italiani e di origine straniera, ed a superare rigide categorie binarie come L1 o L2 ormai poco
adeguate a descrivere la complessa realtà dei profili linguistici della classe plurilingue. Per beneficiare di questo ricco
patrimonio, tuttavia, è necessario che la formazione iniziale ed in itinere degli insegnanti possa farsi veicolo e
propulsore del cambiamento. Una possibile via sarebbe quella di includere moduli formativi sull’educazione
plurilingue e interculturale nei curricula accademici per la formazione dei futuri insegnanti, a partire da chi opererà
nella scuola dell’infanzia e del I ciclo, come pure dei futuri docenti di area linguistica nei diversi ordini e gradi
scolastici.
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